30 aprile 1945 - 30 aprile
2006, sessantauno anni dopo...
Angelo Faccia (G.N.R. - Divisione Etna)
Bertinotti, Berlusconi, Fini, Casini, Buttiglione... ma chi sono? Possono avere
il potere, una vita agiata, divertirsi a prendere per i fondelli il popolo,
insomma essere i potenti del momento ma non potranno mai dire: io c’ero...
Un’epoca come quella da me vissuta insieme ad altri camerati si presenta e si
vive a secoli alterni... Grazie mio Dio di avermi concesso la buona sorte di
essere nato in un periodo cosi unico, straordinario, irreperibile nei secoli
avvenire...
Forse, chissà, se la teoria sui corsi e ricorsi storici sia esatta, allora
potrebbe...
E lasciatemelo dire, dal momento che ebbi l’occasione, molti anni fa, di parlare
seppur brevemente con Fini: bene ha fatto ad abiurare, a condannare il nostro
passato perchè proprio non lo vedrei in mezzo a questi giovani del mio racconto,
no... Nessuno di loro, per la verità... Un Gasparri, un Alemanno e compagnia
cantando... Inimmaginabile!
Sessantuno anni dopo...
A proposito, umana e pietosa considerazione per i soldati caduti a Nassiriya che
andarono in Irak come occupanti-mercenari…
Però le lacrime che oggi versano gli uomini del potere sono false, menzognere e
interessate e non si possono paragonare minimamente con quelle di questi ragazzi
che dopo 61 anni... piangono ancora..
Angelo Faccia (G.N.R. - Divisione Etna)
… da "Lettera postuma a un combattente della classe 1930: Nino Capotondi"
(...)
È l'alba del 30 aprile 1945, una data
indimenticabile sotto tanti aspetti.
Siamo arrivati a Magenta, alle porte di Milano.
L'Italia è quasi tutta in mani Alleate e partigiane. Sono giorni che ci nutriamo
di sole gallette ammuffite. L'odio della popolazione lo “sentiamo” in tutta la
sua crudeltà, ma non ci preoccupa più di tanto. È nella storia dell'umanità che
i vinti... I partigiani della prima ed ultima ora, ma più dell'ultima, ci
guardano stupiti senza rivolgerci una parola, domandandosi probabilmente chi
fossimo per andare in giro così armati.
Finalmente arriva una jeep con a bordo tre ufficiali alleati: scendono e si
dirigono verso il Major Sperling e il ten. Delfino: parlano della resa.
In quel momento arriva una vecchia traballante Fiat 1100 e ne scende un vecchio
colonnello, zoppo, con l'uniforme dell'esercito italiano della prima guerra
mondiale, e si presenta: è il comandante della Brigata partigiana “Mattei”.
S'inserisce nella trattativa di resa e vuole che noi italiani ci arrendiamo alla
sua brigata. Secco "no" del ten. Delfino: «siamo soldati regolari e ci
arrendiamo solamente ad altri soldati». Il Colonnello partigiano si offende:
«sono anch'io un soldato», mostrando i suoi nastrini della guerra '15/18.
Sembrava in buona fede. Che fare? Capivamo l'angoscia del ten. Delfino che ci
guardava uno a uno come cercare una risposta nei nostri sguardi, finché si fa
avanti il più anziano di noi, un diciottenne di Carpi -Cristo!, sarà poi
fucilato nel campo sportivo del suo paese!- che rassicurò il ten. Delfino
dicendogli che il gruppo lo avrebbe seguito qualunque fosse stata la sua
decisione.
Il ten. Delfino chiede consiglio al Major Sperling il quale, non fidandosi, era
contrario alla nostra resa ai partigiani.
Il Comandante la Brigata “Mattei” insiste anche con argomenti convincenti: siamo
tra italiani e ci capiremo subito, impegna la sua parola d'onore che non ci
verrà torto un capello e che al ten. Delfino, in rappresentanza di tutto il
reparto italiano, gli concede l'Onore delle armi e pertanto potrà mantenere la
sua pistola d'ordinanza fino a quando le autorità alleate, d'accordo con quelle
italiane del CVL, decideranno il nostro destino finale di prigionieri di guerra.
Si decide così di arrenderci alla Brigata partigiana “Mattei”.
È fatta, adesso è il momento di congedarci dai nostri camerati tedeschi. Tutte
le armi, leggere e pesanti, sarebbero state prese in consegna dai tedeschi che a
loro volta le avrebbero consegnate agli alleati. Mi stacco con tristezza dalla
mia “machine-pistolen”. Stavamo ultimando di caricare le armi sui camion quando
udimmo un urlo: «la bandiera»! È il ten. Delfino che, ricordandosi della nostra
bandiera di combattimento, con un salto felino è sul camion-comando e porta via
la custodia con dentro la nostra bandiera. “Captiamo” al volo il significato
dell'urlo del ten. Delfino e in pochi secondi -nell'esercito tedesco tutto ruota
intorno ai “secondi”, i minuti non esistono- ci riprendiamo le nostre armi
individuali aggiungendo, infilate nelle cinture dei pantaloni per apparire
ancora più determinati, un paio di bombe a mano tedesche.
Il nostro vessillo... Ci fu donato dalla mamma di una medaglia d'oro al valor
militare, alla memoria, il giorno del nostro giuramento alla RSI. La ricordo
esile, vestita di nero, con la velina nera calata sul viso e col cerchietto
d'oro appuntato sul petto. Fiera e solenne nel suo portamento, ognuno di noi
giovanissimi soldati l'abbracciò dopo aver baciata la bandiera e ad ognuno di
noi disse, con un filo di voce che sembrava venire dall'aldilà: «Dio ti
benedica, figlio mio». Mai abbraccio fu più commovente, più trascendentale.
Non potevamo lasciare la nostra bandiera nelle mani del nemico, perché questa fu
la richiesta del Comandante la Brigata Partigiana “Mattei”.
«Mai!» fu la risposta secca del ten. Delfino a questa orrenda bestemmia del
Colonnello partigiano; un «mai» feroce, duro, deciso che non ammetteva repliche.
E tutti noi stavamo intorno al ten. Delfino, proiettile in canna, che stringeva
forte tra le sue mani la nostra bandiera.
I partigiani cominciano ad indietreggiare, vista la nostra fermissima decisione
di difendere quello “straccio” fino alle estreme conseguenze. «Più indietro!»,
ordina il ten. Delfino, «anche voi colonnello, questa è una cerimonia funebre
privata!».
Nino caro, tu ben sai come me che la guerra rende gli uomini duri, ci si abitua
a tutto, ai pidocchi, alle fatiche, a non dormire, a non mangiare, la stanchezza
ti fa fare brutti pensieri, fino a desiderare che il ten. Delfino, se ancora lui
in vita, ti vuoti le tasche e poi la fossa, ma dinnanzi a quella bandiera che
bruciava... quante lacrime! Si confondevano con quella pioggerella primaverile
che cadeva sul nord Italia la mattina del 30 aprile 1945, ed erano lacrime
profonde, dolorose, laceranti! Eravamo sul "presentat'arm" ma le mani ci
tremavano, le gambe non ci reggevano, ci sentivamo mancare dal dolore, un dolore
immenso... I camerati tedeschi, anch'essi commossi, da rispettosa distanza,
salutavano militarmente.
Il nostro tricolore con l'Aquila Repubblicana e la striscia anche tricolore con
la scritta “Per l'Onore d'Italia” bruciava lentamente e, con essa, le nostre
anime di giovanissimi soldati.
Prima che la bandiera fosse tutta cenere, uno di noi ne prese un piccolissimo
lembo e lo ripose nel taschino della camicia: dove sei? Sono anni che ti cerco,
legionario della 26ª! Prima di raggiungere Nino, lasciami baciare ancora una
volta quel che rimase della nostra bandiera, il simbolo della nostra sacrosanta
ribellione! Eravamo distrutti ma anche fieri di essere stati i protagonisti di
un pezzo di storia contemporanea italiana, il più disperato, il più nobile, il
più esaltante, irripetibile per molti secoli avvenire.
E poi il congedo dai camerati tedeschi. Il Major Sperling ci passò in rivista
per l'ultima volta. Fermandosi davanti ad ognuno di noi, ci stendeva la mano e
noi, sull'attenti, pronunciavamo il nostro nome e cognome: «Danke soldaten,
Auf-Wiedersen», e noi: «Herr Major, Auf-Wiedersen».
«Soldati italiani, siate sempre fieri e orgogliosi di aver combattuto per una
nuova Europa». Un corale «Heil Europen» e la nostra unità da combattimento non
esisteva più!
Maledetto giorno il 30 aprile 1945 perché segnò la fine di un sogno di riscatto
ma anche benedetto perché ci diede la misura umana di come può sussistere una
vera amicizia tra italiani e tedeschi, a dispetto di chi vuole “incompatibile”
questa amicizia.
Ci separammo con vero rimpianto dai camerati germanici, compagni d'armi e di
tante battaglie, leali e cavallereschi come pochi altri soldati al mondo.
(...)
Angelo Faccia (G.N.R. - Divisione Etna)
Classe 1929 |