Intervista condotta da Giorgio Vitali,
giornalista, storico, all'autore di "Alpini del Don", Gian Paolo Pucciarelli,
giornalista, scrittore, documentarista
Alpini del Don
Febbraio 2009
Agli Alpini della tragica
anabasi di Russia e a tutti i Soldati dell'ARMIR, il cui alto
sacrificio, degno del rispetto delle stesse forze nemiche, divenne
meschino pretesto per alcuni "italiani" di avviare, complice la
superficialità della storiografia di allora, quella vergognosa
attività di propaganda che non esitò a trasformare in atto sacrilego
l'impresa dei Nostri Soldati, rei di aver minato gli altari del
Signore dei Gulag, dell'Invasore per antonomasia, dell'Artefice dei
più efferati crimini contro l'umanità;
ai Soldati dell'ARMIR caduti nelle aride e gelate steppe russe, in
onore dei quali il Tempo, testimone e giudice, ha voluto innalzare
un alto monumento alla Memoria, ai cui piedi si osservano le rovine
dei più tirannici regimi, contro i quali Essi combatterono…
… queste pagine sono umilmente dedicate |
Vitali: Com'è nata l'idea di realizzare "Alpini del Don"?
Pucciarelli: "Alpini del Don" vuole ricordare i tanti Soldati dell'ARMIR
caduti sul Fronte Russo, ma è anche un omaggio alla memoria di una persona
semplice e straordinaria, la Madre di un Alpino della Cuneense che dalla Russia
non fece ritorno.
Ragioni, per altro non secondarie, mi hanno dato l'idea di "comporre" questo
lavoro e sono evidenti nelle discrete dosi di sensibilità che ho cercato di
aggiungere alla nuda cronaca dei rari filmati originali della tragica disfatta.
Ho tentato di mettere in luce attraverso l'autenticità del dramma dei vinti
qualcosa di altrettanto vero e autentico: le capacità non comuni del
Nostro Soldato in Russia.
La vasta memorialistica sulla Campagna di Russia e le testimonianze dirette,
anche di parte russa, che ho avuto modo di raccogliere, permettono di
configurare le dimensioni di un sacrificio, ma offrono elementi più che
sufficienti a determinare la convinzione, credo condivisa da chiunque abbia
potuto documentarsi sull'argomento, che al Nostro Soldato, in particolare
all'Alpino, Combattente in Russia dovrà sempre essere riconosciuto,
nell'inesausta volontà di lotta, tenace e sovrumana, contro soverchianti forze
nemiche e le implacabili avversità della natura, il merito di aver superato se
stesso in quel teatro di guerra, dimostrando, per quanto sconfitto nel confronto
con l'impossibile, per quanto annientate ne fossero state le capacità di
resistenza fisiche e morali, di aver affrontato e infine vinto quella
battaglia che l'Uomo è chiamato a combattere affinché lo Spirito prevalga sulla
materia.
Ricordo una bellissima pagina del libro di Don Carlo Gnocchi, "Cristo con gli
Alpini", in cui il Cappellano della Tridentina descrive questa vittoria come un
traguardo comunque raggiunto da molti dei Nostri Combattenti in Russia.
Da qui è nata l'idea di scrivere il testo di Alpini del Don in chiave narrativa
sulla vicenda dell'ARMIR, mettendo in luce, grazie ai filmati dell'epoca, i
numerosi episodi del ripiegamento che videro gli Alpini protagonisti di questa
impresa titanica.
Vitali: Come possiamo commentare l'espressione, peraltro molto
suggestiva, di Don Gnocchi, pensando per esempio all'Alpino che affronta col
solo moschetto, e spesso con le nude mani, il carro armato nemico? Il confronto
tra uomo e carro era assolutamente… materiale, avveniva nella realtà. Credi che
il soldato, lanciandosi contro il T34 per essere quasi sicuramente fatto a
pezzi, fosse convinto di far con questo trionfare lo Spirito sulla materia?
Intendo dire che la missione sacerdotale del Cappellano Militare, condotta e
sofferta nelle steppe russe, è pur sempre quella di un religioso. Figura
peraltro rintracciabile nella tradizione europea, in cui si evidenzia attraverso
la rappresentazione poetica del mito del Graal, una via eroica alla
spiritualità, nell'accostamento simbolico delle figure del Monaco e del
Guerriero, che diventa motivo ispiratore delle sculture presenti all'interno di
alcune Cattedrali e ne definisce lo stile architettonico attraverso le linee e
l'ornato. Una via alla spiritualità che trova un suo modello speculare in quella
percorsa dai Samurai giapponesi della tradizione orientale. Ma, a parte queste
considerazioni, il sacrificio in sé è già una vittoria, se lo intendiamo in
senso cristiano. Immaginare una vittoria nella… sconfitta, è possibile solo sul
piano metafisico, non certo nella realtà. Parlare di Vittoria dello Spirito,
malgrado la sconfitta sul campo di battaglia, può offrire conforto cristiano a
chi lo sa accettare e nulla più.
Pucciarelli: Ovviamente. Credo comunque che Don Gnocchi, nell'esprimere
quel pensiero, abbia voluto aggiungere qualcosa che va oltre la propria missione
sacerdotale, oltrepassa l'aspetto religioso del sacrificio, inteso
cristianamente. Don Gnocchi era Ufficiale Alpino, Cappellano Militare. In questa
splendida persona coesistevano l'Uomo, il Sacerdote, il Soldato. Suo compito era
assistere spiritualmente i feriti, confortare i moribondi, benedire i Caduti,
celebrare la Messa al campo, confessare; doveri compiuti in situazioni di grande
pericolo e correndo forse maggiori rischi degli altri soldati. La durissima
esperienza russa che ha brutalmente pervaso l'animo di questo Grande Uomo ha
fatto prevalere senza dubbio il suo grande senso di carità cristiana, non
disgiunta però, nello stretto contatto con il dolore e la morte, dal sentimento
di cameratismo del soldato che ama, difende e comprende i propri commilitoni e
non li vede come gregge di cui farsi pastore, ma come compagni d'armi. La sua
missione brilla appunto per questo, non consistendo soltanto nell'assolvere e
nel benedire, ma nel capire il dramma, del quale era egli stesso sofferente
protagonista. Posto di fronte all'intero spettro dei sentimenti umani, quelli
originati dal primitivo istinto dell'autoconservazione, fino a quelli che
nascono dalla solidarietà coraggiosa, dall'abnegazione, dallo sprezzo del
pericolo, fino all'atto eroico, il Prete Soldato li ha sentiti e sofferti come
stazioni di un comune Calvario.
Egli stesso lo scrive in pagine memorabili: «Ho visto l'uomo nudo… sparare alla
tempia di un commilitone che non voleva fargli posto all'interno di un'isba …»
Mentre in altre parti del suo libro, segnalandoci, in identiche situazioni di
dolore estremo, sentimenti e comportamenti opposti, egli ci descrive braccia
sfinite che lo riportano alla vita, incoraggiandolo con l'ultima parola
pronunciata a stento dall'Alpino agonizzante che, prima di cadere nella neve
profonda, gli ha sussurrato appena: «Forza Signor Tenente!»
L'uomo che egli ritiene capace di far trionfare lo Spirito sulla materia,
malgrado… la sconfitta, è lo stesso uomo nudo, in carne e ossa, in grado di
compiere azioni bestiali o sublimi, senza la "assistenza" del Diavolo o di Dio,
è -credo di non sbagliarmi- l'uomo animale che si fa oltre-uomo nelle medesime
membra e nello stesso contesto.
Chiedo mi sia permessa questa espressione, al di fuori di ogni apparente
retorica, proprio per l'esperienza cruda, "secolare" e "mondana", vissuta dal
Cappellano Militare nel ripiegamento di Russia, terreno sul quale si manifestava
ovunque, repentina e continua, l'urgenza dell'invocazione a Dio, nel momento
estremo della morte, accolta come liberazione dal dolore e dalla paura, ma
affrontata con la dignità e il senso del dovere del Soldato, come parte della
vita stessa, di cui la morte è supremo traguardo e insieme occasione di trionfo
dell'Essere sul divenire. Nel definirla in quei frangenti, credo che non siano
stati estranei al pensiero e al sentimento di Don Gnocchi quei suggerimenti
della filosofia niciana utili a comprendere l'autentica figura, spesso
travisata, di Oltre-Uomo, pur fatto di carne, dell'Uomo-Esempio, sostanzialmente
diversa dal Super uomo per meriti biologici o di razza.
Un commento questo che non intende porre in secondo piano la missione cristiana
di Don Carlo, ma vuole semmai farla splendere di ancor più viva luce. La
memorialistica della Campagna di Russia ci racconta numerosi esempi di questa
vittoria dello Spirito sulla materia e del tipo di Uomo che la consegue.
Non a caso quest'Uomo è spesso un Alpino.
Vitali: Rammento certi passi del libro "Massime sulla Guerra" di René
Quinton: «È duro disprezzare gli uomini. È uno dei privilegi della guerra non
avere che da stimarli» e ancora: «Non c'è nulla di così grande quanto giocare la
propria partita contro il destino»; «I veri giochi sono quelli dove la posta è
la vita» ed infine: «Le carovane smarrite nelle sabbie, le barche naufragate in
mare, non hanno conosciuto che supplicanti, giammai bestemmiatori».
Nella domanda che mi accingo a farti è implicito il richiamo alle relazioni tra
l'Italia e la Russia prerivoluzionaria nel corso delle quali si registrò un
notevole flusso migratorio dal nostro Paese verso le principali città della
terra zarista, lontana ma non irraggiungibile. E mi sembra lecito fare un
riferimento ai rapporti non sempre ostili fra l'Italia di Mussolini e l'Unione
Sovietica che si distinsero per i proficui scambi commerciali intercorsi fra i
due Paesi, allorché non sembrò destare eccessive preoccupazioni negli ambienti
politici italiani il fenomeno dei fuoriusciti, antifascisti e non, che si
installarono a Mosca e in altre città, con l'illusione di trovarvi il celebrato
"paradiso sovietico". Nella tua risposta riterrei utile il richiamo a quelle
operazioni militari, avvenute in tempi e contesti diversi, alle quali
parteciparono contingenti di soldati dell'Italia preunitaria, che condussero
all'occupazione della Russia e di altre regioni dell'Impero zarista. Mi
riferisco alla Campagna Napoleonica del 1812, che arruolava soldati in gran
parte lombardi e veneti, e alla spedizione piemontese in Crimea nel 1856.
Vorrei chiederti quindi se fra le ragioni che ti hanno indotto a realizzare il
DVD, c'è anche l'esigenza di chiarire certi lati oscuri delle vicende storiche,
in seguito alle quali maturò la decisione di inviare in Russia i Nostri Soldati
nel 1941/42?
Pucciarelli: La Campagna di Napoleone in Russia e la Spedizione in
Crimea, voluta da Cavour, avvennero in scenari e tempi diversi e non possono
costituire un precedente alla Spedizione Italiana in Russia del '41/'42, anche
perché quest'ultima, a prescindere dal "peso politico" attribuitole da
Mussolini, aveva scopi simili, ma sostanzialmente diversi. Riconosco peraltro
che l'argomento crea ancora oggi l'imbarazzo di alcuni storici, incerti nel
motivare la presenza di emigrati italiani in Russia legandola al fenomeno del
fuoriuscitismo o al richiamo propagandistico di una terra promessa che offriva a
tutti opportunità di lavoro senza alcuna distinzione di classe, oppure al flusso
migratorio (in prevalenza piemontese e ligure) verso le città del Mar Nero che
coincise con la Spedizione del 1856, che sulla carta almeno aveva fra l'altro lo
scopo di dissuadere i concorrenti sulle rotte commerciali tra il Mediterraneo e
i porti di Batumi e Taganrog.
Quanto alle circostanze in cui maturò la decisione di costituire l'ARMIR e di
spedirla in Russia, nel filmato ho cercato di tralasciarle. E confesso che non è
facile parlarne, perché la lettura delle dense e fitte pagine della
memorialistica sulla Campagna di Russia lasciano l'animo pervaso dalla
commozione e nell'accostarsi al dramma vissuto dai Nostri Soldati in Russia,
sorge spontaneo, e forse assoluto, il bisogno di un silenzioso rispetto,
risultando superfluo ogni commento, talvolta sgradita e perfino fastidiosa
qualsiasi, pur legittima, domanda da parte di chiunque cercasse ancora oggi di
spiegarsi come e perché è avvenuta la tragedia dell'ARMIR.
Tuttavia è oggi forse doveroso tentare di far luce sulle circostanze in cui essa
si svolse e quali altri possibili motivi, oltre a quelli noti, la determinarono.
Nella speranza che ulteriori, e forse plausibili, riflessioni al riguardo
possano non solo essere presupposto di un giudizio finalmente sereno ed
imparziale su quella triste e sventurata pagina della nostra Storia, ma
divengano anche soffi di un giusto vento, impotente ieri contro le nubi
oscurantiste del sovietismo e forse oggi in grado di liberare quel raggio di
sole, tanto invocato dai Nostri Soldati in Russia, capace di ravvivarne la
memoria, esaltarne ancora il sacrificio, farsi devota scintilla nel ricordo del
martirio di tutti i prigionieri, dei deportati che giacciono sepolti in terra
straniera, sotto il peso dell'indifferenza e dell'oblio, nelle lontane pianure
della Russia e del Kazakhstan.
So che agli Alpini non piace sentir parlare di politica. Chiedo dunque scusa a
tutti coloro che leggendo questa intervista la trovassero superflua e poco
affine al loro carattere, pregandoli di comprenderne il buon proposito, e se non
altro il tentativo di portare a compimento, al di fuori di ogni pretesto
polemico, quello che mi è parso essere oggi un certo obbligo morale che ci
impone di non dimenticare, ma anche di ricordare in modo forse più giusto.
Vitali: Arriviamo subito alla domanda scontata! Tutte le responsabilità
della tragedia dell'ARMIR ricadono da sempre su Mussolini, reo di aver mandato
in Russia 230.000 soldati, male armati e male equipaggiati contro i rigori
dell'inverno russo, ad affrontare forze nemiche ben 6 volte superiori, contando
su un' improbabile vittoria dell'Asse.
Pucciarelli: Le responsabilità politiche e morali della sventurata
spedizione in Russia pesano sul capo di Mussolini. Ma diciamo subito che
sarebbero meno evidenti, se le cose in Russia fossero andate in modo diverso.
Senza porsi il problema di evidenziare i noti capi d'imputazione che restano
comunque a carico del Duce, il quale solo ebbe l'autorità di decidere l'avvio
delle operazioni militari contro l'Unione Sovietica (con l'assenso o meno del
Re, Capo supremo delle Forze Armate Italiane), né quello di una volenterosa e
legittima ricerca di formule "assolutorie", basate peraltro sulla fondatezza di
indubbi elementi a discarico del Capo del Fascismo, resta il fatto che egli
stesso riconobbe, o per lo meno non ritenne opportuno smentire, nei memoriali
che ebbe il tempo di scrivere, la propria volontà di adottare, con colpevole
superficialità e disinvoltura, quelle misure di realpolitik che egli non poteva
in nessun caso permettersi; vale a dire quella misura in virtù della quale egli
pretese di trasformare la sola presenza di 230.000 uomini
impreparati su uno fra i più difficili campi di battaglia, in un credito
politico, magari a lungo termine, da far valere sul tavolo delle trattative.
Senza andare naturalmente troppo per il sottile attraverso considerazioni
sull'eventualità, o la probabilità, molto alta, che questa presenza si potesse
trasformare, come in realtà poi accadde, in puro sacrificio. Un'imperdonabile
tendenza all'azzardo, aderente alla retorica del Mussolini "prima maniera",
(diffusa del resto nella consueta enfasi fascista del «Credere, Obbedire e
Combattere», e nel richiamo propagandistico rivolto a un Popolo, degno di
chiamarsi tale solo se fosse stato… Combattente), ma raramente riscontrabile nel
Mussolini che scrive "Storia di un Anno" in cui il deposto Capo del Regime,
calato in vesti assai più realistiche, si presenta subito come vittima di una
congiura, tramata da tempo a danno suo e del Popolo italiano, senza pensare
all'esecuzione di un piano internazionale ordito al fine di far cadere il
fascismo.
In questo memoriale Mussolini passa in rassegna i probabili traditori,
individuandoli, con verosimile fondatezza, nei Capi di Stato Maggiore, nei
Generali e negli Ammiragli, e ritenendoli causa diretta o indiretta della
sconfitta, ma non accenna, con negligenza certamente pretestuosa, ad altre vere
cause della disfatta, riconducibili esclusivamente alle sue scelte. Se sul piano
politico queste possono ritenersi conseguenza di manovre suggerite dalla
strategia bellica, sul piano morale esse non otterranno mai alcuna plausibile
giustificazione.
Vitali: Sei dello stesso avviso della storiografia corrente che
attribuisce al solo Mussolini la responsabilità della guerra e dell'ecatombe
dell'ARMIR, pur riconoscendo la fondatezza della teoria della cospirazione,
posta in atto molto prima del 25 luglio del '43, in seno alla quale potevano
benissimo essere previste operazioni di sabotaggio ad esempio nella rete dei
rifornimenti di armi, vestiario e combustibile destinati ai nostri Soldati
impegnati in Russia.
Pucciarelli: Nella premessa ho voluto precisare che un Capo di Governo
non può prendere una decisione di quella portata senza rendersi conto di persona
delle effettive capacità ed efficienza dei canali di rifornimenti destinati alle
truppe impegnate sul teatro di guerra, e contando magari sull'appoggio di un
"alleato" con cui era certa la non facile intesa. Ritengo sia da condannare
comunque la volontà di Mussolini di attribuire "peso politico" alla nostra
spedizione in Russia, pur avendo egli stesso espresso seri dubbi sulle concrete
possibilità di avvalersene, e a prescindere dal fatto che egli ignorasse o
intuisse quanto si stava tramando alle sue spalle. Un argomento sul quale sarà
bene, dopo l'accenno di prima, spendere ancora qualche parola, quando cercheremo
di capire cosa si intende veramente per realpolitik: l'ispiratrice delle manovre
politiche e militari che condussero al conflitto mondiale e ne orientarono il
corso, al di fuori ed al di sopra di presunti contrasti ideologici.
Ritornando sul tema, è superfluo ricordare l'imperdonabile ostinazione di
Mussolini nell'incrementare la nostra presenza sul Fronte Russo, allorché egli
volle ignorare gli avvertimenti del Generale Messe, Comandante del Corpo di
Spedizione in Russia nel 1941, poi dallo stesso Duce accusato di tradimento, che
gli espose in chiare note il rapporto della propria esperienza diretta su quel
teatro di guerra, segnalando le estreme difficoltà incontrate dalle nostre
truppe, e l'impossibilità di combattervi durante l'inverno senza l'opportuno
equipaggiamento ed armamento. Benché fosse certo degli alti rischi ai quali
esponeva i nostri Soldati, il Duce non esitò nell'estate del '42 ad infoltire i
ranghi del XXXV corpo d'Armata, portando a 229.000 uomini il nostro contingente
spedito in Russia con il nome di ARMIR. Tutto questo è indiscutibile e motivo
giustificato delle pesanti accuse contro il Capo del Fascismo.
Vitali: Quali sarebbero stati secondo te gli elementi di "peso" politico
tale da indurre il Duce ad imbarcarsi in questa impresa? E quali i motivi, ancor
oggi discussi, imputabili alla precarietà della struttura e alla
disorganizzazione militare italiana che portarono alla disfatta dell'ARMIR?
Pucciarelli: Rispondo subito alla seconda parte della tua domanda, perché
ritengo vi siano molti elementi da chiarire a proposito della "impreparazione"
italiana alla guerra. È innegabile che il Corpo di Spedizione e poi l'ARMIR
avevano compiti precisi, legati comunque alla strategia dell'Asse sul fronte
orientale. Come è innegabile che la nostra disfatta, oltre ad essere stata
l'ovvia conseguenza della sconfitta tedesca a Stalingrado, è in gran parte
riconducibile all'evidente "disservizio" nei rifornimenti di combustibile, armi
e vestiario, di cui fu poi accertata in Italia l'abbondante esistenza, che non
pervennero nel momento critico ai nostri Combattenti in terra sovietica. Se
questa constatazione, unita ad altre, ci permette di commentare certi
disgraziati e significativi episodi (che videro coinvolta per esempio la nostra
Marina), con il fondato sospetto che questi non fossero dovuti soltanto a pura
sventura o al sofisticato decifratore inglese "Ultra", resta il fatto che una
serie di incredibili avverse coincidenze, come i casi di Taranto, Capo Teulada,
Genova, Pantelleria e Augusta, non ebbero né tempo, né modo, di essere in
seguito verificate, salvo nei memoriali di parte, e costituirono fra smentite e
conferme, peraltro mai definitive, oggetto di dispute mai chiarite tra fascisti
dell'ultim'ora e presunti traditori, occupanti posti di primo piano nei
ministeri e nella gerarchia militare dell'Italia di allora. Ciò non vuol dire,
ad onor del vero ed alla luce di quanto sarebbe avvenuto il 25 luglio 1943, che
non si possa ritenere in molti casi accertata la collaborazione offerta al
nemico (con il conseguente successo delle operazioni di sabotaggio ai danni
delle nostre truppe) da alti esponenti delle nostre Forze Armate, tenendo sopra
tutto conto degli sviluppi del conflitto.
Vitali: Ti riferisci in particolare a Pietro Badoglio?
Pucciarelli: Certamente. Il "Contromemoriale" di Bruno Spampanato
fornisce molti elementi a sostegno delle accuse mosse contro costui(*), il cui
operato tra il 25 luglio e l'8 settembre del '43 rende del resto evidente la sua
attiva partecipazione fin dall'ottobre del '40 (Campagna di Grecia), al piano
internazionale posto in atto per far cadere il Fascismo. Ma a prescindere dai
casi singoli di tradimento, presunti o accertati, chiunque concentri
l'attenzione su quel periodo si accorgerà che l'evolversi di quegli eventi era
determinato da una Suprema Logica di Potere, che predilige l'adozione dei soli
criteri della realpolitik, o politica dei forti interessi privati, legati a più
aggiornate forme di imperialismo. Questa logica, e la sua "affiliata" in veste
politica, che per attivarsi richiede l'uso del cinismo, dell'opportunismo e
dell'indifferenza rispetto a posizioni ideologiche di qualunque segno, ha spesso
prevalso nella storia, riuscendo a creare, malgrado espresse volontà di pace, i
pretesti per fare le guerre. Parliamo pure di quel sistema machiavellico che ha
sempre funzionato, assicurando a chi ha saputo scaltramente adottarlo nei modi e
nei tempi "opportuni", la vittoria sul piano politico e un successo
propagandistico di enorme portata, ma sopra tutto il trionfo dell'interesse
economico privato che dietro la Potenza vincitrice si occulta. Quella stessa
logica in cui si innestava facilmente, nell'Italia fascista del '40/'43, la
pratica del doppiogioco, suggerita spesso dal bisogno di denaro, raramente
dall'ideologia e talvolta dall'ambizione personale.
Non deve sorprendere dunque l'atteggiamento e il comportamento di personaggi
chiave dello stesso Fascismo e della Forze Armate che decisero di agire contro
il governo di Mussolini, talvolta convinti di operare per il bene dell'Italia,
ma spesso mirando a più opportunistici scopi. Del resto l'azione di vasta
propaganda che investì l'Italia dopo l'armistizio del 3 settembre '43, a cui non
è difficile associare il fenomeno del tradimento a danno del Fascismo da parte
di alti esponenti dello Stato Maggiore, trova più di una matrice nell'attività
dei servizi segreti internazionali, da cui trasse alimento il non troppo
spontaneo movimento della Resistenza.
In questo contesto sono da ritenere scontati gli scambi di informazioni segrete
con il nemico e le operazioni di sabotaggio ai danni delle Nostre Forze Armate e
particolarmente di quelle impegnate sul fronte orientale(**).
(*) È noto il sarcasmo degli stessi inglesi nel definire le attività
doppiogiochiste del Maresciallo Badoglio (di cui essi ampiamente beneficiarono)
con il verbo anglofono "to badogliate", inesistente, ma da essi coniato
appositamente per lui).
Come è risaputo che il Maresciallo Badoglio, che pur ricopriva
contemporaneamente le cariche di Capo di Stato Maggiore Generale, Presidente del
Consiglio Nazionale delle Ricerche e Presidente del Comitato Industriale per le
Materie Prime, cioè il solo responsabile della produzione e della distribuzione
di armi, equipaggiamento e carburante sul fronte di guerra, a questo suo preciso
compito e obbligo non provvide. Senza sentire il minimo bisogno, nei memoriali
che poi egli scrisse, di avanzare qualche timido argomento a suo discarico).
(**) A sostegno di quanto affermo si prendano le relazioni Wolff e Kesselring
del settembre 1943, che confermarono l'esistenza nell'Italia del Nord fin
dall'inizio del '42 di depositi e magazzini del Regio Esercito Italiano nei
quali abbondavano carburante, armi, munizioni e vestiario pesante che
mancarono ai nostri Soldati in Russia; constatazione che fu motivo di
energica protesta da parte dei due Generali tedeschi nei confronti del Capo
della RSI, facendo rilevare la macroscopica differenza tra la «"disastrosa
situazione dell'armamento italiano» manifestata ai tedeschi con la "lista
Cavallero" e la realtà assai diversa da essi riscontrata. La "lista Cavallero"
era l'elenco delle richieste di armi e materie prime, che Mussolini inoltrò al
Fuhrer, tramite il Maresciallo Cavallero, durante il periodo della non
belligeranza (settembre '39 - giugno '40), ritenute abnormi e sproporzionate
rispetto al reale fabbisogno italiano pur giustificato dalla mancanza di un
adeguato e più moderno armamento.
Vitali: Attendo risposta alla prima parte della domanda.
Pucciarelli: Ho cercato di chiarire che il peso politico attribuito da
Mussolini all'ARMIR era un puro azzardo, in primo luogo perché anche in caso di
vittoria dell'ASSE, egli avrebbe dovuto fare i conti con un alleato le cui
promesse non mantenute trovavano sepoltura, come disse lo stesso Duce, in grandi
cimiteri; e in secondo luogo perché per conferire peso politico ad una
operazione bellica nel complicatissimo scenario geopolitico della Seconda Guerra
Mondiale, occorreva avere "doti" di cinismo che Mussolini non possedeva. Tanto è
vero che egli imboccò incautamente la strada indicatagli da chi ne aveva invece
da vendere.
Vitali: Cioè da Adolf Hitler?
Pucciarelli: No. Ma non è il caso di addentrarsi nell'interminabile
dibattito tra storie e controstorie, aspettando lo scontato giudizio critico di
una parte o dell'altra. Limitiamoci alla pura cronaca per provare che la
spedizione dell'ARMIR in Russia fu un'operazione di realpolitik male utilizzata,
il cui peso fu reso di segno opposto grazie all'opera di chi della realpolitik
sapeva invece opportunamente servirsi. Ribadendo, ove ancora occorresse, cosa si
deve intendere principalmente per realpolitik, nel periodo della guerra e in
quello che la precede, ne possiamo elencare le diverse applicazioni alla pratica
e i risultati più significativi:
Gli osservatori più attenti definiscono manovre e decisioni di realpolitik le
seguenti:
* il Patto-garanzia offerto in caso di aggressione da Francia e Gran Bretagna
alla Polonia, paese ospitante, come la Cecoslovacchia e l'Austria, la fitta rete
del sistema bancario sul quale gravitavano cospicui interessi economici del
gruppo Rothschild, con sede a Londra.
* Il "Patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov" stipulato tra Germania e
Unione Sovietica il 23 agosto del '39, vero colpo basso assestato a movimenti e
partiti comunisti internazionali, esuli o clandestini che fossero, e in
particolare quelli italiani, disorientati dal patto a sorpresa, ma sempre
disposti ad accettare, Togliatti in testa, la manna mensile di rubli di Stalin,
per quanto puzzassero di nazismo. Il patto stesso, benché plausibile se
considerato all'interno della politica economica intrapresa da Cycerin e
Rathenau che conseguì proficui risultati negli scambi tra Repubblica di Weimar e
URSS e non del tutto inatteso se consideriamo il precedente del trattato di pace
separata sottoscritto dalla Germania e dai Bolscevichi di Lenin, mesi prima
della conclusione del Primo Conflitto Mondiale, sconvolse i piani delle
diplomazie europee e d'oltreoceano che avevano fino allora ritenuto impensabile
un accordo tra il Fuhrer, notoriamente avverso al bolscevismo, e l'Unione
Sovietica di Stalin. Ma, fatto ancor più grave, l'accordo fra Tedeschi e
Sovietici provocò ondate di panico nell'industria capitalista statunitense che
aveva investito, traendone profitti iperbolici, fiumi di dollari nella Germania
Nazista, contando fra l'altro, sul solido baluardo che quest'ultima stava
costruendo contro il pericolo rosso. Nell'occasione i criteri della realpolitik
cui si ispirò Ribbentrop furono simili a quelli che guidarono Molotov, anche se
opposti erano i rispettivi fini. Il patto nelle intenzioni della Wilhelm
Strasse, permetteva alla Germania di sospendere il pericolo di un fronte
orientale in previsione degli sviluppi delle trattative in corso tra Mosca e
Londra e consentiva al Fuhrer di disporre del petrolio di Baku, che gli sarebbe
stato indispensabile per condurre la guerra sul fronte occidentale. Non meno
machiavellici erano i piani di Molotov nel firmare l'accordo che prevedeva
l'invasione sovietica della Polonia fino alla Vistola, la legittimazione tedesca
dell'occupazione sovietica della Finlandia (fonte di nichelio, necessario per
l'alluminio tedesco) e delle pretese avanzate da Mosca sulla Bessarabia e la
Bucovina, ritenute da Molotov porte aperte in attesa di un ingresso sovietico in
grande stile nei Balcani.
* Il rifiuto delle democrazie europee (Francia e Inghilterra) di estendere le
loro rispettive dichiarazioni di guerra all'Unione Sovietica, rea di aver
aggredito ed occupato la Polonia nel settembre del '39, commettendo un atto di
aggressione del tutto identico a quello commesso dalla Germania contro la stessa
Polonia qualche settimana prima, motivo per cui, dopo il breve ultimatum, la
Gran Bretagna dichiarò guerra alla sola Germania. Ritenuta per questo unica
responsabile dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Mentre l'Unione
Sovietica, per quanto colpevole di analogo crimine, non sarebbe stata ritenuta
dello stesso imputabile, perché Potenza vincitrice, al processo di Norimberga,
presieduto fra l'altro da un Tribunale Internazionale, di cui faceva parte un
giudice accusatore sovietico che non sentì certo il bisogno di quel minimo senso
di pudore che in altre occasioni gli avrebbe imposto di rendere in rozzo
cirillico l'antico adagio di Seneca: «Victoribus victi legem dederunt» e
dichiarò colpevoli i gerarchi nazisti condannandoli alla pena di morte.
* Il varo della legge "Affitti e Prestiti" ("Lend and Lease Act") del gennaio
1942 che legittimava l'avvio di una colossale produzione di armi sotto la
supervisione del War Production Board di Donald Nelson, (successore di Bernard
Baruch, banchiere ebreo, Consigliere di Roosevelt, Capo dell'Organizzazione
Sionista Mondiale, e presidente del quasi analogo War Industry Board, costituito
nel '17 sotto l'amministrazione Wilson, che giustificò con questo la
partecipazione degli Stati Uniti alla Prima Guerra Mondiale) con il pretesto di
fornire aiuti alle nazioni aggredite dalle forze del Tripartito, ma con lo scopo
non dichiarato, malgrado il persistente stato di isolazionismo, di coinvolgere
gli Stati Uniti in una guerra che avrebbe visto poi la Potenza Americana
prevalere nel nuovo ordine mondiale attraverso l'acquisizione del controllo di
gran parte delle fonti energetiche mondiali.
* Il prolungato embargo delle forniture di petrolio ai danni del Giappone,
voluto e deciso esclusivamente dal Cartello delle Compagnie petrolifere
americane, e accompagnato dal rifiuto della Casa Bianca di accogliere la
proposta di trattative del Governo nipponico, teso anche a manifestare al
Presidente Roosevelt l'inequivocabile presa di posizione dei Giapponesi nel
considerare l'embargo e l'atteggiamento americano espliciti atti di aperta
ostilità, ai quali l'Impero del Sol Levante sarebbe stato costretto a
rispondere, conducendo attacchi aerei contro le basi navali statunitensi.
* La decisione di Roosevelt e Churchill di fornire aiuti consistenti in armi,
materie prime e denaro all'Unione Sovietica, nemico storico dell'Occidente e
patria del Comunismo, col pretesto di voler sostenere le vittime
dell'aggressione nazifascista, ma con il primario, non dichiarato, scopo di
salvaguardare gli interessi angloamericani nelle regioni petrolifere del Caucaso
e del Medio Oriente. Ovvio fin da allora che il sostegno degli Alleati a Stalin
sarebbe stato temporaneo. Si inquadrava infatti perfettamente nella logica della
realpolitik, adottata da inglesi e americani nell'estendere prima la guerra al
Giappone, temendo che quest'ultimo, legato all'Asse in virtù del Tripartito,
aggredisse da Est l'Unione Sovietica, e stringesse in una fatale morsa il
Compagno Stalin. Il quale, ricordiamolo, era però stato buon alleato di Hitler
fino a sei mesi prima, e non avrebbe esitato nel '40 ad andare col Fuhrer a
braccetto fine alle tiepide acque del Golfo per occupare Mosul e Baghdad,
dominio incontrastato anglo-americano della Iraq Petroleum Company. Salvo il
caso che il Fuhrer, infranta il 22 giugno '41 la fastidiosa alleanza coi Soviet,
non decidesse di andarci per conto proprio, contando certamente sui Giapponesi,
pur sempre legati all'Asse da un patto, e forse ancor più sul sostegno del Gran
Muftì di Gerusalemme, Al Husseini, che avrebbe consegnato a Hitler le chiavi del
petrolio iracheno, in cambio della liberazione della Palestina. Come recita un
vecchio proverbio: «Se vuoi aver ragione di un rivale, fatti amico di un suo
nemico». Ma attenzione alle date. Poiché non esisteva uno stato di guerra
ufficiale tra Unione Sovietica e Giappone, occorreva attirare questo in guerra,
ma sul Pacifico, lontano dai confini sovietici e sopra tutto dal petrolio
mediorientale, creando il pretesto di Pearl Harbour del 7/12/1941. Grazie al
quale Roosevelt avrebbe potuto tranquillamente superare gli ostacoli
dell'isolazionismo. Ma perché aiutare proprio l'Unione Sovietica, quando dal
1919 Inghilterra e Stati Uniti stavano tentando in ogni modo, prima di impedirne
la nascita, poi di cancellarla dalla faccia della Terra? Perché solo Stalin,
adeguatamente aiutato, e la Russia potevano fermare la rapida corsa di Hitler,
sostenuto fra l'altro da venti divisioni islamiche, verso Stalingrado e la foce
del Volga fino a Baku e da qui a Tabriz in Iran, per giungere infine a Mosul in
Iraq. Così si spiega la presenza del consigliere di Roosevelt, Harry Hopkins, a
Mosca in veste di coordinatore delle operazioni di sostegno all'Armata Rossa.
Vitali: Quando è in gioco il petrolio si superano tutte le barriere! Ma
quali sarebbero stati i piani dell'ARMIR in Russia, oltre ai già ricordati fini
politici?
Pucciarelli: Ti rispondo sull'argomento petrolio, facendo una domanda che
chiunque osservi lo scenario politico del secondo dopoguerra dovrebbe porsi:
«Perché il successo degli Alleati nella guerra di liberazione dal
Nazifascismo, coincide stranamente:
* con l'acquisizione del controllo quasi assoluto delle fonti energetiche
mondiali da parte delle compagnie petrolifere angloamericane,
* con l'affermazione in Europa dei criteri e delle regole del libero mercato
capitalistico che eliminerà gli indesiderati effetti dell'economia "autarchica"
di Italia e Germania
* con l'affrettata costruzione di barriere ideologiche e più concreti e
visibili argini con la funzione di contenere e isolare il temuto comunismo e
l'intollerabile sistema economico adottato dai soviet che nega il principio
fondante dell'economia occidentale, il diritto di proprietà privata?»
I compiti dell'ARMIR in Russia erano due: (confermati da testimonianze verbali e
documentazione segreta emersa di recente)(***)
* il Corpo d'Armata Alpino avrebbe dovuto occupare le alture del Caucaso, catena
montuosa che si erge a protezione dei pozzi petroliferi di quella regione,
* mentre il resto dell'VIII Armata Italiana avrebbe dovuto occupare Tbilisi,
Capitale della Georgia, e sostenere il colpo di stato degli indipendentisti
georgiani contro il regime dei Soviet.
Ma, per il buon esito di questi piani "ufficiali", Mussolini, non avrebbe potuto
adottare una propria autonoma strategia, perché l'Armata Italiana in Russia
sarebbe stata sottoposta al Comando germanico, come del resto quella ungherese
di Horty e quella romena di Antonescu. Se d'altro canto è vero che i temporanei
successi della Wermacht durante la buona stagione avevano alimentato qualche
ottimismo (dopo la riconquista di Sebastopoli e parte della Crimea i vertici
nazisti ritenevano sicura una rapida avanzata della Sesta Armata tedesca verso
la foce del Volga), è anche vero che Mussolini aveva pochi motivi per poter
sperare in una positiva riuscita della Campagna di Russia, in primo luogo perché
nel luglio del '42, proprio quando le truppe dell'ARMIR salivano sulle tradotte
in partenza dall'Italia per raggiungere la steppa russa, il Duce non poteva non
essere stato informato dei gravi problemi logistici incontrati, ad esempio, in
Nord Africa da Rommel, il quale, costretto ad osservare i suoi Panzer fermi ad
El Alamein, era stato risoluto nel notificare al Fuhrer l'impossibilità di
raggiungere il nevralgico Canale di Suez, restando in attesa per ben tre giorni
dei rifornimenti di carburante. Il problema della scarsità di combustibile e
della difficoltà di rifornimento riscontrato in Nord Africa, sarebbe diventato
enorme nella steppa russa, dove le distanze da percorrere erano triplicate
rispetto a quelle del deserto africano e proibitive le condizioni climatiche.
Come pensava Mussolini di intraprendere operazioni militari in Unione Sovietica
con la poca nafta al seguito delle truppe o con le risibili dosi del petrolio
romeno di Ploiesti che i Tedeschi concedevano col contagocce agli Italiani?
Forse macinando i girasoli dell'Ucraina per ricavarne inservibile etanolo?
Oppure contando sulla limitata produzione di petrolio sintetico dell'Italiana
ANIC che pur procedeva a stento nel processo di idrogenazione del carbone
(anch'esso scarso) e in quello chimico della lignite. Ma dove era stato
depositato il prodotto? Il Duce lo ignorava! Oppure qualche doppiogiochista gli
aveva detto che non esisteva. Mentre in effetti le migliaia di fusti che lo
contenevano erano stati posti in fila e in bella mostra lungo la linea
ferroviaria che scorre da Ala a Trento, in attesa che sempre qualcuno,
trovandoli, se ne servisse, non certo nell'interesse delle nostre Forze Armate.
In secondo luogo perché Mussolini (come Hitler del resto, benchè il cervello del
Fuhrer fosse preda di più gravi paranoie), non aveva dato il giusto peso alla
dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti del dicembre 1941, ignorando come
sempre che la logica recondita della realpolitik prevede l'adozione di
contromisure e l'esecuzione di manovre spesso contraddittorie. Tali erano
infatti quelle concepite ed attuate secondo la nota politica di Yalta. Poteva
Mussolini immaginare che gli Stati Uniti avrebbero posto in atto una colossale
mobilitazione di mezzi e armamenti e materie prime da inviare in soccorso di una
agonizzante Armata Rossa, già sul punto di chiedere la capitolazione? Il
"Diario" di Ciano così almeno ci informa, riferendo l'intercettazione e la
decifrazione da parte dei nostri Servizi dei continui appelli di Stalin, rivolti
a Roosevelt, nell'ambito dei principi della Conferenza Atlantica, proclamati a
gran voce da un astuto Churchill a tutela e garanzia di ogni paese aggredito (da
allora in poi) e dallo stesso Premier inglese sottoscritti, sebbene in veste di
rappresentante del Paese più aggressore che la Storia moderna e contemporanea
ricordi. Mussolini era al corrente di questi soccorsi americani all'Unione
Sovietica, quando decise di mandare i nostri Alpini in Russia? Per quanto si
possa riconoscere che la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti sia stata da
Mussolini decisa in virtù della solita "impegnativa coerenza" che legava le
sorti dell'Italia a quelle della Germania, come nel caso della nostra entrata in
guerra nel giugno del '40, e a quelle del Giappone per via del patto Tripartito,
nel dicembre del '41; e per quanto -aggiungo- si possa forse dire con qualche
ragione che le due infauste decisioni di Mussolini furono quasi… "estorte" dal
suo cronico e peraltro giustificato timore di un prevedibile atto di forza
contro l'Italia, culminante magari con l'invasione nazista della Penisola, nel
caso in cui il Duce, avesse ancora avanzato pretese, financo giustificate, di un
nuovo stato di non belligeranza italiana, resta il fatto che egli non poteva
escludere di trovarsi, prima o poi, a dover fronteggiare, sia pure
indirettamente, la Potenza americana sul fronte russo. Ci sarebbe dunque
da chiedersi se nel giugno-luglio del '42, quando la decisione di costituire
l'ARMIR era stata presa da mesi, Mussolini sapesse quanto stava avvenendo nel
Golfo Persico e a Teheran, dove l'Office of Strategic Services aveva costituito
un centro di appoggio, coordinato dal Generale americano Norman Schwarzkopf
Senior, dal quale gli Stati Uniti si affrettavano a far pervenire attraverso il
Mar Caspio e la foce del fiume Volga fino a Stalingrado cospicui aiuti in
armamento corazzato e materie prime all'Armata Rossa di Stalin. E questo
-precisiamolo- senza che fosse stato stipulato alcun patto di alleanza tra Stati
Uniti e Unione Sovietica.
(Gli aiuti americani pervenivano ai sovietici anche attraverso il porto di
Novorrosisk sul Mar Nero. Mentre a Vladivostok si era costituito nel '42 un
grande centro di smistamento di materiale bellico di fabbricazione USA da
utilizzare contro il Giappone. Per ironia della sorte queste due città portuali
furono nel 1918 teatro di duri scontri tra i Bolscevichi e le Guardie Bianche
degli Ammiragli Denikin e Kolciak che si battevano per la ricostituzione del
governo zarista. Questi ultimi ottennero nell'occasione il sostegno
dell'American Expeditionary Force, costituita da 10.000 Marines americani,
inviati in Russia dall'Amministrazione Wilson per scongiurare il pericolo della
presa di potere dei Bolscevichi e della instaurazione a Mosca di un governo dei
Soviet. I Marines americani contarono allora sull'appoggio di ben 70.000 soldati
giapponesi, tra le cui fila si registrarono notevoli perdite; mentre Churchill,
allora Primo Lord dell'Ammiragliato Britannico non fu da meno, vantandosi egli
in un suo memoriale di aver fatto inviare ben 100 milioni di sterline e armi e
fucili in quantità ragguardevoli a sostegno della coalizione internazionale
controrivoluzionaria, impegnata in Russia a contrastare l'avanzata dei
Bolscevichi al potere. Una divisione francese e un contingente di soldati
italiani di 3.000 uomini fu inviato in Russia allo stesso scopo. Gli aiuti
americani fatti pervenire a Stalin nel 1942 consistevano in 14.000 aerei caccia
bombardieri, dieci milioni di tonnellate di acciaio, e 800 carri armati Sherman,
solo per citare i più notevoli).
Vitali: Ritorniamo ai compiti dell'ARMIR in Georgia. Su quale base puoi
avanzare l'ipotesi di un presunto piano italiano di occupazione di quella
regione caucasica?
Pucciarelli: Una documentazione di fonte sicura comprova l'esistenza di
questo piano e la volontà di Mussolini di realizzarlo, a condizione di ottenere
l'appoggio dell'alleato tedesco nel perseguimento di questo particolare
obiettivo. Cosa che non avvenne. Sia perché la Wehrmacht si trovò ad affrontare
impreviste difficoltà a Stalingrado, sia perché tutti i programmi italiani che
avrebbero dato un senso alla presenza dell'ARMIR in Russia incontrarono il veto
di Hitler. Fra questi c'era infatti anche il piano di occupazione del Porto di
Batumi da parte delle truppe italiane. La conquista di questo importante scalo
sul Mar Nero che convogliava i flussi di petrolio dal Caspio e dall'Iraq verso
il Mediterraneo, sarebbe stato un primo decisivo passo verso l'auspicata
ricostituzione dell'AGIP, allora Agenzia Generale Italiana Petroli, e la ripresa
delle attività estrattive della nostra compagnia petrolifera, grazie alla
concessione dei territori di Quayara, località della regione di Mosul,
concordata con il Gran Mufti di Gerusalemme, Al Husseini, e con Rashid El
Gailani; una volta che quest'ultimo fosse stato posto nuovamente a capo del
governo iracheno, grazie all'intervento dell'Asse, dopo il passo falso del
maggio 1941, che registrava l'insuccesso dell'insurrezione antibritannica di
Baghdad. La condizione di sudditanza di Mussolini, riconducibile in gran parte
allo stato di inferiorità delle nostre truppe e alla necessità di avvalersi
dell'appoggio germanico in fatto di armamenti, fecero sfumare il piano italiano,
direttamente collegato con l'occupazione di Tbilisi e la costituzione del
Protettorato Italiano della Georgia.
La questione georgiana assumeva grande importanza e, confessiamolo, costituiva
un obiettivo non secondario di sicura valenza economica per il futuro
dell'Italia.
Vitali: Sarebbe stato questo il peso politico maldestramente attribuito
da Mussolini all'impresa italiana in Russia?
Pucciarelli: Sì. Ma la scelta dei tempi in cui attuare l'impresa era
infelice. Un errore che costò caro all'ARMIR e legittimò le pesanti accuse a
carico del Duce.
Vitali: Cosa avrebbe dovuto aspettare? Che maturassero le nespole? Con
gli americani prossimi allo sbarco in Nord Africa e gli inglesi quasi padroni
del campo in Egitto e in Libia?
Pucciarelli: Indubbiamente la scelta di Mussolini fu per forza
affrettata, a causa degli sviluppi della guerra e dell'incalzare degli eventi.
Come è nota del resto la totale dipendenza del Duce dalle decisioni del Fuhrer,
il quale pretese, contrariamente a quanto è stato scritto e testimoniato,
l'affiancamento dell'ARMIR alle truppe naziste, nel clima di reciproca
diffidenza e del malcelato timore di assai probabili ritorsioni tedesche contro
l'Italia (bisogna riconoscere che i timori di Mussolini erano fondati se si
considerano i moniti minacciosi di Ribbentrop nel pretendere durante la
non-belligeranza l'immediato allontanamento dell'inviato di Roosevelt in Italia,
Sumner Welles, da Palazzo Venezia e da Palazzo Chigi; e se si confrontano i
verbali dei colloqui Hitler-Mussolini, avvenuti a Monaco all'indomani della
"liberazione" del Duce da Campo Imperatore, contenenti esplicite minacce del
Fuhrer di bombardare le principali città italiane del Nord, qualora le direttive
tedesche sulla costituenda RSI fossero state disattese).
Ma resta il fatto che ordinare a 229.000 soldati di andare a combattere col
moschetto dell'800, contro i carri armati da 60 tonnellate e a 40 gradi sotto
zero, significa volerli mandare al macello.
Considero definito l'argomento. Intendendo con questo evidenziare ancora il
senso e le finalità di questa intervista, senza cadere nel solito groviglio di
polemiche sulla colpevolezza di Mussolini, ma ribadendo, pur con le giuste
attenuanti di cui ti ho parlato, la sua oggettiva, se non diretta,
responsabilità nella tragedia dell'ARMIR.
Tuttavia sto tentando anche di dimostrare che la nostra Armata Italiana In
Russia aveva, almeno sulla carta e a prescindere dalle errate scelte di
Mussolini, finalità precise, la cui valutazione spetta oggi a 66 anni di
distanza, alla sola coscienza storica. Con questo intendendo il giudizio
sereno ed obiettivo, libero dai legami di qualsiasi trascorsa o rinascente
impostazione ideologica e scevro dal pregiudizio della superficiale e sbrigativa
vulgata ancora persistente sul caso Russia. Una coscienza storica maturata
attraverso esperienze sofferte ed alla luce dei cambiamenti intervenuti nel
corso di questi 66 anni nello scenario geopolitico mondiale, e libera dai
pantani di un manierismo propagandistico mediatico che confonde con
impressionante disinvoltura la guerra di aggressione condotta contro un Paese
ricco di materie prime e petrolio, con la nobile missione di apportarvi
democrazia.
Curioso notare come Iraq e Georgia siano teatri di guerra, oggi come allora ai
tempi dell'ARMIR e per quasi analoghi motivi!
Riferendoci proprio alla Georgia, è venuta alla luce di recente una
documentazione, rimasta segreta per oltre sessant'anni, consistente in una
lettera inviata a Mussolini il 28 aprile del 1941 dal Capo del Partito
Socialista Federativo Georgiano, esule in Francia, J. Dagrachvilij, e fatta
pervenire al Capo del Fascismo tramite il governo di Vichy. Nella lettera si
richiede al Duce un sostegno finanziario per l'Organizzazione Indipendentista
Georgiana che, in lotta da decenni contro il regime sovietico, offre in cambio
all'Italia di Mussolini il Protettorato della Georgia. È utile ricordare che il
Duce aveva in numerose occasioni fatto pervenire cospicue somme di denaro al Haj
Alì Al Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme, che come abbiamo già ricordato,
offriva agli Italiani la concessione di sfruttamento del petrolio di Mosul, in
mano agli angloamericani grazie ai mille intrighi di cui si era reso
protagonista, insieme a Henry Deterding e a Walter Teagle, il Premier inglese
Winston Churchill. La questione georgiana e quella irachena erano strettamente
legate nella prospettiva mussoliniana per ragioni intuibili, ma anche perché
l'instaurazione in Georgia di una monarchia sul cui trono sarebbe salito il
Principe Irakli Bagrationi, grazie all'intervento italiano a Tbilisi, avrebbe
enormemente facilitato la soddisfazione delle esigenze petrolifere italiane
attraverso la via del petrolio di Batumi, porto sul Mar Nero situato in
territorio georgiano. È bene ricordare, anche se il fatto ha importanza
secondaria, che Bagrationi era consorte della Contessa italiana Maria Pasquini,
amica dei Savoia e di Edda Ciano. Ed è forse meno noto, proprio a proposito dei
Savoia, che nel 1919 il Re Vittorio Emanuele III, invocando uno dei diritti
italiani stabiliti in favore delle potenze vincitrici del I conflitto mondiale,
all'articolo n. 9 del celebre "Patto di Londra" dell'aprile 1915, chiese ed
ottenne l'assenso dell'altra potenza vincitrice, la Gran Bretagna, attraverso i
buoni uffici di Lloyd George, per l'invio in Georgia, terra in fermento
indipendentista e da sempre riluttante alla sottomissione ai Soviet, di un
contingente italiano di 85.000 soldati agli ordini del Generale Giuseppe
Pennella, che avrebbe dovuto difendere l'indipendenza del Paese e sostenere la
neonata Federazione delle Repubbliche Transcaucasiche, Georgia, Armenia e
Azerbaigian. Il governo Orlando, poco prima di cadere, decise quindi con proprio
decreto la spedizione italiana in Georgia e ne stabilì termini e date. Ma il
successivo governo Nitti ritenne di dover bloccare la spedizione per non
compromettere l'avvio di buone relazioni tra Italia e la futura Unione Sovietica
dei Bolscevichi, che nel breve intermezzo, non certo ispirandosi ai principi
invocati vent'anni più tardi con la mobilitazione della Grande Guerra
Patriottica, avevano stroncato con la forza l'insurrezione georgiana, facendo
strage degli oppositori e stabilendo a Tbilisi un governo di Soviet.
Vitali: Sarebbero stati questi i compiti dell'ARMIR nel 1942?
Pucciarelli: Sì. E non solo! Basta ricordare il regime di terrore
sovietico, i gulag, e i 60 milioni di vittime "personali" del Compagno Stalin,
un record che il Papà di tutte le Russie avrebbe migliorato, se i suoi
fedelissimi non lo avessero lasciato andare al Creatore tra gli spasmi
dell'ictus senza muovere un dito, invece di soccorrerlo. Rispondendo alla tua
domanda, è risaputo che i Soldati Italiani dell'ARMIR si guadagnarono le
simpatie delle popolazioni ucraine e russe. Simpatie che gli Alpini sopratutto
cercarono di conservare nel tempo, benchè si trovassero in territorio sovietico
in veste di occupanti. È bene ricordare le testimonianze della memorialistica
sulla Campagna di Russia e quelle che abbiamo potuto raccogliere direttamente
dagli anziani fra quelle genti che vissero nel '41/'42 a contatto con i nostri
Soldati a Rossosch e in altre località del Donetz e del Don. Si trattava a quel
tempo di donne, bambini e anziani, è vero. Ma gente che, sottomessa da tempo
immemorabile al giogo tirannico di ben altro invasore e abituata a vivere nel
costante timore che perfino le più innocenti e naturali manifestazioni di appena
distinte capacità intellettive potessero destare il sospetto del dissenso
(motivando l'applicazione immediata dei metodi brutali del regime come la
deportazione e la condanna ai lavori forzati nei gulag), confidava nella
solidarietà offerta dai Nostri Soldati, giunti in armi nel loro Paese anche per
opporsi a quella feroce oppressione e alimentare speranze di miglior vita.
Non è frutto di fantasia fra l'altro, ma realtà (testimoniata ancor oggi dalla
tradizione orale ucraina e russa) quella che molti storici hanno omesso di
riferire e riguarda i volontari e unanimi segni di benvenuto manifestati dalla
popolazione sottomessa al regime sovietico, e consistenti nell'offerta simbolica
del «pane e del sale» ai soldati tedeschi che nell'estate del '41 facevano
ingresso nelle città dell'Ucraina. Con la speranza, risultata poi vana, di
queste popolazioni martiri che dai nuovi venuti fosse loro riservato un
trattamento migliore rispetto a quello del regime di terrore sotto il quale
allora esse vivevano, e senz'altro diverso dal trattamento criminale del polacco
Maresciallo Pilsudski che vent'anni prima, deciso ad estendere i confini di una
grande Polonia fino al Mar Nero, con gran sostegno di Gran Bretagna e Francia,
avverse al costituendo governo dei Soviet, invase l'Ucraina, facendo massacrare
dalle sue truppe migliaia di civili nelle città di Leopoli, Kiev,
Dniepropetrovsk, Krivoj Rog, Odessa e rendendosi responsabile di un vero
genocidio che la storiografia ufficiale con riluttanza ricorda.
Se nel corso dei mesi del drammatico biennio '41/'42 l'atteggiamento delle
popolazioni mutò nei confronti delle forze dell'Asse, questo si dovette al
trattamento barbaro riservato agli Ucraini e ai Russi dai reparti della SS
tedeschi del Generale Koch e alle paranoie razziste di Himmler e dello stesso
Hitler. È ampiamente documentato l'atteggiamento antisovietico delle popolazioni
dei territori invasi all'indomani del 22 giugno '41, fra l'altro dagli
insistenti e ripetuti rapporti di Alfred Rosemberg, per mezzo dei quali il
Generale nazista, suggerì più volte al Fuhrer l'opportunità di formare delle
divisioni di ucraini dissidenti da affiancare alle truppe della Wehrmacht per
combattere contro l'Armata Rossa. Il rifiuto di Hitler di accogliere tale
consiglio, evidentemente riconducibile alla sua innata diffidenza verso gli
Slavi, risultò alla fine essere un errore di non secondario peso in tutta
l'Operazione Barbarossa; non solo, l'applicazione dei brutali metodi di Koch,
assecondati da Hitler, consistenti nel far piazza pulita di prigionieri e
civili, impiccandoli anche senza motivo, determinò la reazione dei civili contro
i tedeschi e in generale contro l'Asse, dando vita al fenomeno del
partigianesimo. Questo facilitò il compito della propaganda antinazista e
"legittimò" il severo monito staliniano a combattere la grande guerra
patriottica contro l'invasore, rendendo ben chiaro peraltro che chiunque non lo
avesse accolto, sarebbe stato passato per le armi.
È notorio infatti che il soldato sovietico che di fronte al nemico si fosse
ritirato, anche nel caso in cui non gli fosse restato obiettivamente altro da
fare, veniva ucciso sul posto da appositi plotoni, disposti all'uopo da un
Commissario Politico. L'ordine del «non un passo indietro» nasceva, fra l'altro,
dal serio timore di Stalin che fra le popolazioni russe e occupanti stranieri,
Italiani in particolare, si fossero instaurati, come del resto in effetti era,
legami di amicizia e solidarietà.
Vitali: Credo convenga a questo punto mettere a fuoco le circostanze e
gli sviluppi degli eventi, europei ed extraeuropei, che costrinsero Stalin a
rivedere una rigida posizione antioccidentale di puro stampo ideologico e a
percorrere vie politiche più "opportune", se non indispensabili alla stessa
esistenza dell'Unione Sovietica. Un atteggiamento suggerito dai criteri di
realpolitik che connotò la politica internazionale di Stalin, fermi restando il
clima di terrore e di repressione che caratterizzarono il sistema di governo
interno.
Pucciarelli: Certo. E a questo proposito è bene ricordare come le Potenze
occidentali decisero di attribuire all'Unione Sovietica un preciso compito e
affidare al georgiano Stalin un nuovo ruolo ad esse conveniente. Spinti ad
operare in tal senso dalle continue e forti pressioni dei veri arbitri della
politica internazionale (le Compagnie petrolifere Standard Oil of New Jersey del
gruppo Rockefeller, Socony Mobil, Chevron, Texaco, l'inglese Iraq Petroleum
Company, nonché i colossi industriali come Ford, General Motors, IBM, ITT e il
Cartello Bancario facente capo ai gruppi Morgan, Rothschild, Warburg, Baruch, di
chiara ispirazione sionista, il cui centro di manovra era la Federal Reserve
Bank che vantava potenti diramazioni nelle Banche Centrali europee e in
particolare nella Bank for International Settlements di Basilea) Churchill e
Roosevelt decisero (o meglio obbedirono alla decisione dei sopra elencati) di
avvalersi di Stalin per fermare Hitler, lanciato verso la conquista del petrolio
del Caucaso e dell'impero del cartello petrolifero anglo-americano in Medio
Oriente. Superfluo ricordare che il Fuhrer, giunto alle porte di Stalingrado,
poteva contare e non solo in quell'occasione, sul forte appoggio dei mussulmani
che poi egli avrebbe guidato in massa verso la liberazione della Palestina.
L'atteggiamento di Roosevelt verso Stalin, ma più ancora quello di Churchill, fu
suggerito dalla tattica del minor male come estremo rimedio. Il Presidente
americano e il Premier inglese dovettero ingoiare il rospo, essendo ben nota la
storica avversione del mondo capitalista nei confronti del comunismo e dei dogmi
economici dell'Unione Sovietica, già da tempo definita «Impero del Male» e «Red
Scare» il grande pericolo che essa rappresentava per l'Occidente. Tuttavia nel
redigere la "Carta Atlantica" nell'agosto del '41, il Premier inglese giocò
d'astuzia, quando estromise Stalin dal gruppo di rappresentanti delle nazioni
che avrebbero potuto sottoscrivere il celebre documento-impegno, mentre con
sfacciata ipocrisia, visti i trascorsi inglesi e americani, egli enunciava le
quattro libertà delle quali i paesi sottoscrittori dovevano rendersi garanti:
libertà di parola e di culto, libertà dal bisogno e dalla paura. Se le prime due
e la quarta potevano assumere nei confronti di Stalin il significato di una
provocazione, la terza sembrò concepita apposta per lui. Se il bisogno può
infatti scaturire in teoria dalla mancanza delle altre tre, era proprio in quel
momento il concreto stato di bisogno dell'Unione Sovietica a rendere ovvia
l'offerta di un aiuto concreto a Stalin da parte degli alleati. In cambio di
certe garanzie che il Capo dei Soviet avrebbe dovuto offrire: la sospensione
delle attività del Komintern (almeno temporaneamente), l'eliminazione dei
deviazionismi trotzkiski e bordighiani, il contenimento del comunismo in un solo
paese, un nuovo impulso al fuoriuscitismo italiano, incrementando il sostegno
finanziario a favore di quest'ultimo, in vista dell'esecuzione immediata di un
piano più ampio che prevedeva il disfacimento delle nostre Forze Armate inviate
in Unione Sovietica, al fine di renderne impossibile una eventuale futura
ricostituzione e un probabile impiego nella delicatissima strategia del bacino
mediterraneo. Il baratto delle quattro libertà ebbe successo. Averell Harriman
ed Harry Hopkins volarono a Mosca in qualità di consiglieri di Roosevelt e
coordinatori della struttura organizzativa alleata che avrebbe in breve tempo
fatto pervenire all'Unione Sovietica gli aiuti americani.
Osservando la vicenda dall'altro lato, ci si rende conto che la politica estera
di Josip Djugasvilji Vissarionovic, detto Stalin, si distingueva appunto per
quell'insieme di misure, da lui adottate nel periodo bellico, che, discusse e
chiarite poi nel corso delle intese di Yalta, obbedivano ai criteri della
realpolitik occidentale. Una sorta di scambio di reciproci impegni che le
potenze capitaliste furono costrette ad assumere con l'Unione Sovietica, in
vista dell'unico sbocco delle operazioni belliche ad esse favorevole, quello
cioè che avrebbe portato alla definizione delle linee del bipolarismo.
Intendendo con questo fra l'altro il tracciato di confini che il comunismo
internazionale non avrebbe potuto oltrepassare e che avrebbe permesso all'Unione
Sovietica di esercitare, all'interno di un'area ben definita, quelle funzioni di
contenimento e di controllo tanto dei deviazionismi trotzkisti, quanto degli
eterni fermenti delle popolazioni islamiche sottoposte al regime dei soviet.
Previsioni d'intesa elastica, come qualcuno l'ha voluta chiamare,
caratterizzante l'intero periodo della guerra fredda, logorata dai conflitti
est-ovest di bassa intensità, al culmine dei quali si sarebbe registrato il
crollo sovietico definitivo, grazie allo scaltro utilizzo della forza islamica
nella guerra afghana. La premessa serve a spiegare il grande timore equamente
condiviso da Stalin e da Gran Bretagna e Stati Uniti, che le venti divisioni di
musulmani filo-nazisti arruolati da Hitler alla fine del '42 e costituiti in
Waffen Islam SS del Kazakhstan, dell'Azerbaigian, Turkmenistan, Cecenia,
Dagestan, Uzbekistan etc. risultassero decisive per il successo del piano
hitleriano di penetrazione in Medio Oriente e per la conquista dei territori
petroliferi. Ecco la vera ragione degli accordi tra Stalin, Churchill e
Roosevelt, dei colossali aiuti americani alla Russia, della disfatta dell'Asse,
della tragedia dei Nostri Alpini sulle rive del Don e nel corso del drammatico
ripiegamento.
Vitali: E l'Italia di Mussolini poteva sperare nella promessa di una
concessione petrolifera dal governo iracheno?
Pucciarelli: Certo. Il Duce (che aveva finanziato in numerose occasioni
Al Husseini e Rashid El Gailani, quest'ultimo rappresentante del governo
iracheno in esilio)(*) contava di potersi rifare dello smacco subito dall'AGIP
nel '35, quando la nostra compagnia petrolifera possedeva il capitale di
maggioranza della BODC (British Oil Development Company) la quale estraeva il
greggio di Mosul e Quayara, lasciando il gravoso compito di pagare l'affitto
concordato con il governo iracheno alla sola AGIP. Circostanze che non furono
mai chiarite, pur essendo allora evidente nella questione l'intrigo architettato
ai nostri danni da un astuto Winston Churchill, indussero Mussolini a svendere
la quota di maggioranza dell'AGIP (il 56%), che fu subito incamerata dalla Iraq
Petroleum Company. Un errore di doppio peso, quello commesso dal Duce.
Attraverso la svendita della quota di maggioranza AGIP l'Italia ottenne un
limitato finanziamento per sostenere una parte delle spese previste per
l'impresa etiopica. Nell'occasione Mussolini non si avvide che l'imperialismo
vecchia maniera, consistente nella costosissima occupazione militare dei
territori era destinato all'insuccesso, mentre il neocolonialismo intrapreso
dalla Gran Bretagna con l'«ipocrita»(**) ma funzionale formula dello "Indirect
Rule" o del "mandato", le avrebbe assicurato il controllo delle aree ricche di
materie prime e di fonti di energia, mascherando opportunamente autentiche
politiche di aggressione con la pretesa di apporto di "liberaldemocrazia".
(*) Confronta il "Diario" di Ciano.
(**) Mussolini definì i mandati «ipocrite formule».
Vitali: Quali altri motivi sarebbero stati alla base della disfatta
italiana in Russia?
Pucciarelli: Non è difficile considerare l'enorme portata della
disastrosa Campagna di Russia sul piano politico e sociale, come causa
determinante di una svolta che si verificò nella vita del nostro Paese. La
sconfitta italiana era ormai certa su tutti i fronti all'inizio del 1943, ma gli
effetti della nostra disfatta in Russia sembrarono quasi calcolati sulla base
dell'importanza strategica e militare che Gran Bretagna e Stati Uniti
annettevano alla nostra Penisola sul Mediterraneo. Superfluo ricordare che
l'impatto del nostro disastro in Russia sull'opinione pubblica italiana avrebbe
provocato sdegno e pietà, insieme al desiderio di chiudere l'ultimo tragico
capitolo della guerra, rinnegando magari un passato scomodo, e predisporsi ad
accettare quei mutamenti che "giustificavano" e imponevano la collocazione
dell'Italia nello scenario di un nuovo ordine mondiale. Constatato questo,
considerata l'essenziale esigenza degli alleati di destituire Mussolini e di far
cadere il Fascismo ed osservata la quasi coincidenza di operazioni militari
alleate su fronti diversi, come lo sbarco americano in Algeria e Marocco del
novembre '42 e il contemporaneo ribaltamento della situazione a Stalingrado (che
con grande sorpresa volgeva da allora a favore dei Russi), è ingenuo non pensare
a sicure intese, in seguito precisate a Teheran, Casablanca e Yalta,
sull'opportunità di una concordata, comune azione "alleata" tesa prima a
sabotare e poi a distruggere le nostre Forze Armate, impegnate su diversi
fronti, ma specialmente quelle schierate sul fronte russo. A sostegno di questa
tesi intervengono, oltre a quelle già segnalate, osservazioni di carattere
generale su due eventi di enorme portata verificatisi all'inizio del 1900. Mi
riferisco al cambiamento del regime energetico e alla Rivoluzione Bolscevica.
Non è il caso di dilungarsi nella cronistoria degli sviluppi di queste due
"rivoluzioni", anche se i più attenti trovano nell'esame del loro intero
"excursus", da una parte elementi che avrebbero giustificato una criminale
politica di intrighi condotta ai più alti livelli per assicurarsi il controllo
assoluto delle fonti di petrolio, dall'altra i motivi sostanziali di una guerra
fredda iniziata molto prima del '45 e precisamente nel 1919; gli sviluppi
dell'una e dell'altra si intrecciarono a tal punto da rendere inestricabile la
soluzione compromissoria di troppi contrasti in una condizione di precaria pace.
Se per questa ragione la guerra fredda divenne bruciante per circa sei anni e
più di un patto col Diavolo fu stretto per conservare quei privilegi e vincerla;
quando tornò a raffreddarsi non divenne meno proterva ma fu condotta fino
all'epilogo del lungo scontro fra libero mercato e il sistema economico
pianificato della terra dei soviet, fra diritto di proprietà privata e la
proprietà di tutti e di nessuno. Risultato finale di tutto rispetto: il crollo
dell'Unione Sovietica e la recinzione armata di un'esclusiva, vasta "riserva di
caccia", la quasi totalità dei pozzi petroliferi esistenti al mondo. E infine il
fenomeno forse meno sorprendente: la crisi d'identità del Comunismo storico
europeo dai vari volti, incline a cercare nel centrismo odierno esigui spazi di
precarie formazioni di governo, al riparo dalle piogge sporche di una memoria
forse più scomoda di quella fascista, che ne rivela l'incapacità di svolgere un
ruolo in seno ad una funzionale sinistra, nella ancor vana ricerca di
comprendere i sostanziali equivoci della teoria marxista.
L'accenno alle fasi conclusive degli eventi politici del secolo scorso serve a
ricondurci al 1942, alla sconfitta italiana in Nord Africa e a quella che si
stava profilando in Russia, rendendo oggi possibile un approccio critico a
quelle vicende, allora pressoché impensabile. Il che ci autorizza perlomeno ad
osservare nel contesto bellico '42/43 la volontà degli Alleati di puntare sul
teatro di guerra italiano particolari attenzioni alla fase preparatoria, che
avrebbe preceduto l'intervento militare e la successiva occupazione del nostro
suolo, svolgendo a tal fine quell'intensa attività di propaganda antifascista
che doveva trovare sostegno e convincenti motivi sopra tutto nell'ecatombe
dell'ARMIR in Russia.
Le attenzioni inglesi sull'opinione pubblica italiana si coniugarono
perfettamente con le iniziative adottate dal sistema informativo anglo-americano
e degli stessi inglesi e si concretizzarono con la creazione di organismi con
speciali funzioni propagandistiche e il compito di svolgere una sistematica
azione di sabotaggio ai danni delle nostre Forze Armate.
Per fare un esempio una Sezione speciale operativa fu creata da Winston
Churchill a da Hugh Dalton nel luglio del '40, all'indomani dell'entrata in
guerra dell'Italia, e nel momento più critico per la Gran Bretagna, quando
grazie al patto di non aggressione russo-tedesco, il Premier britannico vedeva
Londra bombardata dagli Stukas della Luftwaffe, ben riforniti del petrolio
sovietico di Baku. L'iniziativa di Churchill in tale circostanza fu quella di
affidare ai "Baker Street Irregulars", così erano chiamati gli agenti della
sezione speciale, poi diventata SOE (Special Operations Executive), la
conduzione di operazioni di sabotaggio contro quello che egli chiamava «il
ventre molle dell'Asse», ovvero l'Italia. Ma il compito più importante che
costoro avrebbero dovuto svolgere consisteva nell'avvicinare gruppi di esuli
antifascisti in Francia anche in vista della costituzione di formazioni
partigiane, fin dall'inizio abbondantemente finanziate, che avrebbero trovato un
successivo impiego in territorio italiano. Altro compito del SOE era quello di
tastare il polso di alcuni vertici della Marina Italiana e dello Stato Maggiore
Generale che avevano mostrato avversione per i tedeschi e disaccordo con le
decisioni del Duce. (I nomi si sanno ma omettiamoli, ricorrendo al solito velo
pietoso!)
Ma non è tutto! Forte del fatto che nel '40 non esisteva ufficialmente uno stato
di guerra tra Gran Bretagna e Unione Sovietica e consapevole delle difficoltà
nel reperire altrove altrettanti possibili collaboratori di marcata convinzione
antifascista, ma anche propensi a privilegiare un' idea e una prassi, poste
comunque al di sopra di ogni sentimentalismo patrio, il Premier inglese puntò
tutte le sue attenzioni sui fuoriusciti italiani a Mosca, dando la stura alla
corrente più vasta ed efficace di un'opposizione estremista che, proprio perché
forzatamente contenuta entro gli argini "artificiali" di un patto inedito,
sarebbe stata usata nel momento propizio per contribuire all'avvio di una crisi
irreversibile che avrebbe determinato la caduta del Fascismo, concludendosi con
l'armistizio e la resa incondizionata di Cassibile. Se osserviamo le date del 25
luglio e del 3 settembre 1943 e poniamo i relativi eventi in relazione al
gennaio dello stesso anno e a quanto accadde e sarebbe poi accaduto in Russia,
non è difficile dedurre i motivi della presenza di un loquace Togliatti a
Salerno nell'aprile del '44, forte dell'intesa, concordata con Stalin, ma ancor
prima con Churchill e Roosevelt, e guadagnata dall'ineffabile Palmiro, con il
suo «buon lavoro» eseguito a gomito dell'NKDV e i particolari "servizi" che egli
rese ai nostri soldati, prigionieri dei lager sovietici.
Ma a parte questo, la svolta di Salerno dimostra che la proficua collaborazione
offerta agli alleati dai fuoriusciti italiani in Unione Sovietica non si limitò
alla prestazione delle "cure" riservate ai nostri soldati prigionieri in Russia,
ma iniziò molto prima. Precisamente quando Churchill, deciso ad eliminare
l'intralcio dell'Italia sulle rotte inglesi del Mediterraneo, propose anche ai
Partiti Comunisti clandestini di svolgere azioni di controspionaggio, lautamente
remunerate. Fra questi, anche al PCI di Togliatti, che, malcelando i sintomi
della sindrome da "disorientamento" causata dal patto scellerato
Ribbentrop-Molotov, trovò provvidenziale la richiesta di collaborazione inglese,
dopo che i flussi dei finanziamenti di Stalin ai fuoriusciti si erano interrotti
con la chiusura e confisca della Banque Commerciale de l'Europe du Nord di
Parigi da parte delle truppe di occupazione nazista. Questa banca, di proprietà
sovietica, sovvenzionava i partiti comunisti di mezzo mondo e faceva pervenire
cospicue somme di denaro al PCI clandestino, attraverso l'ambasciata sovietica
in Italia di Via Gaeta, 5 a Roma, almeno fino al 10 giugno del '40. La sua
chiusura creò ovviamente non pochi problemi a Togliatti e al suo seguito.
Vitali: Agli attenti servizi inglesi non saranno sfuggiti in
quell'occasione i segnali dell'imminente emanazione della direttiva n. 21 da
parte di Hitler, consistente nel piano di invasione dell'Unione Sovietica,
considerato l'atteggiamento dell'Ammiraglio Canaris e certe aperture
confidenziali in seno all'Abwher.
Pucciarelli: Ovvio. Ma in attesa del fatidico 22 giugno 1941, cioè
dell'avvio della "Operazione Barbarossa", l'attività di Churchill fu ugualmente
febbrile. Dopo aver superato le sue innate barriere ideologiche, egli decise di
superare anche quelle religiose (e razziali, se vogliamo) cercando la
distensione dei rapporti con gli arabi (che egli disprezzava) e in generale con
l'Islam. Informato infatti delle chiare tendenze filo-naziste del Gran Mufti di
Gerusalemme, Haj Alì Al Husseini, propose a costui una sostanziale riduzione
delle truppe britanniche presenti a Baghdad e a Mosul, e l'interruzione del
flusso migratorio di ebrei in Palestina, in cambio della sospensione delle
attività di propaganda e agitazione irredentista in pieno corso non solo fra i
musulmani sottoposti al "governo indiretto" britannico, ma anche fra le numerose
popolazioni islamiche dell'Unione Sovietica, contando sul carisma del Muftì per
convincere queste masse a "diventare" filo-inglesi e naturalmente sulla nota
venalità del religioso nell'accettare in cambio un lauto compenso. La proposta
creò seri trambusti negli ambienti diplomatici occidentali e le immediate
proteste dell'Organizzazione Sionista Mondiale, nonché delle Compagnie
Petrolifere angloamericane operanti in Iraq, perché fu accolta e in parte
attuata. I risultati furono nefasti per gli arabi e per gli ebrei, vittime
questi ultimi delle inasprite misure adottate da Hitler che lo indussero ad
affrettare i tempi della soluzione finale, poi precisati nella conferenza di
Wansee nel gennaio '42. Nella circostanza l'ambiguità e la doppiezza del Gran
Muftì non fu inferiore a quella del Premier inglese, perché da un lato la
proposta distensione ebbe l'effetto contrario fra i musulmani determinando
ulteriore fermento e punte di estremismo che provocò il raddoppio anziché la
riduzione delle truppe britanniche presenti in Iraq e in Palestina a tutela del
mandato. Ma procurò sopra tutto serie preoccupazioni a Stalin che inasprì il
trattamento riservato alle popolazioni islamiche sovietiche, ordinando le loro
deportazioni in massa. La circostanza pesò non poco nel suo mutato atteggiamento
nei confronti di Hitler, al punto da indurre Stalin ad avanzare assurde e
provocatorie pretese di poter procedere all'occupazione sovietica di una
consistente fascia territoriale balcanica con l'imprimatur del Fuhrer.
Il caso, insieme alla questione islamica, indusse Hitler ad affrettare i tempi
dell'attacco contro l'Unione Sovietica, anche perché il Gran Muftì, trasferitosi
armi e bagagli a Berlino dopo l'insuccesso della proposta inglese, garantì al
Fuhrer il sostegno incondizionato delle costituende armate musulmane che si
preparavano a combattere con entusiasmo e rinnovata fiducia al fianco della
Wehrmacht contro l'Armata Rossa, per liberare i loro correligionari delle
repubbliche sovietiche dal giogo politico staliniano e dall'oscurantismo ateo
dei comunisti. Hitler, è bene precisarlo, accolse di buon grado l'appoggio
musulmano, per le inderogabili necessità di petrolio occorrenti alle proprie
divisioni. Il suo piano di invasione prevedeva infatti una rapida corsa delle
Armate Centro e Sud verso il Mar Nero e il doppio passaggio dell'occupazione
nazista lungo la via del petrolio Bitumi-Baku con il finale ingresso dei Panzer
nazisti in Iraq attraverso la direttiva Baku-Tabriz-Baghdad. Il filo-nazista
iracheno Rashid El Gailani, col quale Mussolini aveva concluso felicemente le
trattative per il controllo italiano del Caucaso, sarebbe stato posto a capo del
governo di Baghdad e, dopo lo smembramento della Iraq Petroleum Company e la
costituzione di una Compagnia con capitale di maggioranza tedesco, Hitler
sarebbe corso ad occupare la Palestina. Queste naturalmente erano previsioni!
Churchill ottenne tuttavia in parte quello che voleva. Lo sventurato
coinvolgimento dell'Italia nella "Operazione Barbarossa".
Vitali: Quali sarebbero state le più vistose operazioni di sabotaggio
portate a termine ai danni del Nostro Esercito e della Nostra Marina?
Pucciarelli: È difficile rispondere. Direi che il fenomeno deve essere
osservato nel più ampio contesto della realtà dell'Italia fascista, dove
Ministeri, Enti preposti, Uffici e Organismi militari operavano a compartimenti
stagni, ciascuno attribuendosi limiti di competenza e reclamando autonomie e
autorità interne che non hanno certo giovato allo spirito di collaborazione
indispensabile in un Paese che si prepara a fare la guerra. Un Paese, l'Italia
di allora, oltre tutto poco incline nel settore della produzione di armamenti ad
adeguarsi ai criteri di continuo aggiornamento, essenziale in quel periodo. Il
che risulta inspiegabile se si pensa all'impresa etiopica e al nostro intervento
in Spagna. Ma a prescindere dallo strano e controproducente operato dello Stato
Maggiore Generale, è il caso di ricordare che l'industria italiana, salvo poche
eccezioni, era più propensa ad entrare nel libero mercato piuttosto che
mantenere i modesti sbocchi della propria produzione negli esigui ambiti
dell'economia autarchica di Mussolini. E qui per inciso notiamo che gran parte
della produzione di armi di Ansaldo, Oto Melara, Breda, Fiat, per citare le più
importanti, era destinata all'estero, con l'ovvio disappunto del Duce, il quale
dovette però adeguarsi a quella linea per via dei poco incoraggianti prospetti
di bilancio sottoposti alla sua attenzione dal Ministero Scambi e Valute.
Ipotesi apparentemente paradossali sono state avanzate da alcune parti, peraltro
attendibili, riguardanti la vendita di armi di fabbricazione italiana alla Gran
Bretagna nell'approssimarsi della rottura delle relazioni diplomatiche fra i due
Paesi e continuata anche in tempi successivi, all'insaputa del Duce. Restando
però nota nell'ambiente dello Stato Maggiore Generale la tattica inglese di
impiegare la nostra industria nella produzione di modelli vetusti e dalla
concezione superata, che la Gran Bretagna avrebbe comunque acquistato, con il
primario scopo di distogliere l'attenzione dei nostri tecnici industriali dalle
nuove e più aggiornate tecnologie già acquisite e prodotte dagli inglesi. Una
burocrazia notoriamente farraginosa ha poi complicato ulteriormente le cose,
allungando a dismisura i tempi della produzione e delle consegne di materiali
richiesti dai competenti settori dello Stato Maggiore e del Ministero della
Guerra. Questo stato di cose ha facilitato il compito di chi avesse voluto
portare a termine azioni di sabotaggio nel nostro Pese e sui fronti di guerra.
Credo sia il caso di accennare allo spionaggio che è risultato più dannoso per
l'Italia, quello a favore dell'Unione Sovietica.
Ricordando i noti informatori dell'NKDV, Ruggero Zangrandi, Giorgio Conforto e
Gaetano Fazio, non possiamo fare a meno di notare l'atteggiamento talvolta
tollerante del nostro SIM nei loro confronti. La collaborazione di costoro con i
fuoriusciti italiani in Russia e l'NKVD risalirebbe addirittura al 1941 e
sarebbe provata dal trattamento di "favore" riservato da Stalin ai vari
Togliatti, D'Onofrio, Bianco, Montagnana e Fiammenghi, diverso da quello
riservato invece ai comunisti fuoriusciti, tedeschi e ungheresi, e determinato
proprio dai proficui successi informativi ottenuti da spie operanti in Italia e
fuoriusciti italiani in Russia.
Nell'ambito delle "attività" dei fuoriusciti, non dovrebbe dunque sorprendere
più di tanto il fatto che l'invito alla diserzione perveniva in qualche modo ai
nostri soldati dello CSIR già nel 1941, allorché si raccomandava al nostro
combattente in Russia di liberarsi del barbaro aspetto di invasore e del veleno
fascista e consegnarsi a qualsiasi ufficiale dell'Armata Rossa, pronunciando la
frase convenuta: «Parlate di me al compagno Petrov!» (precise
testimonianze di Reduci dalla Russia lo provano).
Saldi e di vecchia data erano dunque i legami tra fuoriusciti italiani, NKVD e
spie operanti all'interno del nostro Paese. Rinnovati e potenziati poi
nell'ambito del "lavoro" di indottrinamento, con le minacce di ritorsioni sui
familiari dei prigionieri in Italia, nel corso degli interrogatori, nella
ricerca di delatori, nella costituzione di cospicui fondi destinati alla costosa
organizzazione delle cosiddette scuole antifasciste e alla pubblicazione del
giornale l'Alba.
Vitali: Per concludere possiamo fare un commento sull'appello che
Vincenzo Bianco rivolse a Togliatti, affinché i nostri Soldati prigionieri
ricevessero un trattamento più umano?
Pucciarelli: Dobbiamo aprire il capitolo più tragico e doloroso della
Campagna di Russia: la prigionia.
Le vicissitudini dei Nostri Soldati Prigionieri in Russia sono ampiamente
descritte nei 500 volumi della memorialistica.
Superfluo aggiungere altro.
Riportiamo solo per onor di cronaca i passi significativi della lettera del 31
gennaio 1943 che Vincenzo Bianco, dirigente italiano del Komintern, indirizzò a
Palmiro Togliatti, rivolgendo a questi un appello affinché la pur minima
iniziativa fosse presa dai "funzionari italiani" del Komintern, per alleviare le
sofferenze dei Nostri Soldati Prigionieri, sottoposti a prove di durezza
inaudita, e al fine di ridurre gli insostenibili eccessi di mortalità tra le
loro file.
Rivolgendosi al compagno Togliatti, scriveva allora Bianco:
«Ti pongo una questione molto delicata di carattere politico molto grande. Penso
che bisogna trovare una via, un mezzo per cercare, con le dovute forme, con il
dovuto tatto politico, di porre il problema, affinché non abbia a registrarsi il
caso che i prigionieri di guerra muoiano in massa, come ciò è avvenuto. Non mi
dilungo, tu mi comprendi, perciò lascio a te di trovare la forma per farlo».
Cosi Togliatti rispondeva a Bianco il 15 febbraio 1943:
«La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso
l'Unione Sovietica è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire.
Nella pratica però, se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza
delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire.
Anzi. E ti spiego il perché. Non c'è dubbio che il popolo italiano è stato
avvelenato dall'ideologia imperialista e brigantesca del fascismo. Non nelle
stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è
penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia
e degli intellettuali- è penetrato nel popolo insomma. Il fatto che per
migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini e soprattutto la
spedizione contro la Russia si concludano con una tragedia, con un lutto
personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti…
I massacri di Dogali e Adua furono uno dei freni più potenti allo sviluppo
dell'imperialismo italiano, e uno dei più potenti stimoli allo sviluppo del
movimento socialista. Dobbiamo ottenere che la distruzione dell'Armata
Italiana in Russia abbia la stessa funzione oggi… È difficile, anzi
impossibile, distinguere in un popolo chi è responsabile di una politica e chi
non lo è, soprattutto quando non si vede nel popolo una lotta aperta contro la
politica delle classi dirigenti. T'ho già detto: io non sostengo affatto che i
prigionieri si debbano sopprimere, tanto più che possiamo servircene per
ottenere certi risultati in un altro modo; ma nelle durezze oggettive che
possono provocare la fine di molti di loro non riesco a vedere altro che la
concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere
immanente in tutta la storia».
Lasciamo il commento di questa lettera agli Italiani!
Da parte nostra possiamo solo permetterci -credo sia legittimo- un commento
sulla personalità di chi l'ha scritta.
Nell'esordio, Togliatti mette bene in chiaro una cosa: il suo personale stato
di paura.
Considerando la posizione che egli occupa nel Kominter ha più ragione di altri
di temere. Pensa infatti che una richiesta del genere o sia una trappola dei
compagni che lo invidiano o un test che ne misuri la granitica fermezza e
l'idoneità a svolgere il ruolo di tutore del popolo e di "vate" del comunismo
(l'affiatamento tra fuoriusciti antifascisti italiani trovava la sua quasi
perfezione nelle disposizioni del famigerato articolo 58 della Costituzione dei
soviet). Egli si affretta subito a chiudere ogni spiraglio di sensibilità che
gli perviene proprio da un compagno di militanza politica (Bianco) il quale,
impressionato dal crudele trattamento riservato ai Prigionieri dell'ARMIR,
rivolge a Togliatti un appello umanitario e niente di più, al fine di vedere
solo minimamente alleviate le sofferenze dei nostri Soldati (sempre suoi
connazionali) e di ridurre in qualche modo il numero raccapricciante dei decessi
di Prigionieri Italiani che stava assumendo le dimensioni dell'ecatombe. Nella
lettera di Bianco si intravede fra l'altro traccia di quel minimo decoro
personale che dovrebbe avere qualsiasi carceriere e inquisitore e che invece
mancò agli aguzzini italiani fuoriusciti in Russia.
Le prime due righe della risposta di Togliatti si riducono ad una banale (e non
richiesta) dichiarazione di fedeltà a Stalin, vittima col suo grande popolo,
degli invasori fascisti o meglio del guarrafondaio Mussolini che li avrebbe
mandati ad occupare la Russia.
Aggiungendo che «è già stata definita da Stalin la posizione di principio
rispetto agli eserciti che hanno invaso l'Unione Sovietica», non fa altro
che trarre da uno stentorio sentimento di pietà, peraltro espresso da Bianco in
modo cauto e guardingo, l'opportunità di un ulteriore e scellerata
strumentalizzazione politica. Ma nel Togliatti che scrive queste righe, si
scorgono nel suo stato di paura, i tratti di una personalità modesta, con
spiccate tendenze al cinismo e alla vigliaccheria, congiunte alla convinzione di
potersi attribuire una profonda conoscenza dei manuali marxiani, (e hegeliani.
come vediamo più avanti) attraverso l'esercizio di una prassi e un'azione
politica di popolare respiro, sottovalutando però (o ignorando) i momenti
cruciali della scienza sociale, politica e filosofica, che mai sono disgiunte
dalla pratica morale, forse non necessaria a un leader, ma essenziale ad uno
statista autentico. Quando Togliatti scrive a Bianco le parole: «E ti spiego
perché», egli assume il ruolo di chi predica fede dal pulpito, riducendo la
sua opportunistica oratoria ad un servile atto di adulazione del suo unico,
terrificante dio: Stalin.
Ci sarebbe poi da chiedersi: dov'era il signor Togliatti quando l'Unione
Sovietica di Stalin dal 39' al '45 stava invadendo la Polonia, la Finlandia, le
Repubbliche Baltiche la Bucovina, la Bessarabia, la stessa Romania, e prima
ancora la Georgia, l'Armenia, Azerbajgian, il Kazakhstan, facendo strage delle
popolazioni e commettendo crimini di guerra e genocidi ineguagliati? Contro
quale veleno si doveva allora trovare il migliore e il più efficace degli
antidoti?
Ma poi ecco, chiara e lampante, emergere la funzione politica e
propagandistica dello sfacelo dell'ARMIR, dichiarata dal Signor
Togliatti e scritta con l'inchiostro criminale di questo "italiano", burattino
di Stalin e del socialismo reale.
Ho voluto insistere, nel corso di questa intervista, sugli effetti della
disfatta in Russia, definendola calcolata, prevista, provocata.
A Togliatti sentirei quindi l'obbligo di domandare: «Se Dogali e Adua
fermarono Imperialismo della Nostra Italia, che cosa avrebbe potuto fermare
l'imperialismo sovietico?»
Avrei anche pronta la risposta: la bomba atomica!
Quella di Hiroshima e Nagasaki, che non certo per pura fortuna, ma per calcolo
di precisi interessi, non cadde anche sul Kremlino e sull'Hotel Lux di Mosca.
Permettimi infine una breve nota sull'ultimo passo della lettera del Togliatti,
che così recita: «… ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine
di molti di loro (i nostri Soldati prigionieri nei lager sovietici) non
riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il
vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia».
La scelta da parte di Togliatti di disturbare, in quella vergognosa circostanza,
il "vecchio Hegel" mi sembra infelice e rischiosa, non essendo stato il
pensatore tedesco particolarmente ben visto fra gli intellettuali sovietici, per
via delle note preferenze monarchiche del filosofo, auspice fra l'altro di una
sicura conciliazione tra individuo e fede religiosa proprio nella dimensione
della Storia, in seno alla quale l'Uomo avrebbe cercato il proprio
perfezionamento.
Questo naturalmente a prescindere dagli equivoci intorno alla dialettica
hegeliana di cui furono autorevoli vittime il maturo Marx e un giovane Lenin,
fino a quando gli stessi sviluppi della "sinistra hegeliana" risultarono
indigesti al Marxismo che si affrettò a prendere nette distanze dal filosofo
tedesco e dalle sue scuole.
A nome dei nostri soldati prigionieri in Russia (nella cui morte il signor
Togliatti vedeva concreta espressione di quella "giustizia" immanente… nella
sua sola mediocre testa) vorrei infine suggerire a tutti gli estimatori
di questo ineffabile individuo un'attenta lettura delle pagine degli hegeliani
"Lineamenti di Filosofia del Diritto", in cui viene espresso l'autentico
concetto di Storia, come insieme di eventi che trovano una loro logica nel
rapporto causa ed effetto, non solo in termini temporali, ma anche morali,
prevedendo l'esistenza di quel "Tribunale del Mondo", come Hegel lo
chiamava, al di fuori degli sviluppi materiali della natura, ma nella dimensione
invocata nella fenomenologia dello spirito, quella che affida alla Storia il
compito esclusivo di emettere una definitiva sentenza di condanna o
assoluzione, proprio attraverso la manifestazione, o fenomeno, di concreti e
storici eventi.
Inviterei quindi costoro ad osservare da vicino le rovine dell'Unione
Sovietica e del Comunismo e a rivolgere alla memoria dei Nostri Soldati
dell'ARMIR quel segno di rispetto che ad essi il signor Togliatti non
ebbe il coraggio, o non si ritenne degno, di offrire.
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