Italia - Repubblica - Socializzazione
 

Rivista trimestrale
di formazione politica

Direttore responsabile: Romolo Giuliana
Amm: Roma,
via D. Fontana, 12

Anno I - n. 1
Febbraio 1969


SOMMARIO

Siamo noi a rispondere

Individuazione storica della trascendenza

Dittatura dell'intelligenza

Opportunismo, tradizione nazionale

Europa… rivoluzione

Clericalismo dei laici

La rivoluzione continua

Futurismotomia

Contestatio Italica
 


Siamo noi a rispondere


Qualche tempo fa, su una rivista di ex-fascisti che anelavano di reinserirsi nel sistema, fu svolto un lungo dibattito premuto sopratutto da elementi giovani, sul significato storico del fascismo, sulla sua attualità, dopo la catastrofe militare, e sulla sua autentica interprefazione. Ne uscì una grande confusione, tra ex-gerarchi sclerotizzati nel fanatismo, che si affannavano a sostenere la perenne continuità delle direttive del regime, e neofiti missini, dotati di sufficiente senso dello umorismo, che pretendevano una decente giustificazione dello squallore parlamentare in cui si crogiolano i grandi capi della restaurazione staraciana e della fedeltà cattolica ed occidentale. Vi fu un giovane, nella fase finale del discorso tra sordi, che implorò, a gran voce, chi avesse per caso capito cosa fosse il fascismo di volerglielo spiegare, poiché, di fronte alla traculenta pervicacia con cui i papaveri del missismo confindustriale insistevano a diffamare il più grande evento storico del secolo con la scusa di volerne godere l'eredità nella volgare traduzione dei benefici democratici e parlamentari, tratti dal suffragio degli ingenui o dei duri a morire, egli, povero giovane, non sapeva se essere indignato o divorato dalla nausea.
Non ritenemmo, allora, nostro compito partecipare al consulto preagonico del più grande equivoco della storia nazionale di questo dopoguerra, che ormai ripiega, melanconicamente, gli ultimi fogli di una partitura stonata, nel concerto di false libertà e di sconcertanti ipocrisie propinate dal «secolo americano» alla sua povera ed addormentata colonia europea. Ma, oggi, dopo che le ultime argomentazioni elettorali del povero Michelini hanno toccato il livello più basso di inattualità storica e di beotaggine politica, di fronte alla pretesa di puntare ancora il dito tremulo d'artrosi ideologica sul cosiddetto pericolo comunista, in un mondo in attività vulcanica che vede mutate le burocrazie marxiste in mummie reazionarie e denuda vergognosamente la violenza selvaggia dei padroni della ricchezza del mondo che uccidono senza pietà chi, anche per ambizione di baronie universali, poggia i suoi piedi sul consenso dei poveri e dei discriminati, riprendiamo la penna ed abbiamo intenzione di rispondere.
Lo sfacelo che sbalordisce le menti sprovvedute e provinciali dei moderati e dei clericali, il disordine apparente delle scosse telluriche che fanno della società umana in cui viviamo un mondo di vulcani politici, forse matura il trionfo di chi ha saputo attendere.
L'interpretazione autentica del Fascismo, il cui annuncio storico, sorretto da una grande intuizione, fu soffocato, quarantacinque anni orsono, dal compromesso con la monarchia bigotta dei Savoja, con la finanza e la borghesia, che l'ammorbidì e l'umiliò alla piatta manifestazione di regime, non manca nella mente dei pochi che non parteciparono alla fiera in liquidazione dell'imbonimento destrofilo sui crani sfuggenti di seguaci troppo piccoli per un'idea troppo grande.
Ma, forse, il discorso può iniziare da un ormai lontano episodio del 1944, quando nella sede del PFR di Maderno, un giovane pubblicista sedeva davanti alla scrivania di Alessandro Pavolini, intransigente e piuttosto fanatico segretario, ma dotato di vivida intelligenza toscana e di sensibilità alla cultura, per essere censurato di un suo articolo sconsacratorio scritto sul "Rengo" di Verona, il quale così si difendeva: «La differenza tra me e Voi è che Voi partite dal Fascismo mentre, io, al Fascismo ci arrivo, partendo da una concezione del mondo e dell'uomo, dalla trascendenza e dalla storia e, per caso, che reputo molto fortunato, mi incontro (ed, in questo momento mi scontro) con le intuizioni luminose di Benito Mussolini. È, forse, ora di iniziare il discorso.




Individuazione storica della trascendenza

Uno degli errori correnti dell'interpretazione pseudo-dottrinaria dello Stato fascista, che accomuna i devoti sentimentali e gli avversari rabbiosi, è che esso sia per destinazione tirannico ed autoritario, non solo, ma implica la dittatura personale del suo capo.
Tale errore ha radici psicologiche di suggestione storica, perché, di fatto, il regime fascista del ventennio fu attivo come dittatura «sine die» di Mussolini, a partire dal 3 gennaio 1925, e la diarchia dei poteri formali ebbe manifestazioni autoritarie di vero e proprio stato di polizia.
Ma l'equivoco non nasce solo dalla confusione possibile tra la teorizzazione filosofica dell'annuncio storico mussoliniano ed il suo regime personale del compromesso con le forze conservatrici della società italiana sorta dall'unità politica del 1870, ma, anche e sopratutto, dall'assunzione troppo rapida di prestiti filosofici da fonti preesistenti di dottrina che non reggono all'analisi critica, una volta registrati gli esiti purtroppo negativi nell'ordine pratico.
Mussolini, grande uomo d'azione, non sentiva l'esigenza della coerenza filosofica, tanto è vero che egli usava con eccessiva disinvoltura i termini di trascendenza ed immanenza, ma ciò non toglie che la sua intuizione dello Stato sia suscettibile di verifica filosofica, alla luce di una concezione del mondo, ridotta a perfetta unità.
Ed il suo errore dottrinario più cospicuo fu quello di credere che la filosofia dell'attualismo di Giovanni Gentile potesse identificarsi con la dottrina del fascismo. La teoria dell'autocrisi costituiva bensì l'ultimo grande sistema di filosofia tipicamente italiano e l'altezza morale oltre che intellettuale del suo autore è fuori discussione, ma la concezione della società che ne deriva, «in interiore homine», non è che una forma di super individualismo e pertanto la negazione dello Stato annunciato dal fondatore del fascismo e fin qui poco e male teorizzato.
Alla base della concezione fascista dello Stato è una visione religiosa della vita che esclude la superbia romantica dell'assolutizzazione dell'individuo.
Tale religiosità non è ovviamente da confondere con alcuna mitologia confessionale e pertanto nega le teocrazia e le intrusioni sacerdotali nella società. È la coscienza del limite umano, agli inizi del processo spirituale, l'invarcabilità dell'io che pone la condizionalità come trascendenza; ma è necessario riassumere i termini della sua possibilità storica.
Trascendente vuoi dire che «sta fuori», ma non basta; occorre il vincolo del condizionamento. Se la forma dell'immediatezza ed invarcabilità dell'appercezione originaria dell'io è funzione di due opposti, limite e condizionamento, di cui non è possibile cogliere l'identità, onde essa è di un rapporto metafisico, mentre l'impossibilità di cogliere tale identità è assoluta trascendenza, questa trascendenza è di una assoluta realtà, universale, condizionante ambedue i termini del processo, l'oggetto ed il soggetto, e contenente tutta la molteplicità individuale.
Questa molteplicità, a sua volta, realizza la comunicazione tra i soggetti, nell'integrazione processuale ed il condizionamento degli oggetti della attività spirituale, per cui tende a superare la sua struttura molteplice in unità.
Ciò può accadere, perché l'unificazione delle condizioni si manifesta concreta e reale e cioè come «individuazione storica».
La individuazione storica della trascendenza, però, non è più la realtà assoluta condizionante il processo in seno all'individuo, ma si manifesta con i medesimi caratteri di condizionalità, nei confronti della molteplicità individuale colta dall'integrazione processuale della storia, di quella assoluta.
Se, pertanto, nell'atteggiamento mistico dello spirito che da luogo alla religiosità circonfondente e fenomenologica di cui si diceva prima, la trascendenza è assoluta in rapporto al relativo, pura universalità nei confronti dell'individuale concreto, in quanto la sua unità ripone l'unità vivente dell'individuo, nel rapporto di condizionabilità con la molteplicità individuale, questa è racchiusa in un processo di universalizzazione, per individuazioni sempre più estensive, che sono il gruppo, la comunità, lo Stato.
Lo Stato, così concepito alla luce di una visione metafisica del reale che non si ferma all'attualità del processo storico, assolutizzato dall'idealismo, ma coglie i fermenti di tutto il pensiero filosofico contemporaneo, dallo storicismo di Dilthey al relativismo di Aliotta, dalla fenomenologia di Husserl alla gerarchia dei valori di Scheler, dall'aporetica di Hartmann allo stesso esistenzialismo europeo, rivalutato dalle più recenti considerazioni psicologiche di Merleau-Ponthv, e uno Stato che non conculca l'individuo, ma lo realizza compiutamente e cioè lo conduce alla sua vera libertà. Ove si cerca, difatti, l'essenza di quella condizionalità individuante che ha i medesimi caratteri della trascendenza, ma non comprende la posizione immediata dell'io, la relazione extraprocessuale ed il momento religioso dello spirito, incapace questo di sviluppo processuale e quindi sterile di fronte alla storia, si comprende con assoluta chiarezza, che la divinizzazione dello Stato (e, tanto meno, delle sue istituzioni) è impossibile.
In tal senso deve intendersi la tanto discussa libertà di coscienza, come autonomia del soggetto nell'attingimento dell'invarcabilità e della trascendenza, onde con Michoud si può affermare che «nessuna persona morale, nemmeno lo Stato, assorbe completamente la vita individuale dei suoi componenti».
Lo Stato, cioè, non può pretendere di attuare rivelazioni religiose, poiché, in tal caso, cadrebbe nella mitizzazione di tipo pagano, ma nessuna comunità può fondarsi sulla rivelazione religiosa, senza costituirsi in Stato terreno ed è la Teocrazia.
L'uomo integrale, nei suoi potenziamenti spirituali del pensiero, dell'azione e della fantasia, si realizza così tutto nello Stato, individuazione storica della trascendenza, ma proprio per la sua molteplice individuazione, questo non può condizionare l'autonomia del singolo nella intenzionalità o tensione finale di ordine assoluto e qui sta la perenne dignità della persona umana.
Autonomia e partecipazione necessaria si fondono, in tal modo, in un'unica registrazione della trascendenza.



Dittatura dell'Intelligenza

Noi non crediamo che i giovani costituiscano in sé una categoria od un ordine sociale che possa integrarsi o tantomeno opporsi ad altre categorie della società. Ove ciò fosse, verrebbe meno il concetto della integralità dell'uomo e verrebbe negata la sua spiritualità, in quanto il dato naturalistico dell'età anagrafica determinerebbe la presenza ed il potenziale d'integrazione, negando gli stessi valori individuali. Ci sono giovani malati e giovani imbecilli, che non possono costituire elementi positivi dell'inserimento umano nel corpo sociale, solo perché «nati dopo». Tuttavia, poiché nell'ordine fenomenologico la temporalità acquista quel valore trascendentale che è poi la storia, i nati dopo, cioè i giovani, purché siano capaci di instaurare quel rapporto di integrazione nella molteplicità che li renda autonomi ai fini della propria realizzazione individuale nello Stato, rappresentano pur sempre una concretizzazione di purezza delle intenzioni, per cui le loro esigenze debbono essere ascoltate. Ascoltate, s'intende, perché tornino a loro come incentivi ad operare nell'ambito di tutta la società. Accanto a palesi manifestazioni d'infantilismo e di immaturità, perciò, nei giovani di tutto il mondo, che si agitano, anche se mossi da meccanismi troppo palesi nelle mani di ben individuate fonti di alienazione, proprio quando sembrano proteste irrazionali e novità disintegratrici, affiorano nella cornice di contraddittorietà che li neutralizza, direzioni di marcia spirituale che, ben enucleate dal magma di quell'irrazionalità, possono costituire l'essenza di una nuova impostazione del problema rivoluzionario su tutti i fronti.
I recenti avvenimenti della Cecoslovacchia, ad esempio, che tutta la reazione occidentale, specie i papaveri del giornalismo italiano cosiddetto indipendente, vorrebbero forzare a conclusioni affrettatamente controrivoluzionarie hanno fornito indicazioni molto significative. Fra tutti i motivi della controversia tra vecchio e nuovo corso, crediamo che sia da porre in alto rilievo la contrapposizione della «dittatura» dell'intelligenza sulla «dittatura» del proletariato. La reazione rabbiosa di Mosca a tale alternativa indica di per sé il suo valore catartico su tutto il fronte rivoluzionario mondiale, ed è per noi l'inizio della nemesi storica, il trionfo delineato delle nostre tesi, lo spettrogramma della nostra lunga attesa.
A parte gli innegabili errori contingenti del metodo personale e gli effetti deleteri del compromesso borghese con i patriottardismi periferici dei Federzoni, con i machiavellismi provinciali dei conti di Merdano e con il vitellonismo agricolo dei Balbo che fecero fallire, allora, il patto di pacificazione con i socialisti, in che cosa consiste il valore profondamente spirituale del Fascismo, se non nell'aver indicato per primo che la rivoluzione sociale non poteva appendersi alla barba profetica di Carlo Marx, che non poteva raddrizzare la dialettica ma la affossava, definitivamente con la testa in giù, esaltando la taumaturgia della tuta e dei calli, amministrata dai sacerdoti della piccola borghesia laureata nelle aule universitarie dei preti, dei padroni, e delle sette internazionali?
Il superamento del marxismo, indicato da Mussolini è soprattutto supremazia dell'intelligenza e poiché, finalmente si legge sulle testate dei giornali borghesi che il colonialismo dell'era contemporanea è l'ignoranza, ben vengano a noi i giovani rivoluzionari che hanno capito, per operare se non la dittatura che è uno dogati almeno l'apporto dell'intelligenza.
 



Opportunismo, tradizione nazionale

Il successo riportato dal PCI nell'ultima competizione elettorale non ha sortito altro effetto che cristallizzare su certe posizioni un'altra considerevole massa di elettori, il cui voto non ha certo permesso al partito di uscire dall'isolamento in cui si trova.
Infatti, l'unica cosa certa che si può rilevare dall'incerto, e quasi iniziatico mondo della politica italiana, è che il partito comunista è completamente isolato, checché ne dicano le querule sibille della ormai putrescente destra italiana, sempre pronte, da anni, a denunciare all'opinione pubblica il minaccioso avvicinarsi alle fontane di piazza San Pietro dei feroci cosacchi, desiderosi di abbeverarvi i loro stanchi cavalli.
La manovra iniziata dalla Democrazia Cristiana nel 1963 (creazione della formula di centro-sinistra, avente lo scopo di allargare e rendere più forte la base di sostegno del governo e di allontanare -cosa questa assai più importante- sempre più i socialisti dai comunisti) si può dire ormai completamente riuscita.
L'esito del primo congresso dei socialisti unificati non lascia dubbi in proposito: al di là delle molte incertezze, appare evidente la volontà della maggioranza del partito di partecipare alla nuova edizione del centro-sinistra. Per vincere i complessi e le frustrazioni derivate dalle umiliazioni subite nella precedente esperienza di governo, essi hanno affermato risolutamente la volontà di non cedere più ai ricatti dei loro partners e di ottenere da questi precise garanzie per il futuro. Solo una esigua minoranza sarebbe disposta ad un lavoro comune con gli ex-compagni comunisti: la sparuta schiera dei seguaci di Lombardi.
Se l'isolamento di solito è un bene, e non un male, per una forza rivoluzionaria, questo fatto naturalmente non tange per nulla il partito comunista, in quanto niente vi potrebbe essere di più ingiusto della qualifica di rivoluzionario assegnata a tale partito.
La stessa matrice culturale del comunismo italiano, del resto, ha in sé i germi della involuzione piccolo-borghese del PCI: basta pensare alla notevole influenza esercitata dal pensiero di Croce sulla formazione di Gramsci e dello stesso Togliatti, e quindi alle inevitabili conseguenze sul piano del pensiero e della prassi.
Questo sul piano ideologico. Sul piano storico basta soffermarsi a considerare -al di là di esaltazioni retoriche e reducistiche- la massima espressione dell'azione comunista: la resistenza. Essa, in sostanza, non ebbe altra conclusione (come Bordiga ha sempre rinfacciato ai suoi ex-colleghi di partito) che l'affermazione di un certo tipo di borghesia su di un altro tipo, sempre a spese della classe operaia. Fu in realtà un fenomeno «gattopardesco»: si era voluto cambiar tutto per non cambiare nulla.

Il dialogo con i cattolici
Nel 1965 Pietro Ingrao proponeva al partito, per rompere la cintura sanitaria che lo circondava, la linea del dialogo con i cattolici. Sia con il grande partito cattolico, che con le frange dei cattolici del dissenso.
Se fosse possibile continuare il discorso con la Democrazia Cristiana e portare a buon fine l'operazione intrapresa, il PCI si troverebbe a gestire il potere immediatamente, ben inteso in condominio con la DC. Si tratterebbe in fondo di un nuovo tipo di centro-sinistra. È superfluo ricercare quale sarebbe l'effettiva autonomia dei comunisti in una simile formula di governo. La precedente esperienza dei socialisti insegni.
Ora, a ben considerare, le possibilità di riuscita di una tale manovra sono piuttosto scarse. Infatti l'atto del porgere la mano al PCI non è stato certamente dettato al partito cattolico da una profonda esigenza di carità cristiana: il tutto rientrava in un preciso piano politico. In fin dei conti non è stato altro che un ricatto nei confronti dei socialisti. Un ricatto che suonava pressappoco così: «State buoni, non esagerate con le vostre richieste, altrimenti vi scavalchiamo e ci accordiamo direttamente con i vostri amici di un tempo, i comunisti». Si ricordi, a prova di questo, che la DC tanto più si mostrava aperturista e possibilista nei confronti del PCI quanto più i suoi alleati di governo si mostravano irrequieti (ad esempio il discorso di Piccoli alla Camera in occasione della crisi SIFAR).
Ben più facile si rivela il dialogo con i gruppi del dissenso, sia che facciano capo a correnti all'interno della DC o delle ACLI, sia che si tratti di cani sciolti.
Questi gruppi benché siano impotenti a spingere il partito cattolico ad una reale intesa con i comunisti, sarebbero però disponibili qualora si venisse a creare un nuovo organismo politico in cui confluissero tutte le forze della sinistra.

L'unità delle sinistre
Passata in secondo piano, per le difficoltà incontrate, la linea che proponeva l'inserimento in una specie di centrosinistra allargato, la strategia radicale per l'unità delle sinistre, sostenuta all'interno del partito da Amendola, si è presa una rivincita sulle tesi di Ingrao, che tanta fortuna avevano goduto negli anni precedenti.
La creazione di un «partito unico dei lavoratori» che catalizzi intorno a sé tutte le forze della sinistra, viene considerata dai più l'unica realtà politica capace di scalzare la DC dalle sue più che ventennali posizioni di potere e di affidare finalmente e per la prima volta alla sinistra la gestione del potere. Raggiunta la direzione dello Stato si potrebbe forse realizzare quel pacchetto di riforme che già il centro-sinistra avrebbe dovuto attuare (revisione del Concordato, introduzione del divorzio, decentramento amministrativo con la formazione delle regioni, ristrutturazione nel campo economico e sociale e così via).
È bene riaffermare che -per quanto efficaci possano essere- le riforme non intaccano per nulla le profonde radici strutturali su cui poggia il sistema. Anche se si ottenessero con ciò alcuni miglioramenti nelle condizioni generali di vita dei lavoratori, non si sarebbe fatto un solo passo avanti verso la distruzione dell'«ordine» borghese e verso l'immissione sostanziale delle masse lavoratrici nella gestione del potere. Anzi, il sistema borghese capitalista -conquistata una maggiore rispettabilità con lo sventolare la bandiera di una ormai acquisita ed indiscutibile «giustizia sociale»- si rafforzerebbe al suo interno proprio per via di queste riforme che avrebbero, in ultima analisi, lo scopo di anestetizzare ancora più profondamente la coscienza delle classi fin qui escluse dalla vera politica con l'ipocrita e comodo paravento della democrazia mediata di tipo parlamentare.

PCI, socialdemocrazia, radicalismo
Il fatto che l'unità di tutto lo schieramento delle sinistre sia una esigenza sentita non vuol dire che gli altri partiti siano troppo d'accordo nel considerare il PCI quale «polo di attrazione a sinistra», formula con la quale si è voluta sintetizzare questa strategia del partito.
Nella strategia dei socialdemocratici e dei radicali è compresa la strumentalizzazione delle forze del partito comunista. Queste, inserite nel contesto del nuovo partito, verrebbero usate per la realizzazione dei loro fini. Punto di arrivo di tale strumentalizzazione sarebbe il definitivo inserimento del PCI nell'area cosiddetta «democratica» e, da un punto di vista ideologico, la sua totale «socialdemocratizzazione». A tale riguardo si ricordi, a mo' di esempio, il discorso tenuto da La Malfa nell'aprile del 1966 ai comunisti in un dibattito con Amendola, eterno amplificatore delle tesi «radicali» nel PCI. In tale discorso si precisava che in occidente l'unica sinistra può essere quella democratica, perché la sola capace di inserirsi nel sistema per modificarne le strutture e per correggerne il meccanismo di sviluppo. Da ciò conseguirebbe per il comunismo in generale la necessità di rifiutare le posizioni «rivoluzionarie», per il PCI in particolare, la necessità di piegarsi completamente ed unicamente alla funzione di sostegno dei «radicali» impegnati nel centro-sinistra.
Tale strategia rientra completamente, a livello mondiale, nel processo distensionista, teso alla ricerca di una inconfessata sintesi tra sistema capitalista e sistema socialista, da tempo in atto tra le due superpotenze imperialiste che nel 1944 a Yalta si spartirono il mondo in sfere d'influenza.

Prospettive unitarie
Il partito comunista è indiscutibilmente il più forte e il più organizzato tra quelli interessati all'unità. Stando alle dimensioni, nell'economia del nuovo partito dovrebbe esercitare un ruolo di priorità. Da qui la fonte di preoccupazioni per socialdemocratici e radicali che ha reso più difficile la formazione di questo nuovo strumento politico. Se prima delle ultime elezioni la meta era sembrata molto vicina, ora di unità si potrà parlare, se non interverranno ovviamente fatti nuovi, fra molto tempo e forse addirittura dopo le elezioni del '73. Ciò appare evidente dalle dichiarazioni rilasciate recentemente da La Malfa e da alcuni esponenti del PSU.
Infatti fra le condizioni ricercate per intavolare trattative più serie e conclusive vi era -oltre ad un ammorbidimento delle posizioni ideologiche e politiche del PCI- la necessità di un suo sensibile calo di elettori, che lo ponesse in condizioni di inferiorità (per lo meno psicologiche) di fronte ai suoi interlocutori, nonché un sensibile rafforzamento del PSU e del PRI. Ma i risultati delle urne, come è noto, hanno deluso i pronostici della vigilia.
Quindi, per il prossimo futuro, ogni passo verso l'unità, che non sia puramente tattica e contingente, è da escludere. Ciò non vuol dire che socialisti e radicali non abbiano intenzione di continuare il discorso con i comunisti. Anzi il dibattito su questo problema, nelle dichiarazioni di uomini politici e sulle colonne di giornali quale "l'Espresso" e "l'Astrolabio", si è fatto negli ultimi tempi sempre più intenso, e sicuramente aumenterà di tono col passar del tempo. I socialisti e i radicali sono consapevoli della attuale portata storica della unità della sinistra italiana, senza la quale, del resto, nessuna formazione partitica sarebbe in grado di raggiungere il potere con le proprie forze. E coscienziosamente si sono messi a lavorare per le prospettive che offre loro il futuro. Anche se per ora il lavoro in comune con i comunisti non può sfociare -per quanto detto sopra- in unità organizzativa, mantiene sempre una sua importante funzione. Quella di spingere sempre di più il PCI su posizioni riformistiche, approfittando di quella crisi del partito che è crisi non solo a livello politico ma anche, e soprattutto, a livello ideologico (come i fatti di Praga hanno drammaticamente messo in evidenza nei mesi scorsi).
Da parte sua il partito comunista -incapace di trovare una sua vocazione rivoluzionaria, con la minaccia di una spaccatura sospesa sul capo- si dimostra sempre più sensibile e recettivo verso quelle tematiche di importazione radicale e socialdemocratica che permeano ormai vasti strati dei suoi quadri. Cedendo via via alle lusinghe che vengono dal centro e alle suggestioni che vengono da sinistra, il PCI ha creduto di poter uscire dal ghetto in cui da venti anni si trova costretto, seguendo le due strade che gli si offrivano aperte. Così facendo, ha ottenuto in definitiva un solo risultato: quello di spingersi sempre più sulla strada di una lunga tradizione italiana: l'opportunismo.
 



Europa… rivoluzione

È coerente con la nostra concezione dello Stato l'unità Europea?
Una frettolosa corsa a posizioni di protesta e di costante opposizione al sistema democratico parlamentare potrebbe condurre ad affermare che l'EU dia un'immagine contraddittoria al processo di rivoluzione spirituale a cui noi tendiamo.
Ma si tratta del puro equivoco per cui quando si fa opposizione ad una idea la si fa sulla sua cattiva realizzazione che si ha di fronte.
L'Unità Europea, vagheggiata dai cosiddetti democratici provenienti dalla «Belle Époque», come Schuman e Carlo Sforza, era senza dubbio un tema reazionario che tendeva a riunire le forze capitalistiche del continente alla insegna dell'anticomunismo sistematico, per ribadire il regime dei padroni, nella massima concentrazione finanziaria possibile, nella tutela della colonizzazione americana.
In pratica, sarebbe stata un'organizzazione finanziaria, con capitali francesi, tecnici tedeschi e manovali italiani, per obbedire alle direttive anti-sovietiche del padrone d'oltre oceano.
La democristianeria italiana non gradiva, all'inizio, tale piano escogitato dalle logge massoniche occidentali ed era il tempo in cui veniva soppressa la rappresentanza personale del presidente americano presso il Vaticano. Successivamente le cose cominciarono a correre per altra direzione. Scomparsi per morte fisica i grandi venerabili della Sacra iniziativa privata e attenuatosi l'interesse strategico degli Stati Uniti al territorio europeo, l'unità fu vista come un unico lievito, capace di aggregare all'infinito il sistema economico del vecchio continente al neocapitalismo mondiale, di espressione consumistica, ed ecco che l'isola britannica esce dal suo isolamento ed annuncia la sua intenzione di rappresentare il predominio della lingua inglese nel contesto europeo. A questo punto si verifica il contraccolpo della vecchia borghesia continentale e si fa avanti la prosopopea napoleonica di De Gaulle, che ha comunque il merito dì rifiutare il ruolo coloniale dell'Europa. Ma con tutto questo alternarsi di colpi dei nascosti interessi delle antiche baronie, a cui dobbiamo le guerre degli ultimi 150 anni, l'idea europea subisce piuttosto un processo di ingarbugliamento che di chiarificazione.
Europa sovranazionale, federativa o gerarchica, delle patrie o dei prodotti agricoli è un guazzabuglio di ipocrisie e di volontà speculative nel quale si perpetua la perspicace insidia dei clericali dello stampo dei Colombo e dei Rumor, di ridurre, sempre più, con l'aria di parlare in grande e di cose impossibili l'area della repubblichetta italiana, suddivisa in regioni e consorterie, al regime della parrocchia, del terrorismo liturgico e della censura permanente. È, comunque, nella obiettività delle posizioni che risiede la impossibilità attuale di concludere una cosiddetta unità europea.
Non si ripetono eventi storici come quello della malcostruita unità politica italiana che fu risorgimento solo nell'afflato romantico dei poeti ed, in realtà, solo una surrettizia estensione a tutto il territorio della penisola del progetto mercantile di Cavour di offrire, al proprio re savoiardo, un modesto regno dell'Italia settentrionale.
L'unità europea è possibile solo se accetta il concetto fascista che è lo Stato che fa la nazione e per tale atto è necessario un amalgama spirituale che faccia degli abitanti di un territorio un popolo unico, mosso da un'idea rivoluzionaria che smuova dalle fondamenta la società fatiscente di tutti gli errori della storia.
La rivoluzione sociale, lo stato di popolo, la condizionabilità necessaria di un riscatto definitivo per la realizzazione di un uomo nuovo, questo sì che potrà condurre all'Europa del futuro.
 



Clericalismo dei laici

Se fenomeno appariscente vi è nella cosiddetta restaurazione democratica di questo dopoguerra, esso si configura con i caratteri di un clericalismo dilagante che supera i confini della sua accezione comune di pretesa teocratica dei cattolici militanti, per diffondersi quale «forma mentis» di tutti i moti intellettuali protagonisti del sistema, all'insegna della rabbia antifascista.
Ma è soprattutto nelle manifestazioni dell'arte, dalla letteratura narrativa al cinema, dalla pittura al teatro, dalla televisione alla stessa musica, seria e no, che si verifica Vatteggiamento ài ogni coscienza clericale, come fanatismo ideologico, contenutismo didascalico, moralismo poetico.
Ed è questo il vero cemento della costruzione surrettizia di coabitazione dello spiritualismo ipocrita dei bigotti e del materialismo volgare dei marxisti, che delizia il sistema suffragistico delle promesse dilatorie e delle sobillazioni statistiche in cui viviamo da più di venti anni.
Se, però, sembra naturale l'aspirazione dei guelfi a muovere dalle parrocchie per la riconquista delle cittadelle, che portano ancora i segni del lungo medioevo italiano ed europeo, per quanto antistorica sia la minaccia dei giudizi di Dio e delle intrusioni inquisitorie nelle vicende degli uomini del ventesimo secolo, equivoca e contraddittoria si presenta la sistematica d'azione dei laici di matrice leninista, quando, a sostegno delle direttrici di marcia che dovrebbero puntare sulla distruzione della società individualistica e borghese, mutua gli strumenti della penetrazione psicologica di tradizione tomistica, ossia del sistema empirico-nazionale che fu degli ordini religiosi regolari e del grande esercito dei Gesuiti.
C'è una giustificazione, alquanto spregevole, della tattica usata dai rivoluzionari nostrani, costretti ad agire con notevole profitto individuale in seno ad una società che devono distruggere, ad è bicornuta, in una punta di terrore per gli eventuali processi della direzione moscovita e nell'altra di illusione di mostrar fradicio ciò che semplicemente appartiene ad altra epoca della storia.
Comunque, i messeri dell'antifascismo che da ventitre anni non concludono nulla al di fuori della registrazione pura e semplice dei fenomeni quantitativi di derivazione tecnologica e strumentale, si sfogano nella casistica dei significati ed hanno soffocato, se non eliminato, il dominio della fantasia.
Dopo la ridicola pretesa di attuare «ricerche» di ordine sociale e di coscienza nazionale coi filmetti veristici di storielle casalinghe dell'ambiente romanesco, toscano o d'altra qualsiasi regionalità dialettale, ecco che i più istruiti di lettere sbagliate t'inventano il teatro, in cui non conta più l'opera compiuta nei mezzi d'espressione dell'azione e della parola, ma dal quale s'intende trarre la verifica di tesi balorde o rispettabili, nella edificazione dello spettatore ricondotto alla condizione di plebe ondeggiante nelle piazze delle sacre rappresentazioni.
Se un cattolico d'obbedienza, per la nuova alleanza tra ebrei e cristiani, ti re-inventa un processo a Cristo con appendice sulla cosiddetta resistenza degli italiani all'invasore, un acceso marxista ti adopera shakespeare come un qualsiasi accendimoccoli da strapazzo per ricalcare dalle sue vicende teatrali la lotta alla monarchia oppure il contrasto tra le generazioni anagrafiche dei giovani e degli adulti.
Così si assume la rudimentalità di un cantastorie di provincia a soggetto di una catarsi rivoluzionaria e le più elementari difficoltà della vita quotidiana, senza alcuna elaborazione fantastica o con intendimenti da presepe natalizio, diventano caposaldi d'intrattenimento televisivo.
Non mancano gli imbianchini ed i pupari dilettanti ai quali, purché disciplinatamente scrivano a stampatello su una tela un bel «dead» od un magnifico «kaput» si riconosce il titolo di pittore d'avanguardia in quanto, piantando un chiodo di traverso in un modo usato mai da altri, iniziano un discorso per cui essi «operano nel campo visivo» e «distruggono la pittura» per fare della propaganda elettorale tra gli sprovveduti dei quartieri alti.
E così via dicendo.
Fingono costoro di non sapere che il contenutismo in arte, pur se ricorre storicamente in alterne fasi del pensiero estetico, come ingrediente morale di reazione al dominio creativo della pura forma, sia stato definitivamente superato agli albori dello umanesimo e che una sua riassunzione poetica segni il puro e semplice ritorno alla confessionalità, alla verità rivelata, alla norma di coscienza eteronoma, all'intrusione dì caste sacerdotali, non importa se cristiane o marxiste, nel rapporto di manifestazione pratica tra individuo e società.
È significativo, in tal senso, che i marxisti di ogni colore mostrino un'ostilità preconcetta agli svolgimenti dottrinari che sì rifanno al settecento illuministico, con la scusa che esso ha i caratteri dell'individualismo. Ma, anche qui, commettono l'errore di ignorare che il laicismo, come rifiuto di una legge morale dettata da Dio sul monte Sinai e quindi come coscienza del limite umano, e nato nel secolo dei Lumi, banditore di ogni ingerenza clericale nella vita dei popoli e pertanto molto più moderno ed attuale di quanto pensano i «clerici vagantes» della rivoluzione sbagliata.
 



La Rivoluzione continua

Ogni guerra reca l'impronta delle condizioni politiche e sociali della epoca in cui si sviluppa. Non vi sono dubbi perciò circa il carattere rivoluzionario dei conflitti futuri, tenuto conto anche che il fenomeno guerra ha via via sempre più acquisito contenuti squisitamente politici.
Per «rivoluzionario» però non va inteso soltanto il rovesciamento dei canoni della strategia e della tattica tradizionali, ma soprattutto la preponderanza dell'elemento ideologico-politico su ogni altro fattore. In sostanza, al concetto di occupazione del territorio previo annientamento dell'esercito nemico, viene sostituito il concetto di conquista ideologica della popolazione avversaria mediante lo scardinamento ed il superamento dei postulati ideologici agitati dal nemico.
Più che le armi, quindi, si impose l'ergersi ad unici portatori di una ideologia le cui applicazioni politiche siano congruamente condivise ed attese dalle masse umane avversarie.
Queste essendo le caratteristiche della guerra rivoluzionaria, ne consegue la necessità di un nuovo tipo di condotta politica delle cose militari; condotta solo appena accennata nella ultima guerra mondiale con la presenza sui campi di battaglia delle SS e dei commissari politici, delle Brigate Nere e del nostro Servizio Ausiliario Femminile.
È da notare, per altro, che persino lo S.M. ha teorizzato la necessità -nella costituzione organica dei comandi in sede di guerriglia difensiva- di una non ben definita «premessa» di elementi civili: medici, scienziati, funzionari dello Stato, propagandisti, psicologi, insegnanti, esperti delle popolazioni e dei luoghi.
Tale impostazione tecnocratica del problema non può tuttavia essere condivisa, sia alla luce delle più recenti esperienze rivoluzionarie, sia in considerazione del preciso contenuto della Dottrina. Va pertanto subito riaffermata, come fattore essenziale di successo, la subordinazione della tecnica alla politica, dei militari ai militanti rivoluzionari.
Pur con competenze ed intuizioni militari assai diverse e, talvolta geniali, Trotski, Stalin, Mussolini, Hitler, Mao Tze Tung, Ben Bella, Castro, Tito, Buomedienne non furono e non sono militari.
Militari di carriera però furono gli sconfitti della Corea, dell'Indocina e dell'Algeria ai quali mancò la determinante collaborazione di militanti politici.
È accertato, del resto, che nella acquisizione di discipline militari possono rendere enormemente di più elementi politici, in pochi mesi di appassionata applicazione, di quanto non apprendano, nel corso della intera carriera, taluni ufficiali in s.p.e. di origine borghese e borghesi essi stessi nell'anima e nel costume.
Ovviamente la vittoria non sanzionerà, come per il passato, soltanto un nuovo assetto territoriale, bensì affermerà un nuovo ordine politico-sociale.
Nonostante le molteplici analogie con le guerre precedenti, la seconda guerra mondiale, soprattutto nella fase finale, è già una vera e propria guerra rivoluzionaria. Portatori di una rivoluzione da una parte, conservatori e falsi rivoluzionari dall'altra.
Piazzale Loreto, Norimberga e Sugamo, costituendo episodi del temporaneo arresto di una rivoluzione mediante la eliminazione fisica delle intere classi dirigenti sconfitte, non possono essere considerati come epilogo di una guerra tradizionale.
Episodi, quindi: la rivoluzione continua.
In ciò risiede il cardine fondamentale della «nostra» guerra rivoluzionaria che vedrà ancora schierati, l'uno contro l'altro, i possessori dei maggiori beni del globo (oro, carbone, acciaio, petrolio, energia atomica), sostenuti dalla falsa rivoluzione comunista, figlia del capitale e capitalista essa stessa ed i popoli della rivoluzione dello spirito votati alla conquista di un nuovo ordine umano, religioso, politico, sociale ed economico.
Riaffermata la nostra disponibilità anche nella ripresa della lotta armata per il trionfo della Causa, il problema che si pone è triplice:
a) realizzare la preponderanza ideologica sul nemico, mediante la costante messa a punto di tesi politiche in armonia con i principi della Dottrina;
b) risvegliare il sentimento della rivincita europea contro un verdetto che ci vide sconfitti solo militarmente;
e) preparare gli uomini e predisporre i mezzi necessari alla lotta.
Presupposto irrinunciabile della Dottrina -giova rammentarlo- è che si deve forgiare il destino e non subirlo.
Visto il quadro delle guerre attuali è da ritenere che quelle future, nella loro sempre più completa totalità, saranno vicende di una drammaticità inimmaginabile e, pertanto, esigeranno dei combattenti dotati di sempre maggiore completezza psicofisico-spirituale. In essi verranno impegnate tutte le molteplici componenti della personalità.
Rivoluzionari integrali, i futuri combattenti saranno inclini sia verso le più ardite applicazioni tecnologiche, che verso le più elevate armonie spirituali. Il loro servizio, in pace e in guerra, avrà il carattere del più completo volontarismo e della totale dedizione alla Causa.
Sono stati rivolti al nostro ambiente vari studi sulla guerra rivoluzionaria, ma non è stata formulata una «risposta» adeguata alle nostre reali condizioni psicologico-organizzative. Sono state proposte «risposte» che non possono essere le «nostre» risposte. Queste infatti risultano condizionate ed avvilite da fattori contingenti, nonché pesantemente limitate al puro e semplice esame di aspetti tecnici e psicologici delle guerre di sovversione poste in atto da uno dei due blocchi nelle sfere di influenza dell'altro e ne risulta una guerra rivoluzionaria intesa come un tipo di «guerra», condotta da squallidi sovversivi atti solo a «condizionare» e a «terrorizzare» psicologicamente l'avversario e, quindi, incapaci di concepire e di condurre combattimenti con autentica fierezza e generosità guerriere, con tutti i mezzi ed in qualsivoglia condizione, per il trionfo di una causa nobile e giusta.
Un tipo di guerra per sovversivi di sinistra e di destra e non per i nuovi combattenti rivoluzionari europei.
Persino M. Dayan, che evidentemente nutre una profonda avversione per la guerra rivoluzionaria (ingeneroso sentimento proprio della sua razza per tutto ciò che sa di abnegazione e di eroismo), cosi ha recentemente definito la guerriglia:
«È la guerra del deboli, ma non una guerra debole».
I combattenti rivoluzionari hanno però già appreso che con un rudimentale barchino possono -in pochi minuti- annientare una nave lanciamissili, cosi come -mediante l'impiego di poche squadre di arditi- è possibile paralizzare, colpendone intelligentemente i servizi logistici, una divisione corazzata.
Dalla insulsa interpretazione di «guerra debole» e di «guerra minore» ha preso consistenza il convincimento che la guerra rivoluzionaria sia un facile argomento da salotto o da circolo ricreativo. V'è poi chi, più furbescamente, l'ha considerata un espediente per strani giochi para-politici volti a coinvolgere tutto il nostro ambiente nel contesto di un velleitarismo di destra privo di consistenza e di prospettive.
Constata l'esistenza dei due blocchi attivamente cooperanti al mantenimento dello «status» di Yalta, non rimangono che due vie: quella dell'autonomia completa e quella della collaborazione con quello che sembra il meno nemico dei due blocchi, ma che, in realtà, è il solo vero nemico, uno essendo il nostro nemico russo-americano.
Non v'è dubbio, comunque, che l'accettazione di tali tesi da parte delle nostre esigue forze equivarrebbe al sicuro suicidio.
In qualsiasi tipo di guerra si ha l'obbligo essenziale di conoscere inequivocabilmente il nemico da combattere. Noi lo individuiamo tanto nell'occidentalismo, quanto nel comunismo; tanto nelle forze della NATO, quanto in quelle del Patto di Varsavia ed in tutti i rispettivi partigiani di destra e di sinistra.
Nonostante il fatto positivo di aver ri-sensibilizzato molti tra noi ai problemi di indole militare, tali iniziative hanno tuttavia suggerito atteggiamenti controrivoluzionari e contribuito non poco al diffondersi di stati d'animo di inconcepibile sudditanza verso uno dei blocchi.
Ciò soprattutto per aver proposto l'adesione alle dottrine dell'occidentalismo e dell'anticomunismo (vecchio e nuovo). Dottrine poggiate -all'interno- sul potenziamento delle FF.AA. e di altre istituzioni del sistema e -all'esterno- sul rafforzamento politico-militare della NATO.
A nostro avviso, una fazione veramente rivoluzionaria, pena la squalifica, deve saper scartare le tesi di collaborazione e di compromesso per disporsi autonomamente ad uscire allo scoperto.
Altra sola alternativa: rinunciare ad ogni disegno di rivincita ed abbandonare il campo.
Ciò stante, appare chiara la necessità e l'urgenza di riconsiderare tutto il problema «guerra rivoluzionaria» e di porlo finalmente su basi «nostre», per contare su quanti sono «nostri» e su altri che possono diventare «nostri» (giovani soprattutto) i quali, al di sopra di avvilenti manovre politiche, siano animati da sincera volontà di battersi.
Gli espedienti tattici potranno aver luogo nelle fasi successive e solo se impostati su veri rapporti di forza e su lucide valutazioni politico-militari.
Il nostro ambiente deve riprendere coscienza di essere una minoranza che, pur essendo in possesso di validissime ragioni storico-politiche, non è in grado di farle valere. L'aver dimenticato questa realtà e l'aver disperso forze in manovre poco ortodosse, ha prodotto lo slittamento su posizioni di agnosticismo e di collaborazione, precludendo così ogni possibilità di proficuo dialogo con la gioventù rivoluzionarla, che vuole combattere per un avvenire pulito e liberamente scelto.
Altra verità che non deve essere taciuta è che siamo bloccati da troppo tempo nella fase della radunata delle forze ancora divise da assurdi personalismi.
Basti pensare all'abulia di certi nostri ex-comandanti, al cannibalismo elettorale di certi ambienti ed al fatto che ancora circolano tra noi individui disposti a far credere che Salazar, Franco, De Gaulle, i mercenari e persino i colonnelli greci manovrati dalla CIA, siano fascisti.
In questa fase, che difficilmente sarà superata senza altre dolorose lacerazioni, è pazzesco solo pensare a manovre di sorta.
Radunare le forze quindi, ma non intorno a personaggi per altro discussi e veramente assai discutibili (come si va tentando), bensì radunarle intorno a programmi realistici scaturiti da idee chiare o da lucide volontà rivoluzionarie.
S'è sempre detto che ogni cura ed energia vanno rivolte alla gioventù. Ma, se non si vuole ricadere nel pernicioso missismo ed in altre forme di dilettantismo, i giovani vanno avvicinati e preparati con estrema serietà, con l'esempio costante e sincero e non senza indiscusse doti di carattere e capacità rivoluzionarie, essendo insufficiente il solo proselitismo di una Dottrina ormai poco conosciuta ed ancor meno vissuta con adeguata dignità.
Chi non crede più è fallito in partenza. Chi non crede più, bene farebbe a togliersi di mezzo.
 



Futurismotomia

Uno dei tentativi più cospicui dell'antifascismo viscerale è quello di negare che il regime abbia posseduto un afflato culturale, dovendosi accettare l'ipotesi che Mussolini ed i suoi seguaci abbiano costituito complessivamente una banda di filibustieri senza conoscenze grammaticali.
In sede politica e sociale basta, però, indicare come "Legge Serpieri" la legge Mussolini del 1933 sulla Bonifica integrale perché la mistificazione acida si riversi sulla gioventù studiosa, mentre sul piano propriamente culturale non è tanto facile convincere che Giovanni Gentile, Giotto Dainelli, Guglielmo Marconi, Pietro Mascagni, Luigi Pirandello, Gioacchino Volpe, Gustavo Giovannoni, Mario Sironi, Pietro Carena ed altri fossero degli analfabeti.
Il colmo del ridicolo però viene attinto dai mandarini della clerical-democrazia nel campo dell'arte, dove, spesso, lo stesso mercato dei consumi ha reso giustizia dell'ostracismo a cui erano stati condannati i capolavori del novecento pittorico facendoli assurgere a quotazioni elevatissime, oppure la critica storica ha assunto a caposaldi della spiritualità antifascista una "Casa del Balilla" del 1930, solo perché l'architetto Terrani è morto in Russia e non può protestare.
Caso tipico è, tuttavia, quello del futurismo italiano, che, dopo un tentativo di oblio da parte dei bonzi psicanalitici, dei pianificatori psichiatrici, e degli stregoni psicotici, perché intimamente connesso con l'attivismo post-romantico del primo novecento, all'improvviso viene rivalutato e sbandierato come uno dei caposaldi dell'avanguardia internazionale e si scrivono testi autorevoli, si allestiscono mostre retrospettive e, perché no, anche celebrazioni televisive.
La nota costante di tale restauro, di per sé pregevole negli effetti, anche se tendenzioso nelle intenzioni, somiglia molto a quella degli affreschi, che si separano dal muro col sistema del distacco e se, per esempio, nel suo contenuto celebrativo esalta troppo le gesta di un signore del Rinascimento che fu indomito e ribelle all'autorità pontificia, si scopre come la sinopia sottostante rappresenta un angelo Gabriele molto interessante, cosicché l'affresco passa in una sala buia del museo ed il trionfo della fede resta immune da intrusioni umanistiche troppo accentuate.
L'operazione chirurgica a cui si vuole sottoporre il futurismo italiano, come movimento rivoluzionario e di avanguardia di valore universale, da cui dipendono tutte le manifestazioni valide dell'arte contemporanea, è quella di una vera e propria resezione del fondamento spirituale che lo sostiene e delle sue proiezioni politiche e sociali.
Il non farlo sarebbe altamente pericoloso, poichè si verrebbe a riscoprire per gli sprovveduti e gli immaturi che il fascismo delle origini è artisticamente rivoluzionario, e che i futuristi della prima e seconda generazione, ove non siano morti in guerra, furono in gran parte fascisti convinti e militanti. A partire dal suo capo, F. T. Marinetti, accademico d'Italia, la cui vita si conclude in territorio della RSI con i funerali a spese dello Stato
Puntando sulle virtù camaleontiche degli intellettuali italiani e sulla sprovvedutezza festaiola delle masse, il gioco riesce a più riprese, per figure e personaggi di alto valore, come Petrolini, per il quale si assicura il trionfo ma ci si meraviglia come «un uomo così intelligente abbia potuto essere fascista» con Pirandello, del quale non si può negare la priorità, rispetto a T. Wilder, nell'impianto di una tecnica teatrale metafisica, per cui si lascia cadere nel silenzio lo squittio d'anatra spennata di Mario Soldati che protesta perché l'autore de "I giganti della montagna" è spregevole in quanto non fingeva, come gli altri, di essere fascista, ma lo era veramente.
Ma per Marinetti ciò non è possibile. Rimane, accanto alla poesia parolibera ed all'azione di rottura di tutta la sua vita, la sua stessa produzione letteraria ed il suo stato di servizio accanto a Mussolini.
Il suo fondamentale saggio, difatti, che conserviamo nelle nostre biblioteche, ha per titolo "Fascismo e Futurismo" e le sue prime esperienze di piazza sono le manette della polizia regia che lo conducono a S. Vittore, insieme con Mussolini.
Il tentativo è ridicolo ed è destinato a ripristinare, per virtù irresistibile di testimonianze e pensieri, la verità nei suoi termini.
Il Futurismo ha il suo valore di annunzio rivoluzionario nell'arte ed ha i suoi limiti nelle manifestazioni individuali, il Fascismo ha l'essenza dell'annuncio storico di un nuovo rapporto tra l'individuo e lo Stato ed ha i suoi limiti nel compromesso con l'antica società e negli errori degli uomini. Ma, nel loro contenuto spirituale di avanguardia italiana del secolo, emanano dal medesimo atteggiamento e sono inscindibili. Illudersi di ottenere ciarlatanescamente resezioni per ingannare i recettivi della propaganda e del consumo è da filibustieri della cultura e da imbonitori di aste, la cui capacità di mistificazione è labile e disordinata. Fa ridere i più piccini.
 



Contestatio italica

Nel termine contestazione si riassume e, vanificata, si degrada, la rivolta contro il vigente sistema politico-morale.
Nel Vietnam ed in Cecoslovacchia ci si fa bruciare vivi; nel mondo occidentale ed in particolare in Italia, tutto scorre nel migliore dei modi. Non solo, ma la contestazione è una valvola di sfogo per una società opulenta che non trova in se stessa la via della salvezza, prigioniera come è dei propri miti, (populismo, rivendicazioni salariali, la povertà e la fame, la resistenza) miti fittizi, alieni da qualsiasi aggancio con la realtà sostanziale dell'uomo. La contestazione viene accettata dalla comunità nella quale si presenta, come il peccato viene accettato nella Chiesa.
Tanto, prima o poi, si arriva al confessionale, o al suo parallelo protestante: il lettino dello psicanalista.
In Italia poi, il tutto prende i toni melodrammatici congeniali al nostro modo di vivere le cose politiche, con ampi resoconti sulle riviste da salotto. Gli è che noi, non siamo di una pasta eccessivamente solida.
È stata fatta, in Germania, una inchiesta fra i giovani su cosa pensassero dei vari popoli della Terra. Noi Italiani siamo giudicati pigri, senza puntualità, incapaci di applicazione: un popolo di venditori di gelati, commercianti di spaghetti, e cantanti. È la verità e non bisogna arrossirne, e probabilmente lo siamo tanto più quanto più di fronte a questi giudizi degli altri sbuffiamo e ci diamo a paroloni d'effetto.
In sostanza, la reazione delle forze, radicali comunisti compresi, ai primi accenni di contestazione, facendosi portavoce delle richieste più contingenti e pressanti e concedendo il proprio appoggio alla battaglia rivoluzionaria è riuscita a vanificare le possibilità creatrici di un movimento di giovani che dalle forze intatte della gioventù avrebbe potuto trarre una ragione reale di vita e di lotta.
In più, l'azione degli anarchici ebrei, tipo Coen Bendit, che la stampa mondiale ha presentato come capi del movimento studentesco ha ulteriormente portato su una strada vuota la rivolta.
Ma se ciò si è verificato la verità vera è che il radicalesimo ha trovato il terreno adatto per questa operazione, e che gli altri partiti politici impegnati nella operazione hanno trovato una sia pur piccola base disposta a seguirli sulle loro solite tematiche. Come è stata percepita questa contestazione dalla più parte degli Italiani? «Più pane, salario da poter permettere anche agli operai di gustare gli stessi divertimenti dei borghesi, pace, meno studio, meno applicazione e meno esami», come se la vita potesse essere un sarcofago nel quale far macerare tranquillamente l'ammasso di carne che ci contraddistingue, alla vista, dagli altri. Ciò deriva in primo luogo che noi non abbiamo superato affatto la fase del consumatismo, anzi, ci stiamo comodi dentro e non ne sentiamo ancora nella carne il folle peso, come in Vietnam ed in Cecoslovacchia sentono il tallone straniero.
Ma poi bisogna scavare più sotto, arrivare al carattere che è in sostanza ciò che muove qualsiasi uomo. E il carattere dell'italiano medio è ben descritto dalla opinione dei giovani tedeschi.
A questo punto si pone per noi tutti il dovere di un sereno meditato profondo esame di coscienza. Non collettivo, ma individuale.
Occorre infatti che ciascuno di noi si chieda in realtà fino a che punto il suo fascismo è espressione di una esigenza sentita oppure è soltanto revanchismo o, peggio ancora, nostalgismo. Perché la misura della nostra possibilità, più che nelle idee, siamo noi stessi e la nostra voglia di realizzarle o no.
Oggi veramente noi possiamo perdere definitivamente Mussolini per non ritrovarlo più.
Noi dobbiamo poter verificare fino a che punto il nostro nazionalismo nasconda a noi stessi che noi difficilmente potremo realizzare con l'italiano medio il tipo d'uomo che noi aspiriamo; d'altro canto dobbiamo veramente renderci conto quanto una concezione aristocratica e tradizionale dei rapporti sociali rappresenti di fuga dalla realtà.
Noi abbiamo finora perduto il nostro tempo nello sforzo di far combaciare la realtà esteriore con ciò che noi vorremmo essere. Il nostro successo invece è solo legato ad una spietata e precisa analisi della realtà che ci circonda ed a una decisa e vera volontà di servircene.

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