Ricapitoliamo
Azimut riprende le sue pubblicazioni dopo una forse non breve
interruzione, durante la quale ha riordinato le file della sua redazione, ed
assume una veste definitiva, rispetto al fine che si propone di una
chiarificazione storica, dottrinaria, politica del Fascismo.
Nel frattempo, l'evento politico ed organizzativo più cospicuo in seno alla
F.N.C.R.S.I., di cui questa rivista è, per ora, organo ufficioso, appare
l'elezione alla Presidenza di Giorgio Pini, la cui personalità non ha bisogno di
precisazioni.
Rivolgiamo a lui il saluto e l'auspicio di una sempre più distinta
caratterizzazione politica della Federazione, perché non si confonda con le
posizioni reazionarie di chi, a torto, si rifà alle stesse origini.
La Direzione Nazionale, riunita a Bologna il 31 gennaio 1971, sotto la
Presidenza dello stesso Pini, ha stilato un documento politico che esprime, in
forma categorica, direttrici ideologiche e programmatiche condivise da questa
rivista.
Allo scopo di riannodare il discorso, che avevamo cominciato, ristampiamo i
capitoli fondamentali, di carattere dottrinario, della nostra interpretazione,
già pubblicati nei numeri precedenti.
Individuazione storica della trascendenza
Uno degli errori correnti della interpretazione pseudo dottrinaria dello Stato
fascista, che accomuna i devoti sentimentali e gli avversari rabbiosi, è che
esso sia per destinazione tirannico ed autoritario, non solo, ma implichi la
dittatura personale del suo Capo.
Tale errore ha radici psicologiche di suggestione storica, perché, di fatto, il
regime fascista del ventennio fu attivo come dittatura "sine die" di Mussolini,
a partire dal 3 gennaio 1925, e la diarchia dei poteri formali ebbe
manifestazioni autoritarie di vero e proprio stato di polizia.
Ma l'equivoco non nasce solo dalla confusione possibile tra la teorizzazione
filosofica dell'annuncio storico mussoliniano ed il suo regime personale del
compromesso con le forze conservatrici della società italiana sorta dall'unità
politica del 1870, ma, anche e sopratutto, dall'assunzione troppo rapida di
prestiti filosofici da fonti preesistenti di dottrina che non reggono
all'analisi critica, una volta registrati gli esiti purtroppo negativi
nell'ordine pratico.
Mussolini, grande uomo d'azione, non sentiva l'esigenza della coerenza
filosofica, tanto è vero che egli usava con eccessiva disinvoltura i termini di
trascendenza ed immanenza, ma ciò non toglie che la sua intuizione dello Stato
sia suscettibile di verifica filosofica, alla luce di una concezione del mondo,
ridotta a perfetta unità.
Ed il suo errore dottrinario più cospicuo fu quello di credere che la filosofia
dell'attualismo di Giovanni Gentile potesse identificarsi con la dottrina del
fascismo. La teoria dell'autoctisi costituiva bensì l'ultimo grande sistema di
filosofia tipicamente italiano, e l'altezza morale oltre che intellettuale del
suo autore è fuori discussione, ma la concezione della società che ne deriva,
"in interiore homine", non è che una forma di superindividualismo e pertanto la
negazione dello Stato annunciato dal fondatore del fascismo e fin qui poco e
male teorizzato.
Alla base della concezione fascista dello Stato è una visione religiosa della
vita che esclude la superbia romantica dell'assolutizzazione dell'individuo.
Tale religiosità non è ovviamente da confondere con alcuna mitologia
confessionale e pertanto nega le teocrazia e le intrusioni sacerdotali nella
società. È la coscienza del limite umano, agli inizi del processo spirituale, la
invarcabilità dell'io che pone la condizionalità come trascendenza; ma è
necessario riassumere i termini della sua possibilità storica.
Trascendente vuol dire che "sta fuori", ma non basta; occorre il vincolo del
condizionamento. Se la forma dell'immediatezza ed invarcabilità
dell'appercezione originaria dell'io è funzione di due opposti, limite e
condizionamento, di cui non è possibile cogliere l'identità, onde essa è di un
rapporto me-tafisico, mentre l'impossibilità di cogliere tale identità è
assoluta trascendenza, questa trascendenza è di una assoluta realtà, universale,
condizionante ambedue i termini del processo, l'oggetto ed il soggetto, e
contenente tutta la molteplicità individuale.
Questa molteplicità, a sua volta, realizza la comunicazione tra i soggetti
nell'integrazione processuale ed il condizionamento degli oggetti della attività
spirituale, per cui tende a superare la sua struttura molteplice in unità.
Ciò può accadere perché l'unificazione delle condizioni si manifesta concreta e
reale e cioè come "individuazione storica".
La individuazione storica della trascendenza però non è più la realtà assoluta
condizionante il processo in seno all'individuo, ma si manifesta con i medesimi
caratteri di condizionalità, nei confronti della molteplicità individuale colta
dall'integrazione processuale della storia, di quella assoluta.
Se, pertanto, nell'atteggiamento mistico dello spirito che dà luogo alla
religiosità circonfondente e fenomenologica di cui si diceva prima, la
trascendenza è assoluta in rapporto al relativo, pura universalità nei confronti
dell'individuale concreto, in quanto la sua unità ripone l'unità vivente
dell'individuo, nel rapporto di condizionalità con la molteplicità individuale,
questa è racchiusa in un processo di universalizzazione, per individuazioni
sempre più estensive, che sono il gruppo, la comuni-tà, lo Stato.
Lo Stato, così concepito alla luce di una visione metafisica del reale che non
si ferma all'attualità del processo storico, assolutizzato dall'idealismo, ma
coglie i fermenti di tutto il pensiero filosofico contemporaneo, dallo
storicismo di DiIthey al relativismo di Aliotta, dalla fenomenologia di Husserl
alla gerarchia dei valori di Scheler, dall'aporetica di Hartmann allo stesso
esistenzialismo europeo, rivalutato dalle più recenti considerazioni
psicologiche di Merleau-Ponty, è uno Stato che non conculca l'individuo, ma lo
realizza compiutamente e cioè lo conduce alla sua vera libertà. Ove si cerchi,
difatti, l'essenza di quella condizionalità individuante che ha i medesimi
caratteri della trascendenza, ma non comprende la posizione immediata dell'io,
la relazione extraprocessuale ed il momento religioso dello spirito, incapace
questo di sviluppo processuale e quindi sterile di fronte alla storia, si
comprende con assoluta chiarezza, che la divinizzazione dello Stato (e, tanto
meno, delle sue istituzioni) è impossibile.
In tal senso deve intendersi la tanto discussa libertà di coscienza, come
autonomia del soggetto nell'attingimento dell'invarcabilità e della trascendenza,
onde con Michoud si può affermare che «nessuna persona morale, nemmeno lo Stato,
assorbe completamente la vita individuale dei suoi componenti ».
Lo Stato, cioè non può pretendere di attuare rivelazioni religiose, poiché, in
tal caso, cadrebbe nella mitizzazione di tipo pagano, ma nessuna comunità può
fondarsi sulla rivelazione religiosa, senza costituirsi in Stato terreno ed è la
Teocrazia.
L'uomo integrale, nei suoi potenziamenti spirituali del pensiero, dell'azione e
della fantasia, si realizza così tutto nello Stato, individuazione storica della
trascendenza, ma proprio per la sua molteplice individuazione, questo non può
condizionare l'autonomia del singolo nella intenzionalità o tensione finale di
ordine assoluto e qui sta la perenne dignità della persona umana.
Autonomia e partecipazione necessaria si fondono, in tal modo, in un'unica
registrazione della trascendenza.
Il limite come religiosità
L'intuizione mussoliniana che il Fascismo sia una concezione religiosa non ha
trovato fin qui una giustificazione filosofica all’altezza del tema, anche se,
sul piano pratico della fede che fa credito per le prove, abbia avuto
manifestazioni grandiose di adesione individuale spinta fino al sacrificio.
Lo stesso Mussolini, del resto. non sapeva citare altro, nel 1922, sul «Popolo
d'Italia», e nel 1929 in «Diuturna », che l'immagine patetica di Federico Florio
morente che pronuncia parole di fede, a sostegno della sua lapidaria definizione
della spiritualità fascista.
È ovvio, anzitutto, che non possa trattarsi di religiosità di tipo confessionale
né tanto meno di fondamento cristiano, poiché il Cristianesimo pone non solo il
dualismo tra spirito e materia, ma soprattutto, quello tra individuo e Stato
sottraendo il primo alla giurisdizione del secondo, per additargli la sua piena
realizzazione al di fuori della società umana e, se necessario, contro di essa,
in perfetta adesione alla città celeste.
Se l'individuo si realizza invece nello Stato fascista, la Chiesa di qualsiasi
confessione non può essere che una configurazione mitologica, la quale deriva, a
sua volta, da una pretesa di dare sviluppo processuale a quella immediatezza ed
invarcabilità dell'appercezione origina ria dell'Io, che si pone come
impossibilità di cogliere l'identità dei due aspetti della presenza soggettiva,
il limite e la condizione, e quindi quale trascendenza assoluta del reale e
necessità di attuare il processo della storia.
Se la condizionalità sfocia storicamente nello Stato che trascende gli
individui, il limite si manifesta immediatamente come religiosità.
Difatti esso indica non solo l'impossibilità di manifestarsi come presenza, se
non attuando il processo e cioè ponendo davanti a sè l'oggetto, il non-io degli
idealisti, ma anche l'insufficienza di tale posizione dialettica dello spirito,
onde si registra la presenza dell'altro, l'alterità del pensiero contemporaneo,
necessaria a cogliere prima la molteplicità individuale e quindi l'unità di tale
molteplicità, cioè la trascendenza, nella sua unica, possibile individuazione
storica, lo Stato.
L'individualismo romantico, assolutizzando il soggetto, perveniva alla più
estremistica posizione antireligiosa dello spirito, molto somigliante alla
superbia del mito di Lucifero, che nega la propria fonte del bene e si converte
nel suo contrario, male e dannazione eterna.
Ma non è con i miti che si risolve i! problema del limite umano, registrato alle
origini del processo, che pertanto ha un fondamento profondamente religioso,
perché coglie la trascendenza assoluta del reale, in un momento mistico
anteprocesso, che col processo non si confonde, ma a cui si lega nella
po-sizione spirituale del valore.
Difatti, alla luce della nostra posizione della trascendenza vi può essere
valore umano solo se l'atto processuale sia condizionato da un triplice
rapporto: quello, che configureremo simbolicamente verso l'alto (la
trascendenza), quello che pone necessariamente l'oggetto della propria attività
(conoscenza, pratica od estetica che sia) e quello, finalmente, che registra la
presenza degli altri soggetti spirituali e fonda la società.
Ogni solitudine in tale concezione non è solo antisociale, ma irreligiosa e
priva di valore.
Tale aspetto della chiarificazione dottrinale è quanto mai importante poiché
impone una scelta, prima di imboccare la grande via delle realizzazioni
istituzionali.
La concezione fascista del mondo, dell'uomo e della società non ha addentellati
con le altre che dominano storicamente i tempi più recenti. Qui sta il suo
carattere rivoluzionario, di autentica originalità e qui sta la ragione della
parziale adesione e quindi tiepida, piena di riserve mentali, al fascismo di
tutti coloro che si mantengono fedeli ad una piccola, tradizionale religiosità
casalinga di sapore liturgico e matriarcale. Ma qui sta anche la sua carica
storica di avveniristica risoluzione dei rapporti umani, nel punto di crisi e di
rottura della civiltà individualistica e della sua antitesi dialettica del
collettivismo marxista .
Sia il liberalismo egoista che il marxismo livellatore sono categoricamente
antireligiosi. Combattere i due poli dell'antitesi significa, soprattutto,
distruggerne la matrice immanentistica e cioè bestialmente materialistica, senza
cadere nel tranello dello spiritualismo mitologico e clericale.
Fondare, in altri termini, una altissima religiosità, senza preti.
I tre piani della giustizia
Una volta colto il metro di valore della spiritualità dell'uomo, che si realizza
pienamente nello Stato, non per esserne limitato da libero, ma per esserne
liberato dalla sua limitatezza individuale, la cui registrazione è momento
mistico della religiosità, condizionaIità e trascendenza, occorre seguirne
l'inserimento necessario nel processo della storia e cioè individuare la
costituzione statuale della società.
L'errore dell'individualismo liberale è di vagheggiare una libertà come stato di
natura dell'intuizione giangiacchiana, che si configura, nella sua
manifestazione, come egoismo, negatore della società, ridotta ad amministratore
e contabile, e deriva dall'assunzione surrettizia della spontaneità animale a
matrice dello spirito.
L'errore del collettivismo è di vagheggiare una giustizia rivendicativa inserita
nel mito di uno svolgimento dialettico della realtà storica, che appartiene
invece solo al processo e quindi al puro campo delle idee.
L'intuizione possente dello Stato, che individua storicamente la trascendenza
del reale e pertanto condiziona l’individuo per realizzarlo nella sua finale
liberazione, conduce invece alla identificazione dell'autentica giustizia con
l'autentica libertà.
Seguire il processo di inserimento dell'individuo nella società significa,
quindi, individuare almeno tre piani di giustizia, che sono i gradini
dell'ascesa alla finale libertà.
Un primo piano di giustizia, che garantisce all'uomo la possibilità di uscire
dalla sua solitudine numerica ed anagrafica, per dar luogo alla prima
manifestazione della sua personalità, è quello di fornirgli tutti gli elementi
di ordine materiale e cioè economico, indispensabili a tale manifestazione.
Tale piano primitivo di giustizia rappresenta, spesso, per le ideologie di tipo
marxista, il fine ultimo della rivoluzione, mentre, nella nostra enunciazione,
ne rappresenta solo la base materiale. Materiale, a tal punto, che la sua
attuazione, come appare nelle più recenti esperienze storiche del sistema, può
con-cepirsi al di fuori o contro ogni esigenza di libertà.
È la presenza di un secondo piano di giustizia, nell'ulteriore inserimento
dell'individuo nella società, a denunciare la presenza di un valore umano e la
successiva spinta verso la conquista di quella libertà.
Tale secondo piano di giustizia permette all'uomo di assurgere ad una posizione
di iniziativa e di scelta, che presuppone le capacità spirituali d'inventiva e
di organizzazione
È il terzo piano di giustizia dello Stato, però, che accentua il significato di
valore, nella struttura morale e giuridica della società, garantendo la
conquista dei fini supremi dello spirito i quali contengono la libertà finale
dell'uomo.
Qui si intravede abbastanza chiaramente il metro di valore della
trascendentalità come impossibilità di commutazione in termini di economia delle
attività supreme dello spirito, che, da sole e nella loro autonoma
qualificazione, acquistano il diritto alla piena disponibilità dei mezzi
strumentali, per attuarsi ed ottenere il loro pieno riconoscimento.
La gerarchia dei valori determina, a questo punto, l'autentica società degli
uomini.
Appare necessario l'ulteriore passo della istituzionalità, che liberi il
processo dell'integrazione sociale, dai piani inferiori dell'economia a quelli
supremi della moralità.
La
nuova società
Posta la realtà come trascendenza ed il limite umano come religiosità,
l'indicazione di valore che si coglie, nella nostra concezione dello Stato, è
costituita dalla triplice direzione dello spirito e cioè il suo momento mistico,
d'immediatezza assoluta, la posizione dell'oggetto, che fa la storia, e l'alterità,
che inserisce necessariamente l'individuo nella società, per la sua
reatizzazione.
Alla triplicità del valore corrispondono i tre piani di giustizia, di cui
abbiamo fatto cenno nei numeri precedenti.
Ma, come si realizza il triplice piano della giustizia, che, oltre a liberare
l'uomo dalla schiavitù materiale del mezzo strumentale, gli permette di
conseguire la suprema libertà morale e l'autentico valore umano?
Occorre il totale rinnovamento dei rapporti umani e, pertanto, una nuova
struttura della società.
La precedente elaborazione dottrinaria dello Stato, la cui essenza non è stata
interamente colta da tutti i nostri lettori e che noi vogliamo chiarire sempre
più, avvertendo che essa è nuova e non intende riferirsi a forme di regime che,
comunque, si siano configurate nella storia, antica e recente, delle
istituzioni, fornisce, se colta nella sua posizione trascendentale, il metro di
tutta l'attività umana, nelle sue forme individuali e collettive, pervenendo
alla definizione chiara e convincente del «valore».
In stretta derivazione conseguenziale di quella definizione, noi affermiamo la
necessità di sgombrare il terreno della storia da ogni classificazione astratta
degli individui, che discenda da una unilaterale visione del problema dell'uomo.
Che cosa intendiamo per classificazione astratta degli individui e cosa vorremo
sostituirvi, per conseguire il fine di cogliere l'uomo nella sua vera realtà?
Gli esempi della storia, che rendono chiara la necessità del rinnovamento sono
numerosi,ma potremo accennare solo ai più significativi.
Le caste religiose delle antiche civiltà teocratiche, le classi fondate sul dato
naturale della nascita e su quello materiale del censo, le cosiddette categorie
sociali, derivate dalla concezione meccanicistica della civiltà industriale o
tecnologica che dir si voglia, sono tutte da rigettare come insufficienti ad
esprimere la vera essenza dei rapporti tra gli uomini e non sono suscettibili di
eliminare, come noi vogliamo, ogni privilegio, per stabilire l’unico riferimento
al valore umano.
Valore che può manifestarsi, come noi alla fine dimostreremo, attraverso
qualsiasi "qualificazione" iniziale dell’individuo, all’atto del suo inserimento
nella società.
È facile a questo punto intuire che il contenuto rivoluzionario della nostra
posizione è tutto nella indicazione degli strumenti giuridici, e cioè degli
istituti politici fondamentali, attraverso i quali può attuarsi la nuova
società.
Nella eliminazione di ogni classificazione falsa per funzioni o predestinazioni,
in virtù di una concreta assunzione dell'autentico valore umano si conquista la
vera unità molteplice del Popolo, che comprende tutti i componenti della stessa
comunità ed assurge a soggetto e protagonista di tutta la vita della società.
I singoli debbono necessariamente ed inevitabilmente inserirsi nella società,
per realizzare il proprio "valore", cioè la propria personalità piena e
completa, ma debbono conseguire contemporaneamente la loro massima libertà
individuale, intesa come meta finale, come conquista morale, attuata attraverso
la propria personale iniziativa e cioè senza coazioni e limitazioni di alcun
genere, se non quelle dell'ordinamento giuridico da essi stessi voluto ed
attuato.
Qui sta la fondamentale originalità del nostro sistema politico e sociale e la
sostanziale differenza dai due sistemi opposti del liberismo e del
collettivismo.
Il primo promette e vagheggia una libertà presuntuosamente perseguita dal
singolo individuo,. chiuso ed isolato nella sua superbia e nel suo egoismo, che
comporta inevitabilmente la negazione negli altri della stessa libertà che
pretende per sè.
Il secondo aspira ad una esasperata supremazia della società nei confronti
dell'individuo e realizza, soffocandolo, il paradosso delle più atroci
ingiustizie nella conclamata finalità della giustizia.
È proprio questa nostra libertà voluta e conquistata con gli altri e per gli
altri, che si identifica con la giustizia, nel manifestarsi delle singole
personalità e nel costituirsi della gerarchia dei valori nella società.
Il problema si riduce quindi a determinare lo strumento istituzionale dello
Stato, inteso come condizione di tutta la vita degli individui, e tuttavia come
potenziamento della personalità capace di attuare la più piena libertà morale e
la più ampia giustizia sociale.
La società attuale, astratta e falsa nella sua struttura e nei suoi rapporti,
coglie della manifestazione umana i singoli aspetti particolari e non la
complessiva e molteplice unità.
Perciò separa, sempre, i piani dell'attività spirituale, strumentandone il
processo dal di fuori e spesso riducendoli in opposizione tra loro.
Citiamo alcuni esempi.
L'economia è senza dubbio il piano individuale dell'attività pratica. Ma nella
nostra concezione dell'uomo e della società, non può prescindere dal suo
superamento sul piano politico e su quello morale, per cui lo strumento di
attuazione dei rapporti individuali, su tutti quei piani, deve essere tale da
non impedirne il superamento e l'integrazione.
Oggi, invece, sul piano dell'economia, i rapporti umani si organizzano
nell'ambito di una strumentalità puramente. economica, cioè di interessi
materiali, che urtano continuamente contro l'ostacolo di altri interessi
individuali collettivi. È da tale posizione che nasce, nella prassi sociale del
nostro tempo il «sindacato».
L'esasperazione economicistica lo vuole «apolitico» e in tale aberrante
illusione lo rende inefficace e nocivo agli stessi fini che esso si propone.
Sul piano della politica, lo strumento corrispondente alla posizione
individualistica ed astratta della società è il «partito». Il quale vorrebbe
soddisfare le esigenze peculiari di una cosiddetta democrazia ed invece finisce
per negarla ed impedirne la stessa manifestazione.
L'associazione politica, su base ideologica, che in pratica è solamente
l'espressione di un particolare interesse di gruppi, di classi e di categorie,
secondo le cristallizzazioni sociali da noi negate e combattute, non ha
riconoscimento giuridico nello Stato, ma determina la realtà politica del Paese,
nella presunzione che sia indispensabile a chiamare i cittadini al suffragio
libero ed universale.
Ma, come il sindacato, partendo da una pretesa apoliticità del suo fine
meramente economico, entra in contraddizione con se stesso, perché, appena tenta
di svolgere la sua funzione, rompe i suoi vincoli formali, e realizza la lotta
politica degli interessi, così il partito denuncia immediatamente la palese
contraddizione del suo fine politico e cioè di organizzazione della comunità con
la sua natura antisociale e particolare, destinata a produrre equivoci e ad
alimentare l'esasperata collisione delle forze opposte, anziché determinare la
composizione sociale e l'integrazione individuale.
E a proposito di equivoci, si badi che la nostra enunciazione non esclude dalla
sua condanna la soluzione del partito unico, strumento involutivo delle
dittature e delle oligarchie, che il fascismo mutuò, nella contingenza storica,
da uno dei suoi principali nemici, il bolscevismo, forse a causa della
formazione originariamente marxista del suo Capo.
Sul più elevato piano dell'attività pratica, quello morale, un equivoco della
stessa natura non manca. Alla comunità è generalmente negata la capacità di
promanare principi morali, di essere depositaria, comunque, dell'etica sociale.
E, confinata nell'interiorità della coscienza individuale la morale si articola
solo nelle manifestazioni organizzative della coscienza individuale, al di fuori
della comunità politica e statale: le chiese e le sette massoniche, che alle
prime fanno concorrenza sul piano morale, nell'assurda contrapposizione del
"laico" e del "confessionale".
Economia, politica e morale, nella società contemporanea a democrazia
quantitativa, che confina la qualità nel singolo e non intravede la necessaria
integrazione tra le due categorie dalla ragione teoretica, la qualità e la
quantità, nel rapporto sociale, si svolgono in una distinzione autonoma di fini,
che costituisce la più feroce frattura dello spirito e la negazione dì
quell'unitario svolgimento, nel mondo dei valori, per cui i piani sono tanti, ma
il fine è unico ed universale.
P. F. Altomonte
Genesi e dissoluzione della categoria di progresso
Una sola ed identica luna si riflette in tutte le acque.
Nell'acqua tutte le lune sono una sola cosa nell'unica luna.
(Buddhismo Zen)
Qual è la situazione dell'uomo nella civiltà industriale avanzata?
Alla progressiva razionalizzazione funzionale corrisponde in essa una eguale
razionalità sostanziale degli uomini?
Quella tecnica, che si vorrebbe neutrale, può essere utilizzata per un
miglioramento effettivo, e non solo apparente, della situazione umana?
La libertà di cui fruisce l'uomo della civiltà del benessere è una libertà
reale, o non è piuttosto una libertà apparent ed una reale schiavitù?
Gli interrogativi che qui abbiamo esposti richiedono ancora una ricerca ben più
dettagliata ed una motivazione più approfondita di quelle di ben noti «
mistificatori» moderni.
Noi ci siamo abituati a calcolare con geometrie non euclidee. Dovremo ora
abituarci a far dei calcoli servendoci di del tutto diversi modi di essere della
cosiddetta temporalità «esistenziale».
Di fronte ad avvenimenti lontani nel passato, lo storico può compiacersi di
ascoltare testimoni, di cogliere dati sicuri, di decidere del vero e del falso.
Ma ciò sarebbe assurdo se applicato a quanto av-venne nel passato più prossimo e
che continua nel presente.
Infatti gli avvenimenti che stiamo vivendo ci hanno afferrati tutti e trascinati
a forza in qualunque punto ci trovassimo: hanno tanto svelato la nostra
discutibilità da avvelenarci ogni gusto nella funzione di giudici.
La convinzione che anima questo nostro lavoro, discutibile forse e talvolta per
la sua fredda determinatezza inaccettabile,ma sempre sollecitante ed animato da
una sofferta preoccupazione per l'autenticamente umano, è che il sistema di vita
della società industriale si basa essenzialmente sull'uso razionale
dell'irrazionale. Avviene così che !'irrazionalità tipica della civiltà
industriale non viene eliminata o superata, ma unicamente mascherata e
mistificata. La società industriale moderna è carat-terizzata da una efficienza
schiacciante e da un sempre più elevato livello di vita. Suoi scopi sono la
produzione ed il consumo, che richiede una nuova produzione per un nuovo
consumo. La sostituzione dello schema normale: merce - denaro - merce, in quello
abnorme: denaro - merce - denaro è la legge costitutiva della società
industriale e dell'ideologia che l'accompagna, il pragmatismo che strumentalizza
ogni oggetto (natura - prossimo - Dio) in nome di miti ingenui quali il
Progresso e la Efficienza: operazionismo e comportamentismo ne sono gli aspetti
scientifici. In tal modo il valore di scambio so-stituisce il valore di verità.
La società industriale avanzata determina insieme sia il prodotto che le
ope-razioni per alimentarlo e per espanderlo.
Il «Social Control» richiede uno sviluppo quasi ossessivo della produzione e del
consumo: i mass-me-dia di questa civiltà confortevole e levigata, igienica e
funzionale, strutturata e burocratizzata, lavorano sino all’istupidimento per
potersi poi rilassare nell’istupidimento e per l'istupidimento: l'apparato
impone le sue esigenze economiche e politiche (in vista della difesa e
dell'espansione) sul tempo di lavoro come sul tempo libero, sulla cultura
materiale, come su quella intellettuale.
Tutto in questa società è oggetto di produzione e di consumo: non solo i beni
materiali, ma anche i beni di cultura, dalla scienza all’arte, dalla religione
allo sport.
Le conseguenze di questo oppressivo sistema di produzione e di consumo sono la
fine della libertà di pensiero e di critica (chi non si « allinea» e non si
«accultura» è un impotente o un nevrotico), il rifiuto delle responsabilità,
perché nel regno della «coscienza felice» non c'è posto per sensi di colpa, ed
il calcolo si incarica di tenere a bada la coscienza.
Neppure la protesta contro questo trionfo dell'inumano sfugge alla produzione ed
al consumo. La società dell'industria non teme ribellioni, anzi le sollecita
nella misura in cui le inserisce nel sistema neutralizzandone in tal modo la
potenza distruttiva.
La protesta perde la sua carica di «trascendenza» e diviene un cerimoniale
industrializzato, una riprova della totale «immanenza» dell'industria, che tutto
assimila e controlla.
L'uomo della società industriale non può che vivere e morire in modo razionale e
produttivo. Una simile società è senza dubbio una società malata ed agonizzante,
una società irrazionale e demoniaca: l'unione di una produttività crescente e di
una crescente capacità di distruzione; la politica condotta sull'orlo
dell'annientamento; la resa del pensiero, della speranza, della paura alle
decisioni delle potenze in atto; il perdurare della povertà in presenza di una
ricchezza senza precedenti costituiscono la più imparziale delle accuse, anche
se non sono la ragion d’essere di questa società ma solamente il suo
sottoprodotto: la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e di
sviluppo, è essa stessa irrazionale.
Parlare di libertà democratica in una società del genere non ha alcun senso. La
politica langue e si estingue di fronte allo strapotere dei produttori e dei
consumatori; le differenze ideologiche si fanno sempre più labili e gli opposti
finiscono per coincidere in quello che è il fine supremo: l'aumento della
produttività. Anche il marxismo non sfugge a questo processo: il proletariato
elimina l'apparato politico della società industriale (capitalismo), ma non
l'apparato tecnologico con tutti i suoi caratteri negativi di automazione e di
alienazione, di eterodirezione e di frustrazione. La situazione dell’uomo della
società industriale avanzata si riduce sempre ad una confortevole, levigata,
ragionevole, «democratica» assenza di libertà.
Il dissolvimento di questa situazione e dell'intera categoria storiografica di
«progresso» non può tradursi che col tramonto del mondo moderno e del mito del
progresso.
Tale diagnosi della storia presente ci rinvia ad una nuova comprensione della
struttura fondamentale dell'esistenza umana.
La storiografia sembra partire a prima vista dal ricordo: considerandolo più
attentamente ci rendiamo conto che il ricordo rappresenta sempre una «scelta »
nel passato, il che equivale sempre ad una cernita e quindi ad un oblio. La
storia si scrive in funzione sia del ricordo come dell’oblio. Non basta: in ogni
istante il presente confluisce nel passato, che si presenta a noi come un
accumularsi di azioni compiute, il cui numero si perde nell'illimitato: per non
perderci per non affogare in quel passato, siamo costantemente obbligati ad una
scelta, ad un oblio, altrimenti rischieremmo di morire sotto il peso degli
avvenimenti e delle idee.
I moderni, nani sulle spalle di giganti, sono in realtà gli antichi e la verità
cessa di venire considerata come il punto di partenza dello svolgimento storico,
per divenire invece il fine intenzionale, continuamente riproponentesi, del
processo stesso.
Ecco perché la desacralizzazione borghese, tipica del mondo moderno, trova
nell'esaltazione ottimistica del progresso uno dei parametri costanti, in cui
convengono gli appartenenti alle più diverse correnti filosofiche.
L'ideologia pragmatistico-borghese, tipica del mondo moderno, coincide con
questa esaltazione del progresso, con questa certezza dell’assoluta
perfettibilità del reale: il perfettismo realista è una categoria mentale tipica
dell’uomo moderno, quasi traduzione laica della speranza escatologica che
animava l'uomo medioevale: se per l'Homo Religiosus della tradizione cristiana
il progresso non può porsi che come passaggio verso il tempo della fine, come
tensione verso la fine dei tempi, per l'Homo Oeconomicus dell'ideologia
borghese-socialista il progresso si configura come graduale perfezionamento
della situazione di benessere, materiale e spirituale, secolare comunque, della
vita dell'uomo. Al punto che nell'escatologismo laico di ispirazione marxista la
ricerca del progresso come dominio sempre più completo dell’uomo sulla natura
diviene la molla della futura dialettica storica in un'umanità associata senza
classi.
Ecco perché affermiamo la completa identità di due ideologie apparentemente
contrastanti ed equidistanti: Capitalismo e Comunismo.
Giungiamo così ad una constatazione fondamentale circa la natura umana: l'uomo è
oberato dai ricordi e dai simboli ed anche da ciò che attende dal futuro, e la
ragione di questa sua esperienza consiste nel fatto che tutto ciò che ha pensato
o realizzato cade immediatamente nell'imperfetto.
Questa constatazione insegna che per l'uomo non vi è mai nulla di
definitivamente, perfettamente com-piuto. In altre parole: dobbiamo riconoscere
di non avere mai a disposizione un mondo compiuto, un'ideologia completa, bensì
un mondo ed una sua rappresentazione, che dobbiamo sempre realizzare nuovamente.
Non più svolgimento univoco della ideologia, ma pluralità di varie visioni del
mondo, costantemente riproponentesi in alterno trionfo: il compito della
storiografia filosofica, dunque, non è quello di indicare uno svolgimento
lineare, univoco, ma di definire una tipologia irriducibile di concezioni del
mondo.
Non più progresso dunque né mondo della tecnologia del pragmatismo e
dell'alienazione, ma possibi-lità diversa, perché storicamente condizionata in
maniera diversa.
Per questo la concezione lineare e progressista della storia non può che
apparire «monotona» e fallace a chi, come noi, afferma l'alterno trionfo ed il
perire alterno di varie e plurime culture, in una morfologia storica
relativistica ed irrazionalistica, nominalistica ed inunificabiIe: alla
concezione del continuo progresso si sostituisce così la tesi della ciclicità
storico-naturale, all'ottimismo romantico la pessimistica sfiducia nel mondo
moderno ed iI disperato e pur mai rassegnato desiderio di annientamento.
Caratteristica peculiare della scienza moderna e delle sue degenerate dottrine è
la tendenza a costituire un orizzonte di sicurezza nella storia.
Espressione maggiore di questa fede storicista nel progresso, la filosofia
hegeliana è stata sotto questo riguardo catastrofica, in quanto ha annullato la
personalità del soggetto ed ha condotto alla tetra ed ine-splicabile gioia di
questa spersonalizzazione, sostenendo che ogni pensatore è «un frutto tardivo
dell'epoca», e questo tardivo frutto divinizzato poi come «il vero senso e scopo
di tutto ciò che anteriormente è successo».
La cinica divinizzazione del fatto e del «successo» deriva immediata da questo
«senso storico» che annulla nello svolgimento fattuale il valore della
personalità.
Nella nostra sconfinata «presunzione» abbiamo voluto riprendere, conducendola
sino al limite estremo ed insuperabiIe la critica nietzschiana del divenire,
dello sviluppo e del progresso, rifiutando la categoria storiografica di
«progresso», considerandola come caratteristica della Unterklasse, al pari
dell'accen-tuazione del divenire e dell’ottimismo per il futuro.
In quanto tale, essa è specifica della ideologia pragmatista e traduce sul piano
della considerazione storica l'esigenza attivistica e propulsiva dell'Homo Faber
borghese: nell'idea del progresso l'uomo del risentimento esprime l'istinto e la
smania della concorrenza, tipici di una classe mercantile e lavorativa.
Critica del divenire dunque, dello sviluppo e del progresso, volta alla
dimostrazione dell'assoluto vani-loquio del pensiero occidentale moderno, nato
dal concetto socratico, dall'oltre-mondo platonico e dalla logica aristotelica:
tutte espressioni queste del medesimo oblio dell’essere (sein-svergessenheit ).
La tesi hegeliana della storia della filosofia come continuo progresso ed
arricchimento deve non solo essere messa in discussione, ma soprattutto
travolta: se il Fortschritt è in realtà un Verfallen, il compito dell'uomo è
quello di compiere uno Schrittzüruck, se è vero che lo sviluppo della filosofia
occidentale, dalla sofistica ad oggi, si configura come la storia dell’oblio
dell'essere e del nascondimento della verità.
L'errore della concezione della storia della filosofia come continuo progresso è
chiaro nella strumentazione del sistema precedente al sistema conseguente:
Parmenide ed Eraclito non varrebbero in se stessi, ma solo come pre-socratici;
Kant, Fichte e Schelling deriverebbero la loro importanza dalla loro situazione
di pre-hegeliani. In una tale prospettiva l'inizio è sempre incerto e parziale,
mentre il compimento è perfetto e valido (sic).
Ma non è così: l'errore fondamentale, che sta alla base di un tal modo di
pensare, consiste nella creden-za che il cominciamento della storia sia il
primitivo e l'arretrato,l'impacciato ed il debole. È vero il contrario. Il
cominciamento è ciò che vi è di più inquietante e di più violento.
Parlare di un progresso in filosofia significa fermarsi alla superficie: se la
Verità è una, fissa, immutabile, eterna, allora non è possibile alcun progresso;
mentre è possibile un regresso, un nascondimento della verità. Quando è attenta
alla sua essenza, la filosofia non progredisce. Essa segna il passo in un luogo
per pensare costantemente la stessa cosa. Progredire significa allontanarsi da
questo luogo: è un errore che segue il pensiero come l'ombra da esso proiettata.
In questo senso Heidegger poteva concludere nella sua «Einführung in die
Methaphisik» che «tutti i pensatori dicono in fondo la stessa cosa », anche se,
a parer nostro questo Das Selbe è qualcosa di sempre nuovo, così come ogni
giorno si rinnova, identico e pur straordinario, il miracolo ripetuto ed
inesauribile del sorgere del sole (Immer Wieder) : so-stenere, infatti, che i
pensatori essenziali (Wesentliche Denken) dicono sempre la stessa cosa (Das
Selbe) non significa asserire che dicono sempre la medesima cosa (Das Gleiche).
La struttura ed il condizionamento storico di un sistema sono cose troppo ovvie
perché gli storicisti, questi moderni avvizziti, possano vantarne la scoperta:
anzi, sono fatti così evidenti che appare inutile e superflua una loro
riaffermazione.
Questa nostra polemica antistoricista vuole essere il risultato più perentorio
dell’irrazionalismo contemporaneo.
Ciò che noi additiamo come inevitabile, indispensabile, vitale, è il rifiuto
della semplicistica subordinazione del valore di un pensatore (o di un sistema o
di una ideologia) al momento storico-temporale in cui sorge e si svolge, ma che
esso supera e trascende nella misura in cui sappia veramen-te dire qualcosa: la
genesi storica di un evento non ne determina storicamente il significato.
Come ha purificato la coscienza dell'uomo contemporaneo dalla categoria
desacralizzata e mistificatoria del «progresso» e delle sue fisime, così il
nostro irrazionalismo deve indicare alla storiografia filosofica quale debba
essere il suo compito: non tanto quello di indagare il condizionamento storico
della filosofia e la rispondenza del sistema al momento cronologico in cui
sorge, bensì quello di ricercare quella Verità perenne, certo temporalmente e
spazialmente determinata in modo diverso, che non è figlia ma genitrice del
processo, in quanto unicamente fonda e sostanzia la ricerca che l'Uomo di Essa
ed in Essa compie, come la missione sempre nuova e sempre identica di Guardiano
dell'Essere:
Dei viandanti molti ne parlano / E la fiera erra nelle grotte / E l'orda vaga
sopra le alture./ In sacra ombra invece / Sul verde clivo vive il Pastore / E
guarda i picchi. (F. Hölderlin, «Der Mutter Erde»)
Hans Primo Böhm
La socializzazione
Coloro che dello Stato fascista hanno un'intuizione di tipo rivoluzionario, ma
non attingono tale ispirazione a fonti filosofiche e dottrinarie ben chiare,
usano identificarlo empiricamente con la rottura sociale codificata da
Mussolini, durante la Repubblica, con il Decreto 12 febbraio 1944, n.375,
pubb-licato sulla Gazzetta Ufficiale n.151 del 30/6/1944, che prende il nome di
«socializzazione delle imprese».
In realtà, la socializzazione fascista, disposta nel bruciante periodo della
guerra civile, per ammissione esplicita degli stessi nemici del Fascismo,
specialmente di parte liberale e confindustriale, presenta caratteristiche
particolarissime, che la distinguono da tutte le altre realizzate e progettate,
prima d'allora, poiché dispone originalmente la socializzazione della gestione e
non della proprietà.
Si obietta che il trasferimento della proprietà non avviene anche nelle forme
cooperativistiche e sindacaliste; ma è anche vero che, nella cooperativa e nella
azienda sindacalizzata, sono proprietarie dei mezzi di produzione le stesse
classi lavoratrici.
I critici individualisti e certi fascisti fasulli, che considerano il fascismo
un movimento reazionario di destra, tanto da militare nelle file del MSI, che
del regime mussoliniano e non del Fascismo, mai realizzato, raccoglie le
immondizie, affermano che un tale schema di socializzazione è «ibrido», in
quanto inserirebbe un nuovo tipo di gestione, in una struttura fondamentalmente
capitalistica, ma ciò avviene semplicemente perché non hanno afferrato il senso
di un provvedimento contingente, nel crogiuolo rovente della guerra ormai
perduta, che ha significato solo se si portano alle conseguenze estreme i
prlncìpi rivoluzionari dello Stato di popolo, prima sul piano morale e politico
e poi su quello economico, di produzione della ricchezza.
Vale la pena, comunque, prima di mettere in termini di chiarezza il caposaldo
rivoluzionario della socia-lizzazione, di esporre le direttrici del
provvedimento attuato nell'ambito della Repubblica Sociale Italiana.
Anzitutto, il Decreto della socializzazione stabiliva:
1) di «socializzare» tutte le imprese che possedevano più di un milione di
capitale (1944) od impiega-vano più di 100 operai; 2) di «statizzare» tutte le
imprese fornitrici di materie prime o servizi di interesse generale.
La socializzazione, nel settore privato, si attuava a mezzo dei seguenti
istituti:
1) la figura del Capo dell'Impresa, più pubblica che privata, con poteri di
gestione molto vasti;
2) la partecipazione agli organi di gestione dei rappresentanti del Lavoro, in
misura pari al capitale;
3) la compartecipazione agli utili dei lavoratori;
4) il Consiglio di gestione.
Tale organizzazione della produzione economica s’ispirava ai princìpi
fondamentali seguenti:
1) prevalenza assoluta e costante degli interessi collettivi sul semplice
tornaconto privato;
2) responsabilità dell’Imprenditore di fronte allo Stato della produzione
economica;
3) carattere sociale dell’Impresa, anche familiare, attraverso il Consiglio di
gestione;
4) subordinazione dell’attività imprenditoriale economica alle finalità morali,
sociali ed economiche dello Stato.
La socializzazione così strutturata non ha avuto la sua completa realizzazione
ed ha mantenuto il carat-tere di «mina sociale», nel precipitare degli eventi
che si concludono con la sconfitta militare del Fascismo e con la restaurazione
clericale dei diritti capitalistici, solo minacciati da una ipotetica
instaurazione di un collettivismo di tipo marxista, che comporterebbe
l'abbandono strategico dell'Europa in mani russe da parte degli Stati Uniti
d'America.
Ma ciò che è stato solamente annunciato ed imperfettamente realizzato, durante
il ventennio, ha significato attuale e non meramente storico, che s'inquadra
nella visione complessiva dello Stato di popolo.
In un mondo di valori, quale noi auspichiamo, la strumentalità non solo non deve
costituirsi fine a se stessa e non deve sovrastare, come avviene nella società
materialistica di oggi, il fine supremo della vita, ma la stessa attività
economica, tesa alla produzione della ricchezza indispensabile al riscatto
dell'uomo da quella servitù, deve riflettere l'integrazione delle singole
partecipazioni, che è necessaria alla socialità.
Per cui, fermo restando il concetto che la spontanea iniziativa dell'individuo e
la sua libera scelta nel campo dell'economia rappresentino un fondamento di
giustizia più elevato della semplice soddisfazione dei bisogni della vita
materiale, tale iniziativa deve essere configurata nel suo sviluppo dinamico e
seguita nel suo processo produttivo di organizzazione per inquadrarne il valore
e definirne i limiti sociali.
L'iniziativa individuale è senza dubbio la molla potente della produzione
economica e della creazione aziendale, ma, come tutte le forme di processo
umano, si espande e si esaurisce nello spazio e nel tempo.
Cosa succede, allorché la iniziativa individuale conquista la meta segnata,
attinge il culmine della sua potenza e si esaurisce nel fine raggiunto?
Nel processo economico della «libertà naturale» in tutto simile alla spontaneità
animale, la meta raggiunta è il diritto sacro ed inviolabile dell'illimitata
disponibilità dei beni strumentali acquisiti e quindi della infinita possibilità
di costituirsi il privilegio della moltiplicazione e dell'accumulazione del
capitale.
Da qui !'iniquità del rapporto tra il capitale, di potenza materiale infinita,
ed il lavoro, succube dell'arbitrio altrui e quindi impotente ad alimentare la
libertà.
È a questo punto che l'integrazione sociale, posta come il lievito
indispensabile all'attuazione dei valori umani, interviene a risolvere il grande
problema della coesistenza della libertà e della giustizia, nella co-munità
organizzata. Allorché l'iniziativa individuale, liberamente manifestatasi nella
creazione del-l’azienda economica, si è esaurita e tende a cristallizzarsi nel
privilegio, deve costituirsi necessariamente e cioè in virtù della legge
l'integrazione delle responsabilità, non solo economiche, ma anzitutto morali e
pertanto anche politiche, nella gestione dell'azienda, nella sua direzione ed
organizzazione ed, ovviamente, nella equa distribuzione della ricchezza tra gli
elementi della produzione.
Colui che ha il merito di aver fondato e potenziato l'azienda produttiva, dando
luogo alla manifestazione di un valore umano e con ciò non meramente e
semplicemente materiale, attraverso gli elementi della sua stessa
organizzazione, entra in un rapporto con gli altri e cioè «sociale» di
inevitabile integrazione qualitativa e quantitativa.
E la sua organizzazione, in virtù di tale passaggio, si articolerà socialmente
nella compartecipazione di tutte le funzioni gerarchicamente distribuite, alla
gestione dell'azienda.
La proprietà legittima del capitale privato conseguito, si dilaterà nella
distribuzione susseguente degli utili e dei profitti a tutta la partecipazione
del lavoro, e la giustificazione finale della libertà d'iniziativa privata sarà
espressa dal valore della realizzazione sociale.
Tale forma di «socializzazione», non riducendosi ai termini materiali della
detenzione dei mezzi di pro-duzione, investe la spiritualità del valore umano e
supera definitivamente il socialismo, in quanto risolve l'esigenza fondamentale
di esso, non solo senza abbrutire l'uomo ed avvilirlo nella meccanizzazione dei
rapporti sociali, ma procedendo decisamente oltre.
Hohenberg
La Destra corporativa
Certo, il Fascismo si può diffamarlo in tanti modi. Ma soprattutto inverando le
accuse dei suoi peggiori nemici, cioè di quelli che temono le sue soluzioni
possibili per le loro esigenze di giustizia, sorrette da una metodologia
sbagliata. Difatti, i marxisti sanno - e lo sapeva anche Stalin quando definiva
Mussolini, alla sua morte, l'unico rivoluzionario italiano contemporaneo - che
l'ex socialista direttore dell'Avanti non annunciava, alle origini, il
tradimento del socialismo, ma il superamento della prassi collettivista, fondata
sulla concezione dialettica della storia e sul determinismo materialistico, per
fondare uno Stato di popolo, in cui l'individuo non si vedesse annullato nella
società, ma potenziasse al massimo la sua personalità.
Basterebbe rileggere con attenzione i 14 punti di S.Sepolcro, dove si parla, tra
l'altro, di abolizione delle banche e delle borse, per cogliere la carica
rivoluzionaria dell’intuizione mussoliniana, al suo apparire.
Naturalmente, il ventennio di regime fu uno spaventoso compromesso tra quella
intuizione ed il mondo della monarchia, della borghesia, della finanza, della
massoneria, prima, e della teocrazia, dopo, che il Fascismo avrebbe dovuto
demolire.
Noi potremo giudicare, quindi, molto severamente l'uomo di Stato ed il dittatore
troppo ottimista, che si illuse di far assidere prima l'Italia tra i grandi
della terra, per poi tagliare le unghie ai capitalisti. Ciò appartiene alla
storia di un regime personale, che il suo autore ha pagato con il martirio.
Ma che da parte dei piccolo-borghesi, che furono fascisti al tempo dei successi
e della gloria, solo per-ché, nel compromesso di regime, assistevano
all'affluire di fermenti nazionalistici e patriottardi, che addormentavano i
semplici, per conservare ai privilegiati le loro posizioni, si vengano oggi a
rispolverare i motivi della reazione anticomunista al servizio di quegli stessi
interessi che imbavagliarono Mussolini, è semplicemente spregevole.
Il corporativismo fu la più clamorosa etichetta di quel compromesso delle
istanze rivoluzionarie, che sorgevano dalla prima guerra mondiale, con gli
interessi dei padroni, disposti a finanziare le guerre, purché a farsi ammazzare
andassero i proletari, ed a prendere le medaglie d'argento rimanessero i
nobilastri, immessi nelle gerarchie del P.N.F.
La cosiddetta composizione corporativa fu un inganno, poiché i datori di lavoro
sostenevano il regime a patto che legasse le mani ai lavoratori. E Mussolini
aspettava, sperando che la guerra vittoriosa gli permettesse di dare lo scossone
al vecchio mondo liberal-capitalista.
La Repubblica Sociale Italiana, che per i pataccari del ventennio fu un episodio
di semplice fedeltà re-torica all'alleanza militare, fu invece l'esplosione, sia
pure disordinata e confusa, dell'empito rivoluzionario, covato invano per
venticinque anni. Oggi molti che ci furono, per paura del peggio, la rinnegano e
tornano agli amori massonici del 1922.
Il carrozzone confindustriale, che nacque dall'equivoco e fu condotto dal
Michelini furbastro, sulle posizioni più retrive dell'anticomunismo sistematico
e della nostalgia sentimentale, ora, sotto la guida del biscione Almirante, ha
calpestato definitivamente la eredità mussoliniana della rivoluzione sociale,
senza odio di classe, per assumere la funzione pretoriana di difesa della
conservazione, del privilegio e dell'ingiustizia.
Gli stessi interessi di tutta la destra reazionaria, che infatti lo applaude.
Ma Giorgetto Almirante ed i suoi giannizzeri, col non trovare di meglio che
rispolverare l'etichetta del fallimento corporativo, per puntellare il loro
anacronistico baraccone, assumono, di fronte agli ingenui che li, credono
fascisti, una pesante responsabilità.
Quella di essere i diffamatori più insulsi ddl'idea mussoliniana.
Romolo Giuliana
Grecia, colonnelli, reazione, fascisti
Un sillogismo che per l’antifascismo policromo non fa una grinza. Ad
accreditarlo vengono largamente utilizzate, da una parte le solite
generalizzazioni insidiose che riducono il Fascismo a quello che è il suo esatto
contrario (e cioè a pura reazione), dall'altra parte le speranze che il putsch
dei militari in Gre-cia ha - come'è noto lippis et tonsoribus - acceso negli
ambienti della destra sedicente rivoluzionaria.
La polemica ha superato le dimensioni del contrasto ideologico e si è fatta
strumento di un ben preciso disegno politico, inteso a rafforzare le
impenetrabili mura del ghetto del quale ha evidentemente bisogno l'antifascismo
e non anche, altrettanto evidentemente, noi.
La nostra volontà di uscirne è determinata dalla constatazione che il ghetto è
stato costruito su uno spazio altrui e dalla volontà di insediarci su uno spazio
politico nostro. Fuori figura, poiché non abbiamo nessuna intenzione di prestare
equivoci alle tentazioni deviazionistiche di tanti personaggi felici di aver
trovato, dopo la Spagna ed il Portogallo, anche la Grecia, rifiutiamo le basse
provocazioni degli an-tifascisti e definiamo come segue la nostra posizione nei
confronti dei Colonnelli e del regime borghese che regge la Grecia:
1) Non esiste, né lo può, nessuna parentela e nessuna affinità, nella sede
ideologica ed in quella politica, tra il Fascismo e i regimi della borghesia.
Prestar loro fiducia è errore che discende da pratica politica qualunquista e da
confusione ideologica.
2) Il Fascismo, come scelta di civiltà, risolve i rapporti umani nel punto di
crisi e di rottura della civiltà borghese individualistica e della sua antitesi
dialettica, il collettivismo marxista. Esso ha per ciò stesso la naturale
capacità di determinare il processo e le condizioni della vita politica interna
ed internazionale. Invece la caratteristica tipica dei regimi
conservatori-borghesi è lo sviluppo sul piano piccolo nazionalista, condizionato
da una visione settoriale incapace di una azione politica impostata in termini
di civiltà (vedi per tutti l'isolamento della Spagna franchista in occasione
della Seconda Guerra mon-diale).
3) L'uso delle tecniche rivoluzionarie al servizio della avversione al comunismo
ed alla sinistra democratica inducono facilmente a suggestioni emotive che
accreditano pericolosamente parentele, che come abbiamo visto non esistono.
Quelle suggestioni portano a restringere il campo della lotta politica, a farne
scadere i contenuti, a distorcerne le tesi, ad accreditare quindi le ragioni
vantate dall'av-versario, e in definitiva conducono all'insuccesso.
Al di fuori dei falsi moralismi dell'antifascismo - responsabile in blocco di
ben più pesanti situazioni calde e fredde, - sia di parte occidentalista (i noti
fatti del cosi detto Consiglio d'Europa che portarono il 12 dicembre 1969
Pipinelis ad abbandonare il seggio contestato alla Grecia), sia di parte
comunista (che non ha saputo far di meglio che elevare ad eroe agli occhi delle
masse rincretinite il canzonettista Theodorakis) possiamo affermare che la
vicenda dei Colonnelli di Atene ha portato al rafforzamento del prepotere dei
ceti economici che hanno trovato la principale espressione negli armatori del
Pireo. Questa nostra valutazione non discende da considerazioni classiste, ed
infatti non siamo marxisti. Essa indica un dato di fatto riscontrabile nella
realtà interna della Grecia e nella sua posizione internazionale.
Venuto a crollare il quadro internazionale facente perno sull'Inghilterra e
sulla sua politica mediterranea, nel quale si trovava perfettamente inserita,
utilizzata come uno dei tanti mandati inglesi nel Medio Oriente, la Grecia ha
dovuto affrontare l'adattamento ad un altro quadro internazionale, quel-lo
imperniato sugli Stati Uniti. Le classi dirigenti greche, che nell'Inghilterra
trovavano la massima garanzia per la propria stabilità, hanno subìto l'attacco
di nuovi gruppi facenti riferimento a correnti di pensiero ed a centri di potere
statunitensi. In altri termini la monarchia greca, classica pupilla
dell'Inghilterra, ha dovuto fare i conti con i gruppi radicali che in Andrea
Papandreu, noto frutto di Har-vard e di Berkeley, avevano trovato il loro capo.
All'interno i motivi della critica radicale al sistema mo-narchico si
alimentavano con le condizioni di sottosviluppo della Grecia, col suo ritardato
progresso industriale e nello stesso tempo la sua ottocentesca agricoltura. La
funzione della monarchia ed il peso della sua dipendenza e filiazione dalla Gran
Bretagna si fecero sentire in modo negativo soprattutto riguardo alla formazione
di un vero movimento rivoluzionario greco. La Grecia fu uno dei pochi paesi che
negli anni trenta non sentì il soffio potente e suggestivo dei regimi d'Italia e
Germania, alla pari con l'Olanda, la Danimarca e le altre classiche dependances
inglesi.
Quando il movimento radicale greco facente capo ai Papandreu mise in difficoltà
la monarchia, questa non reagì cercando di socialdemocratizzare il radicalismo,
cioè di trovare una formula di compromesso analoga a quella che nei Paesi
Scandinavi è data dalle monarchie socialdemocratiche; pensò invece di poter
reggere il confronto irrigidendosi e contando sul mantenimento dell'adesione
popolare. Vari fe-nomeni di politica internazionale, massimo fra tutti la
distensione kennedyana, dettero invece intorno al 1966 una prospettiva politica
più ampia ai radicali, e soprattutto consentirono a questi di poter osare
l'attacco diretto sulle piazze e all'interno stesso di un gruppo di potere come
quello militare (affare dell'ASPIDA) contro il regime monarchico.
La vittoria sui comunisti di Markos aveva fatto credere alla monarchia greca che
nessun avversario avrebbe potuto più contestare la legittimità del trono e la
garanzia delle libertà democratiche che esso rappresentava, senza con ciò
esporsi alla accusa di essere o di fare il gioco dei comunisti. Invece i
Papandreu, nella mutata situazione internazionale, forti dell'appoggio
kennedyano, concepivano e iniziavano ad attuare una strategia basata sulla
utilizzazione dei comunisti e su una contestazione di parte democratica e di
sinistra, cioè radicale, del sistema monarchico.
Quando nell'aprile 1967 fu chiaro che, con la mancata fiducia al governo
Cannellopulos, i rapporti di potere in Grecia erano mutati a danno della
monarchia e nella certezza che nuove elezioni avrebbero confermato quel
mutamento, i militari scelsero la via dell'azione.
Da quanto precede, consegue chiaramente che il golpe militare è stato attuato
nella sola prospettiva di restaurare il potere minacciato dai radicali, fino a
mantenere con opportuni correttivi il sistema democratico parlamentare. Ove
persistessero dubbi si rileggano le dichiarazioni rese da Pipinelis a Parigi il
9 dicembre 1969 quando, in polemica con lo ex premier inglese Wilson, ha
sostenuto che la minacciata messa al bando della Grecia non avrebbe giovato al
consolidamento delle istituzioni democratiche nel suo paese.
Si è trattato in sostanza di una variante greca e caporalesca della legge truffa
di scelbiana memoria. Hanno concorso alla riuscita del putsch le pregresse
esperienze rivoluzionarie comuniste in Grecia, che in sostanza hanno dato una
sorta di giustificazione al colpo, consentendo ai militari di presentarlo come
la prevenzione di un male imminente.
L'azione dei militari va giudicata per quello che è: positiva per essi e per i
ceti da essi sostenuti. Non lo è altrettanto per noi, che rifiutiamo di essere
confusi con le schiere di coloro che appoggiano i movimenti conservatori e
borghesi.
Possiamo compiacerci da un punto di vista esclusivamente sentimentale della
sconfitta inflitta ai radicali di Papandreu, ma nello stesso tempo siamo ben
consci che essa non scalfisce minimamente le posizioni di potere del radicalismo
a livello mondiale.
C'è un altro aspetto del golpe che qui non possiamo tacere. La confermata
fedeltà atlantica definisce la collocazione dei Colonnelli nell'area
occidentalista e definisce con sufficienza la natura ed i limiti delle scelte
che hanno ispirato la loro condotta. Tra colonnelli e fascismo non corre quindi
un rapporto di affinità, ma l'oceano di malafede di chi lo afferma.
Bruno Ripanti
Il candore di Colombo
Il candore virginale, col quale da anni ed in veste di ministro del Tesoro, il
Presidente del Consiglio Emilio Colombo ha cercato di appisolare gli italiani,
con la litania degli investimenti produttivi, della bilancia dei pagamenti, le
spese correnti ed il valore della moneta, è divenuto silenzio profondo e
sbigottito, di fronte all’assoluta mancanza di prestigio del suo governo, che
continua ad elargire gli in-chini del suo ministro degli Esteri, in tutte le
direzioni, senza alcun risultato.
Abbiamo avute prima le proteste di visite, già protocollate, dei capi di Stato
stranieri, come se fossimo i guitti della politica europea, ed ora visitiamo
capitali straniere, raccogliendo cordiali sorrisi di gente che non crede ad una
parola di quello che diciamo.
La sfiducia è fondata, poiché da anni gli stessi uomini si scambiano
semplicemente il ruolo di primo e di secondo e dicono sempre le stesse bugie
politiche agli italiani, ubriachi di gite domenicali, di canzoni idiote e di
sport mercenario.
Il presidente Colombo, venuto su dalla parrocchia e dai «sanctasanctorum» di
provincia, crede ancora che la voce mielosa, il gesto circolare ed il tic della
bocca tirata verso destra, ogni sette sillabe di giaculatoria, possano acquetare
le ostilità, ammorbidire le diffidenze e innovare le inutili attese, ma ha visto
prendendo il posto al timone che i fatti gli hanno tolta la parola e le prime
ventate di bufera gli hanno mozzato il fiato.
Le piccole toccate di punta, all'epoca dell'affare lppolito, quando era
all'Industria, avrebbero dovuto avvertirlo, ma l'ambizione accarezzata dalla
paterna mano dei vescovi è inguaribile e, malgrado la debolezza finale del suo
delfinato, ha voluto tentare il regno.
Ma il suo governo sembra che non esista.
Ci sono nel circo equestre della politica italiana le sortite fiscali di Preti o
gli sgambetti populisti di Donat-Cattin, le polemiche tra Ferri e Mancini per
colorire i socialismi di America e di Russia, i sorrisi conciliari di Berlinguer,
che sanno di ghigno, ma il governo di fronte a tutto quello che succede fa solo
riunioni collegiali.
A Reggio Calabria, a Pescara, a Roma, a Milano, a Verona, ovunque si occupa, si
sbarra, si danno botte da orbi ,ed anche si uccide, ma entra in azione solo la
polizia, e dopo Restivo dirà che non tollera la violenza.
Poi, ci sono gli scacchi veri e propri. Come lo mettiamo quello di proporre che
il Parlamento decida il capoluogo della Calabria, e vedersi bocciata la proposta
in Commissione? Come giustifichiamo che sindacati, privi di riconoscimento
giuridico, si dichiarino autonomi rispetto alla politica e poi facciano
politica, ricattando il governo,e minacciando anche la rivolta civile?
Come spieghiamo, da parte dell'industria di Stato, una condotta più «padronale»
di quella dei padroni privati? Come possiamo ammettere che la Televisione
racconti tutto, dalla A alla Z, sulle sconcezze della società italiana, con
interventi di ministri, magistrati, pubblici ufficiali, e tutto rimanga come
prima?
Cosa fa un capo di governo quando il suo governo è contemporaneamente
filocomunista ad anticomu-nista, sia pure a parole, perché i fatti non ci sono?
Il candore di Colombo sarà il risvolto di una sottile astuzia clericale, ma i
fatti il sangue e le pressioni maligne lo costringeranno allo scoperto.
Il polemista
Gli emuli di Brandt
Fin da quando il Segretario del PLI Giovanni Malagodi aveva fatto il viaggio
prima a Bonn e poi a Washington, si era sentito l'odore di una manovra di largo
respiro, che avrebbe dovuto camuffare, con veli sottili di raffinatezza
diplomatica, l'ordine brutale di Nixon, per una virata a destra di tutta l'area
NATO, per ristabilire l'ordine nel Mediterraneo, dove il cuneo sionista trova
dura resistenza dopo l'assunzione della difesa degli interessi legittimi dei
popoli arabi, da parte dell'URSS.
Ma Brandt è prima di tutto un buon tedesco, che sogna ad occhi aperti la
riunificazione della sua Patria e, con un gesto tranquillante verso occidente,
si è diretto a trattative con il mondo marxista, per ottenere una prospettiva di
intesa, in primo luogo con il connazionale Ulbricht, che governa i tedeschi
dell'Est col metodo collettivista duro.
La manovra pertanto venne rimandata a più tardi ed arrivò la sommessa
disapprovazione di Nixon, impelagato quanto mai nel tentativo di ammorbidire il
mongolo Breznev, per potere uscire senza troppa vergogna dalla trappola
indocinese, dove dice d'andarsene ed invece allarga la guerra fino ai confini
della Cina.
Ma dai Congressi recenti del partito liberale e di quello socialdemocratico
affiora una conversione del piano a più modesti propositi di sistemazione
interna dell'affare italiano, che sprofondando nella più squallida palude dei
compromessi con la sorniona marcia d'avvicinamento del compagno Longo, rischia
di spingere troppo allo scoperto, magari con un colpo di tipo greco, da mandare
in sollucchero il nostro caro corporativo Giorgetto ed il suo contorno di
epigoni sdruciti della piccola massoneria casalinga.
Giovanni Malagodi finge di opporsi al fantoccio della sua sinistra interna, che
lo costringerebbe ad un'alleanza di emergenza con i comunistelli di sacrestia,
ma in realtà sogna gli stessi sogni segreti di Preti, Ferri e Cariglia, che
parlano ormai più di democrazia che di riforme, da ridurre ad una sola: quella
che ci strangolerà tutti con le tasse.
L'alleanza liberal-socialdemocratica è l'idea-pateracchio, con cui il
Dipartimento di Stato intende sostituire in Europa l'infelice invenzione del
centrosinistra, che ha addormentato gli italiani, con la falsa socialità, ma ha
raggiunto solo lo scopo di mettere in agitazione i sottogerarchi del partito
sovietico, per la sortita finale in tutto il Mediterraneo.
Ma Nixon è sempre più debole, di fronte al Congresso americano, ed in Estremo
Oriente sta perdendo la testa.
Toccherà al suo successore democratico rabberciare la variante del gioco, come
Mike li quizzaiolo passa dalla miseria intellettuale di «lascia o raddoppia»
allo squallore culturale di «rischiatutto»
.
Aeuropeus
La scuola nuova
La demagogia politica non può offrire agli italiani la scuola nuova auspicata
dai più recenti orientamenti della pedagogia e dalla sociologia.
Lo dimostrano i tentennamenti e le contraddizioni e le cortine fumogene del
ministro Misasi, che coglie gli insuccessi delle bocciature di sue proposte,
all'insegna della provvisorietà, da parte dei demagoghi del fronte avverso.
Non si può dire che la riforma scolastica non deve avvilire l'insostituibilità e
la dignità del docente e, contemporaneamente, che la crescita democratica delle
generazioni studentesche si attua attraverso il meccanismo del suffragio, che
metta in minoranza i professori, che hanno torto, solo se si oppongono
all'inevitabile evoluzione del rapporto e del fine educativo, dalla semplice
istruzione, di positivistica memoria o di magistero clericale, alla formazione
spirituale, in senso moderno; che è poi, qualitativa-mente, il più antico ed il
più classico.
Non si può affermare che la politica è oggetto dell'attività scolastica, come
qualsiasi altro oggetto di cultura, che non avvilisca uomini e temi alla
strumentalizzazione volgare del politicantismo, per poi permettere che gli
apparati politici ed economici delle varie fazioni, riducano a mero fine di
propaganda ogni presenza dell'uomo, della gioventù e della scuola.
La scuola nuova si configura in due aspetti: uno pedagogico ed uno sociale.
Come sa chiunque abbia studi sufficienti per trattare il tema, ogni pedagogia
presuppone una filosofia, che indichi il fine del processo educativo e cioè una
concezione dell'uomo, da formarsi nel rapporto docente-discente, ed è
impossibile che quella individualistica di tipo liberale, quella
sovrannaturalistica di tipo clericale e quella materialistica di tipo marxista
coesistano, nel fine didattico ed organizzativo della scuola.
Tutti parlano di formazione e si fermano alla informazione più grossolanamente
propagandistica, perché vogliono perseguire i propri fini di potere, anche se
blaterano più o meno rumorosi motivi di libertà.
Una scuola pertanto che sorga dal compromesso tra le opposte concezioni non è
possibile; anche se si ingannano i semplici parlando tutti i giorni, compresa la
domenica, di riforma.
I liberali ed i loro padroni confindustriali, si sa, vogliono la scuola ridotta
a corsi d'istruzione per l'in-dustria; i clericali vogliono una scuola dove
possano ammannire verità rivelate e «dimostrare» l'esi-stenza di Dio, con
l'argomento cosmologico di Tommaso d'Aquino, svuotato da secoli; i marxisti
vogliono una scuola dove si possano perfezionare capacità tecnologiche, nel cui
alveo si inseriscano i commenti addomesticati del partito, per esasperare l'odio
e la violenza di classe. E ci mettiamo pure la destra corporativa, che vorrebbe
una scuola per figli di gerarchi, a sfondo razziale, dove la storia si riduca
alla nostalgia del colonialismo e della disciplina militare.
Quelli che vogliono precludere, perciò, e quelli che vogliono estendere la
scuola a tutti, in senso demagogico e formale, sono tutti nemici dell'autentica
rivoluzione culturale, perché sospinti da principi e da interessi eteronomi,
rispetto all'atto educativo.
L'aspetto sociale della riforma scolastica si manifesta nella volontà di
estendere a tutti il beneficio della educazione, ma non abbassando la cultura al
piano delle masse, ma elevando le masse alle altezze della cultura.
La civiltà del Rinascimento fu di squisita raffinatezza e la cultura di sottile
aristocrazia, perché la società era signorile e cortigiana; la cultura
contemporanea deve essere di dominio universale, ma non massificata nel
consumismo, per la conservazione dei privilegi, sotto forma assistenziale.
La scuola nuova verrà, solo quando la struttura della società sarà cambiata e
!'inserimento necessario del cittadino nello Stato sarà attuato per liberarlo
dei suoi bisogni materiali e non per imporgli direttive di marcia.
In quello Stato, oggi di carattere esclusivamente utopistico, per lo meno, per
chi non sia capace di tensioni spirituali rivoluzionarie, il rapporto tra
docente e discente tornerà ad essere volontario, perché sarà la porta d'ingresso
della finale libertà.
Comenio
Razzismo italiano
I tedeschi, rivestendo di atti repellenti, sotto il regime hitleriano, i loro
tradizionali sentimenti razziali, si sono guadagnata l'antipatia del mondo,
tanto più che perdevano la guerra, ma soprattutto hanno convalidata la
pericolosità delle astrazioni scientifiche (di per sé utilissime al progresso
materiale del mondo), quando investono il lato spirituale dell'uomo.
Il razzismo ha origine religiosa, se si deve risalire al mito biblico di Noè, i
cui tre figli, Sem Cam e Jafet, a-vrebbero dato luogo alle tre razze principali
umane, portandosi dietro benedizioni e maledizioni, cioè il crisma della
discriminazione razziale.
Ma il cammino della civiltà è un continuo, se pur lento, liberarsi dai miti,
nati dai gretti orizzonti di una razionalità oppressa dalle forme sensibili
dello spazio e del tempo e tesaurizzati dagli stregoni, cioè dagli imbroglioni
di tutti i tempi, i quali millantano commerci fantastici con sfere cosiddette
sovrannaturali, che gli occhi dei gonzi non possono vedere.
I nostri giornali riportano quotidianamente gli episodi di intolleranza razziale
e calcano la mano, talvolta, pur non potendosi negare la gravità dei casi,
poiché la lingua batte dove il dente duole ed il discorso torna sempre al motivo
antifascista del razzismo teutonico ed antiebraico, edulcorato ma subìto dalla "pasticcioneria"
di Mussolini.
Ma i nostri retori antirazziali dimenticano che in Italia, v'è un razzismo di
base, pacifico ed inesorabile, che dura da sempre e che mina, tra sorrisi e
barzellette, la unità della nazione, più dopo la cosiddetta Unità, dei Savoia e
di Cavour, che prima, coi re borbonici e gli arciduchi asburgici.
Quando un veneto di Verona dice «terrone», al cospetto di un siciliano, che
vende le arance ai mercati generali, non fa della sorridente ironia, ma, musone
e conformista, nel suo esclusivismo municipale, è pieno di rancore razziale e
pone, tra sè e l'italiano meridionale, che conosce il nome Italia da nove secoli
prima della sua Gallia cisalpina, una barriera di sentimenti e di false
opinioni, che giungono alla repugnanza fisica, alla repulsione morale, tal quale
una zitella inglese di fronte ad un negro del Kenia, od un gentiluomo francese
dinanzi ad un giallo d'Indocina.
Quando un imprenditore lombardo, il cui lontano progenitore è forse un servo di
Rotari, afferma che da Roma in giù non si ha voglia di lavorare, e la sua
consorte, in occasione del delitto Martirano che porterà all'ergastolo due
lombardi, scrive al quotidiano milanese che gli assassini stanno al Sud, e che è
perfettamente inutile venire a cercare lo strangolatore prezzolato della moglie
di Fenaroli a Milano, poiché i terroni sono tutti dei bruti (e il giornale
meneghino pubblica la lettera), non si fa della critica spregiudicata ai difetti
del proprio popolo, ma si dà sfogo ad un sentimento profondo di ostilità
razziale, anche se i secoli lo hanno trasformato solo in livore scostumato, che
non ha nulla da invidiare, a parte gli effetti pratici quasi innocui, alle
teorie pazzesche sulla superiorità dei dolicocefali ariani e l'inferiorità degli
arabi semiti.
Non si tratta delle satire stantie di Marchesi sull'Italia che non esiste e
della pubblicità del carosello televisivo sul vigile terrone, sul bullo romano,
e sul lumacone veneto, ma di un razzismo viscerale, purtroppo fondato sulla
realtà storica e sulla geografia (perché nessuno può negare che gli abitanti
della pianura padana fossero Galli e quelli dell'antica Vitellia greci), che
investe tutte le attività nazionali, dalla cultura alla politica, dal turismo
all' economia, dai servizi pubblici a quelli sociali.
Finanche la distribuzione delle carrozze nei treni, da parte delle Ferrovie
dello Stato, viene effettuata con criterio razziale. Sullo stesso binario
corrono la «Tartaruga » ed il «Settebello», per i longobardi puri, ed una lurida
tradotta, detta «Freccia del Sud», per gli emigranti meridionali.
Il fondo reazionario dell’anima italiana è di tal sapore ed è impastato di
pregiudizi calati nel costume locale dalla notte del medioevo cristiano e del
servaggio barbarico dei secoli.
Il Sofo
Arte popolare, tranello reazionario
Pensiamo alla Spagna. Tutta la borghesia italiana ostenta un amore sviscerato
per la Spagna dell'Escuriale, degli archi moreschi e dei toreri, un po' perché
il rapporto valutario è molto vantaggioso per vacanze pseudoculturali, ma anche
perché appare ormai come l'ultima roccaforte di una società mummificata al
barocco ed all'intolleranza, alla fucilazione degli avversari politici ed alla
miseria consacrata all'ottimismo di tipo partenopeo. È un paese simpaticissimo,
perché è lo unico d'Europa nel quale non sono possibili esperimenti di
centrosinistra e crociate di simpatia a Mao.
Da tali umori, saliti per capillarità fino ai piani superiori dell'arte
ufficiale, deriva forse l'iniziativa di presentarci ogni tanto, alla
televisione, lunghissime esibizioni di «flamenco », che come dice l'impaperata
annunciatrice non è soltanto danza, ma «religione e poesia».
In una di tali trasmissioni, si poteva ammirare tempo fa un famoso «maestro»
piccolo, panciuto, zoppo e pelato, che si dimenava in divine armonie
popolaresche, ridotte a stereotipati accordi di chitarra, ed un paio di tardone,
le quali, nel morso isterico della tarantola flamenca, scoprivano oscenamente
cosce arricciate dalla cellulite e ginocchia gonfie dall'artrite. E noi, un po'
malignamente, in quelle rughe, in quelle gambe storte ed in tutta quella specie
di masturbazione musicale, vedevamo, sì, l'orgoglio della «espanidad», ma anche
gli effetti secolari di una perenne denutrizione popolare.
Ma, soprattutto, ci venne di riflettere a quanto s'insista, nel nostro paese e
negli altri, anche di cosiddetta democrazia popolare, sul famigerato folklore e
sulle imitazioni popolaresche dei canti e delle musiche.
Certo, a prima vista, l'arte popolare sembra un elemento primigenio della
democrazia e della libertà, in quanto ha per protagonista il popolo, nella sua
spontaneità ed immediatezza; ma, a ben guardare, le manifestazioni di tale arte,
oltre ad essere rozze, ingenue e primitive, si sono stratificate nel tempo di
una storia di schiavitù, di miseria e di ingiustizia per le masse, mentre le
loro espressioni più comuni risentono di rituali a sfondo mistico ed erotico
insieme.
Per tali ragioni, crediamo, piacciono molto agli aristocratici ed agli snob, i
quali vedono, più o meno in-consciamente, in esse, la continuazione degli
spettacoli di corte, omaggio alla loro signorilità, in cui l'elemento servile,
abbandonandosi alla foga dell'istinto, evadeva dal servaggio, con la finzione
dei gesti, talvolta volgari, ma che divertivano il padrone.
Seguite, con attenzione, il fenomeno Modugno. Costui, con buona dose di
sfrontatezza e furberia, ha rimasticato, dinanzi ai pubblici superficiali di
Roma e di Milano, tiritere vecchissime dei cantastorie siciliani, stornellate
ingenue dei carrettieri dell'Etna, ed allegre baggianate studentesche, come
quelle della «donna riccia».
Circa quarant'anni fa, sul cancello d'ingresso di un cimitero di provincia, un
povero cieco cantava, tra la indifferenza dei pellegrini del giorno dei morti,
con lo stesso timbro e la stessa lamentosa violenza del Mimmo nazionale, ma
raccoglieva solo pochi centesimi nel suo piatto di latta.
Perché, con la stessa mercé d'accatto, oggi si arricchisce un furbacchione,
incollandogli anche un'etichetta di originalità, che non esiste? Perché, ed egli
forse non lo sa, altrimenti se ne offenderebbe, incarna la figura del giullare
di corte, aggressivo e divertente, e la borghesia del triangolo industriale
tanto più l'osanna quanto più egli è meridionale ed eccita, in maniera quasi
afrodisiaca, il subcosciente razzista dei padroni del vapore.
Un tipo come quello, in ditta non lo vorrebbero certo, col naso adunco ed i
capelli lunghi, ma nei locali di divertimento il sapore arabo della sua voce
nasale fa molto esotico e piace, piace da morire.
Il guaio è che qualcuno, favorendo tali fenomeni deteriori, crede di fare il
socialista; ma socialista non si diventa, scendendo al gusto dell'immediato e
dello ignorantesco, ma combattendo per l'elevazione di tutti e bocciando
inesorabilmente ogni compiacimento «realistico» per la massa, come animalità e
miseria spirituale.
Il polliciaio
Siamo a "i miserabili"
A Verona, una delle città «cattoliche» della Repubblica Italiana, è stato
arrestato sotto l'accusa di peculato e falso ideologico, il prof. Zanotto,
presidente della Provincia ed ex-sindaco del capoluogo.
Dopo i casi Ippolito, Bazan,Aliotta e simili, l'arresto di un notabile, dato che
ufficialmente le caste del sangue sono state abolite dalla Costituzione e quelle
del censo sono inconfessabili, non dava più da tempo molta emozione. Si tratta
di cittadini che, ove incappino nelle maglie del codice penale, debbono rendere
conto alla giustizia come qualsiasi altro mortale, se è vero che l'immunità ed
il privilegio, l'investitura, e lo ius primae noctis si indicano agli studenti
delle medie come caratteri del feudalesimo medioevale.
Ma a Verona per l'arresto del democristiano Zanotto è successo il finimondo.
Sessanta sindaci, tutte le gerarchie amministrative veronesi e non sappiamo chi
altro, si sono dimessi dalle cariche e hanno finanche organizzato una sfilata
davanti alle prigioni per protestare contro l'arresto.
Cioè a dire, la fazione clericale, che da venticinque anni si è fatta affidare
dagli italiani la tutela del loro destino nazionale, non riconosce la
giurisdizione del magistrato, sui fatti criminosi del territorio, quando
riguardano i suoi gerarchi, che, pertanto, sarebbero unti del Signore ed al di
sopra della legge.
Il fatto è di una gravità eccezionale, perché, non solo tradisce le disposizioni
mentali dei gruppi di potere, che si sono impossessati del Paese dopo la
sconfitta militare del 1945, ma ci riporta, in pieno, all' ancien régime del
privilegio formale e della casta sociale.
L'ispettore Javert, personaggio icastico della fantasia di Victor Hugo,
perseguiva inflessibilmente Jean Valjean, non perché fosse convinto o avesse le
prove della colpevolezza interiore del galeotto evaso, ma perché egli
apparteneva, dalla nascita, alla massa dei «miserabili », privi di unzioni
divine, nelle cui file, solo, può fiorire la criminalità.
Noi non sappiamo se il prof. Zanotto abbia commesso i reati ascrittigli dal
Giudice Istruttore e gli auguriamo, per le sorti del costume italiano, piuttosto
incerte, che egli possa dimostrare la sua innocenza. Ma neanche i suoi
correligionari lo sanno.
Le dimissioni ed i cortei di protesta sono atti di rivolta contro i poteri dello
Stato ed i democristiani, se anche pensano di potere, ancora per molto tempo,
amministrare i Comuni come parrocchia, e le Provincie come diocesi, non pensino
di potere inverare l'ipotesi diffamatoria che l'Italia sia, malgrado le sue
sventure, una colonia americana concessa in enfiteusi al Vaticano.
P. F. A.
De Gaulle
In Italia vige la triste abitudine dell'offesa all'avversario politico,
soprattutto se morto. Illustri sconosciuti, armati di astio, di frustrazioni e
di assurda presunzione, si siedono in cattedra ed attaccano a sparlare di uomini
politici che, nel bene e nel male, hanno partecipato da Capi alla Storia umana.
Detto questo per contraddistinguerci dalla pletora democratica tanto
convenzionale quanto decrepita, dei vari Ricciardetto che abbiamo visto pigolare
da tutti i giornali, esaltando ciò che fino a ieri avevano aspramente approvato,
con articoli che dimostrano solo, negli autori, la voglia di farsi notare come "facitori
di bei pezzi", vogliamo dire su De Gaulle quanto ci sentiamo e dobbiamo. Non ci
permetteremo di dichiarare, come fanno i nostri presuntuosi cacasenno della
politica sedentaria; ci limiteremo solo a dissentire mostrando la nostra
IRREMOVIBILE AVVERSIONE per certi atteggiamenti; oppure se è il caso,
approveremo.
L'uomo De Gaulle, per la sua tempra di vero soldato dell'epoca moderna e di una
Francia tuttora pervasa di Sciovinismo, ha tutto il nostro personale rispetto.
Egli è un uomo che ha giocato fino in fondo, con spartana spietatezza, tutte le
carte, e di ciò gli diamo positivamente atto.
De Gaulle politico nasce praticamente nella lotta contro la Germania ed il
tentativo nazista di unificare l'Europa continentale, mettendosi, in nome dello
onore nazionale, al servizio dell'Inghilterra, cioè del vero autentico nemico
della Francia e dell'Europa.
La lotta tra Francia e Inghilterra non è una cosa nuova. Diciamo intanto che
l'anima predatrice della oligarchia inglese si è esplicata nei secoli sempre a
danno delle potenze europee. Per soffermarci soltanto all’epoca più recente,
dalla fine del '600 l'Inghilterra perseguì implacabilmente le nazioni europee
con una continua pressione sui mari, finché, con la vittoria di Saintes (1782)
sulle marine riunite di Francia e Spagna, suggellata dal trattato di Versailles
dello stesso anno, l'Inghilterra si impossessò della maggior parte dei domini
francesi d'oltremare: America ed India. Quel trattato decreta anche la servitù
economica della Francia imponendo letteralmente a questa nazione l'importazione
di prodotti inglesi a tutto detrimento della produzione e del commercio
francese. Le guerre che seguiranno, come vide assai bene lo Schlegel, non,
saranno che il suggello di un simile trattato: «una crociata per imporre lo
zucchero ed il caffè, i percalli e le mussoline ». Questo è il nodo gordiano che
cercò di sciogliere Napoleone. Come dice il VandaI "il regno di Napoleone non è
che una battaglia di dodici anni, data agli inglesi attraverso il mondo". E
saranno gli inglesi che, dopo aver sfruttato gli intrighi d'Europa contro di
Lui, gli daranno il colpo finale a WaterIoo. E Napoleone si consegnerà agli
inglesi quali suoi effettivi nemici, per mostrare al mondo fino a che punto può
arrivare la perfidia albionica, attraverso la conoscenza delle sofferenze alle
quali sarà sottoposto a S. Elena.
È noto che il governo inglese versava direttamente alla corte d'Austria ed a
quelle di molti sovrani e prin-cipi regnanti della Germania le quote di
arruolamento delle soldatesche di quei paesi per le campagne ai propri ordini.
Si arricchirono alcuni di tali sovrani copiosamente. Era stato tutto previsto
anche per le liquidazioni spettanti ai combattenti, e tre mutilati contavano per
un morto! Altra operazione inglese fu la campagna diffamatoria a mezzo stampa,
organizzando la diffusione ad ogni livello e per tutta l'Europa di libelli zeppi
di calunnie, e stipendiando giornalisti e scrittori ovunque. Il sottofondo di
questi scritti era di far figurare gli anglosassoni come inviati della
Provvidenza per castigare i cattivi e premiare i buoni. Perché tutto questo
astio? Solo a causa della lotta per il predominio? Evidentemente no.
Infatti, come dichiarò Luigi Bonaparte nel suo prezioso volumetto «Des idées
napoleoniennes»: "Napoleone aveva costruito in Francia tutto ciò che deve
precedere la vera libertà". L'intera azione napoleonica, all'interno del suo
Impero, ebbe un ben preciso e delineato programma. Istruttiva la se-guente frase
riportata dal Las Cases: "mai io volli innalzare alcun finanziere agli onori. Di
tutte le ari-stocrazie, questa mi sembra la peggiore… Veramente, non potevano
presentare altro che delle sorgenti avvelenate e rovinose, come gli ebrei e gli
usurai. Essi avevano diretto il Direttorio e pretendevano dirigere anche il
consolato. Si può dire che erano allora la testa della società e che vi tenevano
il primo rango... Uno dei passi che feci fare alla società fu quello di far
rientrare tutto questo falso splendore nella folla".
Si può capire così l’odio forsennato degli inglesi verso Napoleone. Lo stesso
odio che animò inglesi e yankees contro l'Europa fascista, e che li spinse ad
agire con gli stessi mezzi che avevano adoperato contro l'Europa napoleonica.
Queste note su un recente passato troppo presto dimenticato dagli Europei
servano per capire in profondità l'importanza negativa dell'azione di De Gaulle
nell'ultimo conflitto. Azione determinata per lo più da risentimenti
nazionalistici, che non vanno al di là delle guerre del 1870 e del 1914-18,
nelle quali guerre la pressione anglo-americana fu determinante.
Né vale l'ipotesi che mettendosi col probabile vincitore, la Francia divenendo
chissà come vincitrice della guerra, avrebbe potuto ottenere notevoli vantaggi.
Lo stesso equivoco di tanti badogliani. Fu infatti l'America che estromise la
Francia dal SudEst asiatico e dall'Africa del Nord: per chi non lo sapesse, la
carta dell'Indipendenza Algerina fu stilata a New York nel 1943.
Un'altra indicazione precisa si può trovare nel bombardamento della flotta
francese e conseguente sua inattivazione da parte della flotta britannica. Quali
che siano state le ragioni addotte, sta di fatto che si volle approfittare di
una giustificazione favorevole per colpire ancora una flotta che aveva sempre
dato fastidio ai padroni dei mari.
Nella stessa linea logica va sottolineata anche la inutilità dell'atteggiamento
di Pétain verso la Germania. Pétain si muove nello stesso mondo sentimentale di
De Gaulle. Non con una alleanza di compromesso, costantemente elusa, si potevano
fare gli interessi d'Europa e della Francia, ma con una lotta decisiva contro
tutte le potenze nemiche d'Europa.
Tornato in Francia dopo la riconquista, De Gaulle si dà ad una epurazione
crudele eliminando fascisti e nemici personali. Nessuno è risparmiato. I
processi istituiti a suo nome saranno sempre tristemente famosi.
Messosi in disparte, eluse le grosse responsabilità che si era assunto nel
conflitto, lasciando che la Repubblica restaurata, socialdemocratica e
massonica, liquidasse le ultime parvenze dell'impero, sacrificandovi volutamente
in una lotta disperata, i migliori uomini d'Europa (di tutta l'Europa) ancora in
piedi. Leggasi in merito la imponente opera letteraria di Lartéguy. Poi fu la
crisi algerina. Il significato e la portata politica della cessione
dell'Algeria, fatta da un uomo chiamato al potere da coloro che l'Algeria
volevano francese, non è ancora possibile valutare. Un giudizio può invece farsi
sul modo con cui fu realizzato un tale programma. Prima si impose all'Armata di
promettere ogni assistenza agli algerini che si fossero impegnati con la
Francia, per una lotta ad oltranza; poi si obbligarono ufficiali e soldati a
tra-dire coloro che con fiducia avevano preferito una nazione europea
all'ipotetico socialismo africano. I migliori fra i militari, quelli cioè che
percepiscono il senso dell'onore, furono messi in un lacerante dilemma. Gli
opportunisti ubbidirono al potere centrale, i più nobili si ribellarono. Una
seconda epurazio-ne si riversò sulla Francia ad opera di De Gaulle. Anche questa
eliminava gli uomini migliori dai posti di comando.
Per quanto riguarda l'azione politica susseguente, l'impegno della Francia come
leader d'una Europa sganciata dalla tutela e servitù all'America, se ne è già
trattato, su queste pagine e su altre nostre pubblicazioni. A nostro avviso, e
la recente storia della Francia ce lo ha dimostrato, non potrà esistere
un'Europa libera e indipendente, se le sue strutture interne non poggeranno su
istituzioni che abbiano come supporto un’ideologia che faccia piazza pulita di
tutte le leggi coniate in modo da lasciare campo libero all'economia ed agli
speculatori internazionali. Leggi che, create dall'utopia giacobina, precludono
agli Stati ogni intervento tendente a subordinare l'economia ai loro fini. Per
raggiungere questo risultato è necessaria una autentica rivoluzione nella
politica, nei costumi e nella scelta delle persone.
E siccome la gramigna forma sempre un groviglio, una simile rivoluzione può
avvenire solo se attuata da uomini del tutto nuovi. Ecco quindi che gli
atteggiamenti della Francia gollista in sede internazionale e di Comunità
Europea, se positivi di per sé, sono privi di un reale significato storico e
politico. A meno che, da queste premesse, non nasca una corrente di opinione
pubblica che cominci a porsi dei problemi reali. Ma ciò sembra improbabile. La
Francia prima, durante e dopo De Gaulle che vi ha portato un pizzico di
poujadismo, è stata saldamente nelle mani dei finanzieri e dei plutocrati.
Il suo ideologo è Servan-Schreiber, ebreo socialista, il quale vede la grandezza
europea nell'aumento delle esportazioni, nel ribasso di qualche centesimo del
prezzo ultimo di costo, per «battere gli altri» essere « meglio situati» di
loro, ed infine « vendere, vendere, vendere», vendere o morire, vendere o essere
asfissiati. Egli vuole attuare l'unione delle nazioni europee solo per
americanizzare l'Europa, rivaleggiare con l'America sul suo proprio terreno,
superarla nel gigantismo, nella eterna competizione, cioè su una strada in fondo
alla quale si vedono soltanto crisi dovute a questa concorrenza a morte e, oltre
a queste crisi, la catastrofe e l'anarchia.
Né certe iniziative del gollismo tendenti a far partecipare i dipendenti ai
ricavi delle aziende erano de-terminate dalla volontà di uscire anche se
gradatamente, dalla morsa dell'economia. Bensì erano un palliativo per fermare
in tempo quello stato di tensione che ampiamente fomentato dalla CIA, sarebbe
poi sfociato in quel vasto movimento che pervase tutta l'Europa e che andò al di
là e contro le intenzioni degli stessi agenti al servizio dell'oro.
Un'ultima considerazione. Le onoranze attribuite a De Gaulle eguagliano per
pompa quelle a suo tempo fatte a Churchill. Ma come quest'ultimo fu il
liquidatore dell'impero inglese proprio per la protervia con cui volle
combattere i tedeschi, così De Gaulle fu il liquidatore dello impero francese,
malgrado sbandierasse chissà quale « grandeur».
I popoli hanno sempre bisogno di grandi uomini da venerare, anche a dispetto
della storia, la quale si incarica poi di far giustizia. Chi, infatti, sente più
parlare di Churchill?
I grandi uomini del XX Secolo giacciono ancora senza onori ufficiali.
Giorgio Vitali
Un vescovo terribile confessa il peccato del secolo:
"da giovane sono stato fascista"
L’Europeo, settimanale politico dei radicali di mezza tacca, tra i dubbi sul
divorzio, le amenità di Ruggero Orlando, i pettegolezzi su Ugo La Malfa, sul
regista Manfredi, sulla Guerra in Oriente, sul diavolo Manson, e sulle pere, ci
ha rifilato alle pagine 18, 19, 20, 21, 22, 23, del n.34 (1292) del 20 Agosto,
una corposa intervista resa da Monsignor Helder Camara, arcivescovo di Recife e
Olinda, ad Oriana Fallaci della quale peraltro, in seconda di copertina, viene
vistosamente reclamizzato il «Niente e così sia» che le ha fruttato il premio
Bancarella '70.
Sappiamo come si fanno le interviste. Quello che i due hanno stabilito di far
comprendere lo si capisce di getto. E si capiscono anche le forzature che il
mestiere ha fatto ottenere alla direttrice dell'incontro: mestiere di donna e
mestiere di giornalista. Il pezzo è in ogni caso azzeccato ed è palesemente
scomodo per diversi personaggi; tuttavia non ci consta che ci siano state
smentite, e questo significa che quanto è stato asserito dall'intervistato è
stato approvato e viene confermato in loco alto e basso. Una diretta chiamata in
causa, contenuta nel pezzo centrale del servizio, reclama una risposta che ci
spiace di dover dare con un po' di ritardo. Abbiamo scartato l'idea di una
risposta sistematica a tutta l'intervista perché l'interesse che per noi riveste
lo argomento della chiamata in causa si sarebbe stemperato in mezzo a polemiche
di importanza subordinata fino a svanire, e questo vogliamo evitarlo. Ed eccoci
al dunque. Oriana Fallaci ha aperto il cancelletto del giardino e l'intervista è
cominciata in un clima di auto esaltazione reciproca. La Fallaci ha quindi fatto
sfogare l'interlocutore con il racconto delle prime vicende personali, ne ha
bloccato i riflessi ed ha fatto cadere le ultime difese con la confessione di
socialismo e con le confidenze su Marx e sugli imperialismi dei giganti. Il
paziente (o la vittima) maestro di confessionale, è ormai abbandonato sul
lettino psico-analitico. La giornalista gli chiede:
D: - Ci fu un periodo, nella sua vita, durante il quale lei abbracciò il
fascismo. Come fu possibile? E come giunse, dopo, a scelte così diverse? Perdoni
il brutto ricordo.
Il paziente (o la vittima?) risponde.
R: - Lei ha tutto il diritto di pormi quel brutto ricordo ed io le rispondo
senza vergogna. In ciascuno di noi dorme un fascista e talvolta esso non si
sveglia mai. talvolta invece si sveglia. In me, si svegliò quand'ero giovane.
Avevo ventidue anni, sognavo anche allora di cambiare il mondo, e vedevo il
mondo diviso tra destra e sinistra. Cioè fascismo e comunismo. Scelsi il
fascismo. Si chiamava Azione Integralista, in Brasile. Gli integralisti
portavano le camicie verdi anziché le camicie nere come gli Italiani sotto
Mussolini. E il loro motto era Dio-Patria-Famiglia: un motto che a me andava
benissimo. Come giudico ciò? Col mio semplicismo giovanile, con la mia buona
fede, con la mia mancanza di in-formazioni: non c'erano molti libri da leggere,
né molti uomini sani da ascoltare. E anche col fatto che il mio superiore, il
vescovo di Ceara, fosse favorevole e mi avesse chiesto di lavorare con gli
integralisti. Ci lavorai fio no a ventisette anni, sa'? Cominciai a sospettare
che quella non fosse la strada giusta solo quando giunsi a Rio de Janeiro dove
il cardinale Leme, che non la pensava come il cardinale di Ceara, mi ordinò di
abbandonare il movimento. Le racconto ciò senza imbarazzo perché ogni
esperienza, ogni errore, arricchisce ed insegna: se non altro a capire gli
altri. Ai fascisti di oggi io so quel che dico quando dico: non c'è solo il
fascismo, non c'è solo il comunismo, la realtà e assai più complicata. Ma lei
vuole sapere come giunsi alle scelte di oggi. La risposta è semplice: quando un
uomo lavora a contatto della sofferenza, finisce sempre col restare incinto
della sofferenza. Molti reazionari sono tali perché non conoscono la miseria,
l'umiliazione. Quando restai incinto? Chissà. Posso dire soltanto che la mia
gravidanza esisteva già nel 1952 quando fui nominato vescovo. Nel 1955, l'anno
del Congresso Eucaristico internazionale, era già una gravidanza avanzata.
Partorii le mie nuove idee un giorno del 1960, nella chiesa della Candelaria,
per la festa di San Vincenzo de' Paoli. Salii sul pulpito e cominciai a parlare
della carità intesa come giustizia e non come beneficenza.
Le gravidanze extrauterine di Monsignor Camara ci avrebbero interessato se non
avessimo conosciuto il principio della solidarietà, principio che il Fascismo ha
istituzionalizzato ed attuato in Italia nella sua azione di governo giungendo a
rivoluzionare il rapporto di lavoro subordinato in un rapporto di
cor-responsabilità nella impresa socializzata della Repubblica Sociale. Don
Camara ha quindi scoperto l'ombrello, frusto, se vuoI raccoglierci sotto gli
uomini di serie B per educarci a chiedere il prosciutto (invece del pane e dei
biscottini), a restare quindi eterni postulanti, anche se più esigenti. Ma
queste sono notazioni incidentali.
Occorre mettere in luce il falso storico della partecipazione del Camara al
Fascismo e come la sua falsa posizione serva la strategia dell'antifascismo
radicale. L'ex oppositore del comunismo Helder Camara va senz'altro assolto dal
suo peccato di gioventù del quale parla col muso storto di tanti maddaleni
pentiti. La formula dell'assoluzione è quella piena. Infatti non vi è dubbio che
il fatto non possa costituire il reato di cui il nostro si autoaccusa. A
ventidue anni il prete Camara ascolta la parola del proprio vescovo e si mette
al seguito delle camicie verdi di Getulio Dornelles Vargas; siamo nel 1931. Ci
resta tranquillamente per cinque anni, fino a quando un altro vescovo non gli
ordina di smetterla. Buono buono il futuro vescovo terribile, come era entrato
esce dal movimento integralista brasiliano, senza scosse e senza lacerazioni.
L'unica cosa di cui si sa arricchire interiormente in questa sua vicenda è
l'adesione al trinomio Dio-Patria-Famiglia di cui predicava Mazzini in Europa
circa 150 anni fa e nessuno fino a questo momento si è mai peritato (menchemeno
noi e nemmeno Oriana Fallaci che queste cose le sa) di definire fascista
Giuseppe Mazzini, morto cinquanta anni prima della Marcia su Roma. Il nostro si
sente tuttavia autorizzato a montare in cattedra per far sapere ai fascisti che
la realtà è assai più complicata e che non ci sono solo il fascismo e il
comunismo.
Altra cappellata del prete Camara. Cominciamo da questa coda. Contro il Fascismo
non c'è solo il comunismo. Infatti ci sono tutte le componenti del mondo
cosiddetto libero, quindi gli occidentalisti che vanno dalle destre alle
socialdemocrazie, alle democrazie cristiane, ai regimi franchisti, per arrivare
al radicalesimo di scuola francese o kennedyana, e poi ci sono Paolo VI e Helder
Camara suo braccio destro tra le favelas brasiliane, insieme a tutte le
massonerie e ai sinedri internazionali. Per essere concisi ci siamo Noi, il
Fascismo, da una parte e dall'altra il composito resto del Mondo.
Questa situazione dura dal 1939; discuterne nel merito le opportunità e le
conseguenze è materia che esula dalla presente risposta. Sia dunque chiaro a
chiunque spetti di avere chiare le idee che il Fascismo non può essere confuso
con le schiere degli anticomunisti. Rimanendo nel tempo e nella realtà, il
Fascismo è prima contro gli immortali principi dell'89 per una diversa scelta di
civiltà e quindi è contro tutti gli epigoni, comunismo compreso. Questa la
realtà che non è complicata né assai né poco. Le degenerazioni ovviamente
restano fuori del quadro, ed i degenerati sono fuori del Fascismo e nel campo di
Agramante. Così il MSI oggi, così ieri G.D. Vargas, che non fu mai fascista, con
buona grazia dei suoi oppositori. È vero anche che la contraria versione è un
macroscopico falso e nessun valore assume il fatto che venga largamente diffusa
e pubblicizzata anche con il concorso compiaciuto del prete Camara. A fugare
ogni equivoco valga il comportamento del Vargas durante il secondo conflitto
mondiale.
Rimasto fuori del Fascismo egli prese parte alla crociata contro il Fascismo. Il
22 agosto '42 dichiarò guerra alle potenze dell'Asse, nel febbraio '43 aderì
solennemente alla Carta Atlantica. Tale atteggiamento non si limitò alla
affermazione dei principi; egli inviò contro l'Europa un corpo di spedizione
brasiliano che sbarcò a Napoli nel luglio 1944 e combatté contro la R.S.I. ed i
suoi alleati. Sono fatti che si commentano da soli.
Resta da esaminare come l'atteggiamento di Monsignor Camara serva la strategia
radicale.
Per i radicali, i Paesi dell'America Latina sono un vasto mercato da acquisire
alle necessità del produttivismo e del consumismo. Sempre buone le vecchie
tecniche della subordinazione economica e della Pressione dei bisogni provocati.
Una immensa area ancora vergine e tutta da scoprire a questi fini.
L'abbattimento dei regimi reazionari esIstenti è perciò soltanto il primo
momento tattico della politica ispirata da quella constatazione e viene
perseguito perché possano instaurarsi il sinistrismo ed il democraticismo,
naturali portatori dei valori economicistici della civiltà radicale. La morte di
Kennedy e la affermazione negli USA di una linea politica che con Johnson prima
e Nixon poi ha abbassato il discorso distensivo dalla funzione di copertura
ideologica a semplice calcolo di convenienza politica, dal quale inoltre non
sono estranee posizioni nazionalistiche, ha portato ad un riflusso delle chances
dei radicali. Ecco quindi la necessità di cominciare a porre le basi per un
rilancio su vasta scala del dise-gno interrotto dalle fucilate di Dallas e per
prima cosa la necessità di un distinguo dalla attuale politica della Casa
Bianca. L'occasione è offerta proprio dalla contestazione agli USA, presente in
tutta l'America Latina.
Da vecchia data esiste un concomitante disegno di Paolo VI che, morto Kennedy,
non ha mancato occasione per esaltarne la politica. Il disegno papale per un
rilancio del prestigio t; dell'influenza temporale della Chiesa a livello
mondiale trova possibilità di affermazione solo nel contesto distensivo iniziato
dal cattolico Kennedy, il solo contesto capace di consentire l'inserimento del
discorso sul pa-cifismo e sul dialogo col mondo moderno propri del Vaticano. Il
ponte tra radicali e cattolici, interrotto dall'epoca della morte del primo
Kennedy, deve perciò essere restituito alla sua antica funzione, con la cattura
di quanti intendessero sottrarsi all'originario disegno sul quale le due forze -
la radicale e la cattolica - si saldano.
La protesta di monsignor Camara, mitizzabile strumento di penetrazione tra le
masse brasiliane, non esce da questo disegno nel quale si incastona esattamente.
E questo è il significato del vantato exequatur pontificio (il Papa lo sa e non
disapprova). Altro che vescovo terribile.
Bruno Ripanti
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