Italia - Repubblica - Socializzazione

 

Rivista trimestrale
di formazione politica

Direttore politico: P. F. Altomontea

Direttore responsabile: Romolo Giuliana
Amm: Roma,
via
D. Fontana, 12

Anno III - n. 1
Febbraio - Marzo19
71


SOMMARIO

1. Ricapitoliamo


2. La nuova società * P. F. Altomonte


3. Genesi e dissoluzione della categoria di progresso * H. P. Bohm

 
4. La socializzazione delle Imprese * Hohenberg


5. La destra corporativa * Romolo Giuliana


6. Grecia: Colonnelli, Reazione, Fascisti * Bruno Ripanti


7. Il candore di Colombo * "Il polemista"


8. Gli emuli di Brandt * Aeuropeus


9. La scuola nuova * Comenio


10. Razzismo italiano * Il Sofo


11. Arte popolare tranello reazionario * "Il Polliciaio"


12. Siamo a "I Miserabili" * P. F. A.


13. De Gaulle * Giorgio Vitali


14. Un vescovo terribile * Bruno Ripanti
 


Ricapitoliamo

 

Azimut riprende le sue pubblicazioni dopo una forse non breve interruzione, durante la quale ha riordinato le file della sua redazione, ed assume una veste definitiva, rispetto al fine che si propone di una chiarificazione storica, dottrinaria, politica del Fascismo.
Nel frattempo, l'evento politico ed organizzativo più cospicuo in seno alla F.N.C.R.S.I., di cui questa rivista è, per ora, organo ufficioso, appare l'elezione alla Presidenza di Giorgio Pini, la cui personalità non ha bisogno di precisazioni.
Rivolgiamo a lui il saluto e l'auspicio di una sempre più distinta caratterizzazione politica della Federazione, perché non si confonda con le posizioni reazionarie di chi, a torto, si rifà alle stesse origini.
La Direzione Nazionale, riunita a Bologna il 31 gennaio 1971, sotto la Presidenza dello stesso Pini, ha stilato un documento politico che esprime, in forma categorica, direttrici ideologiche e programmatiche condivise da questa rivista.
Allo scopo di riannodare il discorso, che avevamo cominciato, ristampiamo i capitoli fondamentali, di carattere dottrinario, della nostra interpretazione, già pubblicati nei numeri precedenti.

 



Individuazione storica della trascendenza

 

Uno degli errori correnti della interpretazione pseudo dottrinaria dello Stato fascista, che accomuna i devoti sentimentali e gli avversari rabbiosi, è che esso sia per destinazione tirannico ed autoritario, non solo, ma implichi la dittatura personale del suo Capo.
Tale errore ha radici psicologiche di suggestione storica, perché, di fatto, il regime fascista del ventennio fu attivo come dittatura "sine die" di Mussolini, a partire dal 3 gennaio 1925, e la diarchia dei poteri formali ebbe manifestazioni autoritarie di vero e proprio stato di polizia.
Ma l'equivoco non nasce solo dalla confusione possibile tra la teorizzazione filosofica dell'annuncio storico mussoliniano ed il suo regime personale del compromesso con le forze conservatrici della società italiana sorta dall'unità politica del 1870, ma, anche e sopratutto, dall'assunzione troppo rapida di prestiti filosofici da fonti preesistenti di dottrina che non reggono all'analisi critica, una volta registrati gli esiti purtroppo negativi nell'ordine pratico.
Mussolini, grande uomo d'azione, non sentiva l'esigenza della coerenza filosofica, tanto è vero che egli usava con eccessiva disinvoltura i termini di trascendenza ed immanenza, ma ciò non toglie che la sua intuizione dello Stato sia suscettibile di verifica filosofica, alla luce di una concezione del mondo, ridotta a perfetta unità.
Ed il suo errore dottrinario più cospicuo fu quello di credere che la filosofia dell'attualismo di Giovanni Gentile potesse identificarsi con la dottrina del fascismo. La teoria dell'autoctisi costituiva bensì l'ultimo grande sistema di filosofia tipicamente italiano, e l'altezza morale oltre che intellettuale del suo autore è fuori discussione, ma la concezione della società che ne deriva, "in interiore homine", non è che una forma di superindividualismo e pertanto la negazione dello Stato annunciato dal fondatore del fascismo e fin qui poco e male teorizzato.
Alla base della concezione fascista dello Stato è una visione religiosa della vita che esclude la superbia romantica dell'assolutizzazione dell'individuo.
Tale religiosità non è ovviamente da confondere con alcuna mitologia confessionale e pertanto nega le teocrazia e le intrusioni sacerdotali nella società. È la coscienza del limite umano, agli inizi del processo spirituale, la invarcabilità dell'io che pone la condizionalità come trascendenza; ma è necessario riassumere i termini della sua possibilità storica.
Trascendente vuol dire che "sta fuori", ma non basta; occorre il vincolo del condizionamento. Se la forma dell'immediatezza ed invarcabilità dell'appercezione originaria dell'io è funzione di due opposti, limite e condizionamento, di cui non è possibile cogliere l'identità, onde essa è di un rapporto me-tafisico, mentre l'impossibilità di cogliere tale identità è assoluta trascendenza, questa trascendenza è di una assoluta realtà, universale, condizionante ambedue i termini del processo, l'oggetto ed il soggetto, e contenente tutta la molteplicità individuale.
Questa molteplicità, a sua volta, realizza la comunicazione tra i soggetti nell'integrazione processuale ed il condizionamento degli oggetti della attività spirituale, per cui tende a superare la sua struttura molteplice in unità.
Ciò può accadere perché l'unificazione delle condizioni si manifesta concreta e reale e cioè come "individuazione storica".
La individuazione storica della trascendenza però non è più la realtà assoluta condizionante il processo in seno all'individuo, ma si manifesta con i medesimi caratteri di condizionalità, nei confronti della molteplicità individuale colta dall'integrazione processuale della storia, di quella assoluta.
Se, pertanto, nell'atteggiamento mistico dello spirito che dà luogo alla religiosità circonfondente e fenomenologica di cui si diceva prima, la trascendenza è assoluta in rapporto al relativo, pura universalità nei confronti dell'individuale concreto, in quanto la sua unità ripone l'unità vivente dell'individuo, nel rapporto di condizionalità con la molteplicità individuale, questa è racchiusa in un processo di universalizzazione, per individuazioni sempre più estensive, che sono il gruppo, la comuni-tà, lo Stato.
Lo Stato, così concepito alla luce di una visione metafisica del reale che non si ferma all'attualità del processo storico, assolutizzato dall'idealismo, ma coglie i fermenti di tutto il pensiero filosofico contemporaneo, dallo storicismo di DiIthey al relativismo di Aliotta, dalla fenomenologia di Husserl alla gerarchia dei valori di Scheler, dall'aporetica di Hartmann allo stesso esistenzialismo europeo, rivalutato dalle più recenti considerazioni psicologiche di Merleau-Ponty, è uno Stato che non conculca l'individuo, ma lo realizza compiutamente e cioè lo conduce alla sua vera libertà. Ove si cerchi, difatti, l'essenza di quella condizionalità individuante che ha i medesimi caratteri della trascendenza, ma non comprende la posizione immediata dell'io, la relazione extraprocessuale ed il momento religioso dello spirito, incapace questo di sviluppo processuale e quindi sterile di fronte alla storia, si comprende con assoluta chiarezza, che la divinizzazione dello Stato (e, tanto meno, delle sue istituzioni) è impossibile.
In tal senso deve intendersi la tanto discussa libertà di coscienza, come autonomia del soggetto nell'attingimento dell'invarcabilità e della trascendenza, onde con Michoud si può affermare che «nessuna persona morale, nemmeno lo Stato, assorbe completamente la vita individuale dei suoi componenti ».
Lo Stato, cioè non può pretendere di attuare rivelazioni religiose, poiché, in tal caso, cadrebbe nella mitizzazione di tipo pagano, ma nessuna comunità può fondarsi sulla rivelazione religiosa, senza costituirsi in Stato terreno ed è la Teocrazia.
L'uomo integrale, nei suoi potenziamenti spirituali del pensiero, dell'azione e della fantasia, si realizza così tutto nello Stato, individuazione storica della trascendenza, ma proprio per la sua molteplice individuazione, questo non può condizionare l'autonomia del singolo nella intenzionalità o tensione finale di ordine assoluto e qui sta la perenne dignità della persona umana.
Autonomia e partecipazione necessaria si fondono, in tal modo, in un'unica registrazione della trascendenza.


Il limite come religiosità


L'intuizione mussoliniana che il Fascismo sia una concezione religiosa non ha trovato fin qui una giustificazione filosofica all’altezza del tema, anche se, sul piano pratico della fede che fa credito per le prove, abbia avuto manifestazioni grandiose di adesione individuale spinta fino al sacrificio.
Lo stesso Mussolini, del resto. non sapeva citare altro, nel 1922, sul «Popolo d'Italia», e nel 1929 in «Diuturna », che l'immagine patetica di Federico Florio morente che pronuncia parole di fede, a sostegno della sua lapidaria definizione della spiritualità fascista.
È ovvio, anzitutto, che non possa trattarsi di religiosità di tipo confessionale né tanto meno di fondamento cristiano, poiché il Cristianesimo pone non solo il dualismo tra spirito e materia, ma soprattutto, quello tra individuo e Stato sottraendo il primo alla giurisdizione del secondo, per additargli la sua piena realizzazione al di fuori della società umana e, se necessario, contro di essa, in perfetta adesione alla città celeste.
Se l'individuo si realizza invece nello Stato fascista, la Chiesa di qualsiasi confessione non può essere che una configurazione mitologica, la quale deriva, a sua volta, da una pretesa di dare sviluppo processuale a quella immediatezza ed invarcabilità dell'appercezione origina ria dell'Io, che si pone come impossibilità di cogliere l'identità dei due aspetti della presenza soggettiva, il limite e la condizione, e quindi quale trascendenza assoluta del reale e necessità di attuare il processo della storia.
Se la condizionalità sfocia storicamente nello Stato che trascende gli individui, il limite si manifesta immediatamente come religiosità.
Difatti esso indica non solo l'impossibilità di manifestarsi come presenza, se non attuando il processo e cioè ponendo davanti a sè l'oggetto, il non-io degli idealisti, ma anche l'insufficienza di tale posizione dialettica dello spirito, onde si registra la presenza dell'altro, l'alterità del pensiero contemporaneo, necessaria a cogliere prima la molteplicità individuale e quindi l'unità di tale molteplicità, cioè la trascendenza, nella sua unica, possibile individuazione storica, lo Stato.
L'individualismo romantico, assolutizzando il soggetto, perveniva alla più estremistica posizione antireligiosa dello spirito, molto somigliante alla superbia del mito di Lucifero, che nega la propria fonte del bene e si converte nel suo contrario, male e dannazione eterna.
Ma non è con i miti che si risolve i! problema del limite umano, registrato alle origini del processo, che pertanto ha un fondamento profondamente religioso, perché coglie la trascendenza assoluta del reale, in un momento mistico anteprocesso, che col processo non si confonde, ma a cui si lega nella po-sizione spirituale del valore.
Difatti, alla luce della nostra posizione della trascendenza vi può essere valore umano solo se l'atto processuale sia condizionato da un triplice rapporto: quello, che configureremo simbolicamente verso l'alto (la trascendenza), quello che pone necessariamente l'oggetto della propria attività (conoscenza, pratica od estetica che sia) e quello, finalmente, che registra la presenza degli altri soggetti spirituali e fonda la società.
Ogni solitudine in tale concezione non è solo antisociale, ma irreligiosa e priva di valore.
Tale aspetto della chiarificazione dottrinale è quanto mai importante poiché impone una scelta, prima di imboccare la grande via delle realizzazioni istituzionali.
La concezione fascista del mondo, dell'uomo e della società non ha addentellati con le altre che dominano storicamente i tempi più recenti. Qui sta il suo carattere rivoluzionario, di autentica originalità e qui sta la ragione della parziale adesione e quindi tiepida, piena di riserve mentali, al fascismo di tutti coloro che si mantengono fedeli ad una piccola, tradizionale religiosità casalinga di sapore liturgico e matriarcale. Ma qui sta anche la sua carica storica di avveniristica risoluzione dei rapporti umani, nel punto di crisi e di rottura della civiltà individualistica e della sua antitesi dialettica del collettivismo marxista .
Sia il liberalismo egoista che il marxismo livellatore sono categoricamente antireligiosi. Combattere i due poli dell'antitesi significa, soprattutto, distruggerne la matrice immanentistica e cioè bestialmente materialistica, senza cadere nel tranello dello spiritualismo mitologico e clericale.
Fondare, in altri termini, una altissima religiosità, senza preti.

I tre piani della giustizia


Una volta colto il metro di valore della spiritualità dell'uomo, che si realizza pienamente nello Stato, non per esserne limitato da libero, ma per esserne liberato dalla sua limitatezza individuale, la cui registrazione è momento mistico della religiosità, condizionaIità e trascendenza, occorre seguirne l'inserimento necessario nel processo della storia e cioè individuare la costituzione statuale della società.
L'errore dell'individualismo liberale è di vagheggiare una libertà come stato di natura dell'intuizione giangiacchiana, che si configura, nella sua manifestazione, come egoismo, negatore della società, ridotta ad amministratore e contabile, e deriva dall'assunzione surrettizia della spontaneità animale a matrice dello spirito.
L'errore del collettivismo è di vagheggiare una giustizia rivendicativa inserita nel mito di uno svolgimento dialettico della realtà storica, che appartiene invece solo al processo e quindi al puro campo delle idee.
L'intuizione possente dello Stato, che individua storicamente la trascendenza del reale e pertanto condiziona l’individuo per realizzarlo nella sua finale liberazione, conduce invece alla identificazione dell'autentica giustizia con l'autentica libertà.
Seguire il processo di inserimento dell'individuo nella società significa, quindi, individuare almeno tre piani di giustizia, che sono i gradini dell'ascesa alla finale libertà.
Un primo piano di giustizia, che garantisce all'uomo la possibilità di uscire dalla sua solitudine numerica ed anagrafica, per dar luogo alla prima manifestazione della sua personalità, è quello di fornirgli tutti gli elementi di ordine materiale e cioè economico, indispensabili a tale manifestazione.
Tale piano primitivo di giustizia rappresenta, spesso, per le ideologie di tipo marxista, il fine ultimo della rivoluzione, mentre, nella nostra enunciazione, ne rappresenta solo la base materiale. Materiale, a tal punto, che la sua attuazione, come appare nelle più recenti esperienze storiche del sistema, può con-cepirsi al di fuori o contro ogni esigenza di libertà.
È la presenza di un secondo piano di giustizia, nell'ulteriore inserimento dell'individuo nella società, a denunciare la presenza di un valore umano e la successiva spinta verso la conquista di quella libertà.
Tale secondo piano di giustizia permette all'uomo di assurgere ad una posizione di iniziativa e di scelta, che presuppone le capacità spirituali d'inventiva e di organizzazione
È il terzo piano di giustizia dello Stato, però, che accentua il significato di valore, nella struttura morale e giuridica della società, garantendo la conquista dei fini supremi dello spirito i quali contengono la libertà finale dell'uomo.
Qui si intravede abbastanza chiaramente il metro di valore della trascendentalità come impossibilità di commutazione in termini di economia delle attività supreme dello spirito, che, da sole e nella loro autonoma qualificazione, acquistano il diritto alla piena disponibilità dei mezzi strumentali, per attuarsi ed ottenere il loro pieno riconoscimento.
La gerarchia dei valori determina, a questo punto, l'autentica società degli uomini.
Appare necessario l'ulteriore passo della istituzionalità, che liberi il processo dell'integrazione sociale, dai piani inferiori dell'economia a quelli supremi della moralità.

 

La nuova società


Posta la realtà come trascendenza ed il limite umano come religiosità, l'indicazione di valore che si coglie, nella nostra concezione dello Stato, è costituita dalla triplice direzione dello spirito e cioè il suo momento mistico, d'immediatezza assoluta, la posizione dell'oggetto, che fa la storia, e l'alterità, che inserisce necessariamente l'individuo nella società, per la sua reatizzazione.
Alla triplicità del valore corrispondono i tre piani di giustizia, di cui abbiamo fatto cenno nei numeri precedenti.
Ma, come si realizza il triplice piano della giustizia, che, oltre a liberare l'uomo dalla schiavitù materiale del mezzo strumentale, gli permette di conseguire la suprema libertà morale e l'autentico valore umano?
Occorre il totale rinnovamento dei rapporti umani e, pertanto, una nuova struttura della società.
La precedente elaborazione dottrinaria dello Stato, la cui essenza non è stata interamente colta da tutti i nostri lettori e che noi vogliamo chiarire sempre più, avvertendo che essa è nuova e non intende riferirsi a forme di regime che, comunque, si siano configurate nella storia, antica e recente, delle istituzioni, fornisce, se colta nella sua posizione trascendentale, il metro di tutta l'attività umana, nelle sue forme individuali e collettive, pervenendo alla definizione chiara e convincente del «valore».
In stretta derivazione conseguenziale di quella definizione, noi affermiamo la necessità di sgombrare il terreno della storia da ogni classificazione astratta degli individui, che discenda da una unilaterale visione del problema dell'uomo.
Che cosa intendiamo per classificazione astratta degli individui e cosa vorremo sostituirvi, per conseguire il fine di cogliere l'uomo nella sua vera realtà?
Gli esempi della storia, che rendono chiara la necessità del rinnovamento sono numerosi,ma potremo accennare solo ai più significativi.
Le caste religiose delle antiche civiltà teocratiche, le classi fondate sul dato naturale della nascita e su quello materiale del censo, le cosiddette categorie sociali, derivate dalla concezione meccanicistica della civiltà industriale o tecnologica che dir si voglia, sono tutte da rigettare come insufficienti ad esprimere la vera essenza dei rapporti tra gli uomini e non sono suscettibili di eliminare, come noi vogliamo, ogni privilegio, per stabilire l’unico riferimento al valore umano.
Valore che può manifestarsi, come noi alla fine dimostreremo, attraverso qualsiasi "qualificazione" iniziale dell’individuo, all’atto del suo inserimento nella società.
È facile a questo punto intuire che il contenuto rivoluzionario della nostra posizione è tutto nella indicazione degli strumenti giuridici, e cioè degli istituti politici fondamentali, attraverso i quali può attuarsi la nuova società.
Nella eliminazione di ogni classificazione falsa per funzioni o predestinazioni, in virtù di una concreta assunzione dell'autentico valore umano si conquista la vera unità molteplice del Popolo, che comprende tutti i componenti della stessa comunità ed assurge a soggetto e protagonista di tutta la vita della società.
I singoli debbono necessariamente ed inevitabilmente inserirsi nella società, per realizzare il proprio "valore", cioè la propria personalità piena e completa, ma debbono conseguire contemporaneamente la loro massima libertà individuale, intesa come meta finale, come conquista morale, attuata attraverso la propria personale iniziativa e cioè senza coazioni e limitazioni di alcun genere, se non quelle dell'ordinamento giuridico da essi stessi voluto ed attuato.
Qui sta la fondamentale originalità del nostro sistema politico e sociale e la sostanziale differenza dai due sistemi opposti del liberismo e del collettivismo.
Il primo promette e vagheggia una libertà presuntuosamente perseguita dal singolo individuo,. chiuso ed isolato nella sua superbia e nel suo egoismo, che comporta inevitabilmente la negazione negli altri della stessa libertà che pretende per sè.
Il secondo aspira ad una esasperata supremazia della società nei confronti dell'individuo e realizza, soffocandolo, il paradosso delle più atroci ingiustizie nella conclamata finalità della giustizia.
È proprio questa nostra libertà voluta e conquistata con gli altri e per gli altri, che si identifica con la giustizia, nel manifestarsi delle singole personalità e nel costituirsi della gerarchia dei valori nella società.
Il problema si riduce quindi a determinare lo strumento istituzionale dello Stato, inteso come condizione di tutta la vita degli individui, e tuttavia come potenziamento della personalità capace di attuare la più piena libertà morale e la più ampia giustizia sociale.
La società attuale, astratta e falsa nella sua struttura e nei suoi rapporti, coglie della manifestazione umana i singoli aspetti particolari e non la complessiva e molteplice unità.
Perciò separa, sempre, i piani dell'attività spirituale, strumentandone il processo dal di fuori e spesso riducendoli in opposizione tra loro.
Citiamo alcuni esempi.
L'economia è senza dubbio il piano individuale dell'attività pratica. Ma nella nostra concezione dell'uomo e della società, non può prescindere dal suo superamento sul piano politico e su quello morale, per cui lo strumento di attuazione dei rapporti individuali, su tutti quei piani, deve essere tale da non impedirne il superamento e l'integrazione.
Oggi, invece, sul piano dell'economia, i rapporti umani si organizzano nell'ambito di una strumentalità puramente. economica, cioè di interessi materiali, che urtano continuamente contro l'ostacolo di altri interessi individuali collettivi. È da tale posizione che nasce, nella prassi sociale del nostro tempo il «sindacato».
L'esasperazione economicistica lo vuole «apolitico» e in tale aberrante illusione lo rende inefficace e nocivo agli stessi fini che esso si propone.
Sul piano della politica, lo strumento corrispondente alla posizione individualistica ed astratta della società è il «partito». Il quale vorrebbe soddisfare le esigenze peculiari di una cosiddetta democrazia ed invece finisce per negarla ed impedirne la stessa manifestazione.
L'associazione politica, su base ideologica, che in pratica è solamente l'espressione di un particolare interesse di gruppi, di classi e di categorie, secondo le cristallizzazioni sociali da noi negate e combattute, non ha riconoscimento giuridico nello Stato, ma determina la realtà politica del Paese, nella presunzione che sia indispensabile a chiamare i cittadini al suffragio libero ed universale.
Ma, come il sindacato, partendo da una pretesa apoliticità del suo fine meramente economico, entra in contraddizione con se stesso, perché, appena tenta di svolgere la sua funzione, rompe i suoi vincoli formali, e realizza la lotta politica degli interessi, così il partito denuncia immediatamente la palese contraddizione del suo fine politico e cioè di organizzazione della comunità con la sua natura antisociale e particolare, destinata a produrre equivoci e ad alimentare l'esasperata collisione delle forze opposte, anziché determinare la composizione sociale e l'integrazione individuale.
E a proposito di equivoci, si badi che la nostra enunciazione non esclude dalla sua condanna la soluzione del partito unico, strumento involutivo delle dittature e delle oligarchie, che il fascismo mutuò, nella contingenza storica, da uno dei suoi principali nemici, il bolscevismo, forse a causa della formazione originariamente marxista del suo Capo.
Sul più elevato piano dell'attività pratica, quello morale, un equivoco della stessa natura non manca. Alla comunità è generalmente negata la capacità di promanare principi morali, di essere depositaria, comunque, dell'etica sociale.
E, confinata nell'interiorità della coscienza individuale la morale si articola solo nelle manifestazioni organizzative della coscienza individuale, al di fuori della comunità politica e statale: le chiese e le sette massoniche, che alle prime fanno concorrenza sul piano morale, nell'assurda contrapposizione del "laico" e del "confessionale".
Economia, politica e morale, nella società contemporanea a democrazia quantitativa, che confina la qualità nel singolo e non intravede la necessaria integrazione tra le due categorie dalla ragione teoretica, la qualità e la quantità, nel rapporto sociale, si svolgono in una distinzione autonoma di fini, che costituisce la più feroce frattura dello spirito e la negazione dì quell'unitario svolgimento, nel mondo dei valori, per cui i piani sono tanti, ma il fine è unico ed universale.


P. F. Altomonte
 


Genesi e dissoluzione della categoria di progresso


Una sola ed identica luna si riflette in tutte le acque.
Nell'acqua tutte le lune sono una sola cosa nell'unica luna.
(Buddhismo Zen)


Qual è la situazione dell'uomo nella civiltà industriale avanzata?
Alla progressiva razionalizzazione funzionale corrisponde in essa una eguale razionalità sostanziale degli uomini?
Quella tecnica, che si vorrebbe neutrale, può essere utilizzata per un miglioramento effettivo, e non solo apparente, della situazione umana?
La libertà di cui fruisce l'uomo della civiltà del benessere è una libertà reale, o non è piuttosto una libertà apparent ed una reale schiavitù?
Gli interrogativi che qui abbiamo esposti richiedono ancora una ricerca ben più dettagliata ed una motivazione più approfondita di quelle di ben noti « mistificatori» moderni.
Noi ci siamo abituati a calcolare con geometrie non euclidee. Dovremo ora abituarci a far dei calcoli servendoci di del tutto diversi modi di essere della cosiddetta temporalità «esistenziale».
Di fronte ad avvenimenti lontani nel passato, lo storico può compiacersi di ascoltare testimoni, di cogliere dati sicuri, di decidere del vero e del falso. Ma ciò sarebbe assurdo se applicato a quanto av-venne nel passato più prossimo e che continua nel presente.
Infatti gli avvenimenti che stiamo vivendo ci hanno afferrati tutti e trascinati a forza in qualunque punto ci trovassimo: hanno tanto svelato la nostra discutibilità da avvelenarci ogni gusto nella funzione di giudici.
La convinzione che anima questo nostro lavoro, discutibile forse e talvolta per la sua fredda determinatezza inaccettabile,ma sempre sollecitante ed animato da una sofferta preoccupazione per l'autenticamente umano, è che il sistema di vita della società industriale si basa essenzialmente sull'uso razionale dell'irrazionale. Avviene così che !'irrazionalità tipica della civiltà industriale non viene eliminata o superata, ma unicamente mascherata e mistificata. La società industriale moderna è carat-terizzata da una efficienza schiacciante e da un sempre più elevato livello di vita. Suoi scopi sono la produzione ed il consumo, che richiede una nuova produzione per un nuovo consumo. La sostituzione dello schema normale: merce - denaro - merce, in quello abnorme: denaro - merce - denaro è la legge costitutiva della società industriale e dell'ideologia che l'accompagna, il pragmatismo che strumentalizza ogni oggetto (natura - prossimo - Dio) in nome di miti ingenui quali il Progresso e la Efficienza: operazionismo e comportamentismo ne sono gli aspetti scientifici. In tal modo il valore di scambio so-stituisce il valore di verità. La società industriale avanzata determina insieme sia il prodotto che le ope-razioni per alimentarlo e per espanderlo.
Il «Social Control» richiede uno sviluppo quasi ossessivo della produzione e del consumo: i mass-me-dia di questa civiltà confortevole e levigata, igienica e funzionale, strutturata e burocratizzata, lavorano sino all’istupidimento per potersi poi rilassare nell’istupidimento e per l'istupidimento: l'apparato impone le sue esigenze economiche e politiche (in vista della difesa e dell'espansione) sul tempo di lavoro come sul tempo libero, sulla cultura materiale, come su quella intellettuale.
Tutto in questa società è oggetto di produzione e di consumo: non solo i beni materiali, ma anche i beni di cultura, dalla scienza all’arte, dalla religione allo sport.
Le conseguenze di questo oppressivo sistema di produzione e di consumo sono la fine della libertà di pensiero e di critica (chi non si « allinea» e non si «accultura» è un impotente o un nevrotico), il rifiuto delle responsabilità, perché nel regno della «coscienza felice» non c'è posto per sensi di colpa, ed il calcolo si incarica di tenere a bada la coscienza.
Neppure la protesta contro questo trionfo dell'inumano sfugge alla produzione ed al consumo. La società dell'industria non teme ribellioni, anzi le sollecita nella misura in cui le inserisce nel sistema neutralizzandone in tal modo la potenza distruttiva.
La protesta perde la sua carica di «trascendenza» e diviene un cerimoniale industrializzato, una riprova della totale «immanenza» dell'industria, che tutto assimila e controlla.
L'uomo della società industriale non può che vivere e morire in modo razionale e produttivo. Una simile società è senza dubbio una società malata ed agonizzante, una società irrazionale e demoniaca: l'unione di una produttività crescente e di una crescente capacità di distruzione; la politica condotta sull'orlo dell'annientamento; la resa del pensiero, della speranza, della paura alle decisioni delle potenze in atto; il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti costituiscono la più imparziale delle accuse, anche se non sono la ragion d’essere di questa società ma solamente il suo sottoprodotto: la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e di sviluppo, è essa stessa irrazionale.
Parlare di libertà democratica in una società del genere non ha alcun senso. La politica langue e si estingue di fronte allo strapotere dei produttori e dei consumatori; le differenze ideologiche si fanno sempre più labili e gli opposti finiscono per coincidere in quello che è il fine supremo: l'aumento della produttività. Anche il marxismo non sfugge a questo processo: il proletariato elimina l'apparato politico della società industriale (capitalismo), ma non l'apparato tecnologico con tutti i suoi caratteri negativi di automazione e di alienazione, di eterodirezione e di frustrazione. La situazione dell’uomo della società industriale avanzata si riduce sempre ad una confortevole, levigata, ragionevole, «democratica» assenza di libertà.
Il dissolvimento di questa situazione e dell'intera categoria storiografica di «progresso» non può tradursi che col tramonto del mondo moderno e del mito del progresso.
Tale diagnosi della storia presente ci rinvia ad una nuova comprensione della struttura fondamentale dell'esistenza umana.
La storiografia sembra partire a prima vista dal ricordo: considerandolo più attentamente ci rendiamo conto che il ricordo rappresenta sempre una «scelta » nel passato, il che equivale sempre ad una cernita e quindi ad un oblio. La storia si scrive in funzione sia del ricordo come dell’oblio. Non basta: in ogni istante il presente confluisce nel passato, che si presenta a noi come un accumularsi di azioni compiute, il cui numero si perde nell'illimitato: per non perderci per non affogare in quel passato, siamo costantemente obbligati ad una scelta, ad un oblio, altrimenti rischieremmo di morire sotto il peso degli avvenimenti e delle idee.
I moderni, nani sulle spalle di giganti, sono in realtà gli antichi e la verità cessa di venire considerata come il punto di partenza dello svolgimento storico, per divenire invece il fine intenzionale, continuamente riproponentesi, del processo stesso.
Ecco perché la desacralizzazione borghese, tipica del mondo moderno, trova nell'esaltazione ottimistica del progresso uno dei parametri costanti, in cui convengono gli appartenenti alle più diverse correnti filosofiche.
L'ideologia pragmatistico-borghese, tipica del mondo moderno, coincide con questa esaltazione del progresso, con questa certezza dell’assoluta perfettibilità del reale: il perfettismo realista è una categoria mentale tipica dell’uomo moderno, quasi traduzione laica della speranza escatologica che animava l'uomo medioevale: se per l'Homo Religiosus della tradizione cristiana il progresso non può porsi che come passaggio verso il tempo della fine, come tensione verso la fine dei tempi, per l'Homo Oeconomicus dell'ideologia borghese-socialista il progresso si configura come graduale perfezionamento della situazione di benessere, materiale e spirituale, secolare comunque, della vita dell'uomo. Al punto che nell'escatologismo laico di ispirazione marxista la ricerca del progresso come dominio sempre più completo dell’uomo sulla natura diviene la molla della futura dialettica storica in un'umanità associata senza classi.
Ecco perché affermiamo la completa identità di due ideologie apparentemente contrastanti ed equidistanti: Capitalismo e Comunismo.
Giungiamo così ad una constatazione fondamentale circa la natura umana: l'uomo è oberato dai ricordi e dai simboli ed anche da ciò che attende dal futuro, e la ragione di questa sua esperienza consiste nel fatto che tutto ciò che ha pensato o realizzato cade immediatamente nell'imperfetto.
Questa constatazione insegna che per l'uomo non vi è mai nulla di definitivamente, perfettamente com-piuto. In altre parole: dobbiamo riconoscere di non avere mai a disposizione un mondo compiuto, un'ideologia completa, bensì un mondo ed una sua rappresentazione, che dobbiamo sempre realizzare nuovamente.
Non più svolgimento univoco della ideologia, ma pluralità di varie visioni del mondo, costantemente riproponentesi in alterno trionfo: il compito della storiografia filosofica, dunque, non è quello di indicare uno svolgimento lineare, univoco, ma di definire una tipologia irriducibile di concezioni del mondo.
Non più progresso dunque né mondo della tecnologia del pragmatismo e dell'alienazione, ma possibi-lità diversa, perché storicamente condizionata in maniera diversa.
Per questo la concezione lineare e progressista della storia non può che apparire «monotona» e fallace a chi, come noi, afferma l'alterno trionfo ed il perire alterno di varie e plurime culture, in una morfologia storica relativistica ed irrazionalistica, nominalistica ed inunificabiIe: alla concezione del continuo progresso si sostituisce così la tesi della ciclicità storico-naturale, all'ottimismo romantico la pessimistica sfiducia nel mondo moderno ed iI disperato e pur mai rassegnato desiderio di annientamento.
Caratteristica peculiare della scienza moderna e delle sue degenerate dottrine è la tendenza a costituire un orizzonte di sicurezza nella storia.
Espressione maggiore di questa fede storicista nel progresso, la filosofia hegeliana è stata sotto questo riguardo catastrofica, in quanto ha annullato la personalità del soggetto ed ha condotto alla tetra ed ine-splicabile gioia di questa spersonalizzazione, sostenendo che ogni pensatore è «un frutto tardivo dell'epoca», e questo tardivo frutto divinizzato poi come «il vero senso e scopo di tutto ciò che anteriormente è successo».
La cinica divinizzazione del fatto e del «successo» deriva immediata da questo «senso storico» che annulla nello svolgimento fattuale il valore della personalità.
Nella nostra sconfinata «presunzione» abbiamo voluto riprendere, conducendola sino al limite estremo ed insuperabiIe la critica nietzschiana del divenire, dello sviluppo e del progresso, rifiutando la categoria storiografica di «progresso», considerandola come caratteristica della Unterklasse, al pari dell'accen-tuazione del divenire e dell’ottimismo per il futuro.
In quanto tale, essa è specifica della ideologia pragmatista e traduce sul piano della considerazione storica l'esigenza attivistica e propulsiva dell'Homo Faber borghese: nell'idea del progresso l'uomo del risentimento esprime l'istinto e la smania della concorrenza, tipici di una classe mercantile e lavorativa.
Critica del divenire dunque, dello sviluppo e del progresso, volta alla dimostrazione dell'assoluto vani-loquio del pensiero occidentale moderno, nato dal concetto socratico, dall'oltre-mondo platonico e dalla logica aristotelica: tutte espressioni queste del medesimo oblio dell’essere (sein-svergessenheit ).
La tesi hegeliana della storia della filosofia come continuo progresso ed arricchimento deve non solo essere messa in discussione, ma soprattutto travolta: se il Fortschritt è in realtà un Verfallen, il compito dell'uomo è quello di compiere uno Schrittzüruck, se è vero che lo sviluppo della filosofia occidentale, dalla sofistica ad oggi, si configura come la storia dell’oblio dell'essere e del nascondimento della verità.
L'errore della concezione della storia della filosofia come continuo progresso è chiaro nella strumentazione del sistema precedente al sistema conseguente: Parmenide ed Eraclito non varrebbero in se stessi, ma solo come pre-socratici; Kant, Fichte e Schelling deriverebbero la loro importanza dalla loro situazione di pre-hegeliani. In una tale prospettiva l'inizio è sempre incerto e parziale, mentre il compimento è perfetto e valido (sic).
Ma non è così: l'errore fondamentale, che sta alla base di un tal modo di pensare, consiste nella creden-za che il cominciamento della storia sia il primitivo e l'arretrato,l'impacciato ed il debole. È vero il contrario. Il cominciamento è ciò che vi è di più inquietante e di più violento.
Parlare di un progresso in filosofia significa fermarsi alla superficie: se la Verità è una, fissa, immutabile, eterna, allora non è possibile alcun progresso; mentre è possibile un regresso, un nascondimento della verità. Quando è attenta alla sua essenza, la filosofia non progredisce. Essa segna il passo in un luogo per pensare costantemente la stessa cosa. Progredire significa allontanarsi da questo luogo: è un errore che segue il pensiero come l'ombra da esso proiettata. In questo senso Heidegger poteva concludere nella sua «Einführung in die Methaphisik» che «tutti i pensatori dicono in fondo la stessa cosa », anche se, a parer nostro questo Das Selbe è qualcosa di sempre nuovo, così come ogni giorno si rinnova, identico e pur straordinario, il miracolo ripetuto ed inesauribile del sorgere del sole (Immer Wieder) : so-stenere, infatti, che i pensatori essenziali (Wesentliche Denken) dicono sempre la stessa cosa (Das Selbe) non significa asserire che dicono sempre la medesima cosa (Das Gleiche).
La struttura ed il condizionamento storico di un sistema sono cose troppo ovvie perché gli storicisti, questi moderni avvizziti, possano vantarne la scoperta: anzi, sono fatti così evidenti che appare inutile e superflua una loro riaffermazione.
Questa nostra polemica antistoricista vuole essere il risultato più perentorio dell’irrazionalismo contemporaneo.
Ciò che noi additiamo come inevitabile, indispensabile, vitale, è il rifiuto della semplicistica subordinazione del valore di un pensatore (o di un sistema o di una ideologia) al momento storico-temporale in cui sorge e si svolge, ma che esso supera e trascende nella misura in cui sappia veramen-te dire qualcosa: la genesi storica di un evento non ne determina storicamente il significato.
Come ha purificato la coscienza dell'uomo contemporaneo dalla categoria desacralizzata e mistificatoria del «progresso» e delle sue fisime, così il nostro irrazionalismo deve indicare alla storiografia filosofica quale debba essere il suo compito: non tanto quello di indagare il condizionamento storico della filosofia e la rispondenza del sistema al momento cronologico in cui sorge, bensì quello di ricercare quella Verità perenne, certo temporalmente e spazialmente determinata in modo diverso, che non è figlia ma genitrice del processo, in quanto unicamente fonda e sostanzia la ricerca che l'Uomo di Essa ed in Essa compie, come la missione sempre nuova e sempre identica di Guardiano dell'Essere:
Dei viandanti molti ne parlano / E la fiera erra nelle grotte / E l'orda vaga sopra le alture./ In sacra ombra invece / Sul verde clivo vive il Pastore / E guarda i picchi. (F. Hölderlin, «Der Mutter Erde»)

 
Hans Primo Böhm




La socializzazione


Coloro che dello Stato fascista hanno un'intuizione di tipo rivoluzionario, ma non attingono tale ispirazione a fonti filosofiche e dottrinarie ben chiare, usano identificarlo empiricamente con la rottura sociale codificata da Mussolini, durante la Repubblica, con il Decreto 12 febbraio 1944, n.375, pubb-licato sulla Gazzetta Ufficiale n.151 del 30/6/1944, che prende il nome di «socializzazione delle imprese».
In realtà, la socializzazione fascista, disposta nel bruciante periodo della guerra civile, per ammissione esplicita degli stessi nemici del Fascismo, specialmente di parte liberale e confindustriale, presenta caratteristiche particolarissime, che la distinguono da tutte le altre realizzate e progettate, prima d'allora, poiché dispone originalmente la socializzazione della gestione e non della proprietà.
Si obietta che il trasferimento della proprietà non avviene anche nelle forme cooperativistiche e sindacaliste; ma è anche vero che, nella cooperativa e nella azienda sindacalizzata, sono proprietarie dei mezzi di produzione le stesse classi lavoratrici.
I critici individualisti e certi fascisti fasulli, che considerano il fascismo un movimento reazionario di destra, tanto da militare nelle file del MSI, che del regime mussoliniano e non del Fascismo, mai realizzato, raccoglie le immondizie, affermano che un tale schema di socializzazione è «ibrido», in quanto inserirebbe un nuovo tipo di gestione, in una struttura fondamentalmente capitalistica, ma ciò avviene semplicemente perché non hanno afferrato il senso di un provvedimento contingente, nel crogiuolo rovente della guerra ormai perduta, che ha significato solo se si portano alle conseguenze estreme i prlncìpi rivoluzionari dello Stato di popolo, prima sul piano morale e politico e poi su quello economico, di produzione della ricchezza.
Vale la pena, comunque, prima di mettere in termini di chiarezza il caposaldo rivoluzionario della socia-lizzazione, di esporre le direttrici del provvedimento attuato nell'ambito della Repubblica Sociale Italiana.
Anzitutto, il Decreto della socializzazione stabiliva:
1) di «socializzare» tutte le imprese che possedevano più di un milione di capitale (1944) od impiega-vano più di 100 operai; 2) di «statizzare» tutte le imprese fornitrici di materie prime o servizi di interesse generale.
La socializzazione, nel settore privato, si attuava a mezzo dei seguenti istituti:
1) la figura del Capo dell'Impresa, più pubblica che privata, con poteri di gestione molto vasti;
2) la partecipazione agli organi di gestione dei rappresentanti del Lavoro, in misura pari al capitale;
3) la compartecipazione agli utili dei lavoratori;
4) il Consiglio di gestione.
Tale organizzazione della produzione economica s’ispirava ai princìpi fondamentali seguenti:
1) prevalenza assoluta e costante degli interessi collettivi sul semplice tornaconto privato;
2) responsabilità dell’Imprenditore di fronte allo Stato della produzione economica;
3) carattere sociale dell’Impresa, anche familiare, attraverso il Consiglio di gestione;
4) subordinazione dell’attività imprenditoriale economica alle finalità morali, sociali ed economiche dello Stato.
La socializzazione così strutturata non ha avuto la sua completa realizzazione ed ha mantenuto il carat-tere di «mina sociale», nel precipitare degli eventi che si concludono con la sconfitta militare del Fascismo e con la restaurazione clericale dei diritti capitalistici, solo minacciati da una ipotetica instaurazione di un collettivismo di tipo marxista, che comporterebbe l'abbandono strategico dell'Europa in mani russe da parte degli Stati Uniti d'America.
Ma ciò che è stato solamente annunciato ed imperfettamente realizzato, durante il ventennio, ha significato attuale e non meramente storico, che s'inquadra nella visione complessiva dello Stato di popolo.
In un mondo di valori, quale noi auspichiamo, la strumentalità non solo non deve costituirsi fine a se stessa e non deve sovrastare, come avviene nella società materialistica di oggi, il fine supremo della vita, ma la stessa attività economica, tesa alla produzione della ricchezza indispensabile al riscatto dell'uomo da quella servitù, deve riflettere l'integrazione delle singole partecipazioni, che è necessaria alla socialità.
Per cui, fermo restando il concetto che la spontanea iniziativa dell'individuo e la sua libera scelta nel campo dell'economia rappresentino un fondamento di giustizia più elevato della semplice soddisfazione dei bisogni della vita materiale, tale iniziativa deve essere configurata nel suo sviluppo dinamico e seguita nel suo processo produttivo di organizzazione per inquadrarne il valore e definirne i limiti sociali.
L'iniziativa individuale è senza dubbio la molla potente della produzione economica e della creazione aziendale, ma, come tutte le forme di processo umano, si espande e si esaurisce nello spazio e nel tempo.
Cosa succede, allorché la iniziativa individuale conquista la meta segnata, attinge il culmine della sua potenza e si esaurisce nel fine raggiunto?
Nel processo economico della «libertà naturale» in tutto simile alla spontaneità animale, la meta raggiunta è il diritto sacro ed inviolabile dell'illimitata disponibilità dei beni strumentali acquisiti e quindi della infinita possibilità di costituirsi il privilegio della moltiplicazione e dell'accumulazione del capitale.
Da qui !'iniquità del rapporto tra il capitale, di potenza materiale infinita, ed il lavoro, succube dell'arbitrio altrui e quindi impotente ad alimentare la libertà.
È a questo punto che l'integrazione sociale, posta come il lievito indispensabile all'attuazione dei valori umani, interviene a risolvere il grande problema della coesistenza della libertà e della giustizia, nella co-munità organizzata. Allorché l'iniziativa individuale, liberamente manifestatasi nella creazione del-l’azienda economica, si è esaurita e tende a cristallizzarsi nel privilegio, deve costituirsi necessariamente e cioè in virtù della legge l'integrazione delle responsabilità, non solo economiche, ma anzitutto morali e pertanto anche politiche, nella gestione dell'azienda, nella sua direzione ed organizzazione ed, ovviamente, nella equa distribuzione della ricchezza tra gli elementi della produzione.
Colui che ha il merito di aver fondato e potenziato l'azienda produttiva, dando luogo alla manifestazione di un valore umano e con ciò non meramente e semplicemente materiale, attraverso gli elementi della sua stessa organizzazione, entra in un rapporto con gli altri e cioè «sociale» di inevitabile integrazione qualitativa e quantitativa.
E la sua organizzazione, in virtù di tale passaggio, si articolerà socialmente nella compartecipazione di tutte le funzioni gerarchicamente distribuite, alla gestione dell'azienda.
La proprietà legittima del capitale privato conseguito, si dilaterà nella distribuzione susseguente degli utili e dei profitti a tutta la partecipazione del lavoro, e la giustificazione finale della libertà d'iniziativa privata sarà espressa dal valore della realizzazione sociale.
Tale forma di «socializzazione», non riducendosi ai termini materiali della detenzione dei mezzi di pro-duzione, investe la spiritualità del valore umano e supera definitivamente il socialismo, in quanto risolve l'esigenza fondamentale di esso, non solo senza abbrutire l'uomo ed avvilirlo nella meccanizzazione dei rapporti sociali, ma procedendo decisamente oltre.


Hohenberg




La Destra corporativa


Certo, il Fascismo si può diffamarlo in tanti modi. Ma soprattutto inverando le accuse dei suoi peggiori nemici, cioè di quelli che temono le sue soluzioni possibili per le loro esigenze di giustizia, sorrette da una metodologia sbagliata. Difatti, i marxisti sanno - e lo sapeva anche Stalin quando definiva Mussolini, alla sua morte, l'unico rivoluzionario italiano contemporaneo - che l'ex socialista direttore dell'Avanti non annunciava, alle origini, il tradimento del socialismo, ma il superamento della prassi collettivista, fondata sulla concezione dialettica della storia e sul determinismo materialistico, per fondare uno Stato di popolo, in cui l'individuo non si vedesse annullato nella società, ma potenziasse al massimo la sua personalità.
Basterebbe rileggere con attenzione i 14 punti di S.Sepolcro, dove si parla, tra l'altro, di abolizione delle banche e delle borse, per cogliere la carica rivoluzionaria dell’intuizione mussoliniana, al suo apparire.
Naturalmente, il ventennio di regime fu uno spaventoso compromesso tra quella intuizione ed il mondo della monarchia, della borghesia, della finanza, della massoneria, prima, e della teocrazia, dopo, che il Fascismo avrebbe dovuto demolire.
Noi potremo giudicare, quindi, molto severamente l'uomo di Stato ed il dittatore troppo ottimista, che si illuse di far assidere prima l'Italia tra i grandi della terra, per poi tagliare le unghie ai capitalisti. Ciò appartiene alla storia di un regime personale, che il suo autore ha pagato con il martirio.
Ma che da parte dei piccolo-borghesi, che furono fascisti al tempo dei successi e della gloria, solo per-ché, nel compromesso di regime, assistevano all'affluire di fermenti nazionalistici e patriottardi, che addormentavano i semplici, per conservare ai privilegiati le loro posizioni, si vengano oggi a rispolverare i motivi della reazione anticomunista al servizio di quegli stessi interessi che imbavagliarono Mussolini, è semplicemente spregevole.
Il corporativismo fu la più clamorosa etichetta di quel compromesso delle istanze rivoluzionarie, che sorgevano dalla prima guerra mondiale, con gli interessi dei padroni, disposti a finanziare le guerre, purché a farsi ammazzare andassero i proletari, ed a prendere le medaglie d'argento rimanessero i nobilastri, immessi nelle gerarchie del P.N.F.
La cosiddetta composizione corporativa fu un inganno, poiché i datori di lavoro sostenevano il regime a patto che legasse le mani ai lavoratori. E Mussolini aspettava, sperando che la guerra vittoriosa gli permettesse di dare lo scossone al vecchio mondo liberal-capitalista.
La Repubblica Sociale Italiana, che per i pataccari del ventennio fu un episodio di semplice fedeltà re-torica all'alleanza militare, fu invece l'esplosione, sia pure disordinata e confusa, dell'empito rivoluzionario, covato invano per venticinque anni. Oggi molti che ci furono, per paura del peggio, la rinnegano e tornano agli amori massonici del 1922.
Il carrozzone confindustriale, che nacque dall'equivoco e fu condotto dal Michelini furbastro, sulle posizioni più retrive dell'anticomunismo sistematico e della nostalgia sentimentale, ora, sotto la guida del biscione Almirante, ha calpestato definitivamente la eredità mussoliniana della rivoluzione sociale, senza odio di classe, per assumere la funzione pretoriana di difesa della conservazione, del privilegio e dell'ingiustizia.
Gli stessi interessi di tutta la destra reazionaria, che infatti lo applaude.
Ma Giorgetto Almirante ed i suoi giannizzeri, col non trovare di meglio che rispolverare l'etichetta del fallimento corporativo, per puntellare il loro anacronistico baraccone, assumono, di fronte agli ingenui che li, credono fascisti, una pesante responsabilità.
Quella di essere i diffamatori più insulsi ddl'idea mussoliniana.


Romolo Giuliana




Grecia, colonnelli, reazione, fascisti


Un sillogismo che per l’antifascismo policromo non fa una grinza. Ad accreditarlo vengono largamente utilizzate, da una parte le solite generalizzazioni insidiose che riducono il Fascismo a quello che è il suo esatto contrario (e cioè a pura reazione), dall'altra parte le speranze che il putsch dei militari in Gre-cia ha - come'è noto lippis et tonsoribus - acceso negli ambienti della destra sedicente rivoluzionaria.
La polemica ha superato le dimensioni del contrasto ideologico e si è fatta strumento di un ben preciso disegno politico, inteso a rafforzare le impenetrabili mura del ghetto del quale ha evidentemente bisogno l'antifascismo e non anche, altrettanto evidentemente, noi.
La nostra volontà di uscirne è determinata dalla constatazione che il ghetto è stato costruito su uno spazio altrui e dalla volontà di insediarci su uno spazio politico nostro. Fuori figura, poiché non abbiamo nessuna intenzione di prestare equivoci alle tentazioni deviazionistiche di tanti personaggi felici di aver trovato, dopo la Spagna ed il Portogallo, anche la Grecia, rifiutiamo le basse provocazioni degli an-tifascisti e definiamo come segue la nostra posizione nei confronti dei Colonnelli e del regime borghese che regge la Grecia:
1) Non esiste, né lo può, nessuna parentela e nessuna affinità, nella sede ideologica ed in quella politica, tra il Fascismo e i regimi della borghesia. Prestar loro fiducia è errore che discende da pratica politica qualunquista e da confusione ideologica.
2) Il Fascismo, come scelta di civiltà, risolve i rapporti umani nel punto di crisi e di rottura della civiltà borghese individualistica e della sua antitesi dialettica, il collettivismo marxista. Esso ha per ciò stesso la naturale capacità di determinare il processo e le condizioni della vita politica interna ed internazionale. Invece la caratteristica tipica dei regimi conservatori-borghesi è lo sviluppo sul piano piccolo nazionalista, condizionato da una visione settoriale incapace di una azione politica impostata in termini di civiltà (vedi per tutti l'isolamento della Spagna franchista in occasione della Seconda Guerra mon-diale).
3) L'uso delle tecniche rivoluzionarie al servizio della avversione al comunismo ed alla sinistra democratica inducono facilmente a suggestioni emotive che accreditano pericolosamente parentele, che come abbiamo visto non esistono. Quelle suggestioni portano a restringere il campo della lotta politica, a farne scadere i contenuti, a distorcerne le tesi, ad accreditare quindi le ragioni vantate dall'av-versario, e in definitiva conducono all'insuccesso.
Al di fuori dei falsi moralismi dell'antifascismo - responsabile in blocco di ben più pesanti situazioni calde e fredde, - sia di parte occidentalista (i noti fatti del cosi detto Consiglio d'Europa che portarono il 12 dicembre 1969 Pipinelis ad abbandonare il seggio contestato alla Grecia), sia di parte comunista (che non ha saputo far di meglio che elevare ad eroe agli occhi delle masse rincretinite il canzonettista Theodorakis) possiamo affermare che la vicenda dei Colonnelli di Atene ha portato al rafforzamento del prepotere dei ceti economici che hanno trovato la principale espressione negli armatori del Pireo. Questa nostra valutazione non discende da considerazioni classiste, ed infatti non siamo marxisti. Essa indica un dato di fatto riscontrabile nella realtà interna della Grecia e nella sua posizione internazionale.
Venuto a crollare il quadro internazionale facente perno sull'Inghilterra e sulla sua politica mediterranea, nel quale si trovava perfettamente inserita, utilizzata come uno dei tanti mandati inglesi nel Medio Oriente, la Grecia ha dovuto affrontare l'adattamento ad un altro quadro internazionale, quel-lo imperniato sugli Stati Uniti. Le classi dirigenti greche, che nell'Inghilterra trovavano la massima garanzia per la propria stabilità, hanno subìto l'attacco di nuovi gruppi facenti riferimento a correnti di pensiero ed a centri di potere statunitensi. In altri termini la monarchia greca, classica pupilla dell'Inghilterra, ha dovuto fare i conti con i gruppi radicali che in Andrea Papandreu, noto frutto di Har-vard e di Berkeley, avevano trovato il loro capo. All'interno i motivi della critica radicale al sistema mo-narchico si alimentavano con le condizioni di sottosviluppo della Grecia, col suo ritardato progresso industriale e nello stesso tempo la sua ottocentesca agricoltura. La funzione della monarchia ed il peso della sua dipendenza e filiazione dalla Gran Bretagna si fecero sentire in modo negativo soprattutto riguardo alla formazione di un vero movimento rivoluzionario greco. La Grecia fu uno dei pochi paesi che negli anni trenta non sentì il soffio potente e suggestivo dei regimi d'Italia e Germania, alla pari con l'Olanda, la Danimarca e le altre classiche dependances inglesi.
Quando il movimento radicale greco facente capo ai Papandreu mise in difficoltà la monarchia, questa non reagì cercando di socialdemocratizzare il radicalismo, cioè di trovare una formula di compromesso analoga a quella che nei Paesi Scandinavi è data dalle monarchie socialdemocratiche; pensò invece di poter reggere il confronto irrigidendosi e contando sul mantenimento dell'adesione popolare. Vari fe-nomeni di politica internazionale, massimo fra tutti la distensione kennedyana, dettero invece intorno al 1966 una prospettiva politica più ampia ai radicali, e soprattutto consentirono a questi di poter osare l'attacco diretto sulle piazze e all'interno stesso di un gruppo di potere come quello militare (affare dell'ASPIDA) contro il regime monarchico.
La vittoria sui comunisti di Markos aveva fatto credere alla monarchia greca che nessun avversario avrebbe potuto più contestare la legittimità del trono e la garanzia delle libertà democratiche che esso rappresentava, senza con ciò esporsi alla accusa di essere o di fare il gioco dei comunisti. Invece i Papandreu, nella mutata situazione internazionale, forti dell'appoggio kennedyano, concepivano e iniziavano ad attuare una strategia basata sulla utilizzazione dei comunisti e su una contestazione di parte democratica e di sinistra, cioè radicale, del sistema monarchico.
Quando nell'aprile 1967 fu chiaro che, con la mancata fiducia al governo Cannellopulos, i rapporti di potere in Grecia erano mutati a danno della monarchia e nella certezza che nuove elezioni avrebbero confermato quel mutamento, i militari scelsero la via dell'azione.
Da quanto precede, consegue chiaramente che il golpe militare è stato attuato nella sola prospettiva di restaurare il potere minacciato dai radicali, fino a mantenere con opportuni correttivi il sistema democratico parlamentare. Ove persistessero dubbi si rileggano le dichiarazioni rese da Pipinelis a Parigi il 9 dicembre 1969 quando, in polemica con lo ex premier inglese Wilson, ha sostenuto che la minacciata messa al bando della Grecia non avrebbe giovato al consolidamento delle istituzioni democratiche nel suo paese.
Si è trattato in sostanza di una variante greca e caporalesca della legge truffa di scelbiana memoria. Hanno concorso alla riuscita del putsch le pregresse esperienze rivoluzionarie comuniste in Grecia, che in sostanza hanno dato una sorta di giustificazione al colpo, consentendo ai militari di presentarlo come la prevenzione di un male imminente.
L'azione dei militari va giudicata per quello che è: positiva per essi e per i ceti da essi sostenuti. Non lo è altrettanto per noi, che rifiutiamo di essere confusi con le schiere di coloro che appoggiano i movimenti conservatori e borghesi.
Possiamo compiacerci da un punto di vista esclusivamente sentimentale della sconfitta inflitta ai radicali di Papandreu, ma nello stesso tempo siamo ben consci che essa non scalfisce minimamente le posizioni di potere del radicalismo a livello mondiale.
C'è un altro aspetto del golpe che qui non possiamo tacere. La confermata fedeltà atlantica definisce la collocazione dei Colonnelli nell'area occidentalista e definisce con sufficienza la natura ed i limiti delle scelte che hanno ispirato la loro condotta. Tra colonnelli e fascismo non corre quindi un rapporto di affinità, ma l'oceano di malafede di chi lo afferma.


Bruno Ripanti




Il candore di Colombo


Il candore virginale, col quale da anni ed in veste di ministro del Tesoro, il Presidente del Consiglio Emilio Colombo ha cercato di appisolare gli italiani, con la litania degli investimenti produttivi, della bilancia dei pagamenti, le spese correnti ed il valore della moneta, è divenuto silenzio profondo e sbigottito, di fronte all’assoluta mancanza di prestigio del suo governo, che continua ad elargire gli in-chini del suo ministro degli Esteri, in tutte le direzioni, senza alcun risultato.
Abbiamo avute prima le proteste di visite, già protocollate, dei capi di Stato stranieri, come se fossimo i guitti della politica europea, ed ora visitiamo capitali straniere, raccogliendo cordiali sorrisi di gente che non crede ad una parola di quello che diciamo.
La sfiducia è fondata, poiché da anni gli stessi uomini si scambiano semplicemente il ruolo di primo e di secondo e dicono sempre le stesse bugie politiche agli italiani, ubriachi di gite domenicali, di canzoni idiote e di sport mercenario.
Il presidente Colombo, venuto su dalla parrocchia e dai «sanctasanctorum» di provincia, crede ancora che la voce mielosa, il gesto circolare ed il tic della bocca tirata verso destra, ogni sette sillabe di giaculatoria, possano acquetare le ostilità, ammorbidire le diffidenze e innovare le inutili attese, ma ha visto prendendo il posto al timone che i fatti gli hanno tolta la parola e le prime ventate di bufera gli hanno mozzato il fiato.
Le piccole toccate di punta, all'epoca dell'affare lppolito, quando era all'Industria, avrebbero dovuto avvertirlo, ma l'ambizione accarezzata dalla paterna mano dei vescovi è inguaribile e, malgrado la debolezza finale del suo delfinato, ha voluto tentare il regno.
Ma il suo governo sembra che non esista.
Ci sono nel circo equestre della politica italiana le sortite fiscali di Preti o gli sgambetti populisti di Donat-Cattin, le polemiche tra Ferri e Mancini per colorire i socialismi di America e di Russia, i sorrisi conciliari di Berlinguer, che sanno di ghigno, ma il governo di fronte a tutto quello che succede fa solo riunioni collegiali.
A Reggio Calabria, a Pescara, a Roma, a Milano, a Verona, ovunque si occupa, si sbarra, si danno botte da orbi ,ed anche si uccide, ma entra in azione solo la polizia, e dopo Restivo dirà che non tollera la violenza.
Poi, ci sono gli scacchi veri e propri. Come lo mettiamo quello di proporre che il Parlamento decida il capoluogo della Calabria, e vedersi bocciata la proposta in Commissione? Come giustifichiamo che sindacati, privi di riconoscimento giuridico, si dichiarino autonomi rispetto alla politica e poi facciano politica, ricattando il governo,e minacciando anche la rivolta civile?
Come spieghiamo, da parte dell'industria di Stato, una condotta più «padronale» di quella dei padroni privati? Come possiamo ammettere che la Televisione racconti tutto, dalla A alla Z, sulle sconcezze della società italiana, con interventi di ministri, magistrati, pubblici ufficiali, e tutto rimanga come prima?
Cosa fa un capo di governo quando il suo governo è contemporaneamente filocomunista ad anticomu-nista, sia pure a parole, perché i fatti non ci sono?
Il candore di Colombo sarà il risvolto di una sottile astuzia clericale, ma i fatti il sangue e le pressioni maligne lo costringeranno allo scoperto.


Il polemista

 

Gli emuli di Brandt


Fin da quando il Segretario del PLI Giovanni Malagodi aveva fatto il viaggio prima a Bonn e poi a Washington, si era sentito l'odore di una manovra di largo respiro, che avrebbe dovuto camuffare, con veli sottili di raffinatezza diplomatica, l'ordine brutale di Nixon, per una virata a destra di tutta l'area NATO, per ristabilire l'ordine nel Mediterraneo, dove il cuneo sionista trova dura resistenza dopo l'assunzione della difesa degli interessi legittimi dei popoli arabi, da parte dell'URSS.
Ma Brandt è prima di tutto un buon tedesco, che sogna ad occhi aperti la riunificazione della sua Patria e, con un gesto tranquillante verso occidente, si è diretto a trattative con il mondo marxista, per ottenere una prospettiva di intesa, in primo luogo con il connazionale Ulbricht, che governa i tedeschi dell'Est col metodo collettivista duro.
La manovra pertanto venne rimandata a più tardi ed arrivò la sommessa disapprovazione di Nixon, impelagato quanto mai nel tentativo di ammorbidire il mongolo Breznev, per potere uscire senza troppa vergogna dalla trappola indocinese, dove dice d'andarsene ed invece allarga la guerra fino ai confini della Cina.
Ma dai Congressi recenti del partito liberale e di quello socialdemocratico affiora una conversione del piano a più modesti propositi di sistemazione interna dell'affare italiano, che sprofondando nella più squallida palude dei compromessi con la sorniona marcia d'avvicinamento del compagno Longo, rischia di spingere troppo allo scoperto, magari con un colpo di tipo greco, da mandare in sollucchero il nostro caro corporativo Giorgetto ed il suo contorno di epigoni sdruciti della piccola massoneria casalinga.
Giovanni Malagodi finge di opporsi al fantoccio della sua sinistra interna, che lo costringerebbe ad un'alleanza di emergenza con i comunistelli di sacrestia, ma in realtà sogna gli stessi sogni segreti di Preti, Ferri e Cariglia, che parlano ormai più di democrazia che di riforme, da ridurre ad una sola: quella che ci strangolerà tutti con le tasse.
L'alleanza liberal-socialdemocratica è l'idea-pateracchio, con cui il Dipartimento di Stato intende sostituire in Europa l'infelice invenzione del centrosinistra, che ha addormentato gli italiani, con la falsa socialità, ma ha raggiunto solo lo scopo di mettere in agitazione i sottogerarchi del partito sovietico, per la sortita finale in tutto il Mediterraneo.
Ma Nixon è sempre più debole, di fronte al Congresso americano, ed in Estremo Oriente sta perdendo la testa.
Toccherà al suo successore democratico rabberciare la variante del gioco, come Mike li quizzaiolo passa dalla miseria intellettuale di «lascia o raddoppia» allo squallore culturale di «rischiatutto»

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 Aeuropeus



La scuola nuova


La demagogia politica non può offrire agli italiani la scuola nuova auspicata dai più recenti orientamenti della pedagogia e dalla sociologia.
Lo dimostrano i tentennamenti e le contraddizioni e le cortine fumogene del ministro Misasi, che coglie gli insuccessi delle bocciature di sue proposte, all'insegna della provvisorietà, da parte dei demagoghi del fronte avverso.
Non si può dire che la riforma scolastica non deve avvilire l'insostituibilità e la dignità del docente e, contemporaneamente, che la crescita democratica delle generazioni studentesche si attua attraverso il meccanismo del suffragio, che metta in minoranza i professori, che hanno torto, solo se si oppongono all'inevitabile evoluzione del rapporto e del fine educativo, dalla semplice istruzione, di positivistica memoria o di magistero clericale, alla formazione spirituale, in senso moderno; che è poi, qualitativa-mente, il più antico ed il più classico.
Non si può affermare che la politica è oggetto dell'attività scolastica, come qualsiasi altro oggetto di cultura, che non avvilisca uomini e temi alla strumentalizzazione volgare del politicantismo, per poi permettere che gli apparati politici ed economici delle varie fazioni, riducano a mero fine di propaganda ogni presenza dell'uomo, della gioventù e della scuola.
La scuola nuova si configura in due aspetti: uno pedagogico ed uno sociale.
Come sa chiunque abbia studi sufficienti per trattare il tema, ogni pedagogia presuppone una filosofia, che indichi il fine del processo educativo e cioè una concezione dell'uomo, da formarsi nel rapporto docente-discente, ed è impossibile che quella individualistica di tipo liberale, quella sovrannaturalistica di tipo clericale e quella materialistica di tipo marxista coesistano, nel fine didattico ed organizzativo della scuola.
Tutti parlano di formazione e si fermano alla informazione più grossolanamente propagandistica, perché vogliono perseguire i propri fini di potere, anche se blaterano più o meno rumorosi motivi di libertà.
Una scuola pertanto che sorga dal compromesso tra le opposte concezioni non è possibile; anche se si ingannano i semplici parlando tutti i giorni, compresa la domenica, di riforma.
I liberali ed i loro padroni confindustriali, si sa, vogliono la scuola ridotta a corsi d'istruzione per l'in-dustria; i clericali vogliono una scuola dove possano ammannire verità rivelate e «dimostrare» l'esi-stenza di Dio, con l'argomento cosmologico di Tommaso d'Aquino, svuotato da secoli; i marxisti vogliono una scuola dove si possano perfezionare capacità tecnologiche, nel cui alveo si inseriscano i commenti addomesticati del partito, per esasperare l'odio e la violenza di classe. E ci mettiamo pure la destra corporativa, che vorrebbe una scuola per figli di gerarchi, a sfondo razziale, dove la storia si riduca alla nostalgia del colonialismo e della disciplina militare.
Quelli che vogliono precludere, perciò, e quelli che vogliono estendere la scuola a tutti, in senso demagogico e formale, sono tutti nemici dell'autentica rivoluzione culturale, perché sospinti da principi e da interessi eteronomi, rispetto all'atto educativo.
L'aspetto sociale della riforma scolastica si manifesta nella volontà di estendere a tutti il beneficio della educazione, ma non abbassando la cultura al piano delle masse, ma elevando le masse alle altezze della cultura.
La civiltà del Rinascimento fu di squisita raffinatezza e la cultura di sottile aristocrazia, perché la società era signorile e cortigiana; la cultura contemporanea deve essere di dominio universale, ma non massificata nel consumismo, per la conservazione dei privilegi, sotto forma assistenziale.
La scuola nuova verrà, solo quando la struttura della società sarà cambiata e !'inserimento necessario del cittadino nello Stato sarà attuato per liberarlo dei suoi bisogni materiali e non per imporgli direttive di marcia.
In quello Stato, oggi di carattere esclusivamente utopistico, per lo meno, per chi non sia capace di tensioni spirituali rivoluzionarie, il rapporto tra docente e discente tornerà ad essere volontario, perché sarà la porta d'ingresso della finale libertà.


Comenio

 


Razzismo italiano


I tedeschi, rivestendo di atti repellenti, sotto il regime hitleriano, i loro tradizionali sentimenti razziali, si sono guadagnata l'antipatia del mondo, tanto più che perdevano la guerra, ma soprattutto hanno convalidata la pericolosità delle astrazioni scientifiche (di per sé utilissime al progresso materiale del mondo), quando investono il lato spirituale dell'uomo.
Il razzismo ha origine religiosa, se si deve risalire al mito biblico di Noè, i cui tre figli, Sem Cam e Jafet, a-vrebbero dato luogo alle tre razze principali umane, portandosi dietro benedizioni e maledizioni, cioè il crisma della discriminazione razziale.
Ma il cammino della civiltà è un continuo, se pur lento, liberarsi dai miti, nati dai gretti orizzonti di una razionalità oppressa dalle forme sensibili dello spazio e del tempo e tesaurizzati dagli stregoni, cioè dagli imbroglioni di tutti i tempi, i quali millantano commerci fantastici con sfere cosiddette sovrannaturali, che gli occhi dei gonzi non possono vedere.
I nostri giornali riportano quotidianamente gli episodi di intolleranza razziale e calcano la mano, talvolta, pur non potendosi negare la gravità dei casi, poiché la lingua batte dove il dente duole ed il discorso torna sempre al motivo antifascista del razzismo teutonico ed antiebraico, edulcorato ma subìto dalla "pasticcioneria" di Mussolini.
Ma i nostri retori antirazziali dimenticano che in Italia, v'è un razzismo di base, pacifico ed inesorabile, che dura da sempre e che mina, tra sorrisi e barzellette, la unità della nazione, più dopo la cosiddetta Unità, dei Savoia e di Cavour, che prima, coi re borbonici e gli arciduchi asburgici.
Quando un veneto di Verona dice «terrone», al cospetto di un siciliano, che vende le arance ai mercati generali, non fa della sorridente ironia, ma, musone e conformista, nel suo esclusivismo municipale, è pieno di rancore razziale e pone, tra sè e l'italiano meridionale, che conosce il nome Italia da nove secoli prima della sua Gallia cisalpina, una barriera di sentimenti e di false opinioni, che giungono alla repugnanza fisica, alla repulsione morale, tal quale una zitella inglese di fronte ad un negro del Kenia, od un gentiluomo francese dinanzi ad un giallo d'Indocina.
Quando un imprenditore lombardo, il cui lontano progenitore è forse un servo di Rotari, afferma che da Roma in giù non si ha voglia di lavorare, e la sua consorte, in occasione del delitto Martirano che porterà all'ergastolo due lombardi, scrive al quotidiano milanese che gli assassini stanno al Sud, e che è perfettamente inutile venire a cercare lo strangolatore prezzolato della moglie di Fenaroli a Milano, poiché i terroni sono tutti dei bruti (e il giornale meneghino pubblica la lettera), non si fa della critica spregiudicata ai difetti del proprio popolo, ma si dà sfogo ad un sentimento profondo di ostilità razziale, anche se i secoli lo hanno trasformato solo in livore scostumato, che non ha nulla da invidiare, a parte gli effetti pratici quasi innocui, alle teorie pazzesche sulla superiorità dei dolicocefali ariani e l'inferiorità degli arabi semiti.
Non si tratta delle satire stantie di Marchesi sull'Italia che non esiste e della pubblicità del carosello televisivo sul vigile terrone, sul bullo romano, e sul lumacone veneto, ma di un razzismo viscerale, purtroppo fondato sulla realtà storica e sulla geografia (perché nessuno può negare che gli abitanti della pianura padana fossero Galli e quelli dell'antica Vitellia greci), che investe tutte le attività nazionali, dalla cultura alla politica, dal turismo all' economia, dai servizi pubblici a quelli sociali.
Finanche la distribuzione delle carrozze nei treni, da parte delle Ferrovie dello Stato, viene effettuata con criterio razziale. Sullo stesso binario corrono la «Tartaruga » ed il «Settebello», per i longobardi puri, ed una lurida tradotta, detta «Freccia del Sud», per gli emigranti meridionali.
Il fondo reazionario dell’anima italiana è di tal sapore ed è impastato di pregiudizi calati nel costume locale dalla notte del medioevo cristiano e del servaggio barbarico dei secoli.


Il Sofo

 


Arte popolare, tranello reazionario


Pensiamo alla Spagna. Tutta la borghesia italiana ostenta un amore sviscerato per la Spagna dell'Escuriale, degli archi moreschi e dei toreri, un po' perché il rapporto valutario è molto vantaggioso per vacanze pseudoculturali, ma anche perché appare ormai come l'ultima roccaforte di una società mummificata al barocco ed all'intolleranza, alla fucilazione degli avversari politici ed alla miseria consacrata all'ottimismo di tipo partenopeo. È un paese simpaticissimo, perché è lo unico d'Europa nel quale non sono possibili esperimenti di centrosinistra e crociate di simpatia a Mao.
Da tali umori, saliti per capillarità fino ai piani superiori dell'arte ufficiale, deriva forse l'iniziativa di presentarci ogni tanto, alla televisione, lunghissime esibizioni di «flamenco », che come dice l'impaperata annunciatrice non è soltanto danza, ma «religione e poesia».
In una di tali trasmissioni, si poteva ammirare tempo fa un famoso «maestro» piccolo, panciuto, zoppo e pelato, che si dimenava in divine armonie popolaresche, ridotte a stereotipati accordi di chitarra, ed un paio di tardone, le quali, nel morso isterico della tarantola flamenca, scoprivano oscenamente cosce arricciate dalla cellulite e ginocchia gonfie dall'artrite. E noi, un po' malignamente, in quelle rughe, in quelle gambe storte ed in tutta quella specie di masturbazione musicale, vedevamo, sì, l'orgoglio della «espanidad», ma anche gli effetti secolari di una perenne denutrizione popolare.
Ma, soprattutto, ci venne di riflettere a quanto s'insista, nel nostro paese e negli altri, anche di cosiddetta democrazia popolare, sul famigerato folklore e sulle imitazioni popolaresche dei canti e delle musiche.
Certo, a prima vista, l'arte popolare sembra un elemento primigenio della democrazia e della libertà, in quanto ha per protagonista il popolo, nella sua spontaneità ed immediatezza; ma, a ben guardare, le manifestazioni di tale arte, oltre ad essere rozze, ingenue e primitive, si sono stratificate nel tempo di una storia di schiavitù, di miseria e di ingiustizia per le masse, mentre le loro espressioni più comuni risentono di rituali a sfondo mistico ed erotico insieme.
Per tali ragioni, crediamo, piacciono molto agli aristocratici ed agli snob, i quali vedono, più o meno in-consciamente, in esse, la continuazione degli spettacoli di corte, omaggio alla loro signorilità, in cui l'elemento servile, abbandonandosi alla foga dell'istinto, evadeva dal servaggio, con la finzione dei gesti, talvolta volgari, ma che divertivano il padrone.
Seguite, con attenzione, il fenomeno Modugno. Costui, con buona dose di sfrontatezza e furberia, ha rimasticato, dinanzi ai pubblici superficiali di Roma e di Milano, tiritere vecchissime dei cantastorie siciliani, stornellate ingenue dei carrettieri dell'Etna, ed allegre baggianate studentesche, come quelle della «donna riccia».
Circa quarant'anni fa, sul cancello d'ingresso di un cimitero di provincia, un povero cieco cantava, tra la indifferenza dei pellegrini del giorno dei morti, con lo stesso timbro e la stessa lamentosa violenza del Mimmo nazionale, ma raccoglieva solo pochi centesimi nel suo piatto di latta.
Perché, con la stessa mercé d'accatto, oggi si arricchisce un furbacchione, incollandogli anche un'etichetta di originalità, che non esiste? Perché, ed egli forse non lo sa, altrimenti se ne offenderebbe, incarna la figura del giullare di corte, aggressivo e divertente, e la borghesia del triangolo industriale tanto più l'osanna quanto più egli è meridionale ed eccita, in maniera quasi afrodisiaca, il subcosciente razzista dei padroni del vapore.
Un tipo come quello, in ditta non lo vorrebbero certo, col naso adunco ed i capelli lunghi, ma nei locali di divertimento il sapore arabo della sua voce nasale fa molto esotico e piace, piace da morire.
Il guaio è che qualcuno, favorendo tali fenomeni deteriori, crede di fare il socialista; ma socialista non si diventa, scendendo al gusto dell'immediato e dello ignorantesco, ma combattendo per l'elevazione di tutti e bocciando inesorabilmente ogni compiacimento «realistico» per la massa, come animalità e miseria spirituale.


Il polliciaio

 


Siamo a "i miserabili"


A Verona, una delle città «cattoliche» della Repubblica Italiana, è stato arrestato sotto l'accusa di peculato e falso ideologico, il prof. Zanotto, presidente della Provincia ed ex-sindaco del capoluogo.
Dopo i casi Ippolito, Bazan,Aliotta e simili, l'arresto di un notabile, dato che ufficialmente le caste del sangue sono state abolite dalla Costituzione e quelle del censo sono inconfessabili, non dava più da tempo molta emozione. Si tratta di cittadini che, ove incappino nelle maglie del codice penale, debbono rendere conto alla giustizia come qualsiasi altro mortale, se è vero che l'immunità ed il privilegio, l'investitura, e lo ius primae noctis si indicano agli studenti delle medie come caratteri del feudalesimo medioevale.
Ma a Verona per l'arresto del democristiano Zanotto è successo il finimondo. Sessanta sindaci, tutte le gerarchie amministrative veronesi e non sappiamo chi altro, si sono dimessi dalle cariche e hanno finanche organizzato una sfilata davanti alle prigioni per protestare contro l'arresto.
Cioè a dire, la fazione clericale, che da venticinque anni si è fatta affidare dagli italiani la tutela del loro destino nazionale, non riconosce la giurisdizione del magistrato, sui fatti criminosi del territorio, quando riguardano i suoi gerarchi, che, pertanto, sarebbero unti del Signore ed al di sopra della legge.
Il fatto è di una gravità eccezionale, perché, non solo tradisce le disposizioni mentali dei gruppi di potere, che si sono impossessati del Paese dopo la sconfitta militare del 1945, ma ci riporta, in pieno, all' ancien régime del privilegio formale e della casta sociale.
L'ispettore Javert, personaggio icastico della fantasia di Victor Hugo, perseguiva inflessibilmente Jean Valjean, non perché fosse convinto o avesse le prove della colpevolezza interiore del galeotto evaso, ma perché egli apparteneva, dalla nascita, alla massa dei «miserabili », privi di unzioni divine, nelle cui file, solo, può fiorire la criminalità.
Noi non sappiamo se il prof. Zanotto abbia commesso i reati ascrittigli dal Giudice Istruttore e gli auguriamo, per le sorti del costume italiano, piuttosto incerte, che egli possa dimostrare la sua innocenza. Ma neanche i suoi correligionari lo sanno.
Le dimissioni ed i cortei di protesta sono atti di rivolta contro i poteri dello Stato ed i democristiani, se anche pensano di potere, ancora per molto tempo, amministrare i Comuni come parrocchia, e le Provincie come diocesi, non pensino di potere inverare l'ipotesi diffamatoria che l'Italia sia, malgrado le sue sventure, una colonia americana concessa in enfiteusi al Vaticano.


P. F. A.



De Gaulle


In Italia vige la triste abitudine dell'offesa all'avversario politico, soprattutto se morto. Illustri sconosciuti, armati di astio, di frustrazioni e di assurda presunzione, si siedono in cattedra ed attaccano a sparlare di uomini politici che, nel bene e nel male, hanno partecipato da Capi alla Storia umana.
Detto questo per contraddistinguerci dalla pletora democratica tanto convenzionale quanto decrepita, dei vari Ricciardetto che abbiamo visto pigolare da tutti i giornali, esaltando ciò che fino a ieri avevano aspramente approvato, con articoli che dimostrano solo, negli autori, la voglia di farsi notare come "facitori di bei pezzi", vogliamo dire su De Gaulle quanto ci sentiamo e dobbiamo. Non ci permetteremo di dichiarare, come fanno i nostri presuntuosi cacasenno della politica sedentaria; ci limiteremo solo a dissentire mostrando la nostra IRREMOVIBILE AVVERSIONE per certi atteggiamenti; oppure se è il caso, approveremo.
L'uomo De Gaulle, per la sua tempra di vero soldato dell'epoca moderna e di una Francia tuttora pervasa di Sciovinismo, ha tutto il nostro personale rispetto. Egli è un uomo che ha giocato fino in fondo, con spartana spietatezza, tutte le carte, e di ciò gli diamo positivamente atto.
De Gaulle politico nasce praticamente nella lotta contro la Germania ed il tentativo nazista di unificare l'Europa continentale, mettendosi, in nome dello onore nazionale, al servizio dell'Inghilterra, cioè del vero autentico nemico della Francia e dell'Europa.
La lotta tra Francia e Inghilterra non è una cosa nuova. Diciamo intanto che l'anima predatrice della oligarchia inglese si è esplicata nei secoli sempre a danno delle potenze europee. Per soffermarci soltanto all’epoca più recente, dalla fine del '600 l'Inghilterra perseguì implacabilmente le nazioni europee con una continua pressione sui mari, finché, con la vittoria di Saintes (1782) sulle marine riunite di Francia e Spagna, suggellata dal trattato di Versailles dello stesso anno, l'Inghilterra si impossessò della maggior parte dei domini francesi d'oltremare: America ed India. Quel trattato decreta anche la servitù economica della Francia imponendo letteralmente a questa nazione l'importazione di prodotti inglesi a tutto detrimento della produzione e del commercio francese. Le guerre che seguiranno, come vide assai bene lo Schlegel, non, saranno che il suggello di un simile trattato: «una crociata per imporre lo zucchero ed il caffè, i percalli e le mussoline ». Questo è il nodo gordiano che cercò di sciogliere Napoleone. Come dice il VandaI "il regno di Napoleone non è che una battaglia di dodici anni, data agli inglesi attraverso il mondo". E saranno gli inglesi che, dopo aver sfruttato gli intrighi d'Europa contro di Lui, gli daranno il colpo finale a WaterIoo. E Napoleone si consegnerà agli inglesi quali suoi effettivi nemici, per mostrare al mondo fino a che punto può arrivare la perfidia albionica, attraverso la conoscenza delle sofferenze alle quali sarà sottoposto a S. Elena.
È noto che il governo inglese versava direttamente alla corte d'Austria ed a quelle di molti sovrani e prin-cipi regnanti della Germania le quote di arruolamento delle soldatesche di quei paesi per le campagne ai propri ordini. Si arricchirono alcuni di tali sovrani copiosamente. Era stato tutto previsto anche per le liquidazioni spettanti ai combattenti, e tre mutilati contavano per un morto! Altra operazione inglese fu la campagna diffamatoria a mezzo stampa, organizzando la diffusione ad ogni livello e per tutta l'Europa di libelli zeppi di calunnie, e stipendiando giornalisti e scrittori ovunque. Il sottofondo di questi scritti era di far figurare gli anglosassoni come inviati della Provvidenza per castigare i cattivi e premiare i buoni. Perché tutto questo astio? Solo a causa della lotta per il predominio? Evidentemente no.
Infatti, come dichiarò Luigi Bonaparte nel suo prezioso volumetto «Des idées napoleoniennes»: "Napoleone aveva costruito in Francia tutto ciò che deve precedere la vera libertà". L'intera azione napoleonica, all'interno del suo Impero, ebbe un ben preciso e delineato programma. Istruttiva la se-guente frase riportata dal Las Cases: "mai io volli innalzare alcun finanziere agli onori. Di tutte le ari-stocrazie, questa mi sembra la peggiore… Veramente, non potevano presentare altro che delle sorgenti avvelenate e rovinose, come gli ebrei e gli usurai. Essi avevano diretto il Direttorio e pretendevano dirigere anche il consolato. Si può dire che erano allora la testa della società e che vi tenevano il primo rango... Uno dei passi che feci fare alla società fu quello di far rientrare tutto questo falso splendore nella folla".
Si può capire così l’odio forsennato degli inglesi verso Napoleone. Lo stesso odio che animò inglesi e yankees contro l'Europa fascista, e che li spinse ad agire con gli stessi mezzi che avevano adoperato contro l'Europa napoleonica.
Queste note su un recente passato troppo presto dimenticato dagli Europei servano per capire in profondità l'importanza negativa dell'azione di De Gaulle nell'ultimo conflitto. Azione determinata per lo più da risentimenti nazionalistici, che non vanno al di là delle guerre del 1870 e del 1914-18, nelle quali guerre la pressione anglo-americana fu determinante.
Né vale l'ipotesi che mettendosi col probabile vincitore, la Francia divenendo chissà come vincitrice della guerra, avrebbe potuto ottenere notevoli vantaggi. Lo stesso equivoco di tanti badogliani. Fu infatti l'America che estromise la Francia dal SudEst asiatico e dall'Africa del Nord: per chi non lo sapesse, la carta dell'Indipendenza Algerina fu stilata a New York nel 1943.
Un'altra indicazione precisa si può trovare nel bombardamento della flotta francese e conseguente sua inattivazione da parte della flotta britannica. Quali che siano state le ragioni addotte, sta di fatto che si volle approfittare di una giustificazione favorevole per colpire ancora una flotta che aveva sempre dato fastidio ai padroni dei mari.
Nella stessa linea logica va sottolineata anche la inutilità dell'atteggiamento di Pétain verso la Germania. Pétain si muove nello stesso mondo sentimentale di De Gaulle. Non con una alleanza di compromesso, costantemente elusa, si potevano fare gli interessi d'Europa e della Francia, ma con una lotta decisiva contro tutte le potenze nemiche d'Europa.
Tornato in Francia dopo la riconquista, De Gaulle si dà ad una epurazione crudele eliminando fascisti e nemici personali. Nessuno è risparmiato. I processi istituiti a suo nome saranno sempre tristemente famosi.
Messosi in disparte, eluse le grosse responsabilità che si era assunto nel conflitto, lasciando che la Repubblica restaurata, socialdemocratica e massonica, liquidasse le ultime parvenze dell'impero, sacrificandovi volutamente in una lotta disperata, i migliori uomini d'Europa (di tutta l'Europa) ancora in piedi. Leggasi in merito la imponente opera letteraria di Lartéguy. Poi fu la crisi algerina. Il significato e la portata politica della cessione dell'Algeria, fatta da un uomo chiamato al potere da coloro che l'Algeria volevano francese, non è ancora possibile valutare. Un giudizio può invece farsi sul modo con cui fu realizzato un tale programma. Prima si impose all'Armata di promettere ogni assistenza agli algerini che si fossero impegnati con la Francia, per una lotta ad oltranza; poi si obbligarono ufficiali e soldati a tra-dire coloro che con fiducia avevano preferito una nazione europea all'ipotetico socialismo africano. I migliori fra i militari, quelli cioè che percepiscono il senso dell'onore, furono messi in un lacerante dilemma. Gli opportunisti ubbidirono al potere centrale, i più nobili si ribellarono. Una seconda epurazio-ne si riversò sulla Francia ad opera di De Gaulle. Anche questa eliminava gli uomini migliori dai posti di comando.
Per quanto riguarda l'azione politica susseguente, l'impegno della Francia come leader d'una Europa sganciata dalla tutela e servitù all'America, se ne è già trattato, su queste pagine e su altre nostre pubblicazioni. A nostro avviso, e la recente storia della Francia ce lo ha dimostrato, non potrà esistere un'Europa libera e indipendente, se le sue strutture interne non poggeranno su istituzioni che abbiano come supporto un’ideologia che faccia piazza pulita di tutte le leggi coniate in modo da lasciare campo libero all'economia ed agli speculatori internazionali. Leggi che, create dall'utopia giacobina, precludono agli Stati ogni intervento tendente a subordinare l'economia ai loro fini. Per raggiungere questo risultato è necessaria una autentica rivoluzione nella politica, nei costumi e nella scelta delle persone.
E siccome la gramigna forma sempre un groviglio, una simile rivoluzione può avvenire solo se attuata da uomini del tutto nuovi. Ecco quindi che gli atteggiamenti della Francia gollista in sede internazionale e di Comunità Europea, se positivi di per sé, sono privi di un reale significato storico e politico. A meno che, da queste premesse, non nasca una corrente di opinione pubblica che cominci a porsi dei problemi reali. Ma ciò sembra improbabile. La Francia prima, durante e dopo De Gaulle che vi ha portato un pizzico di poujadismo, è stata saldamente nelle mani dei finanzieri e dei plutocrati.
Il suo ideologo è Servan-Schreiber, ebreo socialista, il quale vede la grandezza europea nell'aumento delle esportazioni, nel ribasso di qualche centesimo del prezzo ultimo di costo, per «battere gli altri» essere « meglio situati» di loro, ed infine « vendere, vendere, vendere», vendere o morire, vendere o essere asfissiati. Egli vuole attuare l'unione delle nazioni europee solo per americanizzare l'Europa, rivaleggiare con l'America sul suo proprio terreno, superarla nel gigantismo, nella eterna competizione, cioè su una strada in fondo alla quale si vedono soltanto crisi dovute a questa concorrenza a morte e, oltre a queste crisi, la catastrofe e l'anarchia.
Né certe iniziative del gollismo tendenti a far partecipare i dipendenti ai ricavi delle aziende erano de-terminate dalla volontà di uscire anche se gradatamente, dalla morsa dell'economia. Bensì erano un palliativo per fermare in tempo quello stato di tensione che ampiamente fomentato dalla CIA, sarebbe poi sfociato in quel vasto movimento che pervase tutta l'Europa e che andò al di là e contro le intenzioni degli stessi agenti al servizio dell'oro.
Un'ultima considerazione. Le onoranze attribuite a De Gaulle eguagliano per pompa quelle a suo tempo fatte a Churchill. Ma come quest'ultimo fu il liquidatore dell'impero inglese proprio per la protervia con cui volle combattere i tedeschi, così De Gaulle fu il liquidatore dello impero francese, malgrado sbandierasse chissà quale « grandeur».
I popoli hanno sempre bisogno di grandi uomini da venerare, anche a dispetto della storia, la quale si incarica poi di far giustizia. Chi, infatti, sente più parlare di Churchill?
I grandi uomini del XX Secolo giacciono ancora senza onori ufficiali.


Giorgio Vitali





Un vescovo terribile confessa il peccato del secolo:

"da giovane sono stato fascista"


L’Europeo, settimanale politico dei radicali di mezza tacca, tra i dubbi sul divorzio, le amenità di Ruggero Orlando, i pettegolezzi su Ugo La Malfa, sul regista Manfredi, sulla Guerra in Oriente, sul diavolo Manson, e sulle pere, ci ha rifilato alle pagine 18, 19, 20, 21, 22, 23, del n.34 (1292) del 20 Agosto, una corposa intervista resa da Monsignor Helder Camara, arcivescovo di Recife e Olinda, ad Oriana Fallaci della quale peraltro, in seconda di copertina, viene vistosamente reclamizzato il «Niente e così sia» che le ha fruttato il premio Bancarella '70.
Sappiamo come si fanno le interviste. Quello che i due hanno stabilito di far comprendere lo si capisce di getto. E si capiscono anche le forzature che il mestiere ha fatto ottenere alla direttrice dell'incontro: mestiere di donna e mestiere di giornalista. Il pezzo è in ogni caso azzeccato ed è palesemente scomodo per diversi personaggi; tuttavia non ci consta che ci siano state smentite, e questo significa che quanto è stato asserito dall'intervistato è stato approvato e viene confermato in loco alto e basso. Una diretta chiamata in causa, contenuta nel pezzo centrale del servizio, reclama una risposta che ci spiace di dover dare con un po' di ritardo. Abbiamo scartato l'idea di una risposta sistematica a tutta l'intervista perché l'interesse che per noi riveste lo argomento della chiamata in causa si sarebbe stemperato in mezzo a polemiche di importanza subordinata fino a svanire, e questo vogliamo evitarlo. Ed eccoci al dunque. Oriana Fallaci ha aperto il cancelletto del giardino e l'intervista è cominciata in un clima di auto esaltazione reciproca. La Fallaci ha quindi fatto sfogare l'interlocutore con il racconto delle prime vicende personali, ne ha bloccato i riflessi ed ha fatto cadere le ultime difese con la confessione di socialismo e con le confidenze su Marx e sugli imperialismi dei giganti. Il paziente (o la vittima) maestro di confessionale, è ormai abbandonato sul lettino psico-analitico. La giornalista gli chiede:
D: - Ci fu un periodo, nella sua vita, durante il quale lei abbracciò il fascismo. Come fu possibile? E come giunse, dopo, a scelte così diverse? Perdoni il brutto ricordo.
Il paziente (o la vittima?) risponde.
R: - Lei ha tutto il diritto di pormi quel brutto ricordo ed io le rispondo senza vergogna. In ciascuno di noi dorme un fascista e talvolta esso non si sveglia mai. talvolta invece si sveglia. In me, si svegliò quand'ero giovane. Avevo ventidue anni, sognavo anche allora di cambiare il mondo, e vedevo il mondo diviso tra destra e sinistra. Cioè fascismo e comunismo. Scelsi il fascismo. Si chiamava Azione Integralista, in Brasile. Gli integralisti portavano le camicie verdi anziché le camicie nere come gli Italiani sotto Mussolini. E il loro motto era Dio-Patria-Famiglia: un motto che a me andava benissimo. Come giudico ciò? Col mio semplicismo giovanile, con la mia buona fede, con la mia mancanza di in-formazioni: non c'erano molti libri da leggere, né molti uomini sani da ascoltare. E anche col fatto che il mio superiore, il vescovo di Ceara, fosse favorevole e mi avesse chiesto di lavorare con gli integralisti. Ci lavorai fio no a ventisette anni, sa'? Cominciai a sospettare che quella non fosse la strada giusta solo quando giunsi a Rio de Janeiro dove il cardinale Leme, che non la pensava come il cardinale di Ceara, mi ordinò di abbandonare il movimento. Le racconto ciò senza imbarazzo perché ogni esperienza, ogni errore, arricchisce ed insegna: se non altro a capire gli altri. Ai fascisti di oggi io so quel che dico quando dico: non c'è solo il fascismo, non c'è solo il comunismo, la realtà e assai più complicata. Ma lei vuole sapere come giunsi alle scelte di oggi. La risposta è semplice: quando un uomo lavora a contatto della sofferenza, finisce sempre col restare incinto della sofferenza. Molti reazionari sono tali perché non conoscono la miseria, l'umiliazione. Quando restai incinto? Chissà. Posso dire soltanto che la mia gravidanza esisteva già nel 1952 quando fui nominato vescovo. Nel 1955, l'anno del Congresso Eucaristico internazionale, era già una gravidanza avanzata. Partorii le mie nuove idee un giorno del 1960, nella chiesa della Candelaria, per la festa di San Vincenzo de' Paoli. Salii sul pulpito e cominciai a parlare della carità intesa come giustizia e non come beneficenza.
Le gravidanze extrauterine di Monsignor Camara ci avrebbero interessato se non avessimo conosciuto il principio della solidarietà, principio che il Fascismo ha istituzionalizzato ed attuato in Italia nella sua azione di governo giungendo a rivoluzionare il rapporto di lavoro subordinato in un rapporto di cor-responsabilità nella impresa socializzata della Repubblica Sociale. Don Camara ha quindi scoperto l'ombrello, frusto, se vuoI raccoglierci sotto gli uomini di serie B per educarci a chiedere il prosciutto (invece del pane e dei biscottini), a restare quindi eterni postulanti, anche se più esigenti. Ma queste sono notazioni incidentali.
Occorre mettere in luce il falso storico della partecipazione del Camara al Fascismo e come la sua falsa posizione serva la strategia dell'antifascismo radicale. L'ex oppositore del comunismo Helder Camara va senz'altro assolto dal suo peccato di gioventù del quale parla col muso storto di tanti maddaleni pentiti. La formula dell'assoluzione è quella piena. Infatti non vi è dubbio che il fatto non possa costituire il reato di cui il nostro si autoaccusa. A ventidue anni il prete Camara ascolta la parola del proprio vescovo e si mette al seguito delle camicie verdi di Getulio Dornelles Vargas; siamo nel 1931. Ci resta tranquillamente per cinque anni, fino a quando un altro vescovo non gli ordina di smetterla. Buono buono il futuro vescovo terribile, come era entrato esce dal movimento integralista brasiliano, senza scosse e senza lacerazioni. L'unica cosa di cui si sa arricchire interiormente in questa sua vicenda è l'adesione al trinomio Dio-Patria-Famiglia di cui predicava Mazzini in Europa circa 150 anni fa e nessuno fino a questo momento si è mai peritato (menchemeno noi e nemmeno Oriana Fallaci che queste cose le sa) di definire fascista Giuseppe Mazzini, morto cinquanta anni prima della Marcia su Roma. Il nostro si sente tuttavia autorizzato a montare in cattedra per far sapere ai fascisti che la realtà è assai più complicata e che non ci sono solo il fascismo e il comunismo.
Altra cappellata del prete Camara. Cominciamo da questa coda. Contro il Fascismo non c'è solo il comunismo. Infatti ci sono tutte le componenti del mondo cosiddetto libero, quindi gli occidentalisti che vanno dalle destre alle socialdemocrazie, alle democrazie cristiane, ai regimi franchisti, per arrivare al radicalesimo di scuola francese o kennedyana, e poi ci sono Paolo VI e Helder Camara suo braccio destro tra le favelas brasiliane, insieme a tutte le massonerie e ai sinedri internazionali. Per essere concisi ci siamo Noi, il Fascismo, da una parte e dall'altra il composito resto del Mondo.
Questa situazione dura dal 1939; discuterne nel merito le opportunità e le conseguenze è materia che esula dalla presente risposta. Sia dunque chiaro a chiunque spetti di avere chiare le idee che il Fascismo non può essere confuso con le schiere degli anticomunisti. Rimanendo nel tempo e nella realtà, il Fascismo è prima contro gli immortali principi dell'89 per una diversa scelta di civiltà e quindi è contro tutti gli epigoni, comunismo compreso. Questa la realtà che non è complicata né assai né poco. Le degenerazioni ovviamente restano fuori del quadro, ed i degenerati sono fuori del Fascismo e nel campo di Agramante. Così il MSI oggi, così ieri G.D. Vargas, che non fu mai fascista, con buona grazia dei suoi oppositori. È vero anche che la contraria versione è un macroscopico falso e nessun valore assume il fatto che venga largamente diffusa e pubblicizzata anche con il concorso compiaciuto del prete Camara. A fugare ogni equivoco valga il comportamento del Vargas durante il secondo conflitto mondiale.
Rimasto fuori del Fascismo egli prese parte alla crociata contro il Fascismo. Il 22 agosto '42 dichiarò guerra alle potenze dell'Asse, nel febbraio '43 aderì solennemente alla Carta Atlantica. Tale atteggiamento non si limitò alla affermazione dei principi; egli inviò contro l'Europa un corpo di spedizione brasiliano che sbarcò a Napoli nel luglio 1944 e combatté contro la R.S.I. ed i suoi alleati. Sono fatti che si commentano da soli.
Resta da esaminare come l'atteggiamento di Monsignor Camara serva la strategia radicale.
Per i radicali, i Paesi dell'America Latina sono un vasto mercato da acquisire alle necessità del produttivismo e del consumismo. Sempre buone le vecchie tecniche della subordinazione economica e della Pressione dei bisogni provocati. Una immensa area ancora vergine e tutta da scoprire a questi fini. L'abbattimento dei regimi reazionari esIstenti è perciò soltanto il primo momento tattico della politica ispirata da quella constatazione e viene perseguito perché possano instaurarsi il sinistrismo ed il democraticismo, naturali portatori dei valori economicistici della civiltà radicale. La morte di Kennedy e la affermazione negli USA di una linea politica che con Johnson prima e Nixon poi ha abbassato il discorso distensivo dalla funzione di copertura ideologica a semplice calcolo di convenienza politica, dal quale inoltre non sono estranee posizioni nazionalistiche, ha portato ad un riflusso delle chances dei radicali. Ecco quindi la necessità di cominciare a porre le basi per un rilancio su vasta scala del dise-gno interrotto dalle fucilate di Dallas e per prima cosa la necessità di un distinguo dalla attuale politica della Casa Bianca. L'occasione è offerta proprio dalla contestazione agli USA, presente in tutta l'America Latina.
Da vecchia data esiste un concomitante disegno di Paolo VI che, morto Kennedy, non ha mancato occasione per esaltarne la politica. Il disegno papale per un rilancio del prestigio t; dell'influenza temporale della Chiesa a livello mondiale trova possibilità di affermazione solo nel contesto distensivo iniziato dal cattolico Kennedy, il solo contesto capace di consentire l'inserimento del discorso sul pa-cifismo e sul dialogo col mondo moderno propri del Vaticano. Il ponte tra radicali e cattolici, interrotto dall'epoca della morte del primo Kennedy, deve perciò essere restituito alla sua antica funzione, con la cattura di quanti intendessero sottrarsi all'originario disegno sul quale le due forze - la radicale e la cattolica - si saldano.
La protesta di monsignor Camara, mitizzabile strumento di penetrazione tra le masse brasiliane, non esce da questo disegno nel quale si incastona esattamente. E questo è il significato del vantato exequatur pontificio (il Papa lo sa e non disapprova). Altro che vescovo terribile.


Bruno Ripanti

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