Come l'infamia si riverbera nel
paese di Pulcinella
Badoglieide [Absit iniuria
verbis]
Giorgio Vitali
«Nobilissima
mercede dello storico è la potenza di rendere e far si che altri
renda la giustizia ai meritevoli, togliendola a cui indegnamente la
usurpa»
F. D. Guerrazzi |
Quella dell'otto settembre è una data poco conosciuta ed ancor meno ricordata
nel nostro paese. Ben pochi italiani, fra quelli stagionati, la ricordano. Per i
giovani è del tutto inesistente. È ben più presente, per gli echi televisivi,
quella dell'11 settembre, con tutti gli annessi e connessi. E tuttavia si tratta
di una data che pesa come un macigno sulla nostra "coscienza collettiva". Ed
agisce drammaticamente nel subconscio dell'intera nazione. Un fatto da
dimenticare, come le sconfitte di Lissa, di Novara, di Adua.
E tuttavia. i telegiornali dell'otto sera hanno presentato agli italiani in
trepida attesa di notizie sul calcio e su "missitalia", un quadro piuttosto
squallido mostrando in tutta la loro nullità un gruppo di "autorità" che
rievocavano quell'episodio Il solo vedere quelle facce di figuranti che
pretendono di rappresentare l'Italia, non solo nel suo squallore attuale, ma
anche di sputare giudizi sulla storia che, anche se recente, ha dimostrato
caratteristiche inequivocabili, ha suscitato in molti un senso di disgusto
superiore a quello provocato dall'avvenimento che essi esaltavano.
Perchè, lo sappiano gli ignavi, la data dell'otto settembre 2008 è servita a
mettere in mostra, tutti allineati e coperti, autentici gaglioffi che facevano a
gara nel trovare parole magniloquenti per esaltare un avvenimento esecrabile.
Di quanto la manifestazione sia squalificante per chi la promuove e per chi
l'accetta passivamente, è prova il fatto che di ragioni per manifestare qualcosa
in relazione all'ultimo conflitto, nel quale l'Italia è stata volente o nolente,
attrice fra le principali, ce ne sono moltissime. Perché il popolo italiano si è
battuto in condizioni difficilissime, con grande coraggio ed abnegazione,
proprio perché cosciente della sostanziale nullità dei suoi capi.
Ragioni per ricordare ed esaltare coraggio ed abnegazione quindi non mancano, ma
questa classe dirigente (o almeno che si ritiene tale) pensa solo a legittimare
con menzogne retoriche l'evento che ne ha determinato in un modo o nell'altro
l'assunzione al ruolo di maggiordomi del lord di turno.
E non potrebbe essere diversamente. La loro gloria coincide con l'ignominia
nostra. Il loro tornaconto coincide con la nostra dannazione. E ci riferiamo,
come abbiamo fatto fino ad ora, a tutti coloro che provenienti da diverse
collocazioni partitiche, si sono avvicendati sui seggi parlamentari, per dire
signorsì ai padroni di turno.
Ulteriore commento non merita questa sceneggiata eccetto che occorre
sottolineare la falsificazione insita nella dichiarazione del presidente di
questa repubblica, il quale ha detto che quelli che dissero «no!» alla RSI
appartengono di diritto alla resistenza.
Il fatto in sé non ci stupisce, perché quel complesso di avvenimenti al quale
solo dopo molto tempo han trovato il nome di resistenza, mutuandolo da quello
francese, (in questo caso appropriato perché si trattò della continuazione della
guerra) non potendone reperire uno più consono per mancanza di contenuti
storicamente convincenti, trova la sua migliore estrinsecazione proprio in
quello che è stato: un rifiuto a continuare la lotta, ed a qualsiasi condizione;
anche rimanendo inattivi per un paio d'anni in una situazione di ozio forzato.
Si tratta di una patologia che oggi conosciamo bene, ma è stata studiata
ampiamente solo dopo la fine di quel conflitto, perché ha coinvolto soprattutto
i militari americani, continuando a mietere vittime fra loro anche in
conseguenza di altri conflitti come quello di Corea, del Vietnam, dell'Iraq. È
un fenomeno depressivo mentale, morale e psichico, anche giustificato, se
vogliamo, dopo la notizia dell'infame capitolazione, che aveva annullato i
sacrifici di tre anni di guerra compromettendo inesorabilmente tutti i
combattenti italiani.
Preso atto che il presidente di questa repubblica, che se n'intende, ha
dichiarato essere la condizione di "internato" (cioè né carne né pesce),
l'essenza dell'antifascismo militante, dobbiamo però fare una piccola
correzione: non sono gli internati che hanno "reagito", rifiutando la RSI, ma
sono stati i socialrepubblicani che hanno «reagito all'onta ed al disonore»
dando vita alla RSI. Diciamo inoltre che, in conseguenza di quella reazione, i
combattenti socialrepubblicani hanno dato vita all'autentica resistenza, quella
contro gli atlantici invasori dal sud.
Pertanto è giusto aggiungere che i veri "vinti" della guerra sono stati proprio
i "resistenti istituzionali" i quali, abdicando a qualsiasi dignità, si sono
costituiti e qualificati come vinti. Essendo vinto solo colui che si da per
vinto. Non siamo solo noi a sostenerlo. Scrive Luciano Lucci Chiarissi ("Esame
di coscienza di un fascista", IRSE ed.) «… la formula del potere, enunciata da
Gaetano Mosca, secondo cui ogni classe politica è legata alla formula che ha
motivato il suo accesso al potere. L'antifascismo è, dunque, prigioniero della
formula del disarmo, dell'abdicazione, del disimpegno, e non ha potuto, non può
e non potrà mai chiedere agli italiani non diciamo degli sforzi bellici, ma
neanche quelli indispensabili per costruire e mobilitare una comunità civile.
Non a caso fuori del campo di concentramento di Coltano era ostentato un
cartello nel quale era scritta questa frase: "Meglio pecore al pascolo che leoni
in gabbia". E non a caso il motto che simboleggia le nuove generazioni è: "Fate
l' amore non fate la guerra"».
Cogliamo pertanto l'occasione per denunciare per l'ennesima volta l'operazione
mediatica ipocrita e falsamente dolciastra che è stata inaugurata da un
decennio, e che consiste nel chiamare "vinti" coloro che si sono battuti nella
RSI per una Repubblica Sociale. Tant'è vero che non sono mai stati vinti, che
quel Governo è stato proditoriamente assassinato mentre cercava di concordare
con gli atlantici una pace dignitosa per l'Italia, mentre il "cessate le armi"
delegato da Graziani ai tedeschi non costituisce resa perché non è stato
negoziato da un plenipotenziario, e che i sopravvissuti (utilizziamo anche noi
questa parola diventata attributo costante di qualsiasi ebreo, sia esso
novantenne o decenne) hanno oggi il piacere di vedere che il "presunto
vincitore", che ci ha fatto la guerra allora per esportare il liberismo più
sfrenato, è costretto a "nazionalizzare" nientemeno che le più importanti
società finanziarie statunitensi.
E ci aspettano, a breve, ben altre soddisfazioni!
Per inciso, è utile ricordare la farsa costituita dalla dichiarazione di guerra
che il governo Badoglio inoltrò ai precedenti alleati nel tentativo di apparire
cobelligerante. Queste dichiarazioni di guerra però non comportarono alcun
trattato di pace nel dopoguerra, semplicemente perché quel governo non aveva
alcuna sovranità e pertanto tali atti furono nulli.
Badoglio come paradigma dell'Italia di Pulcinella
Questo tizio non è nuovo nel panorama storico italiano. Traditori che aprono le
porte delle città assediate agli assedianti non mancano nella nostra storia. Uno
fra loro è il Baglioni, che tradendo la Repubblica Fiorentina permise
all'imperatore di conquistarla. E tuttavia, resta nella memoria collettiva la
figura invitta del Ferrucci, che cade assassinato da Maramaldo, nome rimasto
infamato per l'invettiva che il Ferrucci gli scagliò mentre stava per essere da
lui finito. Se però vediamo le cose per come stanno realmente, Maramaldo, onesto
ufficiale delle truppe imperiali, è molto meno infame del traditore Baglioni,
essendosi limitato a fare il suo dovere in guerra, probabilmente ponendo fine
alle sofferenze del Capitano della Repubblica.
Di Badoglio si sa molto, soprattutto per quanto riguarda l'appartenenza alla
Massoneria di Piazza del Gesù, dalla quale probabilmente sono partiti molti
ordini ai quali costui deve essersi attenuto con scrupolo. Notizie interessanti
si trovano nel recente "Fratelli d'Italia" di Ferruccio Perazzoli, edito da BUR.
Lo squallore umano del personaggio non invita certo alla lettura di libri a lui
dedicati. E tuttavia sono importanti i seguenti testi: "Badoglio duca di
Caporetto", "La guerra dei generali" di Carlo De Biase, editi dal Borghese nel
1965.
Nella prefazione al primo dei due libri, è riportata parte di una lettera
scritta dal deputato nazionalista Edoardo Rotigliano a Mussolini il 4 aprile
1925, che così si esprime: «… Posso assicurarle che non ha le doti di carattere
indispensabili per essere posto a capo dell'Esercito. Molti sanno che Badoglio è
il maggiore responsabile di Caporetto, ma pochi conoscono il contegno ignobile
da lui tenuto all'indomani della sconfitta, quando abbandonò senza comando,
sulla sinistra dell'Isonzo, tre delle quattro divisioni del suo XXVII Corpo
d'Armata per correre ad Udine ed a Padova per assicurarsi l'impunità ed a
brigare per la nomina a sottocapo di Stato Maggiore …».
Si tratta di poche parole ma più che sufficienti per dimostrare chi fosse questo
tristo figuro, perché l'otto settembre costui si comportò esattamente come a
Caporetto. E Mussolini non poteva certamente dichiarare di «non sapere».
Se poi a quanto scritto da De Biase aggiungiamo quanto minuziosamente descritto
dai recenti "Grande guerra, piccoli generali" (UTET) e "Indietro Savoia!" (PiEmme]
di Lorenzo Del Boca, che illustrano con dovizia di particolari agghiaccianti
atti di sadica crudeltà messi in atto sistematicamente dagli ufficiali sabaudi
contro i nostri poveri soldati (vera prosecuzione delle stragi risorgimentali)
il quadro può dirsi completo. Un genocidio, forse programmato.
Le responsabilità di Badoglio per quanto riguarda Caporetto sono ormai un luogo
comune, compreso il bollettino infamante e pazzesco diramato dal comando
cadorniano contro le proprie truppe, con menzogne infantili sul numero delle
divisioni nemiche. Tuttavia pochi sanno che, proprio in conseguenza di
Caporetto, fu preso in considerazione, dai parlamentari ai militari ed al re, il
«passaggio di fronte» dell'Italia, verso gli Imperi Centrali. Vittorio Emanuele
III, ricevendo il 28 ottobre 1917 Leonida Bissolati, gli dice: «Se l'esercito
non si riprende io abdicherò, e nemmeno a favore di mio figlio, perchè non
voglio che firmi una pace vergognosa». Peccato, diciamo noi, che gli stessi
propositi non siano stati da lui mantenuti nel 1943! I nostri "alleati"
d'allora, già d'allora preparati ai voltafaccia italiani, si preoccuparono non
poco, e cercarono di prevenire la consegna della nostra flotta militare. (Sembra
un copione di una vecchia commedia dell'arte!)
Come segnala Franco Bandini, ("1943, l'estate delle tre tavolette", Iuculano
ed.), per ostacolare una partenza improvvisa della flotta militare italiana, gli
inglesi affondarono nel porto di Taranto la loro vecchia corazzata Queen, che
stazionava in quel porto apparentemente per riparazioni, in realtà per
prevenire, già prima del 1917, alzate d'ingegno all'italiana.
Su "Repubblica" del 31 agosto scorso, un importante articolo di Adriano Bolzoni,
con note di Nicola Caracciolo ci fa sapere che il piano per l'arresto di
Mussolini e per l'armistizio era già pronto da oltre un anno, mentre il War
Cabinet inglese comincia a discutere la proposta definitiva del maresciallo il
14 gennaio 1943. Come dire: incapace a gestire una qualsiasi guerra (in ciò
fedele alle tradizioni dell'esercito sabaudo), cinico nel mandare al macello i
più deboli (militari e popolazione), astuto nel tramare e vigliacco fino
all'assurdo nel fuggire.
Per avere un'idea chiara della questione, occorre ricordare che mentre i felloni
scappavano in tutta tranquillità, avendo ricevuto il "lasciapassare" da
Kesselring, i Fallschirmjager di Walter Gericke attaccavano tra il 9 ed il 10
settembre la sede dello Stato Maggiore Italiano, posta a Palazzo Orsini di
Monterotondo. difesa strenuamente dagli italiani. Complessivamente, la battaglia
di Monterotondo costò ai tedeschi la perdita di 300 paracadutisti, di cui 48
caduti, mentre gli italiani ebbero 125 caduti e 145 feriti, tra i quali 14
carabinieri. ["Storia & Battaglie", n. 81, giugno 2008]
Dovrebbe stupire gli ingenui che, quando si rievocano certi avvenimenti e si
rivalutano gli "internati", gli apologeti non si ricordano mai di episodi come
quello qui esposto.
Sull'opinione dei semplici militari che ebbero a che fare col personaggio e con
tutta l'allegra brigata, il numero 23 settembre 2008 di "Focus Storia" riporta
le memorie di un corazziere di scorta al re, oggi quasi novantenne: Attilio
Brentegani. In quelle convulse giornate i corazzieri furono comandati fra il
Quirinale ed il Ministero della guerra. Ricorda il Brentegani: «Ci siamo resi
subito conto che il clima era di grande confusione. Generali e colonnelli
correvano avanti ed indietro, senza che nessuno sapesse quali decisioni
prendere». Comandato a montare la guardia alla camera dove dormiva il re, il
nostro continua: «Ho rivisto mille volte nella mente i fotogrammi di quella
notte. Uno spettacolo triste e vergognoso. Decine e decine di generali buttati
sulle poltrone del palazzo in modo scomposto, con uniformi rabberciate alla
meglio, preoccupati soprattutto di non farsi travolgere dagli eventi. Ma il
destino era segnato». La conclusione dell'articolo, a cura di Paola Tettamanzi,
è significativa: «Il giorno dopo, mentre Vittorio Emanuele viaggiava verso
Brindisi sulla corvetta Baionetta (Nota: che i tedeschi, se avessero voluto,
avrebbero affondato) i corazzieri riprendevano servizio al Quirinale, di guardia
a un palazzo desolatamente vuoto, quasi la metafora di una dinastia in
dissolvimento. (Nota ulteriore: ancora si discute sulla legittimità giuridica
della RSI e La questione è stata ampiamente affrontata, anche di recente - vedi:
"Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale", n. 2001: recensione del
libro di Mario Fiorillo, "La nascita della Repubblica Italiana ed i problemi
giuridici della continuità", Giuffrè)
Basterebbe questa descrizione per legittimare qualsiasi persona o gruppi
avessero preso il potere in quei momenti, come avvenuto tante volte nella storia
di tutti i popoli. Fortunatamente per gli italiani, il governo instaurato da
Mussolini con la RSI ha garantito una continuità legislativa con il precedente,
assicurando al contempo il mantenimento dell'ordine civile e sociale; e questo
perché, come scrive Vilfredo Pareto: «Dove è debole l'opera della podestà
pubblica si costituiscono piccoli stati entro il grande stato, piccole società
entro la maggiore. Similmente, dove viene meno l'opera della Giustizia pubblica
si sostituisce quella di una giustizia privata, settaria». ("Trattato di
Sociologia Generale")
In altre parole, visto che il bombardamento mediatico sta sostituendo qualsiasi
forma di comprensione razionale basato sulla conoscenza dei fatti, mantenendo
integro il codice civile e penale del diritto privato, confermato dalla
persistenza al governo di Mussolini, i rapporti interpersonali rimasero regolati
dalle preesistenti norme, garantendo in tal modo la "certezza del diritto". E
ciò avvenne mentre era in corso l'elaborazione giuridica dei princìpi fondativi
della partecipazione sociale e della socializzazione. Al contrario di quanto
avvenuto dopo la fine del conflitto, formalizzata con la firma del 3 maggio
1945, e conseguente massacro di militari in divisa, arresisi in forza degli
accordi sottoscritti, processi farsa con condanne a morte protratti fino al 1947
inoltrato. La mancanza di legittimazione giuridica dei pseudo-governi
succedutisi dal 1943 e costituitisi in Roma dopo l'occupazione della città nel
giugno 1944, ha fatto ipotizzare anche l'illegittimità di questa repubblica per
evidente incostituzionalità della "Costituente".
La tradizione piratesca (skull & bones) e l'imprintig della legge del più
forte
Le conseguenze della fine del conflitto dal punto di vista del Diritto
Internazionale, che in tempo di pace dovrebbe regolare i rapporti fra gli Stati,
sono evidenti nelle poche nozioni che seguono.
Viviamo, infatti, in una fase dello sviluppo delle relazioni giuridiche del
diritto internazionale dei «diritti umani» che può essere studiato come
irradiazione ed espansione del "sistema americano" che, proprio in conseguenza
della guerra mondiale, ha prevaricato il precedente diritto panamericano ed
internazionale, vigenti da decenni se non da secoli. (pirateria a parte).
Tanto il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, quanto il Tribunale
Militare Internazionale per l'Estremo Oriente, che condannarono a morte gli
esponenti politici e militari delle nazioni sconfitte, furono istituiti per
interessi egemonici, di natura economica, militare politica o territoriale. Come
dimostra, se ce ne fosse il bisogno, la presenza di basi militari americane
(anche se sotto copertura NATO) sul nostro territorio. Tale presenza, come
ovvio, costituisce a tutti gli effetti un'occupazione militare per usi militari.
Ne consegue in maniera evidente che la classe dirigente economico-politica è
prigioniera a tutti gli effetti della politica estera statunitense.
Il peccato originale è causa della decadenza attuale
Scrive Luciano Lucci Chiarissi (op. cit.) «Il regime che è sorto si mantiene e
può sopravvivere esclusivamente perché ha rinunciato alla sovranità nazionale ed
alla autonomia politica della comunità italiana, e ritiene normale che le
decisioni di fondo per la nostra vita collettiva siano assunte in sede esterna
agli istituti politici italiani. La ribellione potrà avvenire quando si sarà
compreso che la sudditanza politica della Nazione implica una formale
abdicazione alla dignità umana e civile di tutti gli italiani».
Aggiungiamo che la situazione si evidenzia anche dal fatto che il nostro paese
delega alla direzione politica una categoria di persone che si propongono
esclusivamente come "intermediari" fra la popolazione, considerata nella sua
piena sudditanza, ed i poteri reali economico-finanziari americano centrici.
Abili nel non far nulla, ma capaci di far credere a parole di agire
nell'interesse degli italiani. Non diversamente nell'epoca storicamente
disprezzabile del dominio spagnolo in Italia, efficacemente descritta dal
Manzoni ne "I promessi sposi".
Se così non fosse, la casta politica non sarebbe così premurosa nell'imporre,
con violenza e con cadenza giornaliera, alcuni presunti "dis-valori" mai
condivisi dagli italiani perché non condivisibili perché elaborati allo scopo di
dividere la nazione ed elaborati altrove. (vedi: "Made in USA. Le origini
americane della repubblica italiana", Ennio Caretto e Bruno Marolo, Rizzoli,
1996)
Operazioni segrete
Come abbiamo in precedenza scritto, Mussolini era a conoscenza della reale
entità umana del Badoglio. Doveva subire la sua presenza in nome del compromesso
con la monarchia, molti storici ammettono che cercò di comprarselo assecondando
la sua smodata venalità e vanità. Può darsi. E tuttavia restano molti dubbi.
In primis occorre ricordare alcuni libri:
"Il Duce, il Re e il loro 25 luglio" di Pietro Ciabattini. Questo libro è
importante perché l'autore, molto opportunamente, ha preso in esame il famoso
libro di Mussolini "Storia di un anno, il tempo del bastone e della carota",
evidenziando l'incongruità di molte mancanze, tanto da far dichiarare al duce,
nella breve introduzione, incompleta quella versione dei fatti.
In seguito, Fulvio e Gianfranco Bellini, in "Storia segreta del 25 luglio",
Mursia, 1993, hanno allargato l'argomentazione aggiungendo elementi importanti
in precedenza sottovalutati, che richiamano interpretazioni di carattere
geopolitico.
Interessante è anche "25 luglio 1943. Il caso è chiuso", di Sergio Bonifazi, e
per una conoscenza ancor più dettagliata sarebbe opportuno fare riferimento
all'opuscolo pubblicato da F. Toso, stampatore in Torino il 30 maggio 1945 e
recante la traduzione dell'articolo del giornalista F. C. Painton, pubblicato
nel gennaio 1945 su "Harper's Magazine" dopo aver condotto a Roma un'inchiesta
ed interrogato molti testimoni.
Infine, di recente è stato pubblicato un libro che ci fa sapere dell'esistenza
di una spia al Quirinale. La cosa non ci sorprende, essendo l'Italia un paese
pieno di spie. E tuttavia ci fa chiaramente capire che Mussolini poteva essere
informato di tutto quanto avveniva nelle segreterie di Vittorio Emanuele (vedi:
"Il telefonista che spiava il Quirinale, 25 luglio 1943", di Paolo Palma,
Rubbettino, 2006).
Cogliamo l'occasione per ripetere che, per quanto ci riguarda, le modalità con
cui si è proceduto il 25 luglio non hanno molto a che vedere con l'otto
settembre, che resta sempre un avvenimento ignobile, causa profonda dell'attuale
crisi italiana. ("Morte della patria" a parte).
Progetti franco-atlantici per l'Italia
Che le potenze le quali hanno contribuito alla realizzazione dell'unità d'Italia
abbiano preteso di decidere sul destino del nostro paese non ci sorprende. La
divisione "de facto" avendo molti risvolti utili. Tra l'altro avrebbe
sicuramente accontentato le mire egemoniche dello Stato Pontificio, che già
dagli accordi fra Wilson e Benedetto XV (attenzione ai nomi!) degli anni 20
aveva progettato una scelta geostrategia di carattere occidentalista,
consolidata con l'ultimo viaggio negli USA dell'attuale papa. Ecco quale era il
progetto, che rileviamo dal n. 11, settembre 2003, della rivista "Novecento",
dedicata appunto a Badoglio. Il Nord-Ovest fino a Milano sarebbe andato alla
Francia. Da Milano al confine Est sarebbe divenuto territorio jugoslavo. La
Puglia e parte del meridione li avrebbe avuti la Grecia. Il resto sarebbe stato
sotto il controllo della Gran Bretagna con l'eccezione di Roma, che sarebbe
divenuta una città libera sotto la tutela del Sommo Pontefice.
Questo progetto è stato esposto a metà degli anni ottanta dalla studiosa Vanna
Vailati, senza alcuna smentita da parte degli interessati, e deve far riflettere
sulla costante incertezza di una situazione geopolitica di enorme importanza,
costituita dal nostro territorio nazionale, costituitosi in unità solo per
ragioni di opportunità delle superpotenze dell'epoca che, a cose fatte, sono
state sempre d'accordo nell'escludere il nostro paese dai loro giochi
internazionali.
Tutto questo ci porta a esprimere alcune considerazioni.
Premesso che l'Italia dal punto di vista geopolitico può oscillare tra due
polarità, la conclusione è che «… Questa polarizzazione geopolitica tra mare e
massa continentale ha prodotto quella duplicità interpretativa che ha
contraddistinto la politica estera italiana ed originato la tipica mancanza di
continuità di quest'ultima. La spaccatura tra "continentalisti peninsulari" e
"insulari mediterranei" ha, infatti, spesso diviso la classe dirigente del paese
e l'ha vista, da una parte, schierata verso una politica di bilanciamento tra
Francia e Germania e dall'altra più orientata verso una proiezione Nord-Sud
(Eurafrica) [A. Sfrecola in: "AAVV. Dizionario di geopolitica", Asterios ed.].
Non stiamo facendo un trattato di geopolitica, ma se si vuole trarre un
insegnamento da quanto avvenuto occorre avere le idee chiare. Le origini della
geopolitica italiana (cioè della nazione italiana costituita in unità, sono
state trattate dalle opere di Umberto Toschi, uno dei maggiori geografi
italiani, il quale ha fatto riferimento ad una serie di scritti di autori come:
Giovanni Botero (1544-1617), Giovan Battista Vico (1668-1774), Melchiorre Gioia
(1767-1829), Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e Adriano Balbi ("Elementi di
geografia generale", 1844).
Fin dal Rinascimento, pertanto, il pensiero più evoluto d'Europa "vedeva"
l'unità nazionale, fatto ormai consolidato proprio dal costituirsi dell'Unione
Europea. E tuttavia, fino a pochi decenni orsono, l'Italia era a rischio
smembramento "stile Iugoslavia". Solo una serie di compromessi e di falsità
ufficiali, fra cui le tensioni fra GB ed USA per il controllo della Sicilia, già
affidata alla Masso-Mafia ancorché "ufficialmente" appartenente al territorio
nazionale (viaggio di De Gasperi in USA, 1947), ha permesso finora di preservare
l'integrità del territorio, e spiega molto bene il susseguirsi di menzogne quali
giustificazione degli interventi italiani all'estero, comprese le ultime imprese
di "Peace Keeping".
Scrive, infatti, Sergio Romano ("La riconquista dell'Italia", a cura di F. L.
Cavazza, Longanesi, 1993): «È la falsa rappresentazione uno dei maggiori vizi
della società italiana. Il terrorismo fu rappresentato per alcuni anni come
esclusivamente "nero" (…) La mafia è passata attraverso rappresentazioni
diverse, tutte egualmente erronee o parziali (…) Per un lungo periodo, dopo la
fine della guerra, la Democrazia Cristiana e altri partiti moderati ne
smentirono l'esistenza …».
Per quanto ci riguarda, noi facciamo riferimento alla linea di geopolitica che
fu prioritaria durante il Regime, e che vide in Ernesto Massi uno degli
esponenti di spicco (Rivista "Geopolitica-Rassegna di geografia economica,
politica, sociale, coloniale", edita dal 1939 al 1942).
I punti essenziali sono i seguenti:
- Minor peso del determinismo geopolitico e razziale, diversamente dalla scuola
tedesca.
- Elaborazione di una dottrina degli spazi vitali che non esclude
aprioristicamente la coesistenza con altri popoli.
- Adesione a scelte di geopolitica del Regime, funzionali agli interessi reali
del paese, indipendentemente da presupposti dottrinari che potrebbero
dimostrarsi fallaci.
Conseguentemente, tenendo presente che la linea geopolitica dal dopoguerra ad
oggi dei vari governi susseguitisi alla guida del nostro paese, ha oscillato
come un pendolo accelerato fra le opposte tendenze sopra definite; che una linea
accentuatamente filo araba espressa dai governi Craxi, Andreotti e Pertini, ha
provocato la reazione occidentale con il "rapimento Moro" e "Tangentopoli", ma
considerando inoltre che qualsiasi accostamento alla geopolitica occidentalista
è stato pagato dall'Italia con una posizione subordinata se non esplicitamente
servile, è giocoforza una scelta continentalisti, ovvero "Eurasiatica", che può
averci fatto perdere una guerra, ma non ci ha mai umiliato nelle nostre
fondamentali aspirazioni mediterranee (Mare Nostrum).
La Sindrome di Meucci
In un interessante volumetto, Giuliano da Empoli tratteggia, con la formula
azzeccata di «Sindrome di Meucci», un atteggiamento peculiarmente italiano,
secondo il quale i nostri cittadini non riescono mai a far valere a livello
internazionale i risultati del proprio ingegno. È una faccenda tragica, che
diventa da noi tragicomica, se si pensa che la formula della relatività è stata
ufficialmente pubblicata da un italiano, Olinto De Pretto, prima di essere
copiata da Einstein, il quale, conoscendo bene l'italiano, aveva letto la
relazione pubblicata nel 1904, di un convegno tenutosi nel 1903. E via
discorrendo, fino ai giorni d'oggi.
Nel nuovo capitalismo culturale, sostiene l'autore, gli italiani dovrebbero
muoversi con la sicurezza di tanti piccoli Scarface, anziché arrovellarsi in una
crisi che è prima di tutto psicologica e culturale.
La deduzione dovrebbe essere evidente, perché è proprio il peccato originale,
quello che gli anglosassoni hanno definito coniando il termine "to badogliate"
che paralizza psicologicamente gli italiani nel mondo. È una paralisi interiore,
radicata nel subconscio, e sempre rinverdita con manifestazioni pubbliche che,
invece di essere di esecrazione, ne sono un'esaltazione.
Conclusione
Anche in Italia non mancano voci di dignità. Il noto intellettuale bolognese
Antonio Bruers riporta in un suo articolo la seguente lettera, reperibile nel
volume "La voce di Bologna", Bardi ed. Roma, 1942, redatta da Rolandino De
Passaggeri, capo della fazione guelfa di Bologna, dopo la vittoria bolognese di
Fossalta, (1249), in risposta a Federico Imperatore che minacciava di sterminio
tutta la città se non fosse stato restituito il figlio, quel Re Enzo cantato dal
Pascoli:
«Si levi su Iddio e al tutto siano dissipati i nostri nemici che temerariamente
appaiono innanzi al cospetto nostro (…) Non ci vogliate spaventare con ventose
parole, perciocché noi non siamo canne di paludi, né brina che si dissolve al
sole (…) Il Re Enzo è nostro prigione e nello avvenire anche il terremo
carcerato, come cosa che di ragione è nostra. E se voi vorrete vendicare
l'ingiuria, vi saranno di bisogno le forze, e allora fia lecito di rispondere
con la forza alla forza, e vincerla».
Riaffermando che noi siamo incondizionatamente col grande imperatore, che aveva
fatto, contro la volontà del papa, un trattato di pace con l'Islam, dichiariamo
che queste sono parole di dignità che noi apprezziamo, e che vorremmo tutti gli
italiani fossero capaci di esprimere.
Questo per quanto riguarda un passato più recente di quanto si creda. Ma poiché
siamo ideologicamente schierati, vogliamo concludere questo articolo con una
frase tratta da un articolo di A. O. Olivetti, apparsa sul primo numero de "La
Patria del Popolo" (12 ottobre 1922).
«Noi i sindacalisti, gli interventisti di ieri, gi italiani di oggi e di sempre,
quelli che seguirono Filippo Corridoni, quelli che combatterono a Parma, che
fummo derisi, sputacchiati, aggrediti da tutte le parti, che lottammo in pochi
ma non fummo mai vinti, che soffrimmo in silenzio ma non ci prestammo mai a
cambiare o a barattare la nostra passione, oggi che tutto quello che noi
prevedemmo è avvenuto, siamo fermi al nostro posto di combattimento a
raccogliere i naufraghi dei disastri odierni, a incoraggiare, a difendere, a
rincuorare, domani a espungere, ad attuare, a volere, immutabilmente…» ( Da R.
De Felice, "Mussolini il fascista, La conquista del potere", pag. 287).
Giorgio Vitali
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