Italia - Repubblica - Socializzazione

 

tratto da: Associazione Apartitica-"IlCovo", luglio 2009

Link originale : http://www.ilcovo.mastertopforum.net/1-vt1129.html?start=0

 

S. Ten. di complemento Barbadoro Sergio

     
    

 

…ecco un brano estratto dal documento il cui link è presente in questa discussione http://ilcovo.mastertopforum.net/l-eroe-che-difese-palermo-dagli-americani-nel-1943-vt737.html .
Poche righe che descrivono il sacrificio eroico di un giovane ventiduenne figlio dell’Italia Fascista che al prezzo della propria vita con un pugno di uomini sbarrò la strada all’armata di invasione anglo-americana che era sbarcata in Sicilia nel luglio 1943. Un vero martire fascista nel senso più alto del termine, cioè consapevole del proprio dovere di italiano fascista e cosciente dell’eventualità del proprio sacrificio. Un uomo che oggi è ricordato con uno scarno cippo dove poche parole anonime e scialbe non rendono affatto giustizia alla grandezza morale e materiale del gesto che seppe compiere.
Vi prego di leggere con attenzione questo stralcio poiché, dopo aver discusso della cosa con Roma Invicta che si è espresso favorevolmente in proposito, è mia intenzione proporre a tutti quanti voi Cittadini Fascisti de Il Covo un atto concreto che finalmente renda giustizia al sacrificio di questo giovane toscano che fece una scelta di amore immenso verso la propria Patria scegliendo di dare tutto per difendere i propri fratelli siciliani in nome dell’ ITALIA FASCISTA.
 



... Palermo, in codice «Difesa Porto "N"», è affidata al gen. Giuseppe Molinero. Non eccessivamente consistenti le forze a sua disposizione, cui tuttavia viene aggregato in rinforzo sin dai primi di luglio anche il I gruppo da 100/17 del 25° Rgt. art. "Assietta", inizialmente dislocato nella zona presieduta dall'omonima divisione tra Partanna e S. Ninfa. L'arco difensivo disposto intorno alla città è piuttosto vasto e comprende più paesi che, da est verso ovest, sono: Isola delle Femmine - Capaci - Carini - Monreale - Altofonte - Belmonte Mezzagno - Gibilrossa - Misilmeri - Altavilla Milicia. In questo marasma generale, il S. Ten. Barbadoro è comandato di predisporre un piccolo caposaldo a Portella della Paglia, così da sbarrare per quanto più sia possibile il passaggio al nemico, che rapidamente giunge dall'entroterra. Così quel manipolo di soldati, come ordinato, prende posizione, pronto ad assolvere una disperata difesa dal sapore aristocraticamente antico. Corre subito alla mente, infatti, il memorabile episodio in cui Leonida I, re di Sparta, con soltanto 300 dei suoi opliti nel 480 a.C. seppe infliggere notevoli perdite e frenare a lungo alle Termopili la soverchiante forza del temibile esercito persiano di Serse. Il cannone ippotrainato da 100/17 viene posizionato nel punto migliore. L'ufficiale sa bene usare l'arma affidatagli, ma è la responsabilità della vita dei suoi soldati che maggiormente lo preoccupa. Un occhio al sito. Il punto da presidiare è strategicamente ottimo per la difesa. Nel suo complesso la conformazione del territorio siciliano è da sempre considerata, dal punto di vista militare, come un fattore assai poco agevolante le manovre offensive. Nello specifico, il teatro circostante è caratterizzato da una cruda vegetazione, due alte cime ai lati che fanno da cornice ad un'ampia vallata che si distende a perdita d'occhio. Fra le ripide pareti di questa gola rocciosa si snoda una piccola strada che, serpeggiando prima di passare per la strettoia della portella in direzione del capoluogo, si presta da quel punto ad un efficace tiro di artiglieria. Se a questi dati tecnici si aggiunge la fede che l'ufficiale deve aver evidentemente trasfuso nei suoi sottoposti, allora è facile concludere che in quei momenti qualcosa di grande deve essere accaduto, rendendo quel luogo come tempio munito, una fortezza mistica, una roccaforte armata da una comunione d'intenti, un incendio di spiriti.
«Trasfondere la propria fede negli uomini -afferma un alto ufficiale ad un convegno sui fatti di cui parliamo- che la Patria ci affida, è il compito più nobile e forse più gratificante di un ufficiale. Un uomo sulle cui spalle pesano grandi responsabilità, come quella di chiedere, nei momenti difficili, l'obbedienza per atti che potrebbero comportare il più grande dei sacrifici».
Sono giorni difficili, ma in alto il sole continua a splendere. Il caldo è intenso, il cielo terso, d'un blu che lascia pensare alle cose più belle. Ma l'amenità del paesaggio non può certo cancellare quello assai più greve e contingente di carattere militare. Poco dopo il tramonto, mercoledì 21 luglio 1943, il magg. Francesco Morelli riceve l'ordine dal gen. Molinero di compiere un'accurata ricognizione informativa lungo la linea predisposta a difesa della città in direzione sud. Presa dunque la via su di una camionetta con due soldati, l'ufficiale d'ispezione giunge al varco dove Sergio vigila con i suoi.
Così Morelli scrive nel suo rapporto: «Raggiunta la linea predetta nella zona di Portella della Paglia trovai un pezzo anticarro sistemato a sbarramento delle provenienze da S. Giuseppe Jato. Detto pezzo era comandato dal sottotenente Barbadoro Sergio del I gruppo del 25° artiglieria "Assietta". I due ufficiali si scambiano dei pareri e poi discutono di certe fondate notizie che danno gli Americani ormai prossimi all'arrivo. Il subalterno si mostra a tal proposito abbastanza sereno, pur essendo ben consapevole dell'imminente pericolo. Le sue perplessità sono d'ordine soprattutto tecnico, ovvero come rendere la vita impossibile al nemico. Il piccolo presidio dal punto di vista difensivo è ottimo, domina tutta la valle ed è l'unica strada da questo versante che possa consentire la discesa per Palermo. In più, la carreggiata è così stretta da costringere qualsiasi autocolonna a procedere in fila indiana e da rendere i mezzi in testa facile bersaglio. Nella conversazione -continua la relazione di Morelli- avuta con l'ufficiale egli mi prospettò le sue apprensioni sull'efficacia della difesa e tra queste la non esistenza di un'interruzione stradale, che a motivo del particolare andamento del terreno della stretta e poi della Portella avrebbe certamente inchiodato il nemico. Dato che l'interruzione non era ormai più possibile costruirla per mancanza di materiali in rapporto all'entità del lavoro e del tempo necessario, rincuorai l'ufficiale ad avere fede nell'efficacia dell'arma di cui disponeva, piazzata in ottima posizione».
Terminata questa tappa, l'ufficiale d'ispezione riprende il suo giro spingendosi ancora oltre. Incontrati tre sbandati chiede loro di che reparto siano. Sono fanti del deposito munizioni di Costaraia, che a bordo della loro carretta ripiegano verso la città. Da quel breve colloquio Morelli desume che il nemico sia già arrivato nei pressi di Camporeale. La perlustrazione prosegue, ma con crescente apprensione. È notte. È da poco passata l'una di giovedì 22 luglio 1943. Il maggiore arriva a S. Giuseppe Jato. Deserto, o quasi. Presentatosi presso la caserma dei Carabinieri l'ufficiale, da un colloquio assai scarso di notizie con il comandante di stazione, ha ormai la conferma indiretta che tutto si stia mettendo al peggio. Stravolgendo l'adagio, verrebbe d'aggiungere: «nessuna nuova, cattiva nuova». A Morelli non rimane che dirigersi nei pressi di Camporeale. Alle 2 del mattino in effetti vi trova accampati alla meglio in un uliveto circa 300 nostri soldati. Incontrato il loro comandante, Morelli ordina di ripiegare al più presto su Palermo. Terminata a questo punto la missione, non resta che tornare indietro. Lungo la strada del rientro, il maggiore ripassa per Portella della Paglia. Nuovo scambio di pareri, insieme ad altri ufficiali sopraggiunti. Alla fine dell'incontro viene deciso di minare alla meglio la stretta via che conduce al caposaldo e di provvedere alla sistemazione del reparto che sta per ripiegare giusto in questa direzione. Prima di andar via Morelli ha la conferma della stoffa di cui è fatto il Nostro.
Così, colpito dalla fermezza del giovane ufficiale che ha dinanzi, questi annota nel suo resoconto: «Il sottotenente Barbadoro, con il quale mi soffermai cordialmente a parlare, mi sembrò molto rincuorato, e nello stesso tempo potetti scorgere dalle sue parole che aveva effettivamente del coraggio e possedeva nobili sentimenti di amor proprio».
Non un cieco temerario dunque ha di fronte il Maggiore in quella notte, ma un uomo ben consapevole dell'effettivo pericolo e nonostante ciò pronto a tutto pur di eseguire quanto gli è stato ordinato. Il tempo passa, e sono già le 4 del mattino.
«Assicuratomi -continua il rapporto- che tutti gli elementi della difesa erano perfettamente a posto, mi accinsi a partire. Il sottotenente mi si avvicinò e stringendomi la mano mi disse: "Signor Maggiore stia tranquillo che di qui non passeranno, farò io stesso il puntatore e con i miei soldati non molleremo"».
Queste parole devono averlo certamente scosso nell'intimo, data la particolare gravità della situazione. Ma non sono gli eventi incombenti che animano profondamente il Nostro. Il convincimento è adesione alla consegna ricevuta già da giorni.

 


«Conobbi Sergio Barbadoro -scrive Elio Moscato- in uno di quei giorni che precedettero l'invasione: avevo dieci anni, e nella mia mente il ricordo di lui è offuscato dal velo degli anni trascorsi. Rammento che i campagnoli -imbevuti della propaganda calossiana- lo scongiuravano di non resistere, di abbandonare la postazione, per salvare sé dalla morte e quei luoghi dalla devastazione. Ma egli aveva sorriso, con quel sorriso di fanciullone buono che non sa e non vuole piegarsi alla realtà delle miserie umane, dicendo che avrebbe eseguito gli ordini, affinché non venisse meno il suo onore di militare e di uomo».
L'etica del dovere è dote di pochi, merce assai rara, e per questo meritevole di lode. Soprattutto in questo contesto, ove parte della popolazione si mostrò gravemente indifferente, se non in rari casi apertamente ostile alle sorti dei propri soldati. Non ci è dato sapere con precisione cosa avvenne a Portella della Paglia in quelle cinque ore o poco più che separano la stretta di mano fra i due graduati dallo scontro. Tuttavia non occorrono sempre e comunque freddi documenti per intuire cosa potesse passare per la testa del Nostro in quel frangente. Raramente dalle carte sgorga con facilità il magma del cuore. Con uno sforzo d'immedesimazione nemmeno poi tanto improponibile, quindi, non è difficile cercare di porsi in parallelo coi pensieri d'un ragazzo poco più che ventenne, lontano da casa e in procinto di scontrarsi con forze preponderanti. Avrà probabilmente riletto l'ultima lettera, guardato qualche foto significativa, si sarà riposato un po', avrà ripensato ai momenti più belli della sua vita, e di certo si sarà chiesto se mai avrebbe rivisto i sui cari o la sua Elvira. Pensieri. Tristi e liberi come quelli di ogni eroe, superbamente intento nell'ascendere le cime dell'attimo che ne rende immortali i passi, l'azione, l'incedere. Senza ambasce. Cosciente. Sono le prime ore del 22 luglio, i nemici sono arrivati a S. Cipirello. Molti degli abitanti scendono per le strade e corrono per andarli a vedere. Fra loro anche una palermitana ventiduenne, sfollata a causa delle bombe "liberatrici". «Gli Americani -racconta la signora Gulizzi- entrarono in paese intorno alle 8.30 del mattino. Tanta gente per strada; urla, e tante lenzuola bianche esposte in segno di resa facevano da ala alla colonna militare. Quasi tutti si erano riversati dalle loro case sulla strada principale. Non resistetti e così anch'io giunsi dalle nostre baracche, salendo per via Mazzini. Volevo vedere questi stranieri venuti da lontano. Ciò che più mi colpì furono le dimensioni dei loro carri armati. E poi erano tanti, tantissimi. Armati fino ai denti e prodighi di barre di cioccolata, sigarette e chissà quante altre cose ancora. La sfilata durò circa mezz'ora; poi, dopo più scene di strana frenesia, di Italiani ormai pressoché dimentichi della loro nazionalità, l'autocolonna uscì dal paese e si diresse lungo la strada che porta a Palermo. Non passarono molti minuti che udimmo ben chiari degli spari. Per primo, chiaro e distinto, un colpo di cannone. Poi iniziò una sparatoria. Si diffuse subito la notizia che i nostri avevano opposto resistenza al passo di Portella della Paglia. Ma cosa potevano mai contro quegli enormi corazzati? Tutto pensammo, ma mai che i nostri in realtà fossero così pochi.[…]».
Sono da poco passate le ore 9. Ben appostati e silenziosi i nostri attendono che il nemico si faccia avanti il più possibile, fino a quando non si offra nitidamente al congegno di puntamento dell'obice da 100/17. La tensione sale ai massimi livelli, la mente sgombra da pensieri superflui. Dopo aver percorso diversi chilometri ed occupato più paesi lungo il proprio cammino gli Americani sono quasi arrivati al punto d'impatto. Ma non è stata certo una passeggiata inerpicarsi fin lassù, «(…) perché la strada per Palermo -scrive un ufficiale italo-americano- attraversava uno dei terreni più tortuosi della Sicilia, dove le montagne raggiungevano i 1200 metri e oltre, e le pessime strade erano piene di vertiginose curve a zigzag e di ponti dove imboscate e sabotaggi potevano facilmente rallentare l'avanzata e infliggere considerevoli perdite».
In effetti di lì a poco quella eventualità si realizzerà. Ci siamo. Da lontano si scorgono le prime imponenti sagome dei carri armati, terrificanti. Ma Sergio rimane fermo. Al suo posto. Niente e nessuno lo può distogliere dal restare sul suo pezzo. In piedi! Il nemico è arrivato, è lì, e deve sapere che c'è ancora qualcuno disposto a non cedere nemmeno di un passo. Tutta una vita scorre davanti, mentre all'avvicinarsi il metallico procedere dei cingoli avversari rumoreggia minacciosamente. Avanzano. Tutto pare come prossimo a scivolare via. Più vicina la morte, più potente il desiderio di vita. Attimi infiniti, fatti di ricordi, affetti, colori e odori che forse non torneranno più. Qualcosa di straziante e sublime al contempo si compie, non la paralisi ma l'ardimento s'impossessa di lui, sostenendolo, rincuorandolo, rinforzandolo, eccelsamente. In quei minuti che precedono l'inizio dello scontro l'ufficiale italiano sente il suo cuore palpitare come cento e più tamburi ritmicamente percossi ad una grande parata. Ogni cosa intorno appare straordinaria, nonostante tutto, e finanche lo scoramento per il fatto di sentirsi isolato, tagliato fuori dal resto delle nostre forze, si trasforma divenendo carica, concentrazione massima. In estate la Sicilia è tanto bella, l'aria è piacevole, familiarmente calda, i cieli folleggiano di un azzurro inebriante, i mille e più fiori sono dischiusi in uno splendido spettacolo senza posa per gli occhi. Quella terra che lui difende ed onora non gli è estranea: si sente siciliano, così come piemontese, pugliese, emiliano, sardo, molisano. Lui è Italiano. La Patria è in pericolo, il nemico l'ha invasa e lui, pur così giovane, già possiede un alto e chiaro senso del dovere. Quel principio morale che una volta sposato non lascia spazi per nessuna forma possibile di divorzio. Costi quel che costi bisogna restare sul posto e fermare il nemico. La canzone del Piave echeggia nelle sue orecchie, mentre i chiassosi avversari vengono avanti calpestando il suolo d'Italia. È il momento della verità. Gli occhi dei presenti, sgranati, si scrutano vicendevolmente. C'è timore ed orgoglio. La visione di quei mostri d'acciaio deve aver necessariamente suscitato assieme paura e fiera determinazione allo stesso tempo. Quella che interminabile e terrificante si profila all'attenta e silenziosa visione dei nostri è una grossa unità nemica, gran parte della 2ª Div. corazzata statunitense. Questa possente forza d'urto, composta da camionette, camion cingolati, cannoni d'assalto e carri armati Sherman, nonché centinaia di fanti, è al comando del gen. Truscott. Il suo compito è di penetrare nell'entroterra palermitano e giungere nel capoluogo siciliano entro le ore 12 del 22 luglio. L'appuntamento prefissato è con la 3ª Div. di fanteria americana che, dopo aver dato scacco alle unità italiane poste nei suoi pressi, è entrata in Palermo con sparute aliquote. Ma i loro progetti devono subire un'inaspettata quanto stridente battuta d'arresto. I bagordi sono rimandati. C'è un manipolo di Italiani ancora disposti a non cedere neppure di un metro. Fino allo stremo. Il dado è tratto. Tutto è pronto. Ognuno è al suo posto. Lo scenario di morte e gloria è allestito. Gli Americani procedono nella polvere, perfettamente incolonnati lungo la strada, circospetti ma ignari dell'imminente portata dell'ostacolo. Palermo è vicina, pensano. I primi mezzi vanno in ricognizione ed imboccano quindi l'ultima curva prima di trovarsi a diretta portata di tiro del cannone italiano. Fa da battistrada un carro pattuglia con sei uomini. Eccoli! Fuoco! Un sibilo. Colpito! Il veicolo avversario esplode fragorosamente con i suoi occupanti. Si spara con tutte le armi a disposizione, nel disorientamento degli Statunitensi. Tre mezzi corazzati nemici sono così inchiodati, due incendiati. Chi mai ancora resiste? Quanti saranno? La colonna nemica a questo punto è costretta a segnare il passo. Guai in vista.

 


«Il cannone -scrive un reporter americano presente quella mattina- che stava fermando tutta la nostra armata era in una posizione peculiare intorno di un promontorio fuori dalla nostra vista, era piazzato attraverso la gola 500 jarde distante da noi, cosicché poteva sparare appena qualcosa si mostrava fuori del promontorio. Saremmo sicuramente morti se avessimo sporto la testa fuori della curva. Evidentemente i soldati che manovravano il cannone erano uomini decisi».
Il nemico prende le sue contromosse, lecite e non. Secondo fonti attendibili, infatti, come riporta il relatore nel suo memoriale, gli Americani hanno legato ai propri automezzi di prima linea dei prigionieri italiani, catturati mentre questi stavano minando la strada. Questo vile espediente avrebbe dovuto far sì che qualsiasi offensiva si sarebbe dovuta paralizzare sul nascere. Avranno pensato: gli Italiani sono troppo teneri di cuore per aprire il fuoco, col rischio di colpire i propri commilitoni. Errore. Un buon militare nei momenti critici deve saper prendere decisioni rapide ed anche freddamente porre tra parentesi il proprio senso umanitario che lo porterebbe istintivamente a salvare i malcapitati in ostaggio; ma è proprio la lucida moralità del soldato con gravose responsabilità che sprona all'adempimento del proprio compito, per necessità, perché così gli è stato insegnato, perché così è giusto che faccia. Gli ordini, soprattutto in guerra, non si discutono. Si eseguono. Lo scontro va avanti per ore. E altri, da entrambi gli schieramenti, cadono sul campo di battaglia.
Belden racconta ancora: «Una volta un nostro soldato si affacciò sopra la collina. Un proiettile immediatamente gli portò via la testa. Il colonnello comandante la nostra guardia avanzata inviò un immediato ordine per un plotone di uomini in camionetta. Essi vennero avanti e smontarono sotto di noi. Mentre essi facevano questo, un rumore come un fischio di uccello passante si sentì basso sulla testa ed una falda di roccia cadde giù sulla strada. Fucilieri stavano sparandoci dalla collina dietro a noi. Dimenticando cosa stava accadendo nell'aria dietro a noi gli uomini salirono la collina per aprirsi la strada verso il cannone».
La faccenda sta diventando assai complicata per le truppe stelle e strisce. I nervi saltano. «Il colonnello -continua il giornalista- prese un fucile dalla camionetta e salì sulla collina anche lui dicendo "Dannato se non riesco a piantare un colpo in quella postazione"».
Ma nulla pare riesca a far tacere la nostra difesa. Quel cannone e quei pochi soldati italiani non sloggiano. Lo scontro anzi aumenta d'intensità, costringendo persino un alto ufficiale americano a spingersi fino alla linea di fuoco per tentare di sciogliere il bandolo dell'intricata matassa: «Un brigadiere generale in uniforme di gabardine venne su guidando elegantemente la camionetta e dopo affrettato colloquio con l'ufficiale sul posto ordinò che un cannone d'assalto competesse con il mortifero 155 nemico».
Le cose volgono al peggio per Barbadoro e gli altri. Ma intanto si combatte. Dopo un po' di tempo, morti o feriti i serventi al pezzo, il nostro ufficiale ripone l'arma d'ordinanza e furioso nello sguardo ma intimamente sereno come chi è ormai al limite delle proprie forze continua da solo far fuoco col suo cannone. «Fu portato su un camion cingolato. Sul camion, che stava per competere con il pesante tedesco [evidentemente si credeva che l'arma fosse di fabbricazione germanica] c'erano il sergente Hatfield, il caporale Ruling, il caporale Edniger ed il soldato Shoemaker rapidamente prese un proiettile, lo mise nella bocca da fuoco e la chiuse. Ruling tirò la cordicella, vi fu un forte rumore ed il fianco della collina tremò. Avevano colpito al primo colpo. Attraverso alla pianura c'era un bruciare di fiamme e una nube di fumo. In rapida successione Ruling tirò la cordicella nove volte. Attraverso la polvere ed il fumo, attraverso la fiamma noi vedemmo delle figure rotolanti. Tutte furono subito avviluppate in una violenta nube di fiamme, mentre le munizioni del nemico saltarono e colpirono l'aria di acuti rumori».
Qualcuno ancora spara, ma la resistenza è spezzata. È la fine. I soldati di Patton ora possono riprendere la loro marcia verso la grande città portuale, ma soltanto dopo diverse ore dall'inizio dello scontro. Sergio Barbadoro muore sul proprio pezzo, mantenendo alta l'antica tradizione dell'Artiglieria secondo cui l'ufficiale di quest'Arma, ove necessario, cada sul pezzo piuttosto che consegnarlo al nemico. Gli Statunitensi passano, facendo anche qualche prigioniero fra i superstiti. Sfilano dinanzi a quel soldato, ancora tenacemente aggrappato al congegno di puntamento. Il valico che per ore non erano riusciti a conquistare adesso è sgombro. La mancata esecuzione degli ordini di Guzzoni di rendere inutilizzabili le opere portuali, nonché ovviamente quello di difendere la città "ad oltranza" macchia ingiustamente l'operato di tanti altri che invece adempirono alle consegne ricevute.
È una condanna senza appello per i responsabili di una simile defezione, che tuttavia rende, certo involontariamente, ancor più generoso il sacrificio dei nostri in quel di Portella della Paglia (così come in vari altri luoghi). Caduti, nell'errata convinzione di operare con il loro sforzo affinché l'importante città potesse essere meglio difesa con il tempo guadagnato ed altrettanto strenuamente tenuta come quell'isolato passo di montagna. Cosa che non avvenne. L'indomani il corpo dell'ufficiale è ancora lì, lacero, esanime e privo degli stivali. Uno sciacallo senz'anima aveva sfruttato la circostanza e, come è uso fare ogni miserabile, aveva approfittato della notte per oltraggiarne la salma, frugandola, derubandola ed infine rompendole le ormai irrigidite articolazioni per sfilargli via i calzari. Esecrabile gesto che tutt'oggi a S. Giuseppe Jato e S. Cipirello è unanimemente ricordato e bollato come degno di un balordo. Mosso dalla pietas che non può non contraddistinguere ogni buon cristiano, fu un sacerdote di San Giuseppe Jato recentemente scomparso, don Antonino Cassata, a dargli il giorno seguente una sepoltura nel vicino campo santo, riconducendolo così, per usare un'espressione hegeliana, alla quiete dell'universale.
Caduta Palermo, nella notte fra il 24 e il 25 luglio il capo del Governo viene "sfiduciato" dal Gran Consiglio del Fascismo, dando così via libera alla realizzazione di un "colpo di Stato" ordito a più mani. […]
I mesi passano, lenti, e purtroppo nessuna lettera o telefonata giunge a ridare speranza in casa Barbadoro, già assai rattristata per la sorte di Mario (il fratello anch’egli morto in guerra). Ormai stanco di aspettare, Francesco (il padre) decide di porre fine in qualche modo a quest'interminabile stato di ansia, che logora di giorno in giorno anche la moglie. Così, finita la guerra, verso la fine dell'estate del '45 parte alla volta dei luoghi da dove il figlio aveva dato le sue ultime notizie. Non passa molto quando, dopo essere stato in più località, questi riesce a sapere che l'ultimo posto dove Sergio è stato visto è nei pressi di S. Giuseppe Jato. E così vi si reca. In paese parecchi ricordano l'episodio del luglio di due anni prima, ma nessuno dice di conoscere l'identità di quei soldati. La ricerca inizialmente sembra non dare buoni esiti. Francesco è stanco, ma vuole tentare un'ultima volta. Un pomeriggio, mentre s'aggira per i piccoli viali del cimitero, quasi rassegnato, un vecchietto, il custode che di lì a qualche giorno sarebbe andato in pensione, gli si rivolge dicendogli chi cercasse. Saputo di chi si stesse trattando, l'omino gli confessa d'aver seppellito un paio di soldati anni addietro in un posto un po' defilato del campo santo. Non conosce i loro nomi, ma suggerisce di provare comunque a scavare. Imbracciate le vanghe, dopo un po' riemergono dal terreno i resti dei due. Il tempo ha ovviamente già fatto il suo naturale iter, tanto da renderli quasi del tutto irriconoscibili. Anche questo sforzo pare vano. Ma ecco che qualcosa fa brillare in un lampo gli occhi di Francesco, che esclama: «È lui!» Un coltellino ed una piccola tabacchiera in legno (di scarso valore, ma di certo personalmente regalatagli tempo addietro), nonché i brandelli della biancheria intima, sono gli indizi quasi inequivocabili che identificano quell'inerme mucchio di ossa. Sergio, o quel che ne rimane, giace dinanzi al genitore, che dolorosamente pago e rassegnato ne osserva in lacrime ed immobile le nude spoglie. Ridotto così, nella fredda terra, solo e senza nemmeno un fiore che ne adorni l'umida fossa. Pur rincuorato ed affranto dal rinvenimento, manca ancora un piccolo riscontro all'identificazione. Per cui scatta delle foto ai resti e le invia alla moglie. La pronta risposta di Pia è senza esitazioni: «Non c'è dubbio, è Sergio!». La conformazione del cranio e soprattutto la dentatura sono le sue, per non parlare, come già detto, dei piccoli oggetti personali rinvenuti. Avuta quindi anche la conferma da parte della moglie, a Francesco non rimane che comunicare alle autorità competenti l'avvenuto ritrovamento. Il 2 settembre 1945 Sergio viene quindi finalmente tumulato presso il cimitero monumentale del Verano in Roma.
Per anni nessuno saprà con esattezza quale fu persino la sorte della sua salma. Pochi si sono interessati a vario titolo del Nostro; ancor meno di rendere noto il più possibile i fatti di Portella della Paglia. […] Appena tre anni dopo il suo decesso […] la Repubblica gli conferiva il 4 novembre 1946 la medaglia d'argento al valor militare (alla memoria). Questa la motivazione ufficiale: «Comandato a sbarrare, con un pezzo, un passo di montagna all'avanzata di una colonna corazzata nemica, animava i suoi uomini trasfondendo in loro la sua fede. Durante l'impari combattimento durato nove ore e reso più aspro dalla mancanza di ostacoli anticarro, senza collegamenti e senza speranza di aiuto infliggeva gravi perdite all'avversario, aggiungendo nuova gloria alle gesta degli artiglieri italiani. Caduti o feriti i serventi continuava da solo a far fuoco sino a quando colpito a morte cadeva sul pezzo assolvendo eroicamente il compito affidatogli. Luminoso esempio di dedizione al dovere. Portella della Paglia (Palermo) 22 luglio 1943». […]
Nell'esatto punto in cui egli perse la vita sorge un piccolo cippo. Su di esso si legge: «Qui eroicamente cadde il S. Ten. di complem. Barbadoro Sergio. Classe 1920 da Sesto Fiorentino».

 

 

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