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FNCRSI

quindicinale di informazione e di formazione politica per i Combattenti della Repubblica Sociale Italiana

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 Anno IV - n° 6 (aprile 1971)

SOMMARIO

Comunicato
Sonetto a Babeuf
Considerazioni sul 25 Aprile
Il viaggio del monsignore
Il colpo di Stato è riuscito
Una questione di merda
Chiarezza
S.A.F. - Servizio Ausiliario Femminile
Il latino
Almirante
Il missista di base
E venne il giorno
Moschettieri del Duce
Accadde nel 1999
 

 

Comunicato


Il 23 marzo l'ANSA diffondeva, dopo averlo rimaneggiato, un comunicato di nostra emanazione del quale veniva completamente omessa la prima, più importante parte, che quindi pubblichiamo qui:

In merito agli avvenimenti inerenti a un presunto colpo di stato e al conseguente clamore che ad esso è stato dato, si prende atto che:
1) l'incidente è esploso oltre tre mesi dopo il cosiddetto tentativo di colpo di stato;
2) il giorno 9 dicembre 1970 sul quotidiano del PCI è apparsa una comunicazione chiaramente allusiva all'evento in questione;
3) in molti ambienti di diversa estrazione politica si era a conoscenza, prima e dopo la data delle avvenute adunanze velleitarie, che si sarebbe verificato un certo evento e che presumibilmente quindi ne dovevano essere a conoscenza gli organi di stato all'uopo preposti;
4) un evento di limitate proporzioni, di matematica sicurezza d'insuccesso per ovvie ragioni, non poteva altro che risolversi cosi come si è risolto, e che la strumentalizzazione politica che ne è stata fatta era perfettamente prevedibile dagli organizzatori di simili manifestazioni.
Si ritiene pertanto che gli organizzatori in parola non avessero un proprio autonomo disegno e che quindi tutta l'operazione servisse per altrui contrattazioni politiche di vertice nazionale ed internazionale, che si stanno delineando con sempre maggiore chiarezza.
Le omissioni, le distorsioni, i camuffamenti operati dalla stampa italiana sui fatti che non toccano da vicino i potenti di turno sono sempre grossolani. Ci interessa metterlo in evidenza perchè sono un'altra prova di cosa intendono nel concreto per libertà i suoi astratti difensori d'ufficio.
L'ampia risonanza avuta sui quotidiani e sui rotocalchi dal comunicato in questione e dal precedente bollettino di gennaio, ha liberato una serie di reazioni a catena che, in questo momento, non ci interessa di analizzare.
Dobbiamo tuttavia precisare:
- per quanto riguarda il cosiddetto ambiente: le manovre ed i ricatti che si fanno convergere su di noi hanno il solo scopo di contrastare posizioni politiche che danno fastidio e che stiamo portando avanti senza mezzi termini e senza tirare cortine fumogene. Siamo ancorati nella realtà ed in essa vogliamo operare rigenerandola nelle coscienze. Poiché questo è il significato della nostra presenza -e vogliamo che lo sia- non siamo disponibili per rinnegare noi stessi anche se la nostra azione rende agitati i sogni di tizio o turba le frustrazioni di caio.
- per quanto riguarda il campo che ci è più propriamente avverso, la situazione non cambia. Tutti hanno trovato molto comodo attribuirci paternità e priorità che non esistono. Abbiamo infatti stigmatizzato, a più riprese e da molto tempo, fatti e circostanze che conoscevano porci e cani e che si raccontavano porci e cani in tutti i bar ed in tutti i luoghi di pubblico ritrovo sparsi sul territorio della Repubblica,
- da ultimo la grande accusa: quella di essere stati ingenerosamente cattivi contro "camerati" in difficoltà. Essa è indice di qualunquismo ideologico e politico e la respingiamo perchè non riconosciamo a nessuno il diritto di buttarci tra i piedi legami affettivi che non esistono. Al limite è possibile solidarizzare -come solidarizziamo- con i soliti stracci che sono sempre i primi a volar per l'aria, ma intendiamo rimanere fuori da ogni equivoco.
Restano la necessità e la opportunità di una valutazione sulla questione di fondo ed è questa l'opera di compromissione di oneste e ignare persone e di sputtanamento di idee e di decine di migliaia di martiri ha sicuramente raggiunto gli scopi. Cosi come ha raggiunto lo scopo l'operazione, di spicciola gestione del potere, di mostrare agli occhi delle plebi indarno e sempre osannanti gli extraparlamentari come vogliosi solo di fare i prepotenti e prendere il potere per instaurare la tirannide. Ma quale giudizio può mai dare il contemporaneo e darà la Storia di una classe politica che impone il suo potere con questi mezzi?
La spregiudicatezza del nostro discorso deve continuare a far scuotere la gente, per farla ragionare, anche se è necessario farla sanguinare. Del resto non ci curiamo. Guardiamo e passiamo avanti.

 

Sonetto a Babeuf


Termidoro trionfa e maledetta
Cade la schiera dei ribelli. Guata
torbido il prete, dal confin, l'accetta
nelle arterie plebee insanguinata.

Sordo avanza il furor della vendetta
negli esilî e nei rischi germinata.
Oh! Passâro i bei dì, come saetta,
gli epici giorni della "cannonata".

Ma sorride Babeuf. Ne' morituri
occhi gli passa il lampo dell'idea,
la visione dei secoli venturi;

e il supremo pensier che lo sostenne
quando, ormai vinto, vindice chiedea
la legione infernale delle Ardenne.
 

B. Mussolini (1901)



Considerazioni sul 25 Aprile

Malgrado ogni tentativo di enfatizzare questo avvenimento anche attraverso penose orazioni di bolsi personaggi, la data del 25 Aprile resta un evento grigio nella coscienza popolare ed in quella individuale, troppo schiacciante essendo la realtà storica nella sua brutale franchezza. Si era persa la guerra, si stava per essere invasi del tutto dai padroni del mondo. Ogni sussulto di indipendenza stava per svanire. In un impeto di suicidio (come ha visto poeticamente Pacifico D'Eramo) si è voluto uccidere gli uomini che in nome della vera libertà impersonavano la dignità, l'onore, la lotta contro la massa sommergente.
Cosa fu il 25 aprile? Una rivolta? una insurrezione armata? Uno sciopero generale? O non piuttosto un qualcosa di facilmente attuabile in tempo di trapasso per poter poi avvalorare la tesi che stavano arrivando dei liberatori? E che valore può avere una conquista che ha bisogno di inventare una crociata di liberazione? Dove era un qualche Santo Sepolcro da liberare? I Romani non giustificavano certo le loro conquiste. Era l'Impero Romano stesso che si auto-giustificava, e sul piano storico e su quello metastorico.
Ciò che col tempo resta nelle coscienze è il senso di un dramma collettivo, di un uomo e di un popolo, giacché popolo è quello animato dalla volontà di essere, di difendere un'idea nella quale si riconosce, non certo la plebe che attende la fine delle restrizioni alimentari e dei bombardamenti, organicamente incapace a darsi una disciplina.

Ma la retorica resistenziale, nella necessità didattica di dare un significato ad alcuni avvenimenti e validità al regime di restaurazione, tende a fare di ogni erba un fascio. Vogliamo qui sottolineare la differenza sostanziale delle molte motivazioni individuali del movimento resistenziale nel quale l'antifascismo c'entra in minima parte. È ovvio che qui parliamo dei partigiani, il cosiddetto Corpo Italiano di Liberazione non avendo avuto che un insignificante peso sull'andamento della guerra americana e senza che fossero esistite precise motivazioni nazionali negli uomini che vi parteciparono, eccettuata, per alcuni, l'intenzione di salvare la monarchia. Il che non crediamo abbia molto di nazionale.
Come acutamente rilevato dal D'Eramo nel suo volume "La liberazione dall'Antifascismo" i non molti partigiani che si batterono contro tedeschi e fascisti con l'intenzione di andare contro un nemico dell'Italia, si mossero nello spazio ideologico del fascismo. L'antifascismo come tale essendo antinazionale, utopistico, antieroico.
Ma si voleva veramente uccidere il Fascismo, con quattro fucilate? O chi si voleva impressionare? Non certo i fascisti. Durante la guerra civile per ogni assassinato c'era sempre e subito chi ambiva l'onore di sostituirlo. Volevano forse umiliare Mussolini? Ma egli aveva scritto: «Mai il genio italiano fu così potente come quando i cittadini lottavano dentro le mura delle loro stesse città, dandone la riprova perchè il lavoro creativo politico della RSI resterà nei secoli pietra miliare della potenza del pensiero politico italiano». Volevano fare la rivoluzione proletaria? Ma «Tutto è borghese nella classe operaia: il linguaggio, le idee, i costumi, gli abiti, i sogni della ricchezza, gli espedienti per giungervi, la piccola incredulità, l'energia del lavoro, la retorica nella politica, l'egoismo nella famiglia, la volgarità nel sentimento e nell'opera. Infatti la borghesia pare disarmata dinanzi al nuovo nemico che è ancora lei stessa: giornali, tribunali, parlamento, sono pieni di deferenza a tutte le pretese di questo, anche se formulate con la più insolente e ridicola vanità; non fu la borghesia a creare e ad armare il proletariato, ad insegnargli la filosofia del danaro, e l'ironia contro tutte le fedi? Adesso non sa quindi difendersi: non si batté abbastanza nella rivoluzione, quindi non osa nemmeno concepire la battaglia per difendere una libertà donata da vittorie straniere. Questa è la realtà storica che chiarisce i reali rapporti di forze». Lo scritto è del 1906 ed ha avuto conferma dai fatti. Qualsiasi cosa gli attuali retori vadano dicendo alle masse, sarà sempre una truffa e la data del 25 aprile sarà sempre triste anche nel ricordo dei suoi autori materiali, dell'una e dell'altra parte, se continueranno ad esserne interpreti i pallidi spettri d'una idea politica ormai putrefatta, incapace di dare voce alla grandezza ed alla tragedia.

Lettere morte perchè «solo l'eroismo di chi vince o di chi perde, tanto più bello se di un capitano che si sacrifichi per il proprio esercito o di un re che muoia per il proprio popolo, può apprendere all'intelletto qualche entusiasmo. L'eroismo allora sale oltre la virtù, la morte si complica di un olocausto che esaltando l'esercito o il popolo pel quale è compito, gli assicura nuove vittorie. Ecco lo stato creato dall'eroismo del tiranno e mantenuto dalla sua grand'anima».
E la grandezza di un popolo che, per essere grande, deve avere come essenza il carattere e come virtù il sacrificio, non potrà mai essere raggiunta dagli amministratori dell'utopia che è la negazione della storia, la poesia di coloro che non sono poeti, il sogno di tutti quelli che non sanno agire.
Ma la data del 25 aprile, per chi sappia vedere in essa la tragedia, può essere quella della resurrezione, quella della finalmente conquistata unità, nazionale.
«La tragedia non è la morte, ma la morte umana nella quale lo spirito discende colla coscienza della propria immortalità. Se nell'epopea il popolo si era sollevato in massa, slanciandosi con lo sforzo di un sentimento comune verso il prossimo ideale che lo inondava di luce e di calore, nella tragedia vera il popolo guarda agrondato, in cupo silenzio, i suoi più intrepidi eroi ripetere soli quel conato che tutti avevano fatto e che a tutti per un momento, era sembrato trionfare. È l'ora dei grandi individui. Qualunque sia l'idea alla quale s'immolano o il fatto nel quale soccombono, la loro tragedia non muta: mentre tutto il popolo guarda nell'immobilità della stanchezza o nel terrore della disperazione, essi soli osano levarsi. Che la loro fronte sia coperta da un elmo o da un'infula, la loro mano armata di spada o di compasso, si avanzano verso la morte. Il progresso umano esige in quell'ora il sacrificio dei migliori, perchè solamente la loro morte può rendere intelligibile a tutti il secreto della legge che la storia sta per rivelare. Ma, al momento culminante della tragedia il popolo, che non capisce quasi mai, maledice l'eroe morente per lui. È questa la suprema differenza della tragedia colla epopea. Nell'una l'eroe è acclamato prima della battaglia, sostenuto in essa da tutti i voti, pianto dopo di essa da tutti gli occhi: nell'altra l'eroismo è come un insulto alla impotenza del popolo, che spia quindi arcigno la lotta cercando nella catastrofe una ragione alla propria inerzia. Eppure, di tutti i destini individuali, il più degno d'invidia è il più tragico Se nella epopea l'eroe rappresenta il popolo, nella tragedia lo riassume, giacché vi compie la vita della propria generazione iniziandola in quella della generazione non nata. L'epopea è un meriggio, la tragedia un'aurora, nella quale la esultanza della luce erompe dalia lacerazione delle tenebre. I più grandi uomini, che conchiusero o iniziarono le più grandi epoche, soccombettero nelle più disperate tragedie. A distanza di secoli le grandi vittime si rimandano il medesimo grido di dolore e di orgoglio; a distanza di continenti e di mari le cime tragiche si veggono l'ima l'altra, e Cristo morente si volge verso il Caucaso, e Napoleone da Sant'Elena guarda verso il Golgota. Una più tragica necessità aggiunge ancora la commedia alla tragedia. Quindi tutte le generazioni innumerevoli dei piccoli si addossano feroci al grand'uomo per rat-tenerlo lungo la via o insinuare almeno nell'eroico dolore della sua meditazione, lo spasimo della loro mordacità animalesca; e lo odiano come non possono odiarsi fra
se medesimi, e lo perseguono col coraggio che la coscienza del numero dà agli insetti e l'inconscio dell'istinto ai bruti. La tragedia segna il passaggio di un periodo ad un altro e quindi ha per ragione di dolore e di grandezza la differenza fra la totalità di quanto una generazione morente consegna a quella che nasce, e la piccola originalità che vi aggiunge, differenza e contraddizione che spiegano il disprezzo delle generazioni dei propri grandi, troppo preoccupati del futuro».
Fin qui Oriani, agli inizi del secolo XX. Questa intuizione della grandezza dell'uomo nella storia è stata certamente presente a Mussolini, che ha voluto essere nella vita e nel mito, la sintesi del nostro popolo. Ed i suoi carnefici hanno sentito loro malgrado, nella forza di un oscuro istinto che li muoveva, che quel corpo straziato, assieme ai più fedeli dei suoi, doveva essere levato in alto, perchè gettasse la sua immagine nei secoli.
E continua Oriani:
«No! Non compiangete, non adorate! Lasciate Cristo morire sulla croce: tutta la vostra riconoscenza non vi farà penetrare nel segreto della sua bontà; lasciate Socrate bere la cicuta: perchè il suo eroismo resterà sempre un mistero per voi che non l'avreste fatto; lasciate Dante errare nell'esilio, cacciato da Firenze, discenderà nell'altro mondo; lasciate Colombo ritornare dall'America carico di catene: egli che l'emancipa ne riporta le catene all'Europa che deve spezzarle; lasciate Napoleone morire a Sant'Elena: egli che ha liberato l'Europa dal dispotismo, ultimo despota, deve finire prigioniero; lasciate Garibaldi esulare a Caprera: egli ha fatto l'Italia, che cosa potreste voi fare per lui?»
No! Il 25 Aprile non è una loro festa! Gli antifascisti vi entrano come quelle forze negative che hanno la sola funzione di evidenziare la tragedia e la grandezza di chi la vive. Come gli inglesi per Napoleone, come Bruto per Cesare, gli Ateniesi per Milziade o per Temistocle.
Non è una loro festa. Infatti tollerano che essa sia commemorata da uomini dimessi e increduli Ma nella storia dell'Umanità, quella storia che i positivisti e gli idolatri del Mito del Progresso non conoscono, i tempi coincidono sempre per i grandi eventi. Aprile, mese solare, è il mese in cui cade la Pasqua che segna agli uomini la morte e la resurrezione di Cristo; Cesare e Napoleone muoiono più o meno nello stesso tempo. Per quel mistero per cui il simbolo accompagna sempre e si intreccia con la vita dei Grandi; per l'abisso che divide chi afferma tutti i valori della vita e chi li opacizza nel limbo della mortificazione delle umane potenzialità, il 25 aprile ed i giorni seguenti sono nostri.
E questo significa che il dolore nel ricordo dei nostri morti, di tutti i nostri morti, ci sprona a celebrare, nella coralità e nella universalità della tragedia, la gloria del popolo italiano, che ci ha espresso, e la sua vocazione ad ergersi protagonista del proprio destino.

(1) A proposito dei Savoia è bene riportare il giudizio definitivo che Oriani su di essi scrisse nel 1906 ("La Rivolta Ideale"): «La loro montanara fortuna, fra il Pantheon e San Pietro, il Colosseo ed il Vaticano, non vi ha che un significato provvisorio: sono troppo antichi come conti della Savoia, troppo recenti come monarchi d'Italia, troppo estranei alla grande tradizione nazionale per dare davvero a Roma una incancellabile impronta di modernità; crebbero nelle astuzie dell'accattonaggio, si giovarono di ogni alta decadenza dinastica, salirono sospinti, quasi travolti dalla rivoluzione. Ma l'idea unificatrice non era in loro, e nemmeno la passione dell'eroismo. Adesso servono la mediocrità politica della nazione, che si contenta, nel proprio vecchio senno, dei loro servigi.


Il viaggio del monsignore

In occasione del viaggio in Russia di mons. Casaroli per la firma del trattato di non proliferazione, i soliti cretini hanno ironizzato sulla non consistenza del Vaticano ai fini dell'armamento atomico, come se il patto in questione riguardasse le bombe atomiche e non fosse invece qualcosa di ben più profondo. A nostro giudizio il viaggio del monsignore rappresenta una ulteriore prova dell'allineamento del Vaticano alla politica delle due superpotenze. In ciò nulla di nuovo: è una costante della politica vaticana il partecipare alla santa alleanza di turno. E più questa è oppressiva, meglio è. (Se no dove se ne va la santità?)

 


«La libertà circondata di pericolo vale più di una quiete servile»
M. de Robespierre
 

Il colpo di Stato è riuscito

Al di là delle distorte cronache riguardanti personaggi il cui unico torto è quello di non aver voluto evitare collusioni con il "sistema" che li ha strumentalizzati spietatamente emerge un fatto che non è nuovo, ma che tuttavia solo oggi ha acquisito nuove ed insolite dimensioni. Larga parte dell'opinione pubblica, infatti, non solo non rifiuta il "golpe", ma lo auspica e comunque (salvo esigue frange extraparlamentari di destra e di sinistra, le quali per altro finirebbero per solidarizzare nell'azione) non vi si opporrebbero.
Il fasullo "colpo di stato" ha svolto quindi la funzione di far registrare questa non insolita tendenza tra la gente comune, tra i cosiddetti uomini della strada, i quali si vedrebbero -d'un tratto- finalmente liberati da un "sistema" che, per instabilità congenita e per le innumerevoli e croniche disfunzioni, non protegge e non garantisce più nulla e nessuno.
Le statistiche giudiziarie, le cronache sindacali, le agitazioni studentesche, quelle nuove regionalistiche e l'enorme numero di reati che rimangono impuniti suffragano il nostro asserto.
Gli Italiani vanno lentamente scrollandosi di dosso i condizionamenti televisivi; i miti dell'antifascismo si sono logorati alla prova dei fatti, via via assumendo il valore di truffa permanente.
Gli Italiani di oggi aspirano ad essere governati -come sempre del resto- da gente capace anche di usare la forza, ma che a questa sappia unire almeno un minimo di onestà, di competenza e, perchennò, di furbizia.
A nostro parere, quindi, il colpo è riuscito.
Se non altro è riuscito a raggiungere un obiettivo parziale e limitato preparare l'opinione pubblica all'accettazione di un evento che potrebbe essere predisposto non senza tempismo e perizia.
A nostro avviso, comunque attuato, qualunque colpo di stato risulterebbe sempre fasullo e, quali ne siano i protagonisti, sempre deleterio per il popolo italiano che ha bisogno di vera libertà e di vero ordine che nascano da una vera rivoluzione.
Il nostro popolo, quello che lavora, quello che paga le tasse, quello che si sacrifica per la casa e per mandare a scuola i figli (scuola che non è stata mai tanto costosa da quando è gratuita) meriterebbe un destino migliore. È pur sempre un popolo che -pur non comprendendone il profondo significato sociale- seppe conquistare e fecondare un impero, affrontare una guerra immane per la proprio sopravvivenza e per la propria libertà e, ad onta degli ostacoli governativi e di quelli imposti da una burocrazia ottusa ed esosa, dimostrò una ammirevole capacità ricostruttiva.
Il "golpe" pertanto non risolverebbe nulla.
Bene ha fatto quindi qualcuno a parlare di paura e a rilevare come tutto oggi, anche il "golpe", tragga origine dalla paura.
Trattasi di una Paura-terrore livore che allucina ed opprime la classe politica italiana per qualcosa che si va lentamente profilando all'orizzonte del mondo, qualcosa di veramente ineluttabile ed inarrestabile, un qualcosa di mai integralmente realizzato e che molti già individuano nell'annuncio Mussoliniano.


Una questione di merda

La polemica che infuria a livello parlamentare circa l'opera d'arte "Merda d'Artista" in scatola, del defunto Piero Manzoni, acquistata ed esibita da un ente di stato come espressione di arte contemporanea, non ci scandalizza.
Vi diciamo il perché:
1) che l'arte dell'epoca democratica sia arrivata a livello escrementizio non è una novità.
2) Che l'escremento sia un tipico documento lanciato verso la Storia dalla civiltà dei consumi, nessuno può negare.
3) Che un paranoico per provocazione presenti come arte le proprie feci in scatola e queste vengano subito accademizzate dagli uffici statali appositi è tipico di una società politica che fa della pseudo-protesta e della falsa rivoluzione l'essenza stessa della sua struttura, che è tipicamente repressiva, perché chiusa a tutto ciò che non sia gretto utilitarismo.


Chiarezza

Ci sembra giunto per tutti, amici e nemici, il momento della chiarezza e ciò perché ci sembra che annodare le file e chiarirsi vicendevolmente i fini e gli ideali sia, oltre a tutto il resto, un bene politico ed individuale insieme.
Per quanto riguarda un gruppo politico come la nostra Federazione, esso risponde a due necessità: la continuità ideale, la testimonianza, nel tempo, della RSI; ma soprattutto l'azione politica contingente, l'alternativa reale al sistema ed alle sue implicazioni politiche. La crisi della democrazia, ridotta a supporto mondiale della Santa Alleanza nata coi patti di Yalta, è evidente a tutte le coscienze, comprese quelle di coloro che accettano acriticamente e bovinamente il dogma dell'antifascismo.
L'alternativa politica che nasce da questa realtà è il rifiuto del mito economicistico produttivistico, efficientistico, materialistico della società consumistica e burocratica e di ciò che nel campo sociale è causa e conseguenza assieme: l'atrofizzazione del rapporto umano sul lavoro, l'elefantiasi burocratica che uccide la giustizia civile e arresta l'attività liberamente creatrice. L'uso ed il consumo dell'uomo per fini puramente meccanici. La morte morale che precede di poco la morte biologica.
Questo in termini generali, senza voler affrontare la contingente situazione italiana tenuta saldamente in mano da una oligarchia priva dei più elementari scrupoli di natura politica o sociale e servita da una abietta e sempre più numerosa schiera di lacchè a tutti i livelli.
A questo punto è alibistico affrontare staccati i vari aspetti della situazione. Infatti tutto è perfettamente concatenato. L'epoca del materialismo coincide con il prevalere delle potenze che hanno fatto del materialismo la loro bandiera ideologica e la decadenza d'Europa è strettamente legata a questi fatti. Lo scoramento dell'uomo europeo, la perdita di fiducia nei valori propri, è all'origine di ogni cedimento. A ciò si deve, l'instaurarsi come dice MeerlooAmer, di «un sistema organizzato d'intervento psicologico e di perversione giudiziaria nel quale un potere onnipotente introduce sinteticamente i pensieri e le parole che vuole nello spirito delle sue vittime e pone le parole sulla loro bocca al fine di annientarle con un processo falsato».
Esempio lampante è la Chiesa cattolica che ha completamente ceduto di fronte all'illuminismo. Essa in breve tempo ha virato verso un tipo di protestantesimo evidentissimo in tutte le sue manifestazioni: dalla messa alla vita secolarizzata. Questo nuovo modo di intendere il rapporto religioso dimostra quanto profondo sia l'asservimento di tutte le forme della vita europea al vincitore.
Asservimento che, quando si verifica, é sempre globale ed opera a tutti i livelli dell'uomo, soprattutto a quello inconscio, determinando inclinazioni e comportamenti non avvertiti. Vediamo ad esempio i cosiddetti intellettuali ed uomini "di cultura", giornalisti, informatori e deformatori della "pubblica opinione" i quali credono che quello in cui viviamo sia un regime di libertà e che la loro uniformità di giudizio sia espressione di libertà.
Non si può quindi parlare di rivoluzione sociale se questa non è unita alla indipendenza economica, morale, civile, politica e di pensiero di tutta l'Europa. Se questa non è in qualche modo unificata. Se il tipo di Stato che questo continente si dà non è di tipo imperiale nel senso che è superiore e riassume in una concezione politica, i nazionalismi, i populismi, i classismi ed i guelfismi. Se questa Europa non ritrova la sua anima. Se questa anima non trova i mezzi fisici e spirituali per temprarsi. Non dimentichiamo che il risultato delle azioni storiche trascende le finalità consapevoli.
La rivoluzione sociale avviene con un rovesciamento della concezione economica e borghese dello Stato. Solo in questo modo di può svincolare l'uomo dalla catena che lo tiene legato al carro dell'economia, ergo, al capitale internazionale, alla finanza giudaico-massonica che hanno per centro d'irradiazione l'America e per truppe a propria difesa la NATO, la CIA e le varie nazioni che di queste sono basi d'appoggio. Veramente umanesimo del lavoro, corporativismo e socializzazione, tre termini complementari, non sono vacue parole, come possono pensare certi nostri amici ma espressione di tutto un modo ben preciso di vivere e di percepire i rapporti sociali.
Qui giunti, le mezze misure ed i distinguo non bastano più. O tutto assieme, o niente.
Non si può parlare di RSI e ringraziare la protezione americana, parlare di redenzione sociale e difendere le strutture economiche dello stato democratico, parlare di cultura e non volere abbattuto questo regime che la cultura nel suo aspetto vitale ha completamente affossato, parlare di indipendenza e non provare simpatia verso coloro che si battono per la propria, essere contro Yalta e non valutare come una possibile alleata ogni potenza che allo spirito di Yalta sia contraria. Come si può far riferimento alla politica di potenza del ventennio mussoliniano senza pretendere l'abolizione del Concordato, catena al piede di questa polvere di Stato?
Essere contro il sistema vuol dire auspicare la sua caduta rovinosa e con esso la distruzione di tutti i suoi supporti; riforma fondamentale delle strutture fondamentali (scuola, ecc..) eliminazione di organismi come le borse, le società per azioni, grandi aziende a capitale privato, ecc.. E ciò non per generosità verso chi ne sarebbe beneficiario, ma semplicemente come mezzo di rigenerazione umana. E siccome le idee politiche sono incarnate negli uomini, ciò vuol dire Palingenesi della Classe Dirigente.
Per far ciò occorrono uomini che sappiano ragionare in termini politici e mettere da parte quelli sentimentali. In Italia è molto difficile. Escludendo a priori le masse popolari sempre più plebizzate, i qualunquisti che nella loro presunzione sparano sentenze, a destra ed a manca, i profittatori del regime ed i professionisti della politica, restano coloro che si pongono drammaticamente il problema della vita della comunità nazionale e ne cercano le soluzioni. Questo noi chiamiamo il nostro mondo.
Ma questo mondo è inquinato dalle scorie che ci portiamo dietro da decenni. Può essere anche brava gente, ma su di essi non si può far conto. In più essi rompono di regola l'armonia fattiva che si crea tra persone che funzionano all'unisono.
Gente che vive la consorteria con spirito massonico, senza avere della Massoneria la spregiudicata elasticità che sfrutta tutto e tutti al proprio servizio. Ogni decisione viene presa solo in base a risentimenti personali o di gruppo; il gruppo politico non essendo in questo caso che il sostituto del gruppo da osteria.
Essi si deferiscono reciprocamente al consiglio di disciplina, essi cavillano verbalizzano per mesi se non anni su come si debba intendere questa o quella frase. Si può, si deve essere duttili, elastici, per il conseguimento di un fine. Mai inchiodati. La decrepitezza deve essere bandita da qualsiasi organizzazione che voglia agire incuneandosi nel corpo sociale.


S.A.F. - Servizio Ausiliario Femminile

Il tempo volge incessante e impietoso sui nostri volti, sulle nostre forze, ma il palpito degli ardenti vent'anni vive in noi nei ricordo, con tutta la gloria e il tormento delle ore vissute.
Pensiamo alla festività del Santo Evangelista Marco e alla gentile tradizione veneziana di offrire ad ogni donna il primo bocciolo di rosa e allora saremmo tentate di distrarci dalla cupa memoria, tutti gli anni ricorrente, del 25 aprile 1945. Ma l'eco, pur sfiatata, dell'ufficialità resistenziale e certi appelli alla pacificazione, quanto mai inopportuni e prudenzialmente elettoralistici, ci costringono a meditare amaramente.
Ora che sembra giunto per i farisei moderni il tempo del redde rationem, ora che la storia, più che in ogni altro momento, prende inesorabile alla gola i nostri denigratori, gli assassini dei nostri camerati, gli affossatori della Patria, ora più che mai chi ha servito la causa in fede e in coscienza ha ulteriore conferma di essere nella giustizia e nella verità. I nostri princìpi sono un modo di vivere, sono la repulsa per tutto ciò che è corrotto nella vita pubblica e nella vita privata, sono una presa di posizione chiara e precisa di fronte ai camerati e di fronte agli avversari, tale che non debba mai dare adito ad equivoci ed a possibilità di compromessi; sono il fermo volere di operare nel solco della nostra civiltà e della valorizzazione dell'uomo, in salda dignità e in composta fierezza.
Le commemorazioni esaltanti i giorni della sconfitta sono anacronistiche e il buon senso della maggioranza degli italiani, espresso in abulico assenteismo, quando non in esplicita ostilità, ne è lampante manifestazione. Per contro, altre commemorazioni, dalle quali non scaturiscano decisioni fattive, e che si fermano, sterili, sulle tombe e sulle lapidi, lasciando il tempo che trovano, sono anch'esse degli inganni, benché paludati da circostanziali lacrime e da vuote parole. Non abbiamo mai amato le "trombe pubblicitarie" e i palchi dell'esibizionismo. Quando siamo partite per fare le ausiliarie, avevamo un solo anelito: aiutare la Patria e i fratelli combattenti nell'ora più dura della prova, in silenzio e in dedizione. Certamente, neppure a un brivido della nostra femminilità abbiamo rinunciato, ma già dai primi mesi della RSI si faceva strada la volontà di «occupare i posti lasciati vuoti dai fuggiaschi e dai vigliacchi» in modo che gli uomini validi si recassero al fronte.
Eravamo coscienti del nostro operato, altro che «giovani che nulla sapevano di politica»! Tra noi ausiliarie del SAF, molte le insegnanti, le dirigenti giovanili del Partito, le universitarie, le liceali; e allora la storia si insegnava e si studiava nelle scuole e tutte conoscevamo la dottrina della nostra fede.
E quando si arrivava a pronunciare il giuramento «Giuro di servire e di difendere la RSI nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino al sacrificio supremo. Lo giuro dinanzi a Dio e ai Caduti per l'unità, l'indipendenza e l'avvenire della Patria», la formula semplice diveniva impegno sacro. Sì, le parole a noi rivolte dal Duce furono «parole impegnative, non di odio, ma di amore» però non furono parole di rinuncia e furono sempre premonitrici, come storicamente restano i detti del nostro Capo. Non, quindi, di prostituzione democratica, di faciloneria politica.
Abbiamo giurato all'Italia fascista, all'Italia che il Duce aveva condotto alla grandezza ed alla dignità di nazione rispettabile nel consesso mondiale; e questo ci basta per proseguire la lotta. Lo stile di allora non lo abbiamo perduto, fortunatamente! Rifuggiamo da ogni atto e da ogni rito che non scaturisca dal profondo della nostra coscienza; rifuggiamo da ogni speculazione, specie se si tratta dei nostri Ideali e dei nostri Caduti e disapproviamo le vie traverse, l'uso delle scappatoie banali e inintelligenti, quando, invece, il colloquio fra camerati può e deve essere tenuto nella massima lealtà e nell'inequivocabile chiarezza alle quali la nostra educazione politica ci ha abituate. Abbiamo letto nella relazione di un convegno di ausiliarie, tenutosi recentemente a Rimini, che le combattenti della RSI hanno espresso «con orgoglio i propri sentimenti e la propria devozione ai comandanti che furono e sono esempio glorioso del combattentismo italiano».
Ma naturale! Le 4313 (e non seimila) ausiliarie del SAF (tale era il nostro numero alla data del 18 aprile 1945 - vedi "Continuità ideale", aprile - settembre 1968) hanno sempre dato prove tangibili di tali sentimenti e di tale devozione. Ma non hanno mai ceduto, né cederanno le armi, e non si fanno giocare dagli allettamenti delle evoluzioni tattiche e dei possibilismi generati nei corridoi parlamentari e negli uffici elettorali. Leggiamo ancora nel citato resoconto del convegno di ausiliarie che «l'Italia, per vincere il comunismo, che le vive dentro come un male, ha bisogno di pace civile e la pace verrà quando anche il nostro sacrificio sarà riconosciuto». Non abbiamo bisogno del riconoscimento di nessuno. È sufficiente il riconoscimento della storia che ci dà ragione, giorno per giorno; la storia, della quale l'epopea della RSI costituisce la pagina più leggendaria e vibrante del ventesimo secolo.
Per vincere il comunismo bisogna superare con fatti tangibili di sanatoria morale la cronaca nera del ciellenismo, del partigianesimo di ogni colore, che sono divenuti da ventisei anni il comodo e ricco rifugio dei politicastri di tutte le sponde. Quale pace civile, con gli arresti di chi proclama le proprie idee, con la reclusione dei giovani che hanno finalmente trovato un'idea e una bandiera? Gli italiani degni di tale nome non possono dimenticare il 25 aprile, come esortano certi manifesti elettorali, affissi sui muri proprio nel giorno anniversario dell'assassinio di Benito Mussolini. Non possono e non debbono perchè, come abbiamo detto prima, la storia prende alla gola e prima o poi salda con giustizia il debito. La nostra rivoluzione non è di pochi; si è maturata nella mortificazione, nel sacrificio, nel malcontento generale, nella "cocente nostalgia" che ben conosciamo: è rivoluzione di popolo. Ormai il poi è giunto!


Il latino

Intervistato sulle infelici condizioni culturali del nostro popolo, Giorgio Bassani, dopo aver ribadito la validità dell'equazione "cultura - elevazione spirituale", ha detto: «Al latino non rinuncerei mai. In Italia il solo modo per fare di un contadino padano o pugliese un signore è fargli studiare il latino». Il che dimostra che non tutti i Bassani sono imbecilli.


Almirante

Un attore di talento. Senza dubbio il più grande dell'attuale ribalta parlamentare. Egli potrebbe -se il regista che lo dirige lo desiderasse- farvi assistere al miglior comizio comunista di tutti i tempi.
Attore di non comune preparazione letteraria, dotato di spiccata sensibilità interpretativa (non per nulla è figlio di attori), sarebbe l'unico in grado di far rivivere, sia pure per un solo istante, la luminosa anima di Gorki nei borghesucci ben pasciuti della FGC.
E sarebbe un vero miracolo soprattutto se si tiene conto dello squallore seminato in quegli ambienti dagli Amendola, dai Terracini, dai Longo, dai Pajetta, dagli Ingrao e dai Berlinguer.
Non riuscì forse a far credere a mezza Italia, ai tempi del "rinnovamento" di voler riprendere, ad onta del "reazionario" Michelini, la battaglia del repubblicanesimo sociale e rivoluzionario della RSI?
Non è forse lo stesso istrione a reincarnare oggi l'anima massonica dello strabico ragioniere?


Il missista di base

Ti saluta quasi con reverenza. Ti assicura subito di essere sempre «fascista rivoluzionario» e di essere assai scontento del «partito». Anzi vorrebbe abbonarsi ad una rivista della FNCRSI, ma, guarda caso, in quel momento non ha con sé il danaro necessario. Si dimostra costernato di non poter prendere parte alle riunioni presso la FNCRSI, perché, riguarda caso, queste si tengono proprio in quei giorni nei quali la TV manda in onda delle trasmissioni irresistibili.


E venne il giorno

I vostri sporchi e capelluti figli vi contestano, si drogano e, unica aspirazione, nutrono il desiderio di essere preferiti, amichetti, da qualche facoltoso arrivato.
Le vostre figlie, tredicenni in minigonna, devono sempre più spesso recarsi, senza tabù, dalla compiacente ostetrica-amica-di-famiglia. Le vostre mogli tentano di ingannare la noia passando, col vostro consenso, di flirt in flirt, (aiutandovi in tal modo a pagare il mutuo della casa), mentre voi, che sola ambizione desiderate scattare di grado, leccate da mane a sera, sapientemente, i pendenti ai vostri superiori.
Questo è il vostro mondo e questo vorreste imporre anche a Noi!
Unico fastidio per voi è l'accozzaglia di politicanti, ladroni e ciarlatani, che vi opprime e deruba, fastidio però che sopportate stoicamente nel timore che possano arrivare al potere gli altri, i rossi, i vostri ex amici, quelli che vi metterebbero veramente a lavorare e che, a suon di frusta, toglierebbero i grilli alla vostra testa di arricchiti.
Nel tentativo di essere equidistanti ed à la page (ossia di correre meno rischi), voi alternate "Il Tempo" del mattino al "Paese Sera" delle diciotto mentre in fondo in fondo, in cuor vostro sperate che quel giorno i fessi fascisti, da voi sempre derisi, siano ancora pronti a fare il loro dovere, pronti cioè a farsi massacrare per difendere voi, i vostri averi e le vostre schifezze.
Ma qui, nobili-persone-per-bene, qui sbagliate.
Ciò che i rossi potrebbero farvi non è nulla in confronto a quello che desideriamo farvi Noi: se è pur vero che i rossi sono nostri nemici, per Noi voi siete i vermi che devono essere letteralmente cancellati dalla faccia della terra; se avremo una sola pallottola quella, sia chiaro una volta per tutte, sarà per voi.
Noi, dovreste saperlo, sappiamo attendere e viviamo solo per quel giorno... e quel giorno verrà, ne siamo certi.
Allora le ceneri dei vostri corpi cremati, raccolte nei bidoni delle immondizie, non saranno disperse in quell'lsaar che abbracciò pietoso le polveri dei Martiri della farsa di Norimberga, ma mescolate al letame, saranno ancora incenerite e reincenerite sino alla fine dei secoli.
 

Moschettieri del Duce

Recentemente abbiamo avuto occasione di incontrarne alcuni. Il primo era stato -con De Marzio- ufficiale badogliano. Il secondo, invece, era stato partigiano se non altro, vivaddio, per farla finita una buona volta con quel rompiscatole di Mussolini. È un incontro che ricorderà per un pezzo.
Solo il terzo è ancora in linea: infatti, non solo ci ha dichiarato tutto il proprio missismo, ma ci ha parlato a lungo di Canzonissima e di un certo giovanotto che a rischiatutto, pare, stia compiendo autentici prodigi.


E così d'anno in anno, e di ministro
in ministro, io mi scarco
del centro destro sul centro sinistro.
E'l mio lunario sbarco
Carducci


Accadde nel 1999
(Racconto di fantascenpolitica)

Il giorno 30 febbraio 1999, il signor Erguesto Amilacea, impiegato presso l'Ente Statale Autonomo Controllo Gestioni Enti Statali Autonomi, di recente istituzione per snellire l'apparato burocratico, si trovava da un'ora fermo con la sua vetturetta ad un incrocio. Non gli era mai capitato di attendere cosi tanto a quell'incrocio. Immaginando che l'ingorgo fosse stato provocato da un incidente, non dette eccessivo peso alla faccenda. Cominciò a preoccuparsi dopo un'altra ora, essendo riuscito a fare solo trecento metri circa. Quando giunse in ufficio, verso le tredici era allarmato. Vi trovò pochissimi colleghi dallo sguardo assente.
Ebbe cosi la certezza che fosse successo qualcosa di notevole da qualche parte ed in qualche modo. Salutato rapidamente qualcuno, si precipitò per le scale, raggiunse la vettura e tentò di tornare a casa. Ma fatti alcuni metri, trovò una interminabile fila di macchine ululanti racchiudenti autisti impazziti. Tentò una rapida conversione; e si insinuò in una via contigua. Anche qui non potè proseguire. Ritornò indietro, imboccò la direzione opposta, ma fatte poche centinaia di metri dovette arrestarsi alla coda di un pazzesco intasamento. Macchine provenienti da tutte le direzioni erano incastrate in modo tale da non permettere il deflusso almeno fino a che non si fosse liberata tutta la borgata adiacente. Sicuro di essersi definitivamente intrappolato e presupponendo che le faccende fossero tali da richiedere il massimo della prontezza e dell'energia, si risolse di lasciare la vettura al suo destino e di dirigersi a piedi ed al più presto a casa. L'oscuro senso di un qualche incombente pericolo di natura politica, con l'incertezza collegata per la vita, i beni, la famiglia lo spingeva a cautelarsi contro ogni possibile improvvisata sgradevole. Già da anni tentativi di sommosse, agitazioni di piazza, montature politiche, ricatti e diffamazioni, scandali a ruota, avevano scosso la sonnacchiosa siesta del paese. Di fatto però tutti questi sobbollimenti non avevano portato a nulla, anzi rafforzato le varie parti che gestivano il potere, le quali accusandosi e contro-accusandosi finivano sempre per accordarsi sulla spartizione di Enti e Poltrone.
In più, c'era chi, sfruttando il senso di disagio ed agitando lo spauracchio del Colpo di Stato prima, e della Restaurazione dittatoriale dopo, era riuscito a distrarre buona parte degli italiani dalla reale trasformazione in corso in quella sfortunata terra. L'evoluzione da Protettorato a Colonia.
L'operazione era scattata alquanti anni prima e si stava tuttora svolgendo a tutti i livelli della vita pubblica. Tramite scioperi a catena le industrie erano state messe in condizione di chiudere l'azione concorrenziale verso le potenze padrone del globo, e mettersi al loro servizio, armi e bagagli. Le scuole che dovevano preparare i caratteri e le basi tecniche per la lotta d'indipendenza erano state sempre più carenti e inadeguate. La giustizia non funzionava essendo assolutamente asservita al potere politico ed alle mene del potere clericale; per cui, chi si fosse azzardato a prendere l'iniziativa di accusare tale stato di cose a mezzo stampa o altre vie, si trovava in gran fretta schiaffato in galera e condannato per fatti che non aveva mai compiuto La Cultura, subendo lo straripamento delle masse, non era più in condizione di dire una parola umana. O sterili filosofemi radicali e marxiani sparsi a piene mani dai soliti intellettuali pronti a servire ogni padrone; o racconti d'evasione, manifestazioni (teatro, cinema, periodici) atti a distrarre l'attenzione e le energie dalla coscienza di sé e della comunità. A ciò aggiungansi le cortine fumogene e le fila dei paraventi posti a copertura del potere centrale che, in veste sempre più aperta di gerente per conto e in causa dei padroni del globo, andava assumendo poteri sempre più ampi.
Tali cortine erano rappresentate da strane associazioni-ombra che nascevano, agivano e scomparivano nel nulla con lo scopo di tenere desta l'opinione pubblica su inesistenti pericoli, che venivano concretizzati volta volta dai giornali del regime (tutta la stampa cosiddetta indipendente) in queste o in quelle forze politiche che per principio o casualmente si fossero poste contro il Sistema.
Tale era la situazione che il signor Erguesto Amilacea sentiva premere su di sé quando si trovò coi suoi pensieri nel quartierino che divideva con la moglie, due figli e la suocera. Per non allarmare i familiari pensò bene di non dare voce alle sue apprensioni e passò il pomeriggio a rovistare nei cassetti ed in ogni angolo, alla ricerca di qualcosa di compromettente, ben sapendo che, se lo volevano fregare, quel qualcosa di compromettente in casa al momento opportuno sarebbe sempre stato scoperto.
Come tutti gli italiani, egli misurava le virtù degli altri in base ai loro atti e pretendeva di essere giudicato dagli altri secondo le sue supposizioni ed i suoi progetti. I quali erano sempre stati buoni ed innocui. Ma egli aveva avuto troppi amici impegnati politicamente; anzi, alcuni gli avevano inviato anche fogliacci e bollettini, molto spesso si era lasciato sfuggire qualche giudizio aspro contro il Regime in presenza di colleghi che ora avrebbero potuto mostrarsi zelanti denunciandolo. E andava col pensiero sfogliando, giorno dopo giorno, istante dopo istante, affannosamente, e con un vago senso di colpa le pagine della sua vita più recente, cercando di inquadrare gli errori ed il modo di porvi rimedio. Con una scusa fece andare a letto moglie e suocera, poi si mise, chiuse le porte, ad ascoltare la radio. Una trasmissione interminabile. Gruppi eversivi avevano tentato un colpo di Stato, ma le forze dell'ordine e le milizie popolari avevano sventato l'attacco. Molti erano stati arrestati, altri in fuga. Seguiva una sfilza incredibile di dichiarazioni ufficiali da parte di uomini politici, alti burocrati, magistrati e direttori di fabbriche. Il ministro dell'interno aveva rilasciato dichiarazioni drastiche e minacciose. Era già trascorsa la mezzanotte quando alla fine delle roboanti declamazioni verbali, lo speaker di turno lesse con voce incolore una notizia che parve naturale alla maggior parte dei telespettatori. Mentre una parte delle persone arrestate la mattina venivano poste in libertà, erano stati invece arrestati con rapide azioni di polizia, alquanti manigoldi, veri nemici della Libertà, della Pace e del Progresso, che avevano tramato in silenzio per gettare nel caos e nella dittatura il paese.
Alcuni di essi, un centinaio, avevano cercato di salvarsi con la fuga. Ne era derivata una sparatoria e purtroppo molti erano i morti. Nessuna perdita fra le milizie popolari che avevano partecipato allo scontro.
Era l'una di notte. Il signor Erguesto si alzò, apri una cassapanca e ne estrasse una scatola. Dentro c'erano dei panni variopinti accuratamente ripiegati. Ne estrasse due: uno bianco e giallo e l'altro a righe rosse. Estrasse dalla cassapanca due tronconi di asta da bandiera, li avvitò l'uno all'altro, vi legò i due panni, apri la finestra che dava nella via più importante e che era munita dell'apposito anello, retaggio di altri tempi. All'anello infilò l'asta guardando agli altri palazzi. In alcuni già ondulavano stancamente alla leggera brezza notturna altri stracci multicolori. (Molte persone si erano sbagliate). Il signor Erguesto Amilacea richiuse la finestra e spense la luce; in camera da letto si spogliò veloce veloce e raggiunse sotto le coperte la moglie Arcovezia.

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