Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO 1 - N. 3
Roma, 20 maggio 1966

SOMMARIO

POLITICA INTERNA
1 - La Malfa, ovvero dal centro-sinistra al partito di democrazia laica
2 - L'accordo FIAT-URSS, il PCI e la società sovietica

POLITICA ESTERA
3 - Nel Vietnam si decidono le politiche interne russa ed americana
4 - Il «Kennedy round»: un arnese dell'economia occidentalista

DOCUMENTAZIONE
5 - Aspetti tecnici della bomba «farcita» cinese

POLEMICHE
6 - L'occidentalismo ha una ideologia e non lo sapevamo

CRONACHE DEL SISTEMA
7 - Gli stupefacenti Valori dell'Occidente

CINEMA
8 - 317° battaglione d'assalto

 

POLITICA INTERNA

1 - La Malfa, ovvero dal centro-sinistra al partito di democrazia laica

La spregiudicatezza spesso fa cadere in curiose contraddizioni la stampa «radicale». È nota ad esempio l'acida ironia antifascista dell'ex "Mondo" e de "l'Espresso", imperniata sull'orbace, sul «saluto al duce», sulle esibizioni sportive dei gerarchi e in genere sulle manifestazioni di un costume più italiano che fascista. Ebbene, quasi convinti, da tanti e tali fogli, a ritenere squalificanti certe esibizioni, ci dovemmo rapidamente ricrede allorchè nel 1962 sui medesimi, giornali apparvero magnificate le gesta podistiche di Bob Kennedy e di altri parlamentari «radicali» impegnatisi in estenuanti marce per dimostrare forse l'efficienza della classe dirigente da essi rappresentata. Oppure per sottrarre i «radicali» alla classica; definizione di «teste d'uovo».
Un caso analogo è quello che agli stessi periodici (e a quelli che brillano della loro luce riflessa) è capitato nei confronti dell'individualismo governativo centrista. Dopo aver infatti definito i dorotei la «palude» delle iniziative politiche, eccoli ora, i «radicali» d'assalto, che diventano, per stare nel paragone, le sabbie mobili di ogni tentativo di attività legislativa e governativa. Persino l'ufficioso "Messaggero" rilevava in un fondo di una settimana fa che ormai il Parlamento non legifera più e che tratta questioni per le quali è competente al massimo un capo divisione.
Il campione di questo disimpegno è certamente Ugo La Malfa. Ormai al centro della vita politica italiana egli, sembra concretizzare nella sua persona e nella sua posizione il peso e l'importanza raggiunti dal «radicalismo» in Italia.
Egli è il crocevia per il quale passano le strade e le sorti dello stesso centro-sinistra, dell'unificazione socialista, del partito unico dei lavoratori e della riunificazione sindacale. Per ognuna di tali questioni La Malfa ha la soluzione già in testa, inserita in un quadro strategico più vasto, in un contesto ambizioso ma realizzabile, come i fatti vanno dimostrando.
È in particolare durante questi primi mesi del 1966 che La Malfa si è reso indispensabile al centro-sinistra e nel contempo ha fatto raggiungere ad esso un grado elevatissimo di disimpegno, nel timore che dall'attività potessero sorgere difficoltà in grado di arrestarne il processo di realizzazione.
Nel febbraio scorso quando pareva che il gruppo doroteo, sorprese le inclinazioni filo-radicali di Moro, fosse riuscito ad isolarlo all'interno del partito, identificandolo come il vero leader della corrente minoritaria di Forze Nuove e che fosse riuscito altresì a metterne allo scoperto la funzione filo-socialista nel gioco dei partiti di maggioranza, fu La Malfa colui che impostò la controversia con la DC sulla persona di Moro, accusando il gruppo doroteo di volersene liberare per imporre definitivamente al centro-sinistra un indirizzo moderato. Le sue accuse ai dorotei ebbero il potere di vitalizzare la sinistra DC, consentendole di fare quella complessa manovra di agganciamento dei centristi (vedi accordo Scelba-Gallone) da cui scaturì il rilancio del governo Moro. E la DC rimandò a tempi migliori l'operazione antimorotea.
È stato ancora La Malfa che il 27 aprile scorso al palazzo dei Congressi all'Eur ha precisato ai comunisti -in un dibattito con Amendola, sempre valido amplificatore delle tesi «radicali» nel PCI- che l'unica sinistra in occidente può essere quella democratica, perchè la sola capace di inserirsi nel sistema per modificarne le strutture e per correggerne il meccanismo di sviluppo. Da ciò consegue per il comunismo in generale la necessità di rifiutare le posizioni massimaliste e per il PCI in particolare la necessità di piegarsi completamente e unicamente alla funzione di sostegno dei «radicali» impegnati nel centro-sinistra. Tale richiesta veniva avanzata al PCI senza pretendere dallo stesso la rinuncia alle proprie rigide strutture organizzative, come invece i «radicali» avevano richiesto, per diverse esigenze, due anni fa allo stesso PCI tramite il solito Amendola.
Sempre La Malfa, di fronte alla recente presentazione del progetto di legge Fortuna sul divorzio, pur condividendone pienamente l'impostazione, ne ha favorito l'insabbiamento, per non creare motivi di attrito e di rottura con la DC.
Infine l'11 maggio scorso, alla Camera, La Malfa ha chiesto ed ottenuto che la votazione per la nomina dei rappresentanti all'Assemblea Consultiva del Consiglio d'Europa e all'Assemblea Parlamentare Europea fosse sospesa sine die, per evitare che la questione circa la ammissione o meno dei comunisti potesse generare fratture fra i partiti di maggioranza, divisi in proposito.
Da questi fatti emerge innanzi tutto che la maggiore preoccupazione lamalfiana è quella di evitare la rottura del centro-sinistra. Egli è uno di quei «radicali» che, invece di rinchiudersi nel gruppo lombardiano de "l'Astrolabio", ha scelto la strada della collaborazione governativa. Per dire il vero, non lo ha fatto per amor di poltrona, bensì nella prospettiva di un gioco politico di dimensioni storiche. La Malfa ha visto nel centrosinistra l'unico terreno dove potesse nascere il partito socialista unificato, alla cui creazione i «radicali» affidano la possibilità di aver un efficace strumento di azione nella politica italiana.
Esso dovrà essere, nelle loro prospettive, il primo partito italiano di democrazia laica (o di sinistra democratica) robusto nella base elettorale e operante al vertice in sede governativa. Esso cioè dovrà essere il veicolo della loro egemonia politica, così come le maggiori case editrici, certe cattedre universitarie, tante case cinematografiche, numerose riviste (da "l'Europeo" a "l'Espresso") e vari giornali (da "la Stampa" a "il Giorno") sono stati gli strumenti della loro influenza ideologica.
Primo comandamento, perciò, è quello di mantenere in piedi le condizioni per il lieto evento della riunificazione socialista, cioè, in altri termini, di far vivere il centro-sinistra a qualsiasi condizione, anche a quella dell'immobilismo.
Naturalmente, mentre si assicurano questa condizione di base, i «radicali» non trascurano di rafforzare le loro posizioni rispetto all'indirizzo moderato che può far perno sui dorotei o sui socialdemocratici oppure su entrambi.
Sostenere Moro nei termini usati da La Malfa, significa appunto ricattare la maggioranza moderata della DC imponendo ad essa dall'esterno quello che le correnti di sinistra non riescono a imporle dall'interno. Significa in sostanza falsare i rapporti di forze entro la DC, correndo soltanto il rischio di un effetto contrario, che tuttavia -dato il temperamento dei dorotei e soprattutto considerato l'orientamento che il Vaticano ha verso i «radicali», a livello internazionale- è ben difficile che possa a sua volta produrre una rottura. Ad ottobre comunque si vedranno i risultati di queste operazioni verso la DC.
La mano «radicale» agisce peraltro anche verso il PCI, da cui si attende quelle opportune estremizzazioni della lotta politica e sindacale che valgano a trattenere il PSI dalle tentazioni moderate e socialdemocratiche.
Nel contempo, la manovra nel PCI consente ai «radicali» di allargare ed approfondire la loro influenza su di esso, fino a poter prospettare di fronte ai dorotei la possibilità di una alternativa al centro-sinistra fondata su un vasto raggruppamento di sinistra in cui i comunisti, sarebbero egemonizzati dai «radicali» stessi. Cioè un raggruppamento «democratico» capace poi di grandi suggestioni elettorali e intanto di forti azioni ricattatorie.


2 - L'accordo FIAT-URSS, il PCI e la società sovietica

Mentre gli operai metalmeccanici, compresi i dipendenti della FIAT, scioperavano per il rinnovo dei contratti di lavoro giungeva la notizia della conclusione di un accordo tra la maggiore industria italiana e il governo sovietico per l'installazione nell'URSS di un impianto capace di produrre duemila vetture al giorno.
I termini tecnici ed economici del contratto sono, in linea di massima, conosciuti. Essi prevedono un impegno finanziario di molte centinaia di miliardi di lire, anche se dilazionato in sette anni e, sembra, con concessioni di facilitazioni di credito da parte governativa.
All'accordo è massimamente interessata la FIAT, ma anche altri gruppi come quello della General Electrics-Olivetti e, per ciò che concerne l'installazione secondaria (macchine utensili, transfer, linee di montaggio) sembra che l'accordo debba aprirsi anche ad altri Paesi. Del resto i contatti del governo dell'URSS proseguono con la Renault, ad esempio, e verso altre Nazioni.
Qual'è il senso, per la società sovietica, di questo accordo e del contesto socio-economico da cui nasce?
II piano quinquennale di Kossighin prevede un forte aumento della produzione industriale particolarmente nei settori dei beni di consumo durevoli, come quello degli elettrodomestici (si prevede il raddoppio della produzione di televisori e la triplicazione di quella di frigoriferi) e degli automobili (nei cinque anni la produzione dovrebbe passare da 200 mila unità annue a 800 mila e forse più).
Tutto ciò naturalmente favorisce sempre più l'evoluzione della società russa verso una società consumatista.
A questo proposito vi sono delle considerazioni da fare.
È noto che il cittadino sovietico, nei rapporti di lavoro e nella retribuzione, si trova nelle stesse condizioni di quello dei regimi capitalisti, retribuito cioè con il «salario». Ciò significa che la società sovietica oltre a non essere affatto comunista non è nemmeno alle prime fasi del cosiddetto socialismo le quali infatti prevedono, come si desume dagli scritti di Marx forme di retribuzione diverse.
Il cittadino sovietico si appresta quindi, diventando proprietario di una automobile al pari del lavoratore accidentale, a vivere nel «socialismo dei consumi».
Le forme che finanche un Krusciov aveva cercato di proporre per non contraddire così vistosamente i princìpi socialisti (un «parco macchine pubblico») sono stati definitivamente abbandonate.
La: società sovietica si trova infatti nel tipico momento di passaggio dalla fase dell'accumulazione di base a quella dei consumi. La soluzione di far acquistare le automobili è stata infatti accettata proprio, in funzione della soluzione del problema della domanda che comincia a farsi sentire nell'economia russa. Ad una produzione che tende sempre più a crescere si pone il problema dello smercio, dell'impiego cioè del capitale accumulatosi sotto forma di produzione. Non venendo i beni distribuiti dallo Stato o «consumati» con sistema parasocialista, l'unica via possibile è quella dell'«acquisto».
Nei prossimi anni, nell'economia sovietica, il gioco della domanda e dell'offerta si presenterà sempre più, grosso modo, come nelle economie capitaliste occidentali.
Ne aspettiamo al varco le contraddizioni.
Il PCI come ha reagito di fronte all'accordo? Ha innanzitutto esaltato la diversità del sistema sovietico rispetto a quello degli altri Stati con considerazioni, degne di assessori comunali preposti al traffico, «la motorizzazione a ritmo galoppante... per la prima volta nella storia del mondo... non avverrà tumultuosamente, caoticamente. La motorizzazione privata si inserirà automaticamente nel preesistente tessuto dei mezzi di comunicazione pubblici; l'Unione Sovietica diverrà domani l'unico Paese al mondo in cui la moltiplicazione dei mezzi individuali di trasporto non avrà paralizzato la circolazione e la mobilità del traffico ...»
Poi, come prospettive derivanti dall'accordo, il PCI ha indicato la possibilità, in seguito alla «maggior sicurezza delle prospettive aziendali» di poter sbloccare «le rivendicazioni dei lavoratori», confermando con ciò la accettata subordinazione ormai, di fatto, delle rivendicazioni salariali alle prospettive economiche del sistema. Inoltre ha tenuto a sottolineare che «l'avvio di nuovi rapporti con i Paesi socialisti» segna «un successo politico e psicologico del movimento operaio torinese, che da oltre quindici anni si batte per l'apertura verso i mercati socialisti come elemento di una alternativa non solo economica, ma politica, alla linea della guerra fredda e della subordinazione atlantica».
È facile rilevare da queste tesi il carattere economicistico e superiformistico della politica del PCI, specialmente tenendo presente come l'accordo tra FIAT e URSS sia solo ispirato al vantaggio del capitalismo imprenditoriale italiano e dell'economia tecnocratica sovietica. Ma esiste un altro elemento politico che ci preme rilevare: l'«aumento degli scambi commerciali», la nuova distensione che esso potrebbe preparare, postasi com'è a livello di intese di governo, di accordi commerciali, di accettazione dei reciproci sistemi (del resto, sostanzialmente simili), come potrebbe favorire i gruppi comunisti, «il movimento operaio»?
In Europa occidentale c'è un solo partito comunista tale da poter svolgere un ruolo politico. Come potrebbe inserirsi questo in un clima distensivo se non accettando, completamente e senza riserve mentali, la politica, l'economia e le istituzioni del sistema capitalista?
Il Partito Comunista Italiano pur in piena distensione, pur elaborando un piano superiformista, non trova possibilità di inserimento che a livello sindacale e aziendalistico, ciò come e dove i radicali vogliono e lo permettono.
Derivante da questa subordinazione al radicalismo è il carattere utopistico e tecnocratico della soluzione avanzata dal PCI riguardo al problema di «chi dirige la più grande impresa monopolistica del nostro Paese». Viene indicato, quale obiettivo «della battaglia politica e ideale del movimento operaio», «una programmazione antimonopolistica», «una estensione e una democratizzazione dell'intervento pubblico nella vita economica».
Chi si è rallegrato dell'accordo (e ben a ragione) sono stati i giornali dei gruppi radicali, che hanno sciorinato in questi giorni tutti i vecchi temi della distensione ripetendo le note considerazioni economiche sugli «uomini di affari occidentali che si incrociano ogni giorno sulle rotte dei turboreattori coi loro colleghi sovietici», sulla «filosofia dell'automobile» e la «civiltà del benessere».
Ma il tono era forzato; la politica sovietica, infatti, condizionata da Pechino, presenta ancora dei punti interrogativi che rendono alquanto prematuri gli sforzi per cercare di mettere in evidenza il «rilancio distensivo». il fatto che l'Unione Sovietica si stia orientando per le sue operazione economiche su altri paesi (Europa-Giappone) ignorando gli Stati Uniti (che pure avevano avanzato buone proposte in relazione al progetto per le automobili) non sembra essere il frutto di una mera scelta economica. L'impellente necessità di allargare la sfera economica trova i suoi limiti, per ciò che riguarda le conseguenze politiche, nella particolare situazione nel Vietnam che impedisce all'Unione Sovietica di poter trattare con gli Stati Uniti. E questo, avrà conseguenze, negative sulla ripresa del colloquio distensivo.
Vorremo in ultimo far rilevare la posizione della destra borghese È liberale che ha mostrato ancora una volta la consistenza delle sue battaglie ideali facendo scrivere parole d'elogio per «l'industria italiana che si va affermando nel mondo». Su questa falsariga si sono inseriti, naturalmente, i piccoli malpagati lacchè dell'estrema destra.
Anche "l'Osservatore Romano" ha preso posizione in questo senso, forse pensando che il ritorno cattolico in Russia possa avvenire più facilmente in automobile. Stante l'attuale progressismo clericale, questa posizione ha il pregio di essere coerente. L'ordine internazionale dei tecnici, dei banchieri, degli affaristi va costruendo passo dopo passo la sua civiltà; eppure non è lontano il tempo nel quale si accorgeranno che oltre la «124» e le banche la situazione politica internazionale offre ancora qualcos'altro capace di far mutare la situazione.


POLITICA ESTERA

3 - Nel Vietnam si decidono le politiche interne russa ed americana

A Washington gli «oltranzisti» del Pentagono sembra abbiano vinto la prima battaglia con la sinistra pacifista sfruttando ottimamente le conseguenze psicologiche causate dalla grave crisi verificatasi nelle ultime settimane nel Vietnam meridionale e dall'esplosione della terza bomba nucleare cinese nel Poligono del Sinkiang.
La politica ufficiale che gli Stati Uniti hanno preso a seguire al di la del 17° parallelo dalla settimana scorsa non può che confermarlo.
«Non vi è alcun santuario» ha annunciato il portavoce del Dipartimento di Stato «per qualsiasi aereo che intralci la strada ai bombardieri americani». Ciò è stato ufficialmente interpretato in senso che i piloti americani sono liberi di inseguire gli aerei nemici «ovunque vadano» ed anche di colpire, se necessario, le loro basi.
Tutto questo pone l'Unione Sovietica in una situazione precaria. Essa è stata portata dai cinesi ad impegnarsi, anche tangibilmente, a favore del Vietnam del Nord, assumendosi l'onere di fornire cospicui aiuti per difendere quel Paese.
In questa situazione la dottrina del «non vi è alcun santuario» estremizza l'impegno sovietico in maniera esattamente proporzionale alla sua applicazione: più bombardieri USA, più missili sovietici.
I riflessi dell'escalation sono di carattere militare, in quanto essa comprova l'incapacità statunitense di vincere la guerriglia, ma soprattutto sono di carattere politico in quanto essa sollecita un sempre maggior impegno sovietico che a sua volta si ripercuote sui rapporti di forza fra i gruppi di potere nell'URSS favorendo decisamente le posizioni dei militari.
Di fronte ad un simile pericolo che comprometterebbe negli anni futuri la ripresa del processo distensivo, i «radicali» americani (Kennedy, Fulbright, Morse) hanno accentuato la loro opposizione a Johnson. Tuttavia l'atteggiamento dei buddisti, che viene a privare gli americani della qualifica di «liberatori», mettendo allo scoperto i loro crudi interessi nel conflitto vietnamita, e l'esplosione della bomba «farcita» cinese hanno finora più avvantaggiato le posizioni del Pentagono che quelle dei «radicali». I «falchi» hanno infatti posto in stato di emergenza l'opinione pubblica, prospettando ad essa l'urgente necessità di por fine alla guerra vincendola ed hanno così ottenuto di poter allargare l'escalation nel modo che sappiamo,
Le «colombe» radicali attendono ora il «secondo riflesso» della stessa opinione pubblica, cioè quello della paura, del pacifismo e del disimpegno, che come tutti sanno è patrimonio inalienabile della mentalità americana, secondo il noto principio mercantilista «si sfrutti finchè non si rischia».


4 - Il «Kennedy round»: un arnese dell'economia occidentalista

In relazione all'imminente scadenza degli speciali poteri concessi con il "Trade Expansion", anche al Presidente americano per i negoziati commerciali, verranno riprese, in questi giorni, le trattative per la riduzione tariffarie previste dal "Kennedy Round".
A questo proposito e già stato fatto un sollecito da parte del governo della RFT.
Come è noto si dovrebbe giungere ad un accordo che preveda una riduzione fino al 50 per cento su alcuni prodotti, particolarmente nel settore agricolo.
La difficoltà tecnica più importante è rappresentata dalla differenza degli attuali livelli doganali operanti negli Stati Uniti e presso i Paesi della Comunità Europea. Gli USA, infatti, adottano un autentico protezionismo che consente loro di evitare, in taluni settori, importazioni che potrebbero mettere in crisi le rispettive produzioni. Ora, una eventuale riduzione mentre aprirebbe il Mercato europeo al surplus produttivo americano non consentirebbe affatto un movimento inverso.
Esistono altre questioni di fondo che dovrebbero indurre, anche considerando, il piano strettamente economico, i tecnici di Bruxelles a evitare un'apertura così pericolosa tra l'economia statunitense e quella europea.
L'alto grado di concentrazione industriale raggiunto negli Stati Uniti permette di poter manovrare da parte americana un uniforme, immenso, omogeneizzato complesso economico. Tutto ciò non si verifica in Europa e specialmente nel settore agricolo, dove esistono squilibri e differenti piani di sviluppo e dove, proprio sugli accordi agricoli, si sono incontrate le maggiori difficoltà, come testimoniano anche le recenti decisioni sul FEDAG, faticosamente adottate, le quali sembra che abbiano più scontentato che riunito i sei Paesi del MEC.
L'Italia ad esempio si trova in una posizione di notevole inferiorità rispetto ad altre nazioni (esempio la Francia) specialmente sul piano dell'industrializzazione del settore. Occorrerebbe quindi, da parte delle nazioni comunitarie operare uno sforzo. di adeguamento e di equilibrio interno prima di tentare aperture verso altri Paesi.
Il fatto è che al motivo economico si è aggiunto ultimamente il motivo politico.
Il tentativo americano è quello di sanare le crisi dell'atlantismo militare e politico con un nuovo atlantismo economico, tutto ciò nel quadro, anche, dell'invasione degli investimenti americani nel Continente che stanno raggiungendo livelli sempre più alti e che trovano di fatto consenziente il governo americano
E sempre ultimamente si sono fatte più forti le tendenze verso un allargamento del MEC oltre che nei riguardi degli Stati Uniti anche verso i paesi dell'EFTA.
Nel comunicato del 6 maggio sulla visita di Fanfani a Londra, infatti, era manifestata chiaramente questa intenzione; in esso si affermava testualmente: «le due parti hanno ritenuto di intensificare lo studio delle circostanze che potrebbero facilitare l'adesione dell'Inghilterra alla Comunità europea, esprimendo il desiderio che, nel frattempo, i contatti fra i Paesi del MEC e della zona di libero scambio aumentino in tutti i campi, ivi compresi i negoziati del Kennedy Round»,
Risulta quindi molto chiaro il tentativo di allargare i confini geografici ed economici del Mercato Comune per far sì che esso divenga, più di quanto non lo sia attualmente, una solida struttura politico-economica dell'«occidente», ovverosia un meccanismo economico perfettamente integrato nel sistema USA.


DOCUMENTAZIONE

5 - Aspetti tecnici della bomba «farcita» cinese

Riprendiamo da "Le Figaro Littèraire" del 14 maggio u.s. un esame degli aspetti tecnici della terza bomba cinese, che meritano di essere portati a conoscenza dei nostri lettori in virtù della loro chiarezza ed esattezza:
«... Rafforzare la carica (si dice anche "farcirla") significa unire all'esplosivo un insieme di sostanze leggere, isotopi dell'idrogeno: deuterio e tritio e anche litio, capaci di favorire la fissione. Con questo sistema, si sale da sessanta kilotoni a duecento. Il procedimento è facile in teoria ma estremamente difficile in pratica poichè non è affatto sufficiente fare un cocktail di elementi; occorre ripartili geometricamente altrimenti il rendimento è pressochè nullo. La ripartizione migliore non può essere ottenuta che con due metodi: o per tentativi o per mezzo di calcoli che possono essere eseguiti solo da calcolatrici elettroniche ad altissimo rendimento. Non è un segreto per nessuno che gli USA si rifiutano di fornire alla Francia una di queste calcolatrici, malgrado che ad essi siano state reiteratamente richieste. Se i cinesi sono riusciti nel modo migliore, ciò significa che la loro bomba "farcita" è stata realizzata con un meccanismo di ordinamento costruito da essi stessi ...»


POLEMICHE

6 - L'occidentalismo ha una ideologia e non lo sapevamo

È proprio vero: l'occidentalismo ha una ideologia. Tuttavia il fatto di averla ignorata non è colpa nostra. Siamo infatti ampiamente giustificati dalla cautela con la quale essa è stata finora presentata dai suoi «inventori», poichè fino ad oggi le tesi occidentaliste sono state sostenute esclusivamente sul piano politico e mai su quello ideologico. Il ragionamento di fondo è stato sempre questo: per garantire una vera difesa dell'Europa di fronte alla minaccia comunista occorre collocarsi nell'Alleanza atlantica, mantenersi fedele alla stessa e, con essa, agli Stati Uniti che soli possono fronteggiare le forze dell'URSS.
Esiste in sostanza uno stato di necessità, prodotto dall'aggressività sovietica, il quale spinge per forza di cose a sollecitare e ad accettare il protettorato americano.
Questa tesi dell'occidentalismo «salvatore dell'Europa» viene di solito guarnita con le tematiche del «mondo libero», della «civiltà occidentale», della «pace nella sicurezza», dell'«impegno dell'alleato americano». È un pot-pourri di temi politici, ideologici, economici e militari, abilmente manipolato e servito dai giornali di centro e di destra con le salse calde della paura, della necessità, dell'amicizia, della solidarietà e di tutti quei sentimenti che volta a volta le circostanze e gli ambienti richiedono. I giornali di destra ad esempio accentuano rispetto a quelli moderati e centristi gli aspetti di necessità in luogo di quelli di amicizia, forse perchè sanno bene che a destra non si è ancora dimenticata la posizione e l'azione americana nell'ultimo conflitto mondiale..
Yalta, Potsdam; le superfortezze volanti, Dresda, Nagasaki, la «pace senza condizioni», dicono ancora qualcosa alla «base di destra», anzi hanno conservato alla stessa una carica d'odio contro la quale non ha potuto nulla nè il piano Marshall, nè gli aiuti UNRRA. Questo atteggiamento di inimicizia verso gli americani è stato poi rafforzato dal mancato intervento USA a Budapest nel '56 e a Berlino nel '61.
Era quindi logico che !a stampa diretta ad un tale pubblico trascurasse il tema dell'amicizia e puntasse tutte le carte occidentaliste sul tema della necessità, della paura e del ricatto. Evidentemente però qualche cosa è cambiata negli ultimi tempi ed è stata cosa da turbare profondamente il tranquillo abbeveraggio della opinione pubblica di destra alla fonte dell'occidentalismo.
L'azione gollista ha rotto l'incantesimo con il quale si erano catturati gli europei alle tesi della «pace nella sicurezza». De Gaulle, sui cui valori positivi esprimiamo il nostro dissenso, ha avuto però una funzione negativa di fondamentale importanza. Egli ha offerto, in sostanza, l'esempio concreto di come si possa fare una politica. autonoma senza perciò stesso rendersi preda dei comunisti. All'interno come all'esterno il comunismo è stato ridimensionato, in Francia, da un sistema politico che ormai ha quasi dieci anni di vita e sul quale non si può far cadere la calunnia della fugacità e della precarietà. Non solo si deve registrare questo successo gollista, ma lo si deve fare esattamente mentre nei Paesi rimasti vincolati all'occidentalismo (nei quali pertanto la minaccia comunista avrebbe dovuto scomparire) essa si è rafforzata. E ciò è accaduto sia all'interno, come per l'Italia, sia nei rapporti internazionali, come per la Germania.
Questo fenomeno politico che ha scosso alle radici le posizioni occidentaliste, le ha in particolare colpite nel loro aspetto ricattatorio: anche senza gli Stati Uniti, l'Europa si può difendere da sola dalla cosiddetta minaccia comunista. In realtà il gollismo ha rubato il tempo alla politica americana, la quale con Kennedy aveva compreso i mutamenti intervenuti nel regime sovietico e li voleva guidare, attraverso la «distensione», verso soluzioni sempre più progressiste, democraticistiche e «radicali». De Gaulle ha sottratto la carta al giocatore americano ed ora se la gioca in proprio.
A seguito di questa impostazione gollista era logico attendersi una nuova formulazione, o meglio una nuova giustificazione, dei rapporti di sudditanza atlantista e occidentalista. Ecco dunque gli intellettuali di destra partire come saette al contrattacco, in difesa questa volta dei «valori occidentali» chiamati in causa in luogo del vecchio «stato di necessità». Per la verità c'è ancora qualcuno che spende la vecchia moneta della paura anticomunista ma le avanguardie occidentaliste hanno già cambiato munizioni e cominciano a svolgere con sempre maggiore insistenza il discorso ideologico.
Un esempio che può dirsi riassuntivo di questo nuovo corso della pubblicistica filo-americana, è quello offerto da Williams Schlamm con l'articolo intitolato «Il secolo americano?», pubblicato sul numero 18, 1966 de "Il Borghese". L'autore riassume l'occidentalismo in due tesi: 1° il desiderio di dar vita ad una terza forza che renda l'Europa indipendente insieme sia dal comunismo sia dall'America è utopico e irreale, frutto di passionalità e generatore di fallimenti, tragedie e sofismi. L'Europa «può forse evitare il comunismo ma accettando la supremazia americana; o può forse evitare il predominio americano ma accettando il comunismo».
2° Di conseguenza l'Europa deve scegliere fra il comunismo e gli USA ma nel far questo deve tener presente che in fin dei conti sceglie se stessa, in quanto sia l'uno che gli altri non sono creature nuove ma varianti ed estensioni storiche dell'Europa. Deve però tener presente che mentre «la Russia è diventata l'erede storica di tutte le eresie religiose e sociali che per secoli hanno tormentato l'Europa, l'America è invece divenuta il rifugio e al tempo stesso l'incubatrice del senso di avventura, della superba sicurezza di se, dell'esuberanza di energia che per secoli aveva nutrito la stessa Europa».
Il ragionamento di Schlamm non è privo di ingegnosità ma ha il torto di non stare nè sul campo politico nè su quello ideologico e di essere farcito di troppe e volute astuzie psicologiche. Quanto dire che è un discorso in malafede, come dimostra anche la mancanza di argomentazioni limpide e di un decente livello logico. Innanzi tutto con la prima tesi; si è ripreso il tema dello stato di necessità che per l'occasione è diventato stato di ineluttabilità: o per l'uno o per l'altro, non per se stessi. La forza economica, militare, la ricchezza di classi dirigenti, il livello culturale, la produzione delle sole idee non soggette al mercato che siano oggi pensate nel mondo, ma soprattutto la capacità di esprimere ancora concezioni della vita legate a impostazioni metafisiche e non pragmatistiche ed, empiriche, fanno dell'Europa ancora ed anzi con maggior rilievo una entità a se stante, non esaurita e non svuotata.
Già quindi la tesi di Schlamm è falsa all'origine, ma è interessante vedere come essa si sviluppa per coglierne la macchinosità e la artificiosità. Ciò appare soprattutto laddove l'autore pensa di dare il contentino all'orgoglio europeo, creando motu proprio l'Europa madre del comunismo e della civiltà americana. Ora è ben vero il contrario e ci preme sottolinearlo, da europei ai quali ripugna fortemente una simile paternità. È vero infatti che in Europa sono nati sia il liberalismo che il comunismo, ma essi, che poi sono oltretutto prodotti di un certo momento storico europeo è che, infine, non potevano essere generati se non in Europa giacchè la storia del mondo è stata da millenni la storia dell'Europa, essi sono costruzioni ideologiche che, quali figli naturali che nessuno vuol riconoscere, cercano di entrare a far parte della famiglia legittima la quale di continuo li respinge e li rifiuta.
Tutte le forme autoritarie si sono poste come le espressioni del vero spirito europeo ed hanno, negli ultimi cinque secoli, contrastato e negato le forme egualitaristiche liberali e marxiste, giungendo nei peggiori casi a forme di accordo nelle quali il contenuto rimaneva sostanzialmente autoritario.
È vero invece che il liberalismo e il Comunismo sono stati accolti ed accettati in America e in Russia come contenuti veri e propri di quelle società e che forti dei mezzi che quelle società avevano messo a loro disposizione hanno aggredito, questa volta dall'esterno, il vero spirito dell'Europa.
Non c'è perciò la possibilità di sostenere le tesi dello Schlamm secondo le quali l'Europa dovrebbe volgersi o verso il comunismo e verso gli Stati Uniti per vedere realizzate compiutamente le sue «ambizioni translate».
Comunismo e liberalismo non sono le ambizioni dell'Europa, ma sono i suoi mali, dai quali essa ha sempre tentato di liberarsi e dai quali è stata infine assalita dall'esterno.
Non c'è quindi la necessità di scegliere fra l'uno e l'altro, necessità che secondo il meccanismo logico dello Schlamm dovrebbe naturalmente portare l'opinione pubblica di destra a scegliere per il liberalismo e per gli USA.
C'è invece la necessità di non scegliere, applicando questo rifiuto a tutte le circostanze e le occasioni che l'«occidente» offre per realizzare il suo disegno. Ciò comporta, tra l'altro, anche il rifiuto, oltre che dell'integrazione atlantista (Kennedy Round) anche della semplice alleanza, che poi fatalmente si rivela una sudditanza. Occorre solo riprendere la battaglia sui due fronti poichè è soltanto fra i due nemici che si trova lo spazio per una politica europea.


CRONACHE DEL SISTEMA

7 - Gli stupefacenti Valori dell'Occidente

Le autorità sanitarie e federali americane hanno lanciato un grido d'allarme per la «nuova follia» che sta invadendo l'America. Si tratta dell'Lsd 25 (Lysergic acid dietylamide) che sta trovando una sempre maggiore diffusione tra i giovani e soprattutto nelle Università.
Non si tratta di una vera e propria droga ma di un allucinogeno i cui effetti sono: sdoppiamento della personalità, visioni folgoranti, sensazioni lancinanti, sofferenze e piaceri acuti, perdita totale della nozione di tempo e di spazio. Spesso coloro che ne fanno uso si suicidano in seguito alla depressione che segue al ritorno nello stato di normalità oppure cadono in crisi ansiose o entrano in coma mortale.
Le autorità statunitensi hanno deciso di combattere l'uso dell'Lsd 25 che si propaga con una velocità impressionante: al momento attuale si calcola che circa 400 mila giovani siano intossicati da questa sostanza. Tuttavia il problema non è di facile soluzione sia per il fatto che questo allucinogeno può essere prodotto da uno studente al secondo anno di medicina, che può estrarlo con estrema facilità dall'acido lisergico, ricavabile da un fungo parassita che cresce sulla segala, sia perchè un grammo di Lsd 25 è sufficienze a confezionare più di diecimila dosi e una dose si trova sul mercato americano al prezzo di circa 2.000 lire.
Questa «nuova follia» della società americana si presta ad alcune considerazioni. Prima di tutto è significativo che l'uso delle droghe e degli allucinogeni trovi il suo campo più fertile proprio tra i giovani, che dovrebbero essere la parte più sana di una società. In questa autodistruzione della gioventù d'oltre Atlantico si affaccia il tema esistenziale della nausea, del disgusto, del vuoto sentito dietro tutto il sistema della civiltà borghese-capitalista, l'accettazione dei significati ultimi e nello stesso tempo la rivolta irrazionale e pessimistica contro un mondo che riconosce come veri solo i valori economici e razionalistici dell'«affluent society».
Di fronte a questo l'alcool, il sesso, la velocità, la droga, l'uso degli «allargatori di coscienza» come appunto vengono chiamati gli allucinogeni, i crimini gratuiti, sono intesi solo come mezzi per poter sostenere con sensazioni esasperate il vuoto dell'esistenza. D'altra parte i libri di Jack Kerouac, la poesia di Alien Ginsberg, il primo Henry Miller s'inspirano a tale clima. Un'altra considerazione che può essere fatta riguarda la «crociata contro gli stupefacenti» che, dopo il fallimento del proibizionismo, è divenuta una parola d'ordine dei legislatori del «mondo occidentale». In questo si ha un ben furioso risultato di quel regime di «libertà» che in tale mondo, in clima di democrazia, si pretende che viga. Infatti, in base al tanto conclamato «rispetto della libertà dell'individuo», non si avrebbe nessun diritto ad impedire che degli uomini si riducano in rovina nel modo che credono migliore.
Ma la vera ragione di questa «crociata» è che si vogliono colpire gli individui che usano l'alcool, le droghe, gli allucinogeni, solo in quanto evadono dal processo produttivo-consumativo in funzione del quale nella società americana gli uomini hanno valore e senza il quale la stessa società vedrebbe crollare tutte le sue strutture dalle fondamenta.
Il fenomeno dell'uso di massa degli allucinogeni è quindi indicativo per chi voglia esaminare le cause prime dello sgretolamento e del crollo civile degli Stati Uniti, ancora oggi considerati come i «campioni dell'Occidente».
Ma c'è ancora da fare un'altra considerazione che è poi, per noi europei, la più importante. Da un articolo de "Le Figaro" si ha notizia che a Parigi si è incominciato a diffondere l'uso dell'Lsd 25 introdottovi dagli studenti americani. Per ora il fenomeno è limitato ad alcune centinaia di giovani ma, da più parti (vedi la denuncia del dottor Bensoussan), si levano grida di allarme per il pericolo di una maggiore diffusione.
E così, in nome della «solidarietà occidentale», sembra che l'Europa sia destinata a subire l'invasione dell'Lsd 25 dopo aver sopportato quella della Coca Cola, dei blue jeans, dei juke box, dei flipper, delle musiche negre, dei ritmi epilettico-isterici, dei miti democratico-bovini del mercantilismo e della «prosperity».


CINEMA

8 - 317° battaglione d'assalto

Tratto dal noto romanzo di Pierre Schoendoerfer «Sezione 317», pubblicato in Italia dall'editore Trevi, il film, che è diretto dallo stesso autore del libro, narra la tragica e disperata marcia nella giungla, verso un'impossibile salvezza, dei resti di un battaglione franco-laotiano, all'epoca del crollo della resistenza francese in Indocina.
Un soggetto quindi che gli odierni sconvolgimenti del sud-est asiatico rendono di particolare attualità, soprattutto per il suo sottofondo politico che, pur non intralciando minimamente lo svolgersi sempre teso e drammatico dell'azione, è però costantemente presente nel film, trasparendo ora in una frase ora in una semplice battuta di un dialogo sempre scarno ed essenziale, e gli conferisce i caratteri di una sdegnata e bruciante denuncia.
L'azione, al tempo stesso un dramma umano e la storia di un tradimento, si compie in pochi giorni: è l'alba del 5 maggio 1955, l'intero fronte francese è allo stremo, Dien Bien Phu sta per cadere, i superstiti del 317° battaglione d'assalto, 4 europei ed una trentina di coloniali, ricevono l'ordine di abbandonare l'avamposto fino ad allora difeso vittoriosamente, ma ormai tagliato fuori; dovranno cercare la salvezza in una marcia di 250 Km. in territorio completamente controllato dal nemico. E la marcia ha inizio in un'atmosfera plumbea che ne sottolinea la tragicità: tra scrosci di pioggia gli uomini s'addentrano nel cupo della giungla, assillante per la presenza dei «viet»; pochi giorni ancora e, dopo un alternarsi di speranze ed angosce di scontri vittoriosi e ripiegamenti affannosi, stati d'animo e situazioni abilmente sottolineati dal regista con il corrispondente placarsi o scatenarsi degli elementi e col conseguente passaggio dai toni chiari a quelli scuri, tutto si conclude quasi d'un tratto tragicamente ed il 317° potrà essere cancellato, come un pensiero molesto, dalla lista dei battaglioni e da qualche coscienza.
«... ah... dica al mio attendente di portarmi una birra…, mi raccomando..., ben ghiacciata» dice un colonnello al tenente che l'ha appena informato sulla disperata situazione del battaglione. Il film comincia così, con un dialogo in sottofondo, una telefonata tra esseri senza volto: due voci, una sgomenta, una fredda indifferente; poche battute; coloro che saranno traditi e dovranno morire non sono ancora apparsi sulla scena, ma lo spettatore sa già di trovarsi di fronte ad un dramma ed intuisce l'intento polemico dell'autore. Gli imputati sono molti: l'insensibilità di una casta militare, la corrosione della sovversione «radicale» e pacifista, l'indifferenza di un alleato, il tradimento interessato dell'altro. L'accusa, l'abbiamo detto, si precisa in poche frasi, quasi accennate ma sufficienti; il valore e l'umanità dei protagonisti le daranno le dimensioni delle sdegno.
L'introduzione è per la casta militare, poi, con lo svolgersi dell'azione, toccherà agli altri. Il morente sergente Rudier, nella lucida agonia, proprio mentre si sta consumando il suo sacrificio, ricorderà, senza rancore ma con la smarrita amarezza di ogni uomo di fronte all'ingratitudine, la folla ostile dei dimostranti, tumultuanti al di la della barriera delle guardie, alla partenza del reparto da Marsiglia. Una semplice interferenza radio sottolineerà ironicamente, con la sua molestia, l'assenza degli inglesi.
«Fratelli laotiani» inciterà rivolta ai coloniali, suadente ed insisterne attraverso l'etere, una voce vietminh lasciate i francesi, venite con noi!» e continuerà, con apparente illogicità, «francesi arrendetevi, non combattete per gli americani, lasciate che vengano loro a difendere i propri interessi!». «Ma che c'entrano gli americani? che c'entrano!!» ribatterà con rabbia piena però d'amarezza e di consapevole sdegno, l'ufficiale francese. «Quelli li hanno capito meglio di noi» aggiungerà a commento un veterano.
È il tradimento interessato del principale alleato che viene svelato, un tradimento che troverà, con gli accordi di Ginevra, il suo premio, ed ora, con la spietata guerriglia nazionalista del vietcong; la sua giusta pena.
Su questo sfondo di bassezza si muovono, autentici personaggi: i protagonisti. Due i principali: un giovane tenente, fresco d'accademia e d'ideali, interpretato con grande sensibilità da J. Perrin, in linea da solo 18 giorni, ed un veterano, attore Bruno Cremer, Un legionario abituato a perdere, che si è battuto a Stalingrado e sotto le mura di Berlino. Diversi in apparenza, quasi in contrasto, in realtà rappresentano, come del resto su di un piano minore gli altri protagonisti, due facce di uno stesso tipo di uomo o forse meglio lo stesso uomo, nel momento dell'entusiasta ingenuità giovanile prima, indurito dalla sconfitta e dall'esperienza poi; che ci è facile immaginare il rude sergente Wildox, ora a tratti anche scettico, nelle vesti del giovane tenente, quando ventenne nel '45 a Berlino compì, insieme ad altri pazzi della stessa razza, la sua ultima e disperata carica in difesa di un'Europa soccombente. Ed è appunto questa razza di uomini che Schoendoerfer, con "317° Battaglione d'Assalto», ha inteso difendere ed onorare.
È da aggiungere infine che il film lo scorso anno, al festival cinematografico di Cannes, ha conquistato la "Palma d'Oro", primo premio per il miglior soggetto e la migliore sceneggiatura, indubbiamente per i suoi alti pregi artistici, ma anche per il suo contenuto politico che ha potuto trovare corrispondenze ed adesioni, forse anche molto autorevoli, nel clima di antioccidentalismo ed antiamericanismo di una nuova politica francese rivolta verso l'Europa.