Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO 1 - N. 4
Roma, 8 giugno 1966

SOMMARIO

POLITICA INTERNA
1 - Allegria: tempo di elezioni!
2 - Il divorzio: figlio illegittimo del regime

POLITICA ESTERA
3 - Chi è Nicolae Ceausesco?
4 - La crisi del dominio USA in Asia rilancia il Giappone

CRONACHE DEL SISTEMA
5 - Il colpo di coda de "la Zanzara"

TEMATICA POLITICA
6 - La destra occidentalista e la «spaccatura verticale» negli USA

LE VOCI DEL SISTEMA
 

 

POLITICA INTERNA

1 - Allegria: tempo di elezioni!


Il titolo di questo articolo può sembrare ispirato a motivi qualunquistici o a sentimenti antidemocratici vecchio stile. In verità non ci è mai piaciuto esercitare la satira del deputato forchettone o incompetente o avido di cariche e quattrini, sia perchè essa in ultima analisi si rivela come un'esaltazione del sistema e come una condanna dei soli vizi umani, sia perchè essa non poggia su una concezione politica alternativa a quella democratica.
Tuttavia queste elezioni amministrative si svolgono in un clima così disimpegnato e suscitano un interesse così scarso che la critica è portata ad usare più lo strumento dello sberleffo che quello della denuncia.
In particolare, la campagna elettorale accentua le caratteristiche che da alcuni anni a questa parte sembrano diventate proprie del costume politico italiano. La propaganda politica in Italia si va americanizzando.
Il senso di questa espressione è ben chiaro per chi ha in mente le carnevalesche Convenzioni dei partiti statunitensi, dove i coriandoli sostituiscono le idee e dove i cantanti e le orchestrine rimpiazzano, indubbiamente con maggior successo, gli oratori e le orazioni.
Già nel 1963 l'Ufficio Studi della DC, preso atto del mutato clima politico, pensò di adeguarsi alla situazione e decise di far dirigere la «campagna» ad un noto specialista americano di propaganda commerciale, già sperimentato negli Stati Uniti nel campo politico. Abituato a «vendere» il candidato alla stregua della coca-cola e a presentare un partito come fosse pop-corn, il prof. Dichter non si rese conto che l'Italia era ancora europea e che il processo di americanizzazione era solo agli inizi. Il suo tentativo fallì.
Fallirebbe ancor oggi? È lecito dubitarne.
Il calor bianco delle prime manifestazioni elettorali postbelliche è del tutto scomparso. I giornali del sistema scrivono in proposito di «raggiunta maturità politica» mentre i sociologi del sistema parlano di effetti prodotti dalia «società del benessere». La realtà è ben diversa.
Non c'è infatti maturità politica dove c'è assenteismo, nè è ancora dimostrata la tesi progressista secondo cui il benessere distrugge il problema politico (ammesso e non concesso che in Italia possa parlarsi di benessere nel senso neocapitalistico del termine).
In Italia invece si stanno producendo gli effetti classici dei sistemi democratici: la fittizia partecipazione alla vita politica attraverso il voto mostra alla lunga la sua artificiosità. La distanza fra lo Stato e il singolo si mostra quale essa veramente è in regime democratico: incolmabile.
La mancanza dei corpi intermedi, l'assoluta insufficienza del sistema rappresentativo parlamentare, l'impossibilità di un rapporto diretto con lo Stato nel campo economico dove esso può essere effettivamente svolto con il maggior riguardo agli interessi del singolo, tutto ciò genera la crisi di fiducia verso lo Stato, verso chi lo rappresenta e verso le strutture e le istituzioni che lo sostengono.
È da ciò che procede l'assenteismo, l'indifferenza, il distacco dalla cosa pubblica. Negli Stati Uniti esso si concretizza nell'astensione dalle urne di oltre il 40% degli elettori. E per il restante 60%, per catturarne l'attenzione e il voto, ecco gli striscioni multicolori, le esibizioni clownesche dei leaders, le sfilate di ballerine in gonnellino e con tamburo, ecco insomma l'avanspettacolo che una sedicente società civile mette in piazza per procacciare alla sua classe dirigente il titolo del potere.
In Italia ci salva ancora da questi estremi un certo gusto e un certo stile, dal quale evidentemente siamo protetti più di quel che si possa pensare.
Tuttavia il disinteresse si manifesta verso i vecchi sistemi propagandistici (vedi il comizio e il manifesto) e non è un caso che esso colpisca proprio i tradizionali veicoli di idee. Non si vuol più pensare, poichè evidentemente lo si ritiene una fatica inutile. Al contrario, dilagano i metodi propagandistici che puntano sull'occhio e sull'orecchio anzichè sul cervello. Carovane spettacolari di macchine, brevi slogans lanciati da altoparlanti mobili e ripetuti sui muri, canzonette e colori abbaglianti. Qualche candidato non trascura lo stomaco degli elettori e affida ad un fornito buffet le sue fortune elettorali, È terminato un clima politico di viva partecipazione alle cose dello Stato, clima che è esistito in Italia finchè i singoli hanno ritenuto di poter influire sulla vita pubblica (nell'ultima guerra si ebbe il minor numero di renitenti e disertori di tutta la storia d'Italia) e che ha conosciuto un periodo aureo nel dopoguerra quando gli italiani credevano che le urne potessero rappresentarli meglio delle Corporazioni.
Ora il sistema mostra il suo vero volto e da ciò consegue il clima di disimpegno che allieta la vita politica italiana.
È vero che ancora non siamo al grosso assenteismo in sede di voto, ma pian piano, a mano che si ridurrà il peso della cellula e della parrocchia, cresceranno anche le proporzioni di questo fenomeno. Allora si renderà improduttivo anche il sistema di punire i colpevoli di assenteismo mediante l'annotazione «non ha votato» sul certificato di buona condotta, sistema che in un Paese di aspiranti impiegati e carabinieri ha dato frutti notevoli.
In queste elezioni si aggiunge un nuovo e ben robusto fattore di assenteismo. Non solo infatti si è consolidata agli occhi di tutti la coscienza dell'inganno elettorale ai fini della rappresentanza economica e politica ma è venuto a mancare anche il classico motivo di interesse con il quale dal 1960 ad oggi si è dato sostegno alle prove elettorali. Da quel periodo in poi si è infatti sempre sostenuto che ogni tornata fosse una battaglia a favore o contro il centrosinistra.
Ogni prova elettorale, a livello nazionale o provinciale o comunale, è stata presentata come quella definitiva per le sorti del centrosinistra. Anzi, sono state presentate in tal modo anche le elezioni congressuali del PSI, della DC e del PSDI.
Ora si è ben visto invece che il centrosinistra e i fatti politici collaterali (unificazione socialista, riunificazione sindacale etc.) prescindono totalmente dai risultati elettorali. Ormai siamo al punto che nessun risultato e nessuna votazione possono cambiare un indirizzo politico al quale i due uomini più influenti della politica italiana e di quella vaticana hanno consacrato la propria vita e affidato il proprio prestigio.
Gli italiani sanno bene che ormai il centrosinistra, così stando le cose e le persone, è irreversibile, e che comunque la sua sorte non è legata ad un aumento o ad una flessione elettorale. Non c'è incremento percentuale che tenga, sia che esso vada al PSIUP, al PCI, alla DC o al PSI. La base di partenza è il centrosinistra, poi si discuterà se farlo moderato, radicale, doroteo o lombardiano.
In questa situazione è naturale che il cosiddetto corpo elettorale non «senta» la competizione, come un cavallo stanco non sente la corsa.
Lo squallore si allarga, se si considerano i partiti e le loro argomentazioni partitiche. Se il «sistema» non riesce a tenere desto l'interesse per le sue manifestazioni, i partiti che ormai sono tutti nel «sistema» respirano la sua atmosfera inquinata e sono ridotti ai temi politici ai quali il sistema stesso li costringe.
Finchè non si capirà che la lotta al centrosinistra può essere efficace solo se fatta nel quadro della lotta al sistema e che quest'ultima è la lotta di base alla quale è condizionato il risultato della prima, non si potrà neppure sperare di rialzare l'interesse degli italiani per la vita politica.


2 - Il divorzio: figlio illegittimo del regime

La proposta di legge sul divorzio presentata dal deputato socialista Loris Fortuna è stata per il momento accantonata. La Commissione Giustizia della Camera, che doveva decidere se mandarla o meno in aula per la discussione, ha preferito infatti rinviare il dibattito a data da destinarsi col pretesto della necessità di trattare problemi più urgenti, come quelli dei fitti e dell'amnistia. Non v'è dubbio che temi come questi abbiano un contenuto elettoralistico di ben più vasta portata e che fosse urgente condurli in porto prima del 12 giugno. Resta però da chiedersi perchè il tema del divorzio sia stato portato alla ribalta alla vigilia di una consultazione elettorale, non senza un certo «battage» pubblicitario, per poi essere insabbiato in maniera, così banale e facilmente prevedibile.
Trascurando per ora l'atteggiamento dei cattolici, costretti ormai da anni, nel quadro di una strategia difensiva, a subire le iniziative altrui ed i cui orientamenti del resto sono agevolmente desumibili non potendosi discostare gran che da quelli impressi dal Vaticano all'intero corso dell'attuale politica italiana, la soluzione dell'interrogativo va ricercata all'interno dell'area da cui l'iniziativa è partita.
Non è da oggi che il laicismo ha preso di mira i valori naturali della società civile negando ogni fondamento metafisico delle realtà sociali e concependo gli stessi istituti giuridici come fatti di costume, variabili a seconda dei tempi e dei luoghi, per giungere, attraverso questo processo di demitizzazione, ad una società perfettamente «razionalizzata» in cui l'unica dimensione valida sia quella economica ed in cui l'uomo, reso insensibile ad ogni ansia spirituale, sia interamente disponibile per un progresso indefinito teso all'accumulazione di ricchezza e di benessere.
Per i laicisti la famiglia, intesa come un frutto non puramente utilitaristico, è uno dei valori di cui urge liberarsi, se si vuole procedere sulla via del «progresso». Tuttavia, quasi due secoli di esperienze hanno insegnato ai laicisti ad avanzare per gradi, senza bruciare le possibilità di successo.
Che cosa rende possibile oggi la presentazione al parlamento di una proposta di legge sul piccolo divorzio, di cui sarebbe apparso imprudente parlare sino a ieri?
Innanzitutto l'atteggiamento della Chiesa o -il che è lo stesso- ciò che alla Chiesa si è fatto dire e che questa ha lasciato che si dicesse.
In effetti, quanto si è proclamato nei mesi del Concilio sulla libertà di coscienza, «una delle conquiste del Vaticano II e un segno -secondo i "radicali"- della maturità della Chiesa» (perchè la Chiesa, per chi non lo sapesse, è come le sorbe: matura col tempo e con la paglia), fa apparire piuttosto anacronistico il documento pubblicato dalla Commissione Episcopale Italiana, il 21 aprile scorso, In cui si esortano i cattolici alla difesa dell'istituto familiare, usando un tono che gli avversari speravano ormai dimenticato nei ripostigli delle canoniche. Presa di posizione che appare tanto più retriva se raffrontata alle opinioni di autorevoli esponenti del mondo cattolico italiano, i quali vedono nel Concordato del '29 uno strumento superato e non sarebbero contrari ad una separazione del rito civile da quello religioso, consentendo il divorzio per coloro che si sposano soltanto civilmente. Come può un cattolico -è stato detto- opporsi, dopo l'affermazione della libertà di coscienza, all'introduzione di un istituto che consentirebbe ai cittadini non cattolici di compiere legittimamente un atto ritenuto non illecito dalla loro coscienza? Faticoso giro di parole per dire che un fatto diventa lecito purchè chi lo compia lo ritenga tale. Simili atteggiamenti da parte di persone che godono la fiducia del Vaticano fanno sperare ai laicisti in un ammorbidimento della DC, la quale potrebbe limitarsi ad una opposizione formale, tanto per salvare le apparenze davanti all'elettorato e ad una parte del clero.
L'altro fatto nuovo è rappresentato dal mutato orientamento del PCI riguardo al problema. Fino ad oggi i comunisti avevano considerato il divorzio un tema secondario, tipico delle posizioni piccolo-borghesi ed estraneo ai grandi problemi di fondo della società italiana. Anzi, più di una volta si erano mostrati nettamente contrari, giudicando le campagne divorziste lussi borghesi, ai quali le donne proletarie restavano e dovevano restare del tutto indifferenti. La novità si è avuta all'ultimo congresso del partito, quando è stata annunciata una proposta organica di riforma del diritto familiare preparata da Leonilde Iotti.
I radicali hanno salutato con entusiasmo questi nuovi fermenti che segnano un cedimento della resistenza comunista ai grandi temi laicisti, come questo del divorzio o come l'altro, non meno attuale, dell'obiezione di coscienza. È con battaglie come queste -dicono i radicali- che si afferma e si consolida l'unità della grande sinistra laica, non con la ricerca di dialoghi al vertice sul terreno ideologico.
Il significato politico della campagna divorzista rivela così anche alcune interessanti linee della strategia radicale, dirette in Italia alla totale cattura del comunismo ed alla sua strumentalizzazione come ala marciante del laicismo.
Occorre però dire che l'atteggiamento comunista non è senza ambiguità. Non si può escludere infatti che l'iniziativa divorzista possa essere utilizzata dal PCI come merce di scambio nel colloquio con i cattolici. A questo farebbe pensare la proposta dell'on. Iotti quando inserisce il divorzio nel più vasto quadro della riforma del diritto familiare e quando subordina la riforma stessa alla revisione del Concordato. Come non sospettare che si tratti di una tattica dilatoria per boicottare la proposta Fortuna e per conservare materia di discussione nel dialogo con la DC? Se da un lato i radicali premono per approfittare della contingenza politica favorevole e condurre in porto purchessia la loro iniziativa, anche a costo di creare un guazzabuglio giuridico, dall'altro i comunisti resistono nel tentativo di inserire il tema in un contesto più ampio e nella speranza di risolvere i loro conflitti interni e di sfuggire -ammesso che ancora lo possano e lo vogliano fare- alla morsa del radicalismo.
Non bisogna poi dimenticare che siamo prossimi alle elezioni amministrative. Partiti di massa, come il PCI, il PSI e la DC non possono, per compiacere a un mezzo milione di coppie illegittime, correre il rischio di scontentare e di allarmare il loro elettorato, prevalentemente popolare, prendendo posizione sull'argomento e mettendo così a nudo le proprie contraddizioni e le proprie debolezze Inoltre i socialisti non possono permettersi l'alea di una eventuale crisi di governo per questioni del genere. È significativo che il progetto dell'on. Fortuna non porti alcun crisma di ufficialità da parte del suo partito. Sembra, anzi, che Nenni sia uno dei principali artefici del suo accantonamento, con la vaga promessa di inserirlo poi nella piattaforma elettorale del 1968.
I radicali sapevano tutto ciò. Ma hanno preferito giocare d'anticipo, facendo un po' di chiasso verso la pubblica opinione, così da impegnare le sinistre per l'avvenire. Anche queste ultime, da parte loro, hanno trovato nel gioco un preciso interesse elettoralistico. Avanzando la proposta e facendola subito rientrare, hanno ottenuto un duplice risultato: far balenare ai sostenitori del divorzio la speranza che il tema sarà fatto proprio dai loro partiti in un prossimo futuro ed insieme evitare l'allarme nelle masse popolari, tradizionalmente attaccate all'istituto familiare. Non per nulla esse si sono guardate bene dal dare risalto all'iniziativa a livello di base, limitandosi a diffonderla fra le èlites borghesi, più sensibili per formazione mentale e sociale alla cultura laicista.
Dando uno sguardo allo schieramento opposto, cioè ai difensori dell'unità familiare, troviamo, accanto ai democristiani, con le loro indecisioni e perplessità, il fronte delle destre: PLI, MSI e monarchici. La loro posizione, più che ispirata a profonde convinzioni di principio, appare dettata da quel perbenismo borghese di provincia che vede nell'indissolubilità del matrimonio un freno agli istinti animali dell'uomo, e a quelli sovversivi delle masse. Se gli italiani fossero evoluti -è il ragionamento corrente- come gli inglesi e gli svedesi, si potrebbe anche parlare di divorzio, ma in queste condizioni...
Si tratta del residuo di una filosofia in verità ben più salda, che vedeva nello Stato l'austero tutore della moralità pubblica e privata, il difensore delle conquiste sociali ed economiche della rivoluzione liberale e degli interessi da essa costituiti. È noto, d'altronde, che il codice civile italiano, frutto del moralismo conservatore della borghesia liberale del secolo scorso, è assai più rigido in materia matrimoniale del codice di diritto canonico. La negazione, ad esempio, della nullità del vincolo nel caso di matrimonio rato e non consumato è l'espressione tipica del più gretto formalismo giuridico.
Ma, prescindendo dai motivi ideologici, l'atteggiamento delle destre, e soprattutto del PLI, rientra nella perenne offerta alla DC di un'alternativa politica centrista, scevra di avventure e di inquietanti problemi di coscienza.
Accantonato per il momento, in attesa del 12 giugno, il progetto per il piccolo divorzio sarà ripreso dopo le ferie estive. Resta da vedere con quanta decisione esso sarà difeso.
Questa creatura del centro-sinistra appena concepita sembra non trovare un padre.
Nessun partito l'ha inclusa nel suo programma. Nessun partito se la sente di riconoscerla come propria. Avranno il coraggio i dirigenti «radicali», infiltrati al vertice dei vari partiti, di affrontare il giudizio di questo «immaturo» popolo italiano, da essi tanto blandito a parole quanto disprezzato nell'intimo della loro coscienza di illuministi; o preferiranno l'aborto?


POLITICA ESTERA

3 - Chi è Nicolae Ceausesco?

Alla morte di Gheorghiu-Dej nel marzo del 1965, da molte parti si pensò che la politica indipendentista della Romania nei riguardi di Mosca sarebbe morta con lui.
Ma la conferma di Nicolae Ceausesco alla direzione del Partito dei Lavoratori -adesso riportato alla sua vecchia denominazione prebellica di Partito Comunista Rumeno- faceva ben presto apparire queste previsioni come mancanti di qualsiasi fondamento.
Nato il 26 gennaio 1918 da una famiglia contadina in un villaggio nei pressi di Pitesti, Ceausesco cresce in una Romania totalmente sfruttata dal capitale inglese e dominata all'interno da circoli finanziari non romeni che esercitavano, specialmente verso i contadini, una politica economica basata su assetti tipicamente predatori.
Di fronte ad una realtà insopportabile e vivendo in una nazione la cui monarchia e le cui strutture erano espressione stessa del capitale straniero, Ceausesco aderì al partito comunista. Ciò non era in contraddizione, come non lo è oggi, con le sue posizioni nazionalistiche, dato che egli vedeva nel borghese un elemento sociale estraneo alla Romania, identificando così il proletario con tutto il popolo romeno. In conseguenza di questo, nel pensiero di Ceausesco la lotta del proletariato contro la borghesia veniva ad acquistare il significato della lotta di tutto il popolo romeno sia contro lo sfruttamento economico delle democrazie mercantili sia contro i miti razionalistici ed illuministici che non avevano alcuna radice nelle popolazioni della sua terra.
Tutta la sua ascesa politica è stata caratterizzata da questa posizione di fondo che trova forti analogie nelle cause delle posizioni nazionaliste del comunismo cinese.
Nel 1952 Ceausesco evita di essere coinvolto nel crollo del gruppo guidato da Anna Pauker, nota per essere stata la più fedele esecutrice degli ordini di Mosca e poco dopo (luglio 1957) quando viene allontanato dal Politburo il deviazionista Chishinevschi, diviene, in questo organismo, secondo solo a Gheorghiu-Dej.
Da allora la presenza di Ceausesco in tutte le principali iniziative politiche acquista sempre più rilevanza ed egli è uno degli artefici di quel lungo e cauto lavorio iniziatosi sin dal 1960 per avviare la Romania verso una posizione di maggiore autonomia da Mosca.
Alla morte di Gheorghiu-Dej, egli accentua ancor di più la politica indipendentista del predecessore, svolgendola con maggiore abilità. Mentre sino a poco tempo fa i dirigenti di Bucarest si erano mantenuti neutrali nel dissidio Mosca-Pechino, oggi appare sempre più chiaro che essi appoggiano la Cina e così implicitamente indeboliscono l'URSS e ne fiaccano il prestigio, condizioni indispensabili per potersi sottrarre al suo dominio.
A questo proposito è molto significativo l'ultimo viaggio di una delegazione capeggiata dal vice-primo ministro Bodnars, che è andata a portare ad Hanoi ed a Pechino la propria solidarietà.
Grazie soprattutto alla politica francese di indipendenza dagli Stati Uniti, la Romania, sotto la guida di Nicolae Ceausesco, ha potuto incrinare in modo irreparabile le strutture del Patto di Varsavia e del Comecon avviando così un processo che avrà indubbiamente una importanza storica per la libertà e l'indipendenza di tutti i popoli d'Europa.


4 - La crisi del dominio USA in Asia rilancia il Giappone

Dalla fine della guerra in poi, si sta assistendo in Giappone ad uno sviluppo economico senza precedenti, il maggiore di tutti i paesi industrializzati.
L'incremento della produzione industriale ha avuto uno sviluppo progressivo. Prendendo come base il 1946 = 100, per ogni sei anni si sono avute le seguenti rate d'incremento: per il 1952, 338; per il 1958, 676; per il 1964, 1641, con un incremento totale medio del 16,8 per cento.
Nel settore dell'acciaio gli incrementi relativi al 1963 (14,5 per cento) e al 1964 (26,3 per cento) sono di gran lunga i più notevoli sul piano mondiale ed hanno permesso al Giappone di portarsi al terzo posto nella produzione di questo importante elemento dell'economia moderna.
Il Giappone occupa inoltre, rispetto al resto del mondo, il secondo posto nell'industria chimica e il primo assoluto nell'industria cantieristica.
È chiaro quindi che il potenziale economico giapponese, che fino ad oggi si è rivolto in larga misura verso i centri occidentali, tenda sempre più a premere verso i suoi sbocchi naturali, quelli cioè del sud-est asiatico.
A questo scopo, nello scorso aprile, si è svolta a Tokio, su iniziativa del governo giapponese, una conferenza ministeriale per lo sviluppo economico della regione, con il fine di dar vita ad una sorta di Mercato Comune asiatico, alla quale hanno partecipato le delegazioni di Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Singapore, Thailandia e Vietnam meridionale.
Il Giappone, si apprende dal comunicato finale, ha avanzato delle precise offerte per aumentare gli aiuti all'estero, particolarmente nelle regioni asiatiche, fino all'1 per cento del reddito nazionale. Ha presentato inoltre progetti economici tesi allo sviluppo di tutta la zona con l'istituzione di vari Centri (per lo sviluppo economico del sud-est asiatico e per la ricerca e lo sviluppo della pesca) e con la preparazione di una conferenza sullo sviluppo dell'agricoltura, settore fondamentale nell'economia dei paesi asiatici.
Il fatto che il Giappone sia la nazione più progredita della zona ha dato alla riunione un tono politico al di la delle stesse intenzioni degli organizzatori. La conferenza, infatti, che aveva preso ispirazione dalle iniziative dell'ONU nel settore e dai lavori dell'ECAFE (la commissione economica delle NU per l'Asia e l'Estremo Oriente) e che per le discriminazioni verso taluni paesi (Birmania, Vietnam settentrionale, Cina) sembrava dover assumere un tono decisamente filo-occidentale, ha avuto uno svolgimento politico diverso.
La posizione del Giappone ne è riuscita particolarmente rafforzata poichè in esso si è visto un possibile centro politico nell'area geografica locale.
Infatti la conferenza si è svolta mentre l'Indonesia e la Malaysia sono ancora formalmente in guerra e la situazione economica della Cambogia e dell'Indonesia stessa è sull'orlo del fallimento.
La presenza inoltre di Suvanna Fuma, non schierato certo su posizioni filo-occidentali, e il fatto che la conferenza fosse per la prima volta completamente organizzata da un Paese asiatico, ne hanno attenuato di molto i toni «occidentalisti». Di ciò si è accorta la stampa occidentale che ha passato letteralmente sotto silenzio l'avvenimento.
Ma il significato politico della riunione sorge dal contesto e dal momento in cui si è svolta.
La crisi dell'attuale ordine filo-americano è ormai un fatto più che evidente. L'inefficienza dimostrata dalla SEATO e la contestazione a cui è stata sottoposta la politica americana da parte della Cina, tendono a liberare forze politiche nazionali e nazionaliste. Cioè quello che era avvenuto in Indonesia con Sukarno e che poi la CIA ha stroncato.
In Giappone il risveglio nazionalistico sta procedendo molto lentamente, ma la conferenza di aprile ne è certamente, su di un piano strettamente economico, uno dei segni.
Attualmente nel Paese opera un governo di tipo centrista che si mantiene sostanzialmente fedele agli Stati Uniti. Tuttavia la infuocata situazione nel Vietnam è lungi dal garantire stabilità alla situazione.
Inoltre appare all'orizzonte un altro interrogativo: fra quattro anni scade l'alleanza tra Tokio e Washington e nello stesso tempo, con l'aggravarsi della situazione in Asia, appare sempre più probabile che il Giappone tenga a salvaguardare la sua neutralità militare dalle avances statunitensi.
Nel frattempo il Giappone non rinuncia completamente nemmeno ad un entente cordiale con la Cina, per Io meno su di un piano economico (l'interscambio cino-giapponese è stato l'anno scorso di 470 milioni di dollari, con un aumento del 51 per cento rispetto all'anno precedente).
Certamente il radicalizzarsi della situazione darà, anche da parte giapponese, un duro colpo all'egemonia militare e politica statunitense nel mondo ed offrirà, per gli effetti sulla politica mondiale, maggiori possibilità all'Europa di contestare la politica e la supremazia americana, permettendo al continente di svolgere una politica propria.


CRONACHE DEL SISTEMA

5 - Il colpo di coda de "la Zanzara"

Mai fidarsi dei giudici! Così penseranno coloro che hanno chiesto al Consiglio Superiore della Magistratura ed al Ministro Guardasigilli l'apertura di un'inchiesta sul processo ai ragazzi del liceo Parini di Milano. Sembra infatti che l'inchiesta abbia preso una piega del tutto inaspettata.
L'ispettore dott. Siciliano, magistrato incaricato di condurre le indagini, anzichè limitarsi ad inquisire sulla condotta del dott. Carcasio, sostituto procuratore della Repubblica di Milano, principale accusato in quanto -si sostiene- responsabile di aver tentato di imporre lo «spogliarello istruttorio» ad una pudibonda fanciulla d'avanguardia, ha esteso l'inchiesta anche agli altri magistrati direttamente o indirettamente implicati nella vicenda. Egli sta infatti esaminando le posizioni del dott. Bianchi d'Espinosa, dirigente del Tribunale di Milano, il quale ha voluto presiedere personalmente il collegio investito del giudizio sui giovanetti pariniani, sostituendosi al presidente della sezione cui spetta normalmente la competenza per i reati di stampa.
Sembra che gli appunti mossi al presidente milanese riguardino anche il singolare modo in cui fu diretto il dibattimento, nel corso del quale il PM Lanzi fu più volte esposto ai frizzi e all'ironia del numeroso pubblico che sosteneva in aula gli imputati. In quell'occasione si offri alla stampa l'insolito spettacolo di un presidente che, anzichè tutelare l'ordine della seduta, contribuiva con le sue battute all'imbarazzo del Pubblico Ministero, il quale fu addirittura costretto ad abbandonare l'aula per salvaguardare, se non altro, la propria dignità personale.
Ma non basta. Il dott. Siciliano, divelandosi del tutto insensibile alle istanze di quanti avevano reclamato l'inchiesta e con essa la testa di Carcasio, dopo aver indagato sui precedenti del giovane sostituto procuratore (la raggiunta maggiore età lo pone al riparo da visite sanitarie), ha interrogato il giudice romano Gabriele Battimelli per alcune dichiarazioni da lui rese alla televisione.
In un'intervista a TV7 il dott. Battimelli, appartenente alla corrente più progressista in seno alla Magistratura, aveva infatti criticato apertamente l'operato del sostituto procuratore di Milano, lasciando chiaramente intendere che questi era andato al di la dei poteri conferitogli dalla legge e, per rendere l'accusa più fondata, aveva pensato bene di omettere la citazione delle norme della Legge 27 maggio 1935, modificata dalla Legge 23-7-1956 (della cui «democraticità» non si dovrebbe dubitare) in base alle quali l'infelice dott. Carcasio aveva operato, limitandosi a commentare quella parte degli articoli che più si acconciava alle critiche da lui mosse. Alla fine dell'intervista il dott. Battimelli aveva anche fatto sapere ai telespettatori quello che avrebbe fatto lui al posto del collega per assicurare «il loro diritto alla dignità e al rispetto della personalità», prova -come si vede- di squisita correttezza professionale.
Ora il giudice Battimelli si vede accusato di aver violato il Codice Penale, interferendo con pubbliche dichiarazioni in un processo in corso.
La posizione del dott. Battimelli non è facile. Prenderà TV7 la difesa delle sue comparse, o dovranno i promotori dell'inchiesta chiedere al ministro la nomina di un super-inquisitore?
Nel frattempo il nuovo procuratore della Repubblica di Milano, dott. Enrico De Peppo, il quale ha assunto la carica quando l'affare "la Zanzara" era già esploso, ha rinunciato all'impugnazione della sentenza che mandò assolti gli imputati. Il comunicato diramato dalla Procura milanese si è chiuso con una dichiarazione sorprendente. «Si ha motivo di ritenere -essa dice- che la notizia abbia suscitato vivo compiacimento anche negli ambienti dell'Associazione nazionale magistrati».
La frase si riferisce evidentemente agli atteggiamenti assunti in margine al processo non solo dall'ex-presidente Berutti, ma anche dalla sezione dell'Associazione di Milano. D'ora in poi le decisioni dei giudici non dovranno più servire la giustizia, ma compiacere ai loro organismi sindacali.
L'intento polemico della dichiarazione appare evidente. E così lo ha inteso l'esponente romano di Magistratura Democratica, dott. Giallombardo, il quale si è affrettato ad assicurare che è costume dell'Associazione non interferire mai nell'attività dei singoli magistrati nell'esplicazione delle loro funzioni requirenti o giudicanti. Non si può non mettere in relazione questa dichiarazione proveniente da un rappresentante della sinistra laica, con l'inchiesta a carico del giudice Battimelli.
L'impressione che se ne trae è che i laicisti si siano resi conto di aver forzato la mano e di essersi spinti oltre le possibilità dell'attuale momento politico. Accortisi che il terreno non è sufficientemente preparato e che l'avversario manifesta ancora qualche segno di vitalità e preoccupati delle ripercussioni, sia sull'orientamento generale dell'opinione pubblica sia su quello particolare della categoria (è sempre in sospeso il rinnovo degli organi direttivi dell'Associazione Magistrati) si accingono ad una manovra di ripiegamento. Sacrificati gli uomini che, affascinati dagli ideali progressisti, hanno avuto la dabbenaggine di lasciarsi troppo strumentalizzare, attenderanno che la situazione sia più matura per tornare all'assalto.
L'adozione di una tattica temporeggiatrice non ha loro impedito di tentare nel frattempo un piccolo colpo di mano per impadronirsi della presidenza dell'Associazione.
Fidando nello sciopero delle poste, hanno convocato improvvisamente per il 2 giugno il comitato direttivo (che avrebbe dovuto riunirsi alla fine del mese) così da mettere in minoranza la corrente moderata ed eleggere un presidente ad essi gradito. Se il colpo fosse riuscito i laicisti avrebbero potuto continuare ad egemonizzare l'Associazione, come già hanno fatto in passato. Solo per l'elezione del presidente, infatti, è richiesta dallo statuto associativo una maggioranza qualificata, mentre per le altre decisioni è sufficiente la maggioranza semplice, di cui ampiamente dispongono.
Il giuoco non è riuscito per il massiccio intervento dei moderati, che hanno condotto una tattica ostruzionistica, nella speranza che le prossime elezioni del comitato direttivo (indette per il 26 giugno) possano rovesciare la situazione a loro vantaggio.
Nulla, invece, riesce a turbare l'immobilismo dell'ala conservatrice della categoria. Che la posizione dei conservatori sui problemi generali dell'ordinamento giudiziario non abbia subito sostanziali modifiche è dimostrato dall'esito del recente congresso dell'UMI (Unione Magistrati Italiani) tenutosi a Terracina alla fine di maggio. Nel corso dei lavori vecchi cassazionisti e giovani delfini hanno invocato a gran voce la riconciliazione della categoria e la costituzione di un'associazione unica, ma non hanno offerto ai loro concorrenti alcuna valida contropartita. Evidentemente attendono anch'essi l'evolversi della situazione politica e intanto brigano, in seno alla commissione giustizia del Senato, per bloccare ogni modesto progetto di riforma che possa suonare minaccia alle loro posizioni.


TEMATICA POLITICA

6 - La destra occidentalista e la «spaccatura verticale» negli USA

Le soluzioni che l'amministrazione Johnson sembra aver adottato in questi ultimi tempi circa la guerra nel Vietnam paiono confermare le tesi di coloro che vedono una spaccatura verticale nella società americana.
Questi gruppi, localizzati in genere nei partiti e nei giornali della destra occidentalista europea, sostengono che negli Stati Uniti esistono due tendenze politiche distinte: una radicale, progressista, filo-comunista (collocata nella sinistra del partito democratico) la quale propone una politica di rinuncia e di pace verso il comunismo; l'altra conservatrice, di destra, fortemente anticomunista (situata negli ambienti conservatori del partito repubblicano), la quale sostiene una politica intransigente verso tutte le forme di comunismo.
A tale distinzione sul piano politico corrisponderebbe -secondo questa tesi- una autentica spaccatura sul piano sociale; da una parte andrebbero a gravitare determinate categorie e ceti sociali, quali i tecnici, le «teste d'uovo», gli esponenti delle associazioni integrazioniste, gli intellettuali radicali e i leaders «liberali»; dall'altra si porrebbero i gruppi militari, l'elemento umano degli stati del sud, il grosso del partito repubblicano fino ai residui del maccartismo e alla "John Birch Society".
La linea politica dei gruppi progressisti viene definita filo-comunista, erronea o più comunemente stupida («l'errore di Roosevelt», «l'incomprensione verso il pericolo comunista»); l'altra, conservatrice, è quella che difendendo con più energia gli interessi dell'occidente, verrebbe a porsi come la più positiva nei riguardi dell'Europa.
Questa tesi viene inoltre rivestita di un folklore, destinato a renderla accettabile, con il quale si esaltano le virtù eroiche dei marines, il carattere «texano» di Johnson, ecc.
Insomma si arriva addirittura a scoprire un'America forte, conservatrice e ancora sana nella provincia, in funzione di alternativa alla sinistra.
Viene ad essere elaborata tutta una spaccatura verticale che va da una «buona politica» fino a una «buona società» americana.
Tutto ciò è frutto di arrangiamenti e superficialismi, di falsi e di distorsioni.
In questo gioco affannoso la destra europea si comporta esattamente come la sinistra comunista, l'una volta a scoprire l'America forte dell'«impegno occidentale», l'altra quella del «dissenso», delle «avanzate esperienze culturali», della pace e della distensione, mentre vengono ignorate le costanti di fondo, irrinunciabili, della politica e della società statunitense, il capitalismo peggiore, cioè, e la supremazia americana nel mondo.

* La vera società statunitense
Il tecnicismo è penetrato da tempo in ogni settore della società americana. Le ultime ondate, che hanno ricoperto tutto, sono state «l'era degli affari» negli anni '20 e il «new deal» negli anni '30.
Oggi non esiste centro nel quale il consumatismo non abbia messo piede ed abbia dato vita alle forme e alle mode tipiche dell'«american way of life». Anzi, come a suo tempo dimostrò tutta una letteratura, nelle zone di provincia regna più incontrastato il dominio del big business, mentre certe mode (canzonettismo) hanno proprio nella provincia le loro massime espressioni.
Spesso ancora si contrappone alla disordinata società industriale del nord la maggior ordinata vita nelle zone del sud. Anche questo è frutto di una visione superficiale. Nel sud il tradizionalismo protestante ha forse, dato vita a difese che arrivano, nelle loro forme più clamorose, a produrre le note e sane misure precauzionali nei riguardi dei negri. Il tutto però è svolto ad un livello assai basso, con concezioni razziste di carattere prevalentemente utilitaristico, mentre il protestantesimo esasperato delle sette religiose e politiche locali non può assolutamente rappresentare una benchè minima alternativa al laicismo e al progressismo avanzante.
Tutto ciò che si è «conservato» nel sud è il modo di vita della borghesia protestante che mantiene in seno i caratteri calvinisti e laicisti dell'alta borghesia, quella del nord.
Le uniche zone che si salvano dall'avanzata del laicismo tecnicista sono, per ironia, quelle depresse dei Monti Appalacchiani dove il tenore di vita è più o meno quello delle zone più povere del sud italiano. Per il resto tutto è ugualmente «americanizzato».
Che abiti a New York o a Detroit, nell'Alabama, nel Texas o nella costa occidentale, l'uomo americano vive nel medesimo ambiente privo di valori e interessi superiori. Dopo essere stato educato alle scienze sociali e alla filosofia utilitaristica del Dewey, dopo aver lavorato nelle farmers o negli uffici di Manhattan, dopo aver subìto il continuo lavaggio del cervello della televisione e il condizionamento della pubblicità, sempre tenuto lindo e pinto dall'igienismo, l'uomo americano arriva alla fine dei trenta anni svirilizzato, cloroformizzato, plasmato a immagine e somiglianza dei business men e degli «hidden persuaders», pronto a cedere il passo ai figli (il fenomeno dei teenagers) e alla moglie (il matriarcato) e a continuare a vegetare tra gli elettrodomestici protraendo la sua funzione di produttore e consumatore.
Questo è l'uomo e questa è la società americana. Negli Stati Uniti non esiste e non esisterà mai una alternativa a tutto questo.

* La politica americana
La politica americana risente di queste tendenze sociali.
Come il razionalismo tecnicista sta pian piano sconfiggendo i residui sociali del liberalismo borghese, così i gruppi radicali stanno prendendo sempre più il sopravvento nella guida politica del Paese.
La storia degli ultimi cinquanta anni negli Stati Uniti d'America si svolge dalle concezioni dell'imperialismo mercantilista della "New Freedom" di Wilson alla "New Frontier" della coesistenza kennediana, attraverso l'età di Roosevelt Tutti metodi e concezioni tipicamente radicali, che dimostrano come negli USA il liberalismo abbia ormai definitivamente lasciato il posto al progressismo radicale.
La politica di questi tre presidenti democratici (ma anche quelle dei presidenti «di destra») è, inoltre, lo svolgersi di un'azione volta a porre, allargare e mantenere l'influenza e la supremazia degli USA nel mondo.
Questa supremazia è stata conquistata non certo a danno del comunismo, ma unicamente a scapito della potenza politica europea.
In questa linea politica volta contro gli Stati dell'Europa si sono distinti tutti i presidenti americani: da Roosevelt a Kennedy (sotto la cui presidenza si posero le basi per l'impegno americano nel Vietnam e si svolsero le vicende del Congo e dell'Algeria) attraverso Eisenhover (nel cui periodo gli Stati Uniti fecero i loro maggiori sforzi per scalzare le nazioni europee dai possedimenti coloniali). Questo dato di fondo della politica americana viene sostanzialmente e sistematicamente ignorato.
Proprio su questo dato non esiste in America nessuna spaccatura, nessuna divergenza: democratici e repubblicani, radicali ed estrema destra sono tutti concordi nel mantenere e possibilmente allargare l'imperialismo statunitense. E oggi, infatti, che comincia ad essere contestata la supremazia americana nel mondo, il progressismo johnsoniano, abbandonando i facili temi pacifisti che l'America aveva utilizzato per esasperare il processo di decolonizzazione a danno delle nazioni europee, ha dovuto sostenere il suo sforzo di neo-colonizzazione con temi e sistemi che hanno fatto coniare lo slogan dell'«asse Johnson-Goldwater».
Goldwater e i gruppi che appoggiarono la sua candidatura ("National Review", l'occidentalista Burnham, etc.), non hanno mai sostenuto una linea che tendesse a modificare le posizioni americane nel mondo o che rappresentasse una valida alternativa ideologica.

* La destra nazionalista negli USA
Le iniziative che la destra americana propose a suo tempo -abbandono dell'ONU, blocco della legge sui diritti civili- si rivelarono l'una come una risposta empirica alla crisi della supremazia USA in quell'organismo (nel periodo di una certa consistenza del cosiddetto terzo mondo, quando pareva cioè che gli USA venissero posti in crisi da una nuova maggioranza) non una scelta ideologica; l'altra una semplice posizione personalistica, dimostrata dal fatto che anche lo stesso Goldwater per la campagna elettorale non fece affatto leva come avrebbe potuto sulla questione razziale, arrivando addirittura all'accordo con Johnson, dimostrando l'inconsistenza delle sue tesi e della sua figura che non andavano più in la di un mero astensionismo.
L'incapacità di Goldwater di proporre una vera alternativa alla politica americana viene dimostrata, tra l'altro, dal fatto che dopo la sconfitta elettorale la destra americana non ha saputo proporre nulla, anche di fronte alla crisi del johnsonismo.
I limiti di questi gruppi sono dati dal loro carattere conservatore e pragmatista (il loro riferimento culturale è Machiavelli).
La loro base ideologica è di pura marca laicista e, nelle prese di posizione in materia economica e sociale, si dimostrano sostenitori della cosiddetta «destra degli interessi», mentre sono presenti anche in questi gruppi il superficialismo e i limiti politico-culturali propri alla maggior parte della cultura americana.
È sul piano economico, tra l'altro, che si dimostra un'altra delle ragioni dell'inesistenza di qualsiasi spaccatura nella società americana. Chi, negli USA, si batte contro la concentrazione industriale, per un controllo «politico» dei monopoli e per l'eliminazione dell'immenso potere dei big business? Su questo piano la destra offre veramente la dimostrazione del suo collocarsi tra quella degli interessi, non proponendo nulla contro gli sviluppi propri del capitalismo americano.
La sua massima espressione e il massimo successo che potrebbe ottenere sarebbe quindi l'affermazione di un forte nazionalismo e patriottismo. È chiaro però che oggi il nazionalismo in quanto tale non può bastare, nè essere accettato; un nazionalismo come spinta della politica americana poi, più forte di quanto già non si manifesti, non renderebbe nessun giovamento all'Europa, anzi, con un Goldwater al potere, per esempio, il «protettorato» USA nel continente si sarebbe certamente fatto più pesante. La soluzione nazionalista, infatti, creerebbe un più pericoloso frontismo e solidarismo con l'Europa, chiudendo completamente qualsiasi possibilità di sviluppo americano in senso isolazionista.

* La sinistra radicale negli USA
In un certo senso l'ideologia che si dimostra più dinamica negli Stati Uniti è quella radicale che tra l'altro ha conquistato alle sue posizioni anche il cattolicesimo (il quale poteva costituire forse un elemento positivo se avesse integrato le concezioni della destra) e sul piano economico ha avanzato, a suo tempo, le soluzioni tecnocratiche.
È proprio da questi ambienti che il problema della crisi dei patti diktat e delle alleanze viene affrontato come base per ricostituire la trama della distensione e nel quadro delle famigerate concezioni mondialiste.
Da ciò sono sorte le polemiche in relazione alla guerra nel Vietnam e la divisione in «falchi» e «colombe» della opposizione al presidente, che ha fatto ritenere possibile una spaccatura nella politica americana. La posizione che viene sostenuta a spada tratta dagli occidentalisti è quella dei militari.
Sulle linee della strategia militare americana contiamo presto di fare il punto. Per adesso vogliamo svolgere solo alcune brevi considerazioni.

* I gruppi di pressione militari
Innanzitutto non può esistere una soluzione meramente militare alla guerra nel Vietnam, anzi, poichè la linea di Johnson non ha saputo offrire nulla sul piano politico, è oggi la linea «militare» che domina nel Vietnam, e le crisi e le difficoltà della guerra sono proprio la dimostrazione delle insufficienze della linea militare.
La crisi di Diem fu voluta dal Pentagono che pretendeva, tramite un governo locale militare, di prendere in pugno direttamente la situazione. Sappiamo bene dove si è arrivati oggi: a Cao Ky, mentre gli stessi militari parlano di soluzioni sociali che dovrebbero essere apprestate per poter risolvere la situazione.
Coloro che auspicano un maggiore impegno di carattere bellico, o una diversa tecnica per bloccare la guerriglia non hanno ancora capito nulla.
La soluzione della guerra nel Vietnam infatti non può essere che politica ed è proprio questa soluzione che manca agli Stati Uniti, poichè non si può certamente affermare che difettino di un adeguato arsenale militare.
I gruppi oltranzisti del Pentagono propongono -come l'"US News & World Report" (portavoce quasi ufficiale dei militari) fece rilevare- l'impegno militare degli alleati (come soluzione politica, non militare), impegno che invece viene scartato da Johnson poichè esso dimostrerebbe in maniera evidente, con le poche adesioni concrete che si avrebbero, la crisi delle alleanze.
Sono con ciò messi in evidenza i limiti propri ai gruppi del Pentagono, e coloro che se ne fanno sostenitori e portavoce dovrebbero ben considerare tutto ciò.
Circa l'importanza e il peso politico dei militari negli USA vale quanto, sia pure con notevole incoerenza, ha scritto l'occidentalista "Il Tempo" il 31 maggio scorso:
«All'inizio della guerra di Corea, quando il generale Mac Arthur -il più popolare eroe americano dell'ultima guerra mondiale- fece intendere che riteneva necessario l'uso delle armi nucleari contro la Cina, nel giro di 24 ore fu esonerato dal comando, destituito e richiamato in patria. Tutto avvenne come se si fosse trattato del semplice licenziamento di un usciere, perchè gli Stati Uniti sono una democrazia dove i generali possono tentare colpi di Stato soltanto in film fantapolitici come "Il dottor Stranamore"».
L'ultimo punto sul quale fa leva la tesi della spaccatura sostiene che il grosso del partito repubblicano, i militari, i gruppi di destra, svolgono, in nome dell'immancabile «occidente», un forte anticomunismo.
Sarebbe facile dimostrare l'inconcludenza e la superficialità di queste affermazioni ricordando come i più clamorosi cedimenti verso il comunismo (Ungheria) siano avvenuti proprio sotto un'Amministrazione repubblicana e per giunta con un generale al potere (Eisenhover) e che lo spirito della coesistenza abbia preso vita nello stesso periodo (Camp David).
Sul piano militare inoltre lo stesso Pentagono appare oggi fautore di una strategia che viene chiamata della «risposta elastica» rispetto a quella che in passato veniva denominata della «rappresaglia massiccia», significando questo, in termini molto elementari, un minor impegno bellico statunitense verso la Russia, conseguenza delle modificazioni sul piano militare apportate dalla coesistenza.
Ciò vuol dire, tra l'altro, che gli USA tendono sempre verso una politica di coesistenza ed agitano, periodicamente, il fantasma dell'aggressione comunista sull'Europa dell'ovest unicamente per mantenere la loro dominazione politica in Europa e per frenare le tendenze centrifughe in atto. Più o meno quello che fanno i sovietici con l'Europa dell'Est. Ma vi è di più.

* Occidentalismo ed europeismo
Le tesi della destra americana sul comunismo sono tesi americane che potevano andare bene si e no quaranta anni. fa.
Non si può oggi, assolutamente, prescindere nelle considerazioni sul comunismo dalla rottura tra Mosca e Pechino e dalla situazione venutasi a determinare dopo Yalta nel 1945. Il ruolo e gli scopi della battaglia anticomunista dell'Europa, inoltre, sono e devono essere diversi.
Il fatto è che America ed Europa hanno di fronte due cammini diversi da percorrere. Gli USA devono difendere l'ordine e l'impero fondato a Yalta; all'Europa si pone invece il problema del superamento dei limiti politici imposti ad essa proprio a Yalta.
Per ciò che concerne gli interessi dell'Europa non esiste una spaccatura nella politica americana tale da rendere opportuno lo schierarsi dell'Europa per l'una o per l'altra parte. Il progressismo e il conservatorismo sono due linee della strategia USA per la difesa degli interessi americani e per il predominio sull'Europa.
È contro questo predominio, è da una politica di sganciamento dal protettorato USA che si può aprire per l'Europa la strada verso un'alternativa.
Non ne esistono e non ne possono esistere altre.


LE VOCI DEL SISTEMA


* La fortuna dei galantuomini è antifascista
«Nelle carceri vige ancora il regolamento fascista, come del resto fuori vige ancora il Codice fascista del '30. Se venisse applicato alla lettera quel regolamento, per me e per gli altri sarebbe stata molto dura, ma così non è, per fortuna. Sono stato trattato bene».
Dichiarazione di Felice Ippolito rilasciata a "II Giorno" il 22-5-66.

* Un vero crociano
«Sono un crociano e credo con Croce che, oltre agli interessi economici siano determinanti anche quelli etici e sociali ...».
Dichiarazione di Felice Ippolito rilasciata a "Il Giorno" il 25-5-66.

* Le tesi dell'«occidentalista» di centro
«... ma non si può plaudire all'avvicinamento della Romania alla Cina. La Cina oggi è la più grave minaccia alla pace mondiale e collaborare con Pechino nelle sue manovre contro Mosca significa lavorare contro la pace... la coesistenza pacifica o la attuano i Russi e gli Americani o la attueranno gli altri. Con questa differenza: che, se la attuano gli Americani e i Russi, il mondo potrà avere una «pace russo-americana»; se la attuano gli altri, si avrà solo il successo delle piccole politiche nazionalistiche di ricatto alla De Gaulle».
Ricciardetto su "Epoca" del 5-6-66