Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO 1 - N. 6
Roma, 10 settembre 1966

SOMMARIO

IL MOMENTO POLITICO
1 - Introduzione alla Cina
2 - Vietnam: la macchina americana nella palude
3 - Chi è Mac Namara?

SAGGISTICA
4 - Spagna: dalla Falange all'Opus Dei - 30 anni dopo

 

AVVISO AL LETTORE

Dopo la sosta estiva, imposta soprattutto dalla difficoltà di far recapitare la pubblicazione nelle sedi di villeggiatura, l'Agenzia riprende le pubblicazioni. In questi primi mesi di contatto con i lettori abbiamo iniziato a chiarire una tematica politica che tocca quasi tutti i settori di possibile impegno. La risposta dei lettori è già stata lusinghiera, ma per sollecitare il parere di tutti verrà inviato, nelle prossime settimane, un questionario politico che si invita a compilare e a rispedire.
Nel presente numero, in luogo del consueto notiziario di politica interna ed estera, abbiamo puntato i riflettori su quattro temi che sono stati ritenuti per vari motivi degni di una lunga trattazione.
Nei numeri seguenti verrà ripresa la consueta struttura e inoltre, in coincidenza della campagna abbonamenti e grazie ad un più efficiente apparato organizzativo, l'Agenzia verrà fatta uscire ogni 15 giorni senza soluzione di continuità

 

IL MOMENTO POLITICO



1 - INTRODUZIONE ALLA CINA

Gli avvenimenti cinesi ci giungono attraverso il setaccio critico dei mezzi d'informazione occidentalisti e filo-sovietici.
Entrambi, sia "Il Tempo", per esempio, sia "L'Unità", utilizzano quei fatti a sostegno delle loro vecchie tesi: i giornali democratici cioè per dimostrare che ad un tipo così violento di estremismo come quello cinese è giusto che si opponga l'intransigenza johnsoniana ed occidentale, quelli comunisti per sostenere la tesi sovietica secondo cui l'atteggiamento cinese compromette l'unità del campo socialista, il cui massimo obiettivo rimane quello di salvaguardare le possibilità di ripresa della coesistenza pacifica.
Nelle due tesi è implicita insieme la condanna della politica cinese e l'esaltazione della politica distensionista. Le stesse tesi sono recepite in Europa da una opinione pubblica alienata, a destra come a sinistra, dai suoi valori naturali: europei, cioè, che non credono nell'Europa, borghesi con ansie proletarie, comunisti costituzionalizzati, cattolici ecumenici.
È il tempo delle mezze luci, delle semi verità, degli abbracci equivoci, dell'«american way of life».
La politica cinese è un colpo frontale contro questo mondo e in tal senso essa deve intendersi derivata da una «concezione della vita» e da una dottrina politica, poiché è soltanto in forza di una tale concezione che essa può opporsi all'americanismo e alle posizioni ideologiche ad esso vicine, come il kruscevismo.
Sotto questo profilo la politica cinese supera il piano dei rapporti interstatali per raggiungere quello delle scelte di civiltà. In altri termini essa è prima contro l'americanismo, poi contro gli USA.

La dottrina di Mao e il marxismo
La concezione della vita dei cinesi non è comunista, come invece sostengono per ragioni polemiche gli occidentalisti e per necessità di principio i comunisti europei. Essa poggia su 3 principi fondamentali, che sono la negazione precisa di quelli marxisti:
1) il volontarismo, per cui la storia non è determinata dall'economia bensì è creata dall'uomo;
2) il concetto di guerra, intesa come un valore assoluto anziché come un termine dialettico, per cui l'uomo impone la sua concezione attraverso la lotta mentre la verità si afferma con la vittoria;
3) il nazionalismo, vera base della dottrina maoista, inconciliabile con ogni principio internazionalista.
Da queste premesse consegue in linea politica, rispettivamente:
a) il rifiuto delle deviazioni economicistiche, tecnocratiche o intellettualistiche;
b) l'impostazione rivoluzionaria della lotta politica;
c) la costruzione di un potente Stato cinese (accentramento politico, industrializzazione, potenziamento degli armamenti).
I rapporti fra il maoismo e il marxismo sono stati posti da esigenze tattiche e hanno sempre mantenuto questo carattere. Essi consistono esattamente nella strumentalizzazione del marxismo ai fini di una politica nazionalista e forse razzista. Senza riandare alle pagine che Mao ha dedicato a tale argomento, è sufficiente ricordare i tre punti in cui tale strumentalizzazione si è concretizzata:
1) il marxismo ha fornito al nazionalismo cinese una base dottrinaria altamente qualificata per la critica del colonialismo;
2) esso ha consentito alla Cina di inserirsi da Stato-guida nel sistema di alleanze e nel quadro strategico delle rivoluzioni nazionali;
3) su un piano sociologico, considerata l'inesistenza del proletariato in Cina, il marxismo è stato utilizzato per favorire l'approccio maoista alle masse popolari e contadine, dopo la vittoria sui corrotti aristocratici «signori della guerra» e dopo la rottura con i gruppi borghesi del Kuomitang.
Non possono neppure definirsi contaminazioni comuniste certe tendenze apparentemente sospette: ad esempio il collettivismo delle Comuni e la parificazione della donna all'uomo nella maggior parte dei campi. Il collettivismo richiama infatti l'organizzazione economica del mandarinato in Cina certamente non individualista, allo stesso modo che il Kolkoz staliniano si rifaceva più che ai princìpi marxisti, a quelli dell'«artel» zarista.
La parificazione della donna è, poi, comune anche a sistemi politici non marxisti.

La politica estera cinese e l'Europa
La Cina rappresenta oggi un elemento interessante e prezioso nei rapporti internazionali ed è soprattutto in questo settore che essa va considerata positivamente ai fini di una, politica europeista. La fine della distensione, cioè dell'accordo diretto USA-URSS alle spalle dell'Europa e della Cina, la crisi dell'assetto mondiale stabilito a Yalta, la contestazione dell'area del dollaro nel Pacifico, la spinta alle tendenze revansciste giapponesi, la reiezione degli USA su posizioni isolazioniste: ecco, grosso modo, il quadro degli effetti che sono derivati e che possono derivare dall'azione cinese e che, uniti a quelli complementari della politica gollista (crisi della NATO e del Patto di Varsavia), aprono le porte ad una reale e autonoma ripresa europea.
È ben chiaro tuttavia, per quanto concerne la politica interna cinese, che i pregevoli metodi rivoluzionari adottati dai maoisti anche in tale settore, non possono essere utilizzati in Europa, stante la completa differenza del quadro storico, culturale e sociale europeo.
Abbiamo motivo di temere peraltro che nessun movimento nazionaleuropeo riesca ad inserirsi, neppure in politica internazionale, nei cunei aperti dall'azione di Pechino. Eppure, specialmente con gli ultimi avvenimenti, le possibilità di prendere iniziative sono notevolmente aumentate.
La paura di confondersi con i comunisti (che invece sono su posizioni antirivoluzionarie e pacifiste), il peso di 20 anni di educazione occidentalista, la mancanza di idee chiare sul comunismo e sull'americanismo, sono però altrettante palle di piombo ai piedi di chi avverte l'opportunità d sfruttare un «momento» rivoluzionario come quello procacciato dai cinesi.
I fatti di questi ultimi giorni in Cina devono essere spartiti nei due settori della politica interna e di quella estera, che, seppure aventi influenze reciproche, devono essere tenuti tuttavia ben distinti, in quanto un eventuale accavallamento degli stessi comprometterebbe le possibilità di una corretta analisi

Modificazioni nella politica interna
Su quanto va accadendo all'interno della Cina nel quadro della «grande rivoluzione culturale» sono state formulate alcune ipotesi, che non ci sentiamo di accogliere. È stato scritto che quei fatti sono la conseguenza della lotta per il potere, oppure il riflesso della piega che ha preso la guerra nel Vietnam o ancora il tentativo di ricreare nel popolo la tensione rivoluzionaria che si starebbe allentando. È evidente che tali ipotesi sono basate su di attualità e quindi vistosi, ma non per questo veri.
Per comprendere la storia della Cina Popolare dal '49 ad oggi e quindi per cogliere il senso degli ultimi avvenimenti, occorre rifarsi all'analoga storia dell'Unione Sovietica dal '17 al '29.
L'analogia è veramente sconcertante, anche per chi ha presente lo spirito nazionalistico comune a Stalin e a Mao-Tse-Tung.
Nell'URSS si susseguirono: il cosiddetto comunismo di guerra fino al '21, la Nuova Politica Economica (NEP) comportante l'abolizione del lavoro forzato, il ritorno al commercio privato nelle campagne, nelle piccole industrie e nell'edilizia e il ritorno alla moneta normale e al sistema della tassazione, fino al '28, lo sterminio dei kulaki, la creazione dei kolkoz e dei sovcoz e l'accentramento dei poteri nelle mani di Stalin trionfatore degli oppositori, dal '28 in poi.
In Cina, saltata la fase del comunismo di guerra (sostituita da un periodo di assestamento e di prima organizzazione) si ebbe chiara e limpida la NEP. Nel febbraio 1957, Mao enunciò il principio della NEP cinese: l'edificazione del socialismo (meglio dello statalismo) doveva procedere entro il quadro di un'economia mista, in cui il settore statalista doveva espandersi pacificamente per via di successive trasformazioni, assorbendo gradualmente il settore privato, senza distruggerlo o sopprimerlo con violenza. Venne ripreso in considerazione il proprietario privato al quale fu consentito di ricevere un interesse sul capitale, di partecipare ai profitti e di percepire il salario come impiegato dello Stato.
Era evidente l'intento maoista di avvantaggiare lo Stato dell'esperienza e della capacità del ceto borghese. Con lo stesso discorso venne ammesso il diritto di sciopero e venne riconosciuta la legittimità dell'esistenza di vari partiti non comunisti.
Oggi, a distanza di 10 anni, la NEP cinese sta terminando.
Le necessità di politica estera in dipendenza del ruolo sempre maggiore assunto dalla Cina nel contesto internazionale hanno portato ai passi decisivi verso l'accentramento statalista. È da notare il fatto che tuttavia il processo in tal senso è iniziato nel campo culturale e politico anziché in quello economico, dove l'unica iniziativa considerevole è stata quella delle «guardie rosse» contro i locatori di appartamenti.
Per il resto, con una procedura non certo marxista, si sono colpite innanzitutto le «sovrastrutture»: gli intellettuali con tendenze pacifiste, i burocrati con tentazioni tecnocratiche, i militari intenzionati ad anteporsi ai politici. Tre classiche deviazioni antirivoluzionarie sono state colpite, insieme ovviamente ai centri in cui esse prosperavano: le Università e le associazioni tollerate, il partito, l'esercito.
Vedremo in seguito se sarà reimpostato anche il settore economico.

L'attuale momento politico Cina-USA
Intanto va notato che questi avvenimenti sono capitati in un momento di acuta tensione politica fra la Cina e gli USA, al punto che alcuni frettolosi critici hanno pensato ad un imminente scontro fra i due Paesi.
Evidentemente non si vuol tener conto del fatto che da vari anni ormai la politica cinese cammina sul filo di rasoio del rischio calcolato. Non ci sembra possibile che, dopo tanti anni di esperienza, oggi, d'improvviso -ferma restando la enorme supremazia bellica, atomica e convenzionale, degli USA- la Cina intenda mettere a repentaglio la sua sicurezza.
I suddetti critici ricordano che Mao definì gli USA «una tigre di carta» ma dimenticano che nello stesso passo egli aggiunse «in senso militare, attuale, essi sono tigri vive, tigri di ferro, vere e proprie tigri» ("Opere Scelte" Pechino, 1961, pag. 99).
Si obietta, a tale proposito, che l'atteggiamento cinese, già intollerabile con modeste risorse atomiche, spinge gli USA ad intervenire prima che diventi incontrollabile con un sufficiente deterrente alle spalle. Ma se i cinesi mantengono il loro duro atteggiamento rivoluzionario è evidente che si ritengono fin da ora coperti, e non con le atomiche, da un attacco americano. La loro copertura è l'URSS. In linea di massima è palese l'interesse sovietico ad evitare una guerra Cina-USA il cui esito, ammesso che possa rimanere neutrale, le sarebbe comunque fatale, in quanto la vincitrice uscirebbe dal conflitto non logorata (come ritengono i superficiali) ma padrona del mondo.
L'ascesa degli USA nella II guerra mondiale la dice lunga al riguardo.

L'incastro delI'URSS
Tuttavia anche al di fuori di questo orientamento sovietico in linea generale, la politica cinese ha condotto ad un meraviglioso incastro l'URSS spingendola a rompere il processo distensivo che, secondo i cinesi, poteva svilupparsi in una stabile alleanza fra sovietici ed americani ed in una possibile aggressione comune ai danni della Cina. Utilizzando le lotte interne al Cremlino, che oppongono i tecnocrati, i burocrati e gli intellettuali filo-USA (Brezhnev, Kossighin, Suslov) ai militari ed ai nazionalisti (Malinovsky, Scelepin, Yepiscev); sfruttando persino le tendenze centrifughe dei Paesi dell'Est europeo per conseguire il troncamento della liberalizzazione sovietica; estremizzando la situazione vietnamita fino al punto di farne l'insanabile punto di attrito fra USA e URSS (vedi il recente rifiuto sovietico delle avances di Johnson per una ripresa dei rapporti fra i due Paesi al di fuori del Vietnam); distruggendo il fronte dei paesi non allineati, vera foglia di fico della distensione, la Cina ha condotto in porto il suo capolavoro al punto che non è esagerato dire che la politica interna ed estera sovietica si fa oggi a Pechino. Gli incidenti con la rappresentanza diplomatica sovietica, le ossessionanti accuse di revisionismo e la denuncia di accordi esistenti o inventati con gli USA sono l'aiuto che i cinesi offrono ai gruppi militari sovietici, per consentire ad essi di prendere il potere nell'URSS. Finora (vedi la riconferma di Kossighin dopo l'ultima crisi sovietica) si sono visti i limiti dei militari, forse dopo i fatti di Pechino si vedranno le loro capacità.



2 - VIETNAM: LA MACCHINA AMERICANA NELLA PALUDE

Due anni or sono gli Stati Uniti iniziarono i bombardamenti sul Vietnam del Nord e motivarono questa nuova fase dell'«escalation» con il proposito di voler distruggere solo la famosa «pista di Ho Ci-Min», attraverso la quale giungevano gli aiuti ai guerriglieri vietcong.
Al momento attuale si può fare un bilancio della situazione statunitense nel Vietnam esaminando gli avvenimenti tanto sotto il profilo militare quanto sotto quello politico.
Gli effettivi americani oggi ammontano a poco più di 300.000 uomini e secondò fonti molto attendibili dovrebbero raddoppiare nei prossimi 18 mesi sino a raggiungere le 600.000 unità, quante cioè erano state previste dall'ex vice presidente Nixon nel suo ultimo viaggio a Saigon.
Calcolando anche l'esercito sud-vietnamita, gli uomini sotto le armi sono più di un milione su un territorio paragonabile a quello dell'Olanda e del Belgio.
È interessante notare che il contingente francese nel 1953, che operava su un territorio quattro volte più vasto (comprendeva anche il Tonchino, il Laos e la Cambogia), non ha mai oltrepassato gli 80.000 uomini appoggiati da 360.000 autoctoni. In più gli americani dispongono dell'aiuto aereo-navale della VII Flotta e delle basi del Pacifico.
Nonostante questo immenso spiegamento di forze, si può largamente dubitare dell'annientamento dei vietcong a causa, più che altro, del carattere particolare di questa guerra.
Il nemico è dappertutto e in nessuna parte, imprendibile, onnipresente, invisibile. Di fronte a una situazione non abituale alle tradizioni dell'esercito americano, più consone ai bombardamenti al fosforo di Amburgo, Brema e Dresda, il Pentagono ha deciso di intensificare le distruzioni nel Nord Vietnam, ispirandosi al superato concetto che una guerra viene vinta per quanto più potenziale bellico nemico si riesce a distruggere.
Lo stato maggiore statunitense sa fin troppo bene che sta combattendo contro un nemico che, seguendo le note teorie di Mao Tse-tung sulla «guerra rivoluzionaria», non punta sulla conquista del territorio ma sulla conquista della popolazione, che non affida le sorti della guerra al fattore «macchina» ma al fattore «uomo». Proprio nel mese di gennaio, Hsiao Hoa, direttore del dipartimento politico generale dell'esercito cinese, in un suo rapporto affermò testualmente: «Il risultato della guerra viene deciso dall'uomo e dalla politica... la vittoria è impossibile senza la politica, senza il fattore "uomo". La vittoria è impossibile se si segue la teoria secondo cui sono le armi a decidere».
Di fronte a un nemico che pone l'uomo e non la macchina come fattore decisivo e che non considera il militare un semplice tecnico «schiaccia-bottoni», gli Stati Uniti, costretti sotto un certo aspetto dalla spirale degli avvenimenti di cui loro stessi sono causa, tendono ad allargare sempre più il conflitto nella speranza di una uscita che si fa sempre più improbabile.
Ne sono controprova le dichiarazioni del generale Nguyen Van Thieu del 3 settembre secondo cui gli americani debbono invadere il Vietnam del Nord «per porre fine alla guerra», lasciando capire che a tale proposito sono già stati elaborati dei piani dall'alto comando statunitense.
Tutto questo accade anche se si è sempre più convinti da ogni parte che, come ha detto De Gaulle in Cambogia, «nessuna soluzione militare è possibile» a meno che non si pensi alla soluzione di dover mantenere per altri 5 anni un contingente americano di 750.000 uomini nel Vietnam del Sud prima di sconfiggere i vietcong e poi lasciare a tempo indefinito un contingente di 250.000 uomini per far rispettare l'autorità del governo di Saigon, come risulta da un rapporto segreto rivelato dal comandante dei marines, generale Wallace M. Greene in un incontro privato con un gruppo di giornalisti.
D'altra parte gli americani rispondono con le armi che posseggono essendo impensabile che possano condurre una guerra ideologica basata sul chewing-gum, il latte concentrato e la civiltà del dollaro affiancata dai miti democratici della «prosperity» e dell'«affluent society».

L'aspetto politico
Questo per quanto riguarda il profilo militare. Gli aspetti di quello politico sono ancor più negativi.
La «politica delle alleanze» johnsoniana si è rivelata un fallimento: la Francia è uscita dalla NATO e ha dato lo sfratto alle basi militari che si trovavano sul suo territorio.
Come se ciò non bastasse, De Gaulle a Pnom Penh si è rivolto agli Stati Uniti dicendo: «La vostra guerra è senza speranza e senza giustificazione». Ha usato cioè le medesime motivazioni degli americani che avevano maggiormente insistito presso di lui perché fosse riconosciuto all'Algeria il diritto all'autodeterminazione.
Senza dubbio è stata questa l'ultima palata di terra che ha affossato per sempre la cosiddetta «solidarietà occidentale».
La Casa Bianca lo temeva, ma a niente sono valse le «spontanee» manifestazioni di Gibuti e il pericolo di attentati in Cambogia contro De Gaulle che hanno lasciato facilmente intravedere l'azione affannosa e incontrollata della CIA, il servizio segreto spionistico americano.
L'alleanza con l'Inghilterra, in preda ad una endemica crisi economica e influenzata dalle sempre presenti spinte pacifistiche, si è rivelata per lo meno insicura come è insicura l'alleanza con il Giappone dove Hiroshima e Nagasaki non sono solo dei ricordi o delle ferite sentimentali e dove l'organizzazione nazionalista "Soka Gakkai", che gode della protezione del Principe Ereditario, ha raggiunto i tredici milioni di militanti influenzando sempre più profondamente le scelte politiche estere giapponesi.
Gli incerti rapporti amichevoli con l'India sono diventati ogni giorno più equivoci dopo il viaggio e le dichiarazioni che Indira Gandhi ha fatto a Mosca il 16 luglio.
Anche l'Indonesia, benché ormai in mano ai militari filo-americani, non presenta una situazione chiara dato che Sukarno sembra ben lontano dall'aver abbandonato la partita, come dimostra il suo discorso del 16 agosto a cui si è visto necessario rispondere con le solite manifestazioni «spontanee» degli studenti del KAMI e del KAPPI ormai scopertamente orchestrate dalla CIA.
Manca qui lo spazio per approfondire gli errori grossolani della politica johnsoniana che hanno portato ad un inasprimento delle posizioni cinesi con l'ascesa di Lin Piao e con la sempre crescente influenza dei militari (Scelepin) in Russia.
Il bilancio, sia militare che politico, è quindi negativo e appare sempre più evidente che gli Stati Uniti sono entrati in un vicolo cieco di cui non si riesce a capire se vedano le esatte dimensioni e se siano pronti a sopportarne tutte le conseguenze.



3 - CHI È MAC NAMARA?

La linea della «soluzione militare» della guerra nel Vietnam, che sembra essere stata definitivamente intrapresa da Johnson, ha suscitato negli ambienti occidentalisti europei un rilancio di solidarietà, mentre hanno ripreso fiato i sostenitori della «spaccatura verticale», la cui esaltazione dell'ambiente militare americano è giunta recentemente a presentare i soldati USA nel Vietnam come i «difensori dell'Impero» e «dell'onore, del prestigio e della dignità degli Stati Uniti» e quindi... dell'occidente.
E poiché recentemente in Italia molta gente si è data un gran daffare intorno ad alcune iniziative di carattere militare, rientrate poi con un giro di centottanta gradi da parte di un generale che da paladino dell'estrema destra pare abbia fornito le notizie scandalistiche che i giornali di sinistra ("L'Astrolabio", "Paese Sera", "Vie Nuove") hanno pubblicato a suo tempo, mostrando ancora una volta l'inesistenza di prospettive politiche di certi ambienti, ci sembra importante mostrare la natura tecnocratica di chi detiene il potere su tutta la struttura militare americana, essendo il gruppo militare americano uno dei miti dei gruppi occidentalisti.

Un uomo molto potente
Il tecnocrate McNamara è certamente una delle figure più potenti del «mondo occidentale». Oltre ai poteri sull'ambiente militare, inerenti alla sua carica, egli amministra una somma pari a 60 mila milioni di dollari, con tutte le conseguenze che una somma del genere può avere sull'economia generale della nazione americana e in particolare sul trasporto supersonico, le riserve di petrolio, i prezzi dell'alluminio e le decine di altri settori interessati agli «enormi contratti» con l'industria, la cui negoziazione passa direttamente per le mani del ministro della difesa.
La sua potenza è in continua ascesa. Il passaggio dall'amministrazione Kennedy a Johnson non lo ha minimamente turbato, anzi, recentemente il Presidente ha detto di lui: «È il miglior ministro della difesa che la nazione abbia mai avuto». Molti ritengono che con le prossime elezioni McNamara ambirebbe alla carica di Segretario di Stato o addirittura a quella di Presidente. Una cosa comunque è certa: le "fortune" del cosiddetto mondo occidentale stanno, per buona parte, nelle mani di Robert McNamara.

Qualche cenno biografico
È nato a San Francisco nel 1916 da Robert James, direttore delle vendite di un magazzino all'ingrosso della città.
All'Università di California studiò filosofia ed economia, seguì quindi ad Harward un corso di tecnica amministrativa.
Dopo aver lavorato un anno presso una ditta di San Francisco, ritornò ad Harward nel 1940 per insegnare tre anni alla scuola di tecnica aziendale.
Il periodo trascorso ad Harward a contatto con l'ambiente radicale dell'università fu molto importante per la sua formazione. Si distinse per la particolare competenza tecnica.
Ad Harward conosce Charles Bates Thornton che guida le ricerche di un gruppo di giovani ufficiali dell'aviazione sul perfezionamento dei piani di rifornimento e produzione per i fronti di guerra. Quest'incontro è destinato a introdurre McNamara nell'ambiente militare e a fargli operare il passaggio dalla tecnica amministrativa alle forze armate.
Partecipa come insegnante ad un corso per l'elaborazione di un sistema di «controllo statistico» da introdurre nell'aviazione.
Come consulente civile, poiché viene classificato inabile ai servizio per la vista, è mandato durante la guerra in Inghilterra per installare il sistema studiato ad Harward. Al ritorno lavora con Thornton al Pentagono.
Il gruppo Thornton ci offre uno dei tipici esempi dell'elite tecnocratica. Questo gruppo di esperti della tecnica statistica, postosi al servizio delle forze armate, terminata la guerra offrirà i suoi servigi all'industria. Per il tecnico è infatti del tutto simile operare nell'ambiente militare o industriale, elaborare un piano di ammortamento finanziario o i sistemi di reclutamento, dirigere una società per azioni o il ministero della difesa.
Con McNamara, come vedremo, questa concezione eminentemente tecnocratica della guida militare del Paese diverrà definitivamente dominante.
Alla fine della guerra i dieci ufficiali del gruppo Thornton inviarono un prospetto ai venti più importanti industriali del Paese per proporre l'inserimento nei campo produttivo dei metodi statistici esperimentati nelle forze armate. Thornton si impiegò nell'industria Litton, McNamara con 12 mila dollari alla Ford. Alla Ford i suoi metodi riscuotono un notevole successo ed in breve compie una brillante carriera: in nove anni è vicepresidente e poi direttore generale, quindi nel 1960 è presidente.
È a questo punto che inizia la carriera politica di McNamara. La sua attività negli affari si confonde con l'attività politica.
Frequenta assiduamente gli ambienti radicali del partito democratico e le loro organizzazioni minori, diviene membro della "League of Women Voters".
Insieme a George Romney, allora presidente della American Motors, studia la politica fiscale ed elabora un progetto per facilitare l'entrata di questi sulla scena politica.
Poi, insieme ad Hatcher, presidente dell'università del Michigan, Paul McCracken, professore di economia e Neil Staebler, un affarista che sarà poi deputato del Michigan per il partito democratico, partecipa ad alcuni convegni politici.
La sua adattabilità «tecnocratica» gli permette di passare da Harward agli uffici militari, da Ford all'attività politica con lo stesso spirito, gli stessi compiti.
Alla Ford ha accumulato un notevole patrimonio. È arrivato a guadagnare più di 300 milioni di lire, con valori mobiliari di 5 milioni di dollari ed un incontrollabile patrimonio immobiliare. Ancora oggi percepisce dividendi e provvigioni.
Il 1° gennaio 1961 abbandona la Ford e raggiunge l'amministrazione Kennedy quale ministro della difesa. Qualcuno gli contesta un «passato repubblicano». Egli risponde che è «un repubblicano che ha votato spesso per il partito democratico, quanto basta per garantire la qualifica di indipendente». È la solita «copertura» dei tecnocrati. In effetti nel 1958 era stato un attivo sostenitore del candidato democratico per il Senato Philip A. Hart, iscritto all'ADA e uno dei tre «liberali al cento per cento» del Senato, mentre nel 1940 ad Harward aveva votato per Roosevelt; ma la sua «base» tecnocratica gli permetterà di servire il radicale Kennedy e il «socialdemocratico» Johnson.

Il potere tecnocratico sostituisce il potere militare al Pentagono
All'inizio dell'anno "Il Borghese" pubblicava una serie di articoli tendente a dimostrare la preminenza del potere militare nel mondo (sullo stesso piano venivano posti De Gaulle, Nasser, i militari argentini e quelli USA...).
L'inchiesta poneva il gruppo militare americano come il più potente del mondo. Se l'affermazione risulta sensata ad un livello di «deterrent», certamente su di un piano politico può essere considerata solo una «boutade». Lo stesso articolista per sostenere la sua tesi ricorreva al... dottor Stranamore.
Il potere politico dei generali americani attualmente è zero, e nulla può far pensare ad un futuro cambiamento delle posizioni di potere tra gruppi militari e potere civile.
Dal 1947 ad oggi, da quando cioè è stato creato il ministero della difesa, questo è un feudo indiscusso dei gruppi economici del Paese e infatti hanno ricoperto l'incarico sempre managers di ditte commerciali o bancarie (tranne dal '49 al '50 L. Johnson, un avvocato di Washington e dal '50 al '51 G. Marshall, l'unico ufficiale di carriera a divenire ministro).
Eccone lo sconcertante elenco:
1947-49 James V. Forrestal dirigente della Read & Company
1951-53 Robert A. Lovett dirigente della ditta F.lli Brown, Harriman & Company
19*53-57 Charles E. Wilson ex presidente della General Motors
1957-59 Neil H. McElroy presidente della Procter & Gamble Company
1959-61 Thomas S. Gater, Jr. ex banchiere di Filadelfia, ora presidente del Trust Morgan-Guaranty di New York.
Questa è la realtà del potere dei militari in America.
Il caso del generale Eisenhover, presidente degli Stati Uniti, non può essere citato certamente, come prova del potere dei militari, ma semmai come controprova della incapacità da parte dei militari di imporre una politica di sostanziale differenziazione dagli altri gruppi politici.
Del resto è opinione diffusa che il controllo sul gruppo militare sia negli USA particolarmente pesante da parte degli organi legislativi ed esecutivi. Scrive sull'argomento, pur tra diverse contraddizioni, Meynaud in un saggio sulla tecnocrazia:
«Poche costituzioni scritte hanno preso tanta precauzione per garantire il controllo della politica militare quanto quella degli Stati Uniti. Ecco la parte essenziale di queste disposizioni, formalmente sempre in vigore. Il Congresso che ha la facoltà di decisione per quanto riguarda il bilancio militare e quella di interrogare direttamente i capi di Stato Maggiore responsabili, ha assoluto potere di legiferare in questo campo: esso determina proporzioni e natura delle forze armate, autorizza il reclutamento obbligatorio delle persone e la requisizione dei beni per le necessità della difesa, stabilisce le regole che presiedono alla condotta delle operazioni militari, ecc.. Se il presidente è abilitato a nominare gli ufficiali di grado gerarchico più elevato, lo può fare soltanto dopo aver sentito il parere o ottenuto il consenso del Senato. Il presidente peraltro dispone di ampie prerogative: in particolare di quelle di comandante in capo. Un elemento simbolico esprime perfettamente questa subordinazione alle autorità civili: l'obbligo da parte di tutti i membri di prestare loro giuramento di fedeltà. Un sistema così fatto intende concedere poco spazio alla tecnocrazia militare» (Meynaud, "La tecnocrazia", Bari 1966).
Quindi non solo subordinazione al potere civile e quindi tecnocratico civile, ma anche contenimento della tecnocrazia di origine militare. Ci sarebbe da aggiungere a questo proposito, come considerazione di fondo, l'aspetto paratecnocratico assunto ormai dai militari nel mondo moderno e il carattere eminentemente conservatore della loro politica, ma queste considerazioni ci porterebbero fuori dal presente argomento.
Oggi negli Stati Uniti, se una tendenza è in atto, è quella della riduzione del potere dei militari. McNamara è l'uomo che ha accelerato questa tendenza soffocando e diminuendo le posizioni dei militari.
Il gruppo militare non ha saputo controbattere nulla. Incapace di esprimere una linea politica si è sottomesso di malavoglia al potere tecnocratico. Negli ultimi quattro anni le dimissioni dalle forze armate si sono quadruplicate. Al Congresso è stato recentemente affermato: «Il peso dell'influenza e del giudizio dei militari è diminuito enormemente sotto McNamara».
L'influenza della tecnocrazia direttoriale sili militari si esercita attraverso vari canali i cui principali sono la specializzazione e l'impegno finanziario per le attrezzature elettroniche.
In questi anni il Ministro della difesa ha rilevato la direzione del programma di difesa dalle mani dei servizi armati e li ha concentrati in una vasta burocrazia civile che opera sotto il suo diretto controllo. Sono sorte nuove agenzie del ministero della difesa: "Systems Analysis", "Contract Administration", "Contract Audit", "Defence Attaché System", ecc., nelle quali risulta enorme il potere di chi elabora i programmi delle macchine elettroniche.
McNamara è oggi il «direttore di un'enorme organizzazione», egli tiene in mano non solo l'organizzazione logistico-amministrativa del ministero della difesa, ma la strategia e la tattica delle forze armate.
Il 16 settembre 1965 McNamara annunciava un programma per la sostituzione di 75 mila militari con 60 mila civili in posti di non combattimento. Come si vede procede anche da un mero punto di vista numerico lo svuotamento di potere dei militari.

Il mito dell'efficienza
La base su cui si fonda il potere tecnocratico è il mito dell'efficienza. Le dottrine tecnocratiche hanno sempre cercato di dimostrare l'indipendenza dei managers e dei tecnici dal potere del business man, del capitalista. I fatti hanno sempre ridimensionato queste affermazioni ideologiche, il potere del capitale non essendo mai venuto meno o diminuito, mentre è continua l'interrotta la corsa verso la concentrazione della ricchezza e l'aumento del potere dei trusts e delle grandi concentrazioni di capitale. Il fatto è che quando anche la tecnocrazia, raramente, ha sbandierato lealmente un programma di riforme, la sua posizione per definizione apolitica l'ha portata sempre a ricadere nelle mani del capitalismo e delle soluzioni capitalistiche.
In questo modo anche il mito dell'efficienza deve essere conseguentemente ridimensionato. Il tecnico, anche se ha dalla sua parte la forza della competenza, deve inserirsi in una società organizzata, in un sistema produttivo già operante, in una divisione della società già posta, in un rapporto, insomma, di gruppi di potere che lui non ha facoltà di cambiare perché lui non ha per natura un peso politico. In questo modo egli non potrà mai diminuire la forza politica dei grandi gruppi economici e quindi le sue scelte saranno sempre in funzione del modellò di sviluppo stabilito da questi.
Anche McNamara non sfugge a questa ferrea logica, e le sue decisioni non mancano di essere in funzione degli interessi di questo o quel gruppo economico.
Un esempio di questo, tipo lo si può avere osservando il caso del piano TFX.
Il progetto prevede, tra l'altro, la creazione di un unico modello di aeroplano con caratteristiche comuni, capace di essere usato sia dall'Aviazione che dalla Marina, invece di un differente aereo per ogni servizio.
Nel 1963 la sottocommissione permanente di indagine del Senato, con a capo il democratico John McClellan, condusse un'indagine dalla quale risultarono i favoritismi che si erano verificati nei riguardi della General Dynamics Corporation sulla Boeing Company. L'inchiesta non portava però a delle conclusioni.
Ulteriori indagini giornalistiche comunque dimostrarono chiaramente come nonostante il parere di 235 esperti della Marina e dell'Aviazione, che avevano preferito il progetto della Boeing, McNamara avesse aggiudicato l'appalto alla General Dynamics.
Seguirono a breve distanza le dimissioni di alcuni funzionari bancari e del ministero della difesa.
Il costo del progetto intanto saliva per stessa ammissione del ministero dai 2,8 milioni di dollari previsti a 4,6, mentre si ritiene da diverse parti che oggi sia a livelli ancor più elevati. Anche le caratteristiche del progetto subivano delle modifiche da quelle iniziali: il peso sembra essere di 5 o 7 tons più del previsto, mentre pare che il modello risulti gradito all'Aviazione, ma non alla Marina. Ed è una storia che deve ancora finire...
Il 10 luglio 1966 McNamara annunciava di aver chiuso o ridotto, negli ultimi cinque anni, 862 basi militari, con un risparmio di 1,4 bilioni di dollari l'anno. A queste «brillanti» iniziative fa riscontro però una situazione generale ben diversa. Quando McNamara prese l'incarico nel 1961 la spesa del bilancio militare era di 44,7 bilioni di dollari, oggi essa è di 58,3. E sono previsti ulteriori aumenti. Nonostante questo incremento della spesa militare, gli Stati Uniti non solo non sono venuti a capo della guerra nel Vietnam, ma hanno visto crescere sempre più le difficoltà. Analizzando la situazione militare del Vietnam, ci si rende conto dei limiti dell'efficienza di McNamara.
Scrive a questo proposito il "Washington Star" del 24 aprile:
«Un uomo estremamente razionale, crede che tutti i problemi possano essere risolti grazie ad una giudiziosa applicazione della ragione e dell'ingegnosità. Il fatto che il Vietnam non si sia arreso alle nostre migliori truppe, ai nostri uomini più intelligenti, lo ha umiliato e reso perplesso».
McNamara infatti aveva preparato le sue schede ed aveva chiesto consiglio all'elettronica e i computers gli avevano predetto la vittoria entro il 1965. A lui erano sfuggiti completamente i termini profondi della guerra vietnamita, una guerra nella quale i guerriglieri vietcong portano sulle spalle fino a cento chili e percorrono in bicicletta il sentiero di Ho Chi Min, una guerra che è destinata a mettere in crisi tutto il sistema di alleanze degli Stati Uniti.

Quando il tecnico fa politica
Il "New York Times" del 18 febbraio 1963 usciva con un titolo chiaramente indicativo: «Replacing machines with minds». I metodi dell'amministrazione McNamara, con un largo uso dei computers, avevano scandalizzato finanche il quotidiano radicale.
La possibilità di comprendere gli avvenimenti politici presuppone infatti una profonda capacità di concepire le grandi forze storico-ideologiche che agiscono nella scena del mondo. Questa capacità, questo profondo senso degli uomini e della storia implica dei processi mentali super-logici, per i quali a nulla vale la razionalità e la capacità tecnica se non sono condotte da una profonda, innata, capacità di intuizione. Questa forza spirituale manca agli uomini della tecnica.
Gli errori politici di McNamara sono svariati
Oltre al modo errato di condurre la guerra nel Vietnam che ha portato l'America al vicolo cieco della «vittoria militare», cioè al più ampio impegno americano, dove proprio la Cina voleva che si giungesse, la «politica» di McNamara ha favorito la crisi della NATO.
Fino al 1961 la NATO era stata una sorta di blocco chiuso. Gli Stati Uniti avevano potuto mantenere un indiscusso controllo sull'organismo grazie al concetto strategico della «rappresaglia massiccia» che implicava infatti una posizione statunitense, almeno formalmente, di totale impegno militare nei riguardi dell'Unione Sovietica.
Quando nel 1961 alla convenzione democratica di Atlantic City a proposito della nuova linea strategica della «risposta elastica» egli introdusse il concetto di «pausa» nella eventuale risposta ad un attacco dell'URSS, formulando la nuova teoria in sintonia con la tendenza distensiva, McNamara non si pose affatto il problema della logica richiesta da parte delle nazioni europee di influire sul controllo del deterrente nucleare. Se vi era una pausa ed era quindi eliminato il meccanismo della rappresaglia immediata, ciò voleva significare che vi era il posto per una trattativa di carattere politico e ciò implicava la possibilità da parte delle nazioni europee di esercitare un ruolo indipendente.
Quindi il concetto di «pausa», mentre era una logica esigenza della politica distensiva, portava come conseguenza la crisi della NATO, dell'organismo militare nato per la supremazia politica degli USA nel continente.
McNamara cercò di fermare la tendenza disgregativa. Nel 1962 faceva un appello alle nazioni europee della NATO per spingerle ad aumentare il loro armamento convenzionale, come per dire «a noi le atomiche a voi il carro armato». Ma la proposta sembrò «non realistica» finanche al ministro della difesa inglese. Nel 1963 e nel 1964 poi, l'amministrazione americana cambiò sistema e si impegnò per una forza multilaterale con navi armate di missili a testata nucleare. Anche questo progetto era destinato a fallire per la troppo evidente posizione di preminenza statunitense.
L'attuale crisi della NATO nasce da questi fatti.
La reazione che si produsse nel gennaio dei 1963 nei circoli politici americani, dopo la famosa conferenza stampa di De Gaulle, dette l'idea di qualcosa di improvvisato e di sorpreso. I computers del ministro della difesa, evidentemente, non avevano previsto la complessità della politica europea.
 

SAGGISTICA
4 - SPAGNA: DALLA FALANGE ALL'OPUS DEI - 30 ANNI DOPO

Alle elezioni del 16 febbraio 1936, le ultime prima del pronunciamento militare di luglio, la Falange non aveva ottenuto in parlamento nessun seggio; i comunisti, che in precedenza ne avevano uno solo, riuscirono a conquistarne 14 su 467. La Falange non contava più di 8.000 iscritti e il PC spagnolo arrivava appena a 12.000. Tuttavia la Falange fu messa fuori legge, le sue sedi chiuse, i suoi capi arrestati. Ciononostante fin dai primi giorni della rivolta nazionalista le formazioni falangiste sono a fianco dei soldati, delle guardie civili, dei «requetés» nelle caserme assediate e sulle sierre. Esse giocheranno un ruolo di primo piano nel corso di tutta la guerra civile. Dall'altra parte, il 5° reggimento, organizzato dal partito comunista, si rivelò fin dalle prime settimane come l'unico reparto efficiente al servizio della Repubblica.
È certo che la «Repubblica dei professori» -come la chiamavano con disprezzo gli anarchici- non sarebbe sopravvissuta per tre anni senza l'appassionato appoggio dei comunisti.
Così i due partiti che avevano meno rilievo sul piano parlamentare e minore influenza sulla politica governativa e sull'opinione pubblica furono quelli che dettero alle due parti in lotta un contenuto ideologico ed una fede politica per cui combattere.
I ventisei gabinetti che si succedettero dalla proclamazione della Repubblica, nell'aprile 1931, al luglio del 1936, furono tutti retti da coalizioni guidate da radicali. Un primo periodo, dall'aprile 1931 al novembre del '33, vide il governo di Manuel Azaria, di tendenze più progressiste, al quale, oltre che i radicali, collaboravano i progressisti di Alcalà Zamora ed i socialisti di Largo Caballero e di Iudalecio Prieto e che era appoggiato esternamente dai sindacati di sinistra e dagli anarchici. Una coalizione analoga si riprodusse, sempre sotto la guida di Azaria, dopo le elezioni del febbraio '36.
Il biennio novembre 1933 - dicembre 1935 fu invece caratterizzato da un governo più moderato di centro-destra, guidato dai radicali di Lerroux ed apppoggiato dalla CEDA (Confederación Espanõla Derechas Autonomas) che raggruppava le correnti cattoliche liberal-conservatrici e che fu aspramente combattuto sia dalle destre monarchiche e tradizionaliste sia dalle sinistre.
Se si possono comprendere certe tendenze reazionarie del governo Lerroux, assai meno comprensibile appare ad un osservatore non preparato la timidezza riformistica dei governi progressisti di Azaria. A parte qualche intervento legislativo spicciolo nella disciplina dei contratti collettivi e dei minimi salariali, unica questione di fondo che i governi progressisti cercavano di affrontare fu quella agraria, ma anche qui, malgrado l'opposizione delle destre economiche si dimostrasse assai debole, ci si limitò ad una riforma parziale circoscritta ad alcune regioni del Sud e del Sud-Ovest e che, per i larghi indennizzi assicurati ai proprietari -data la disastrosa situazione delle finanze repubblicane- ebbe scarse possibilità di realizzazione. Nessun intervento statale fu tentato in campo industriale ed il settore creditizio restò il più sacro tabù dei governi repubblicani, anche negli anni roventi della guerra civile.

I radicali e la Repubblica
In realtà gli uomini che ressero la Repubblica* gli Azaria, i Lerroux, i Portela Valladorès, i Martinez Barrio, i Casares Quiroga, altro non erano che intellettuali neo-illuministi, provenienti dalla borghesia colta delle grandi città e strettamente legati agli ambienti economici e finanziari della borghesia internazionale.
La maggior parte del capitale investito nelle miniere e nelle industrie spagnole era capitale straniero. La rete telefonica spagnola era di proprietà di una compagnia americana. La società inglese del Rio Tinto possedeva i maggiori giacimenti di pirite e la società del Tarsis, con sede a Glasgow, i grandi giacimenti andalusi di rame. La compagnia Armstrong controllava un terzo della produzione del sughero. I francesi avevano in mano le miniere d'argento di Penarroja e quelle di rame di San Plato; i belgi buona parte della produzione del legname, il settore ferroviario e tranviario, nonché le miniere delle Asturie. Una società canadese controllava l'elettricità della regione catalana.
Non per nulla i modelli ideali cui questi uomini si ispiravano erano la democrazia inglese (nel 1935 la Gran Bretagna assorbiva da sola il 50% delle esportazioni spagnole e destinava alla Spagna il 17% delle sue), ma soprattutto la Francia laicista di Leon Blum e l'America di Roosevelt. Essi rinnegavano il passato del proprio paese («metteremo un lucchetto alla tomba del Cid» - dicevano) e intimamente disprezzavano il popolo che si erano trovati a governare come una massa di ignoranti, fanatici, indisciplinati e superstiziosi.
L'unico contatto che essi avevano con la realtà spagnola era la forzata alleanza, con le masse marxiste ed anarchiche, che essi non comprendevano e da cui non erano compresi, forti soprattutto nelle zone industriali (Catalogna, Asturia, Valenza) e tra il misero proletariato agricolo dell'Andalusia. Ma era un contatto privo di ogni calore umano, una gelida e ipocrita complicità cui sottostavano soltanto perché rappresentava il malfermo piedistallo del loro potere. Di fronte all'intellettuale, illanguidito nelle biblioteche francesi ed a stento abbronzato una volta l'anno dal sole di Biarritz, il proletario spagnolo amava e stimava assai più nel suo cuore il giovane aristocratico con cui aveva militato nelle guerre marocchine: ascetico nei gusti, arrogante nei modi, generoso con gli amici, con i nemici spietato, spagnolo insomma, dalla testa ai piedi.
Più che nei dirigenti sindacali di estrema sinistra era naturale, dunque, che questa classe dirigente trovasse i suoi più sicuri collaboratori in quella parte, invero piuttosto esigua, della casta militare e burocratica che fin dall'800 era stata affiliata alle logge massoniche (non è un mistero che quasi tutti gli ufficiali superiori e gli alti funzionari che rimasero fedeli alla Repubblica nel 1936 erano massoni), come del resto lo era la maggior parte degli esponenti politici del regime.
Invero una delle costanti dei governi radicali prima del '36 fu la politica di «appeasement» verso la casta militare. Nelle sommosse anarchiche e separatiste nelle Asturie, in Andalusia, in Catalogna, fra il '32 e il '34, i governi repubblicani non esitarono a dar via libera ai generali nelle repressioni, erigendosi a gelosi garanti dell'ordine e della legalità, contro le violenze di piazza, salvo poi ad avvalersi di queste per allontanare dai posti-chiave dell'esercito e della marina gli ufficiali più pericolosi. Essi volevano mostrarsi alla borghesia conservatrice come l'unico baluardo valido, appunto per la loro elasticità ed il loro progressismo, contro gli estremisti di sinistra, così da non perderne interamente l'appoggio e potersene servire ad ogni occasione -come in effetti si servirono finché fu possibile- per controbilanciare la pressione delle masse «sovversive». Anello di congiunzione erano quegli strati borghesi legati alla massoneria o comunque permeati dal pensiero laicista.

La politica antireligiosa
Coerenti alla loro matrice filosofica, l'unico campo in cui i radicali spagnoli misero tutto il loro impegno e mantennero ancor più di quanto avessero promesso fu nella lotta contro la Chiesa e contro la religione cattolica.
L'art. 3 della Costituzione, promulgata il 9 dicembre 1931, dichiarava: «Lo Stato spagnolo non ha nessuna religione ufficiale» e Manuel Azaria, all'atto di assumere la prima volta la carica di presidente del consiglio, dichiarò con soddisfazione: «La Spagna ha cessato di essere cattolica».
A modello della nuova carta costituzionale era stata presa la costituzione di Weimar, senza alcuna elaborazione dottrinaria e giuridica che ne adattasse i princìpi non solo ai caratteri peculiari della società civile spagnola, ma anche alle più recenti esperienze politiche degli altri paesi. Tale era l'astrattezza formale della nuova carta che lo stesso Lerroux ebbe a dire più tardi che ne era derivata «una repubblica spagnola che tutto era meno che spagnola».
Come conseguenza del dichiarato agnosticismo di Stato e dell'ateismo dichiarato dei principali dirigenti politici, fu abolita l'istruzione religiosa, furono negate le congrue ai parroci (benché queste rappresentassero una forma di indennizzo per l'espropriazione dei beni ecclesiastici del 1873), fu introdotto il divorzio, furono soppressi alcuni ordini religiosi e tutti furono sottoposti sotto un rigoroso controllo di polizia; furono vietate le processioni e le funzioni religiose senza uno speciale permesso dell'autorità governativa, ecc.
Se questi erano gli insegnamenti che giungevano dal vertice del regime, di che stupirsi se sempre più spesso folle di anarchici si davano ad incendiare chiese e ad uccidere preti? È troppo noto, del resto, come durante la guerra civile l'ostilità della Repubblica verso la Chiesa divenne, tranne che nelle province basche, aperta persecuzione.
Fu proprio sul terreno della violenza che il gioco radicale, consistente nello strumentalizzare le masse socialiste ed anarchiche per imporsi ai conservatori senza nel contempo perderli completamente, fallì.
Estranei per atteggiamento mentale alla psicologia del loro popolo, i professori del '31 non tennero nel conto dovuto di operare sul corpo vivo della Spagna, un paese che non ama i compromessi e le mezze tinte, dove i confini tra il si e il no sono netti e precisi come il filo di una lama, spietati come, l'ombra delle sierre sugli altopiani nei meriggi d'estate, un paese dove ciascuno ha il dovere in ogni istante di sapere da che parte si trova della barricata.

L'ora dell'estrema sinistra
Il gioco radicale per la conquista del potere è fatto in tutti i paesi di sfumature, di compromessi non dichiarati, di equilibri sottili, di alleanze tra correnti e controcorrenti all'interno dei partiti, di concessioni accordate oggi e revocate domani. Tutto ciò non funzionò in terra di Spagna e l'equilibrio si ruppe sul sagrato delle chiese incendiate, gettando in poche settimane i radicali spagnoli in braccio all'estrema sinistra. Quell'estrema sinistra che essi volevano manovrare e di cui divennero gli spauriti strumenti.
La politica antireligiosa offese milioni di spagnoli. La violenza mistica degli anarchici, questo fenomeno tipicamente spagnolo (solo in questo paese gli anarchici svolsero un ruolo di portata politica), trovò riscontro nella fiera reazione dei monarchici tradizionalisti, altro fenomeno caratteristico della storia iberica. Quando il 18 luglio 1936 i generali Franco, Queipo de Llano, Mola, Goded insorsero contro il governo, dai villaggi della Navarra, della Castiglia, del Leon masse di contadini accorsero nelle file dei «requetés», le antiche milizie dei Re, e si posero agli ordini dei generali ribelli. La Falange, che contava alcune migliaia di iscritti, i cui capi erano rinchiusi nelle prigioni, e che fino all'ultimo aveva rifiutato la propria adesione alla congiura dei militari, se questi non si fossero impegnati per un'energica rivoluzione sociale, aveva in campo alla fine di luglio 60.000 uomini, asserragliati nelle caserme di Madrid, di Toledo, di Oviedo, di Barcellona o allineati sulla Sierra de Guadarrama o in Estremadura, accanto ai regolari e ai legionari del Tercio.
Dall'altra parte gli operai di Madrid, di Bilbao, della Catalogna e delle Asturie, i contadini nomadi dell'Andalusia imbracciavano le armi, pronti a difendere l'onore della Repubblica e le speranze che in essa avevano riposto.
Fra i miliziani i reparti comunisti si distinsero subito per combattività e per disciplina. Di fronte alle responsabilità della guerra il controllo effettivo della Repubblica scivolò gradatamente dalle mani dei radicali a quelle dei socialisti di sinistra, dei comunisti.

Il ruolo dei comunisti
Formalmente il governo continuò ad essere composto in un primo momento di repubblicani progressisti e di radicali, più tardi anche di socialisti. I comunisti non volevano correre il rischio che una loro partecipazione diretta al governo potesse allarmare l'Inghilterra di Eden e gli altri Stati borghesi che, come la Francia, avevano promesso aiuti alla Repubblica. Ma l'influenza dei comunisti nella politica di Madrid e nella condotta della guerra si fece sempre più incisiva, specie quando dall'ottobre 1936, cominciarono a giungere nei porti repubblicani gli aiuti sovietici, costituiti da armi, aerei, carri armati, nonché dà piloti e istruttori dell'armata rossa.
L'atteggiamento di Mosca, tuttavia, nei riguardi della crisi spagnola fu quanto mai ambiguo e dominato soprattutto da considerazioni di politica estera. In quell'epoca Stalin stava per dare inizio all'interno ad una nuova purga di elementi trotzkisti; nella politica estera, nel mentre cercava l'amicizia delle democrazie occidentali francese e britannica, non voleva inimicarsi la nuova Germania hitleriana, verso cui aveva già mostrato le sue simpatie. L'orientamento nazionalistico della sua politica, d'altronde, faceva sì che la Spagna, così lontana dai confini russi, non costituisse di certo oggetto delle sue mire.
Non così era per i bolscevichi in esilio i quali intravedevano la possibilità di giocare nuovamente a Madrid la partita che avevano perduto in patria, trasformando la Spagna nella seconda potenza bolscevica e facendone la base della loro politica mondiale in antitesi con l'indirizzo staliniano.
Se Stalin, dopo molte esitazioni -dettate dal timore di spaventare Londra e Parigi e insieme di fare cosa sgradita a Hitler, che già aveva iniziato ad aiutare i nazionalisti- si indusse alla fine a disporre attraverso il Comintern l'invio di aiuti alla repubblica borghese di Azaria e di Girai, lo fece per rintuzzare le accuse che già i seguaci di Trotzkij gli muovevano di essere il «liquidatore e traditore della rivoluzione spagnola, istigatore di Hitler e di Mussolini» e per impedire agli stessi trotzkisti di impadronirsi delle organizzazioni comuniste spagnole facendo leva sulle brigate internazionali, che, per la loro composizione, in cui confluivano socialisti di diverse nazionalità e di diverse origini ideologiche, erano il terreno ideale per la loro propaganda. È singolare che tra gli uomini che Stalin inviò in Spagna a rappresentarlo nell'agosto 1936 fossero per lo più ebrei e di sospette tendenze trotzkiste, come l'ambasciatore Rosemberg, il console generale a Barcellona Antonóv Ovscenko, Kolkov, Straszeskij ed altri. Furono quasi tutti liquidati come revisionisti o prima ancora che si concludesse l'avventura spagnola o negli anni che seguirono il secondo conflitto mondiale. Nel 1949 nell'Unione Sovietica bastava il fatto di aver collaborato politicamente o militarmente con la repubblica spagnola per essere processati come sospetti di attività «anti-partito».

L'azione di Togliatti
L'uomo di punta di Stalin in Spagna fu probabilmente Palmiro Togliatti, il più abile fra i comunisti spagnoli e stranieri sul suolo iberico. È a lui che devono essere state affidate le fila della politica sovietica nei riguardi della Spagna repubblicana.
Questa politica fu diretta in un primo periodo a fare del PC spagnolo l'arbitro della situazione interna, ispirando la politica governativa dei premiers socialisti Caballero e Negrin. Strumenti di questo disegno furono la direzione centralizzata dell'esèrcito -sottratto ai capi miliziani e sottoposto ad una rigida disciplina che non lesinava la pena capitale ai comandanti e la decimazione ai reparti che si sottraevano al fuoco- e lìeliminazione dell'opposizione anarchica e del POUM (Partito Obrero de Unificaciòn Marxista), di ispirazione trotzkista, nelle tragiche giornate barcellonesi del maggio 1937.
In una seconda fase, negli ultimi mesi di vita della Repubblica e dopo il ritiro delle brigate internazionali, si ha l'impressione che la politica di Togliatti, nonostante la volontà dei comandanti comunisti di resistere ad oltranza, fosse quella di liquidare al più presto l'affare spagnolo, spingendo il governo Negrin a rompere con i militari massoni e gettando nel caos i resti delle annate repubblicane. Così facendo, Togliatti, mentre faceva apparire i comunisti come gli ultimi eroi della Repubblica, ne affrettava l'agonia, rendendo un servizio prezioso a Stalin, ormai legato a Hitler dal patto Ribbentrop.
Nell'ottobre 1936, a garanzia degli aiuti che avrebbe prestato, Mosca si era fatta consegnare dal governo di Madrid le riserve auree della Banca di Spagna. Il carico giunse ad Odessa il 6 novembre e poco tempo dopo veniva annunciata la scoperta di nuovi giacimenti d'oro negli Urali. L'URSS era stata preferita all'Inghilterra e alla Francia come la più sicura amica della Repubblica Spagnola.