Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO 1 - N. 7
Roma, 1 ottobre 1966

SOMMARIO

POLITICA INTERNA
1 - Alto Adige, a chi giova il terrorismo?

POLITICA ESTERA
2 - Belgrado: la via jugoslava al neocapitalismo

GLI UOMINI E I GIORNI

CINEMA
3 - "America Paese di Dio", di Sansone e Chroscki

SAGGISTICA
4 - Spagna trent'anni dopo: dalla Falange all'Opus Dei

LE VOCI DEL SISTEMA
 

 

POLITICA INTERNA

1 - Alto Adige, a chi giova il terrorismo?

La questione altoatesina sta consentendo alla sinistra radicale europea di riproporre i vecchi temi contro il cosiddetto «revanscismo» tedesco. Si tenta apertamente, in sostanza, di far cadere il popolo tedesco in un complesso di colpa dinanzi all'accusa di nazismo, per fiaccarne la volontà di ripresa politica. L'accusa, infatti, che è mossa particolarmente dalla sinistra italiana in occasione degli attentati, è rivolta solo pretestuosamente a sostenere l'italianità dell'Alto Adige.
In verità coloro che, da "la Stampa" al "l'Unità", da "l'Avanti" ad "Epoca", da Taviani alle massime Autorità del Paese, con relazioni; scritti o telegrammi definiscono nazisti i terroristi, hanno evidentemente uno scopo che non è niente affatto quello della conservazione dell'Alto Adige all'Italia. Non si vede infatti in che modo un'accusa del genere potrebbe influire sui terroristi nel senso di ridurli a più miti ragioni. Né tantomeno essa potrebbe giovare in sede internazionale a sostegno delle tesi italiane, in quanto è ben chiaro che l'Alto Adige appartiene all'Italia per ragioni che assolutamente prescindono dall'orientamento nazista o meno dei terroristi.
È quindi evidente che l'accusa di nazismo si colloca nel vasto repertorio delle tesi antigermaniche, patrimonio comune delle sinistre più o meno radicali di ogni Paese.

* La vera posizione del nazismo
Sotto un profilo storico ed ideologico si deve ancora dire che furono invece proprio i nazisti a stabilire in modo inequivocabile il carattere di italianità di quella terra. Come ricorda il prof. Mario Toscano, insospettabile in proposito in quanto ebreo, in un saggio pubblicato sulla "Nuova Antologia" nel luglio 1960, fu Hitler che il 7 maggio 1938, al termine della sua visita ufficiale a Roma, nel brindisi di risposta a quello di Mussolini, dichiarò solennemente: «È mia incrollabile volontà ed è anche mio testamento politico al popolo tedesco che consideri intangibile per sempre la frontiera delle Alpi eretta tra noi dalla natura. Sono certo che per Roma e per la Germania ne risulterà un avvenire glorioso e prospero».
A tale dichiarazione si era giunti dopo che la questione era stata dibattuta per via. diplomatica fra Ciano e Goering e si era concordemente accettato il principio che «l'Alto Adige è terra geograficamente italiana e poiché non si può cambiare posto ai monti o corso ai fiumi, bisogna che si spostino gli uomini».
Il brindisi di Hitler era stato preceduto da una dichiarazione al Reichstag fatta il 18 marzo nella quale lo stesso Cancelliere tedesco aveva dichiarato che: «La frontiera del Brennero è sacra e tutti i tedeschi devono averlo compreso (...) in particolare va considerato che lo spartiacque è inequivoco e chiarissimo. L'aspra salita di Steinach e la ripida discesa sull'altro versante italiano dimostrano chiaramente la linea di demarcazione fra l'Italia e la Germania».
Onesta presa di posizione ebbe come noto il seguito degli accordi Hitler-Mussolini del 1939, in base ai quali gli altoatesini ebbero la facoltà di optare per la Germania, vedendosi naturalmente liquidati in modo equo tutti i loro averi in Alto Adige oppure di rinunciare e per sempre ad essere considerati tedeschi. Il sistema dell'opzione rispondeva a criteri di giustizia e di civiltà e aveva già dato buona prova in occasione dell'analoga contesa greco-turca per l'Asia Minore.
Sempre secondo il Toscano la posizione di Hitler non era improvvisa e rispondente a necessità tattiche. Già nel 1926 nel "Mein Kampf" egli aveva definito il problema giungendo alle stesse conclusioni in base alle quali avrebbe poi stipulato l'accordo del '39 e nella stessa opera identificava in falsi nazionalisti coloro che pretendevano la restituzione dell'Alto Adige.
Egli infatti scriveva, come riferisce il Toscano (riprendendo da "La mia battaglia", pagine 347-352 - edizione Bompiani, Milano 1938): «Debbo, a questo proposito, pensare ad un cavallo di battaglia che in questi anni l'ebreo cavalcò con straordinaria abilità: l'Alto Adige... Il motivo per cui negli ultimi anni certi circoli fecero della questione del "Tirolo" il cardine dei rapporti italo-tedeschi, è molto chiara. Gli ebrei e i legittimisti asburgici hanno grande interesse ad ostacolare una politica tedesca di alleanze che possa condurre un giorno al ristabilimento di una libera patria tedesca. Non esito a dichiarare che, ora che i dadi sono gettati, ritengo impossibile recuperare l'Alto Adige per mezzo di una guerra. Non solo ma sono convinto dell'impossibilità di infiammare per questo problema l'entusiasmo nazionale del popolo tedesco. Credo invece che se un giorno dovremo versare il sangue tedesco sarebbe delittuoso versarlo per duecentomila tedeschi quando sette milioni di essi languono sotto il dominio straniero».

* I radicali contro la Germania
Anche nella situazione attuale ci sembra logico che eventuali gruppi nazionalisti (non diciamo neppure nazisti) in Germania non potrebbero non tener conto di una impostazione analoga. Alla fine della seconda guerra mondiale vennero tolte alla Germania là Slesia, la Pomerania orientale, la Masuria e il territorio intorno a Koenisberg; il Paese venne diviso in due e intere popolazioni furono costrette ad andare profughe. Le vessazioni ignobili di Versailles si ripeterono, senza neppure questa volta un trattato di pace. Non si applicò il piano Morgenthau inteso a rendere la Germania terra di pastori, per l'evidente impossibilità di dar vita ad un progetto così incivile.
Tuttavia la mano fu ugualmente pesante ed oggi che la storia porta di nuovo la Germania sulla cresta dell'onda i rapinatori di ieri vogliono forzatamente mantenere lo statu quo.
Tutte le armi sono buone a tal fine: l'accusa di revanscismo, la cattura negli schemi atlantici, l'opera di «educazione» democratica. Per questo il coro della sinistra, e particolarmente in Italia, si leva alto cogliendo il pretesto dell'Alto Adige per una campagna propagandistica che ha come obiettivo ben definito la Germania.

* La strategia dei radicali tedeschi
D'altra parte, esiste un pendant all'interno della stessa Germania all'azione del radicalismo internazionale. Quando leggiamo sullo "Spiegel", settimanale di sinistra; sulla "Die Zeit", pubblicazione dello stesso indirizzo; tesi di appoggio al terrorismo, quando soprattutto vediamo che la ripresentazione della questione altoatesina è stata fatta dai socialisti austriaci con a capo il dottor Kreisky, allora dobbiamo pensare che la sinistra tedesca e austriaca ha un preciso interesse a sollevare quella questione e ad alimentarla. Diciamo anzi che ha due interessi:
1) quello di spostare l'obiettivo del nazionalismo tedesco dalla questione dell'OderNeisse e dei confini orientali a quella altoatesina;
2) quello di seminare zizzania fra due popoli europei per danneggiare preventivamente e alla radice ogni possibile spirito di solidarietà europea.
Circa quest'ultimo punto è appena del 27 settembre la smentita del dottor Wenzel Iaksch, pubblicata sulla "Die Welt", con la quale sono respinte sdegnosamente le accuse di sostegno ai terroristi rivolte da "la Voce Repubblicana" (del radicale La Malfa) allo stesso dr. Iaksch presidente della Fondazione per la Pace Europea. Né va dimenticata la recente denuncia del "Sud-deutsche Zeitung" il quale ha scritto che: «Kreisky e altre personalità austriache hanno tentato di riversare sui tedeschi la responsabilità del terrorismo».
I termini della questione altoatesina devono essere mantenuti nei loro limiti, ponendo chiaro il fatto che l'Alto Adige resta italiano e i provvedimenti che possono essere presi a suo riguardo rimangono di carattere puramente interno.
Soprattutto la questione dovrà ripulirsi di tutte le scorie, degli equivoci, dei sottintesi, dei giochi occulti che si sono intrecciati alla sua ombra.
Se necessario la difesa dell'italianità della zona va fatta con tutti i mezzi più drastici: ritorno all'opzione, dichiarazione dello stato d'assedio (o zona di guerra che dir si voglia), rappresaglia contro l'Austria. Entro questi limiti la tutela degli interessi italiani sarebbe effettivamente assicurata. Fuori di questi limiti, cioè con le accuse alla Germana, o con il ricorso all'ONU (in questo caso più incompetente che mai) gli interessi italiani verrebbero compromessi, a tutto vantaggio di quelli dei nemici della Germania, cioè dei circoli radicali antieuropei e dei Paesi dell'Est beneficiari della rapina bellica. Politica ferma si è detto e non per la suggestione di atteggiamenti autoritari. La controprova è data dal fatto che tutte le strade impostate sul cedimento o sulle concessioni hanno provocato la riapertura del problema.

* Le responsabilità del regime democratico
Prima fra queste è stato l'accordo De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946 in cui si son poste le basi:
a) della regione autonoma Trentino-Alto Adige, il cui statuto speciale venne in parte approvato il 2-2-48;
b) della revisione del regime delle opzioni di cittadinanza, quale risultava dagli accordi Hitler Mussolini del 1939.
Da queste due premesse, che chiaramente esorbitavano dall'area della tutela delle minoranze sono scaturite le conseguenze che conosciamo. In seguito, in alcune circostanze, necessità di aritmetica parlamentare fecero crescere oltre misura il prezzo dei voti del SVP, con contropartite del tutto negative per gli interessi italiani. Quando nel 1960 Kreisky decise di risollevare la questione, pensò subito all'ONU come alla sede più adatta per la sua azione e basò le sue argomentazioni sulla tesi che le concessioni degasperiane implicitamente denunciavano la scarsa convinzione dell'Italia a considerare l'Alto Adige come suo territorio. Dichiaratasi l'ONU incompetente e formulata tuttavia dalla stessa un invito a tenere conversazioni fra i due Paesi, non si sa bene a quale titolo, il governo italiano istituì pedissequamente e subito la Commissione dei 19 per studiare gli argomenti da proporre nelle riunioni con gli austriaci. Le conclusioni della commissione si intendevano atti interni del governo, finché nel 1964 cadde anche questa posizione e le stesse conclusioni vennero considerate quasi come base di una trattativa. In sostanza dalle conversazioni si era passati alle trattative. Con queste premesse il sistema democratico, generatore palese dell'attuale stato di tensione, osa speculare sul sentimento patriottico degli italiani per insinuare disegni ben più vasti di politica internazionale.


POLITICA ESTERA

2 - Belgrado: la via jugoslava al neocapitalismo

Il caso Mihajlov, giunto alla sua conclusione con la condanna dello scrittore, nacque nel clima susseguente alla destituzione di Rankovic e di Stefanovic -rispettivamente vice presidente della Repubblica Jugoslava e Capo della polizia politica (UDBA)- e all'epurazione dei dogmatici nei vari rami della pubblica amministrazione e del partito.
Mihajlov valutò esattamente la portata delle innovazioni, al contrario di quanto sostiene la stampa di destra impegnata a mostrare ancora presente nel regime jugoslavo la carica stalinista che tanto impressiona una certa opinione pubblica.
Da questo deriva il sostegno di tale stampa alle posizioni di Mihajlov, il quale è peraltro un perfetto democratico di sinistra di pura marca radicale. Il suo errore è stato quello di non considerare la cosiddetta «vischiosità» del regime titino, regime che gettate alle ortiche le posizioni ideologiche e postosi sul piano dell'empirismo economicistico, vuole però condurre esso stesso l'operazione intesa a liquidare ogni struttura statalistica e ad avviare la nazione verso le mete della socialdemocrazia, all'interno, e dell'occidentalismo all'esterno.
Le modificazioni si devono fare nel suo ambito, non con critiche ed iniziative autonome, suscettibili di corrodere le posizioni di potere della classe dirigente.
La clemenza della condanna conferma che essa non vuole essere altro che un'azione disciplinare diretta a frenare velleitarismi personali ed a conservare al regime il pieno controllo della situazione interna jugoslava, senza pregiudicare il raggiungimento di quegli obiettivi che Tito e i suoi nuovi amici si sono prefissi e che trasparirono in occasione del caso Rankovic.
Allora, fin dal primo momento gli osservatori politici, anche i meno accorti, compresero che le ragioni vere dell'allontanamento di Rankovic non potevano essere quelle contenute nelle accuse rivoltegli al quarto plenum del CC della Lega dei Comunisti Jugoslavi; di avere cioè tentato l'ascesa al potere ai danni di Tito servendosi della polizia segreta.
Non che l'accusa di controllare la polizia e, attraverso questa, indirettamente, l'intera amministrazione statale, non avesse fondamento. Ne è prova la rimozione degli uomini a lui devoti dai posti chiave del Ministero degli interni e di quello degli esteri.
Ma che attraverso questi mezzi Rankovic mirasse a impadronirsi del potere appare per lo meno un'ipotesi superficiale, se si pensa alla popolarità che circonda il Maresciallo ed al fatto che Rankovic era chiamato di sicuro a raccoglierne la successione.
Se Tito si è indotto a liberarsi del suo antico compagno di lotta inferendo un duro colpo al prestigio del partito e del regime di fronte al suo stesso popolo ed all'opinione pubblica internazionale, bisogna pensare che la posta in gioco fosse, d'importanza vitale e che la tensione interna fosse giunta a tal punto da non poter più essere sostenuta senza mettere in pericolo l'intero indirizzo politico che il Maresciallo intende dare al Paese per l'avvenire.
Le riforme economiche del 1965 hanno segnato una svolta decisiva nel processo revisionistico del socialismo jugoslavo. Il decentramento amministrativo e bancario, l'introduzione dei princìpi liberistici nella gestione delle aziende, il conseguente adattamento dei prezzi alle regole della domanda e della offerta, la liquidazione delle industrie «protette» incapaci di adeguarsi alle leggi del profitto ed il ritiro alle cooperative agricole delle sovvenzioni statali (che rappresentavano i 4/5 del loro reddito): tutto ciò ha significato l'abbandono dei postulati teorici su cui si fondava il collettivismo socialista ed ha significato altresì un decadimento dell'impostazione politica dei problemi a favore di una impostazione nettamente economicistica è tecnocratica.
La grave crisi che è seguita alla riforma economica -con la svalutazione del dinaro (da 750 a 1.250 unità per un dollaro), l'aumento del costo della vita, il sostanziale blocco dei salari, la crescente disoccupazione, il disagio delle regioni economicamente più depresse, dove non sono mancati scioperi e disordini, spesso conclusisi in modo sanguinoso per il pesante intervento della forza pubblica invitata a sedarli e a circoscriverli- potrà anche trovare una soluzione prima che si concluda li piano quinquennale 1966-70.
A questo proposito gli attuali dirigenti, e primo fra essi il direttore della Narodna Banka, Nicola Milianic, prevedono un protrarsi della crisi fino al 1967, anno in cui dovrebbe avere inizio la fase ascendente della parabola che dovrebbe condurre ad un aumento dello standard di vita, rispetto al 1965, compreso fra l'8,5 per cento e il 9,5 per cento.
Ma al termine di questo processo gli indirizzi statalisti della Jugoslavia saranno cancellati, relegati nelle vetrine dei musei accanto ai cimeli dei vecchi re e dei visir turchi. La nuova cultura ufficiale li considererà niente di più che una fase del processo di edificazione di una società «progredita», senza fideismi e senza miti. Su questa strada sembra decisamente avviato il Maresciallo Tito. La riforma del sistema bancario appena introdotta, consentirà da ora in poi al capitale privato di determinare le proprie scelte in campo finanziario indipendentemente dalle direttive degli organismi politici e della stessa Banca Nazionale. Per fondare una banca sarà sufficiente la collaborazione finanziaria di almeno 25 ditte commerciali, che dovranno assumersi in proprio il rischio della gestione senza sperare nell'aiuto dello Stato. Un altro recente provvedimento di notevole importanza riguarda la disponibilità, da parte delle imprese private, delle divise estere ottenute attraverso l'esportazione, senza più doverne rendere conto agli organi statali.
È evidente Io scopo di queste misure: inserire la Jugoslavia nel circuito finanziario mondiale, cioè nel grande gioco del neocapitalismo internazionale.
Una politica del genere incontra tutto il favore degli strati borghesi della popolazione, soprattutto dei commercianti dei tecnocrati.
Nel nuovo clima liberista la borghesia slovena e croata si trova nettamente avvantaggiata per la maggiore solidità della struttura industriale delle due repubbliche settentrionali -che consente loro di superare la crisi a tutto scapito delle regioni più arretrate, come la Macedonia, il Montenegro e la stessa Serbia- nonché per la contiguità geografica con i Paesi dell'Europa occidentale.
Era a questo nuovo corso che Rankovic resisteva, difendendo, con la sua rigida coscienza accentratrice di serbo, la funzione del partito unico come guida ideologica e politica del Paese, da cui dovevano discendere tutte le scelte sul piano economico e sociale.
Tito ha dovuto esautorarlo pubblicamente, accusandolo di metodi staliniani, per averne ragione.
Si ingannerebbe, tuttavia, chi volesse vedere nelle iniziative jugoslave un fenomeno analogo a quello della emancipazione romena da Mosca ed al suo avvicinamento all'Europa.
Il filo occidentalismo di Belgrado, ispirandosi a istanze più economiche che politiche, si inserisce perfettamente nel quadro della politica americana diretta ad un incremento dei redditi e dei consumi nei Paesi in via di sviluppo e ad una sua conseguente penetrazione economica nei Paesi stessi, una volta acquisiti -come avverrà inevitabilmente per la Jugoslavia con il nuovo regime finanziario- all'area del dollaro. Le tendenze centrifughe degli sloveni e dei croati e le rinnovate rivalità tra gruppi etnici indicano tra l'altro come manchi all'attuale clima politico jugoslavo quell'affermazione di dignità e di autonomia nazionale che sono caratteristiche della politica romena, la quale ben può dirsi «europea», in quanto tende, attraverso l'entente con la Francia, a ridurre in Europa il peso delle influenze russa ed americana. Ed è sintomatico a questo riguardo come Bucarest accompagni ad una politica estera di disimpegno dal blocco sovietico una politica interna rigidamente autoritaria sul piano economico, quasi ad affermare la volontà dello Stato di controllare la vita economica del Paese salvaguardandola da ogni occulta ingerenza straniera.
Ben diverso è il quadro offerto da Belgrado, la cui politica estera sembra ispirarsi, sempre più, nel solito quadro dell'indirizzo terzaforzista, agli interessi americani, ed in particolare dei gruppi radicali. A nessuno è sfuggito il fatto che il primo ministro indiano Indira Gandhi, prima di formulare il suo invito a Mosca per la convocazione della conferenza di Ginevra sul Vietnam, abbia avuto contatti a Brioni con il Presidente jugoslavo, conclusisi in perfetto accordo. Ora la richiesta di convocare la conferenza di Ginevra per risolvere la crisi vietnamita costituisce uno dei tanti lanci propagandistici di Washington, cui Johnson si induce su pressione della sinistra radicale.
Come non collegare allora la politica economica di Tito, osannante alla libertà di mercato, alla sua politica estera fiancheggiatrice degli indirizzi americani?
Si può avanzare a questo punto l'ipotesi che anche in tema di politica internazionale Rankovic non condividesse più -alla luce della nuova situazione europea delineatasi negli ultimi mesi- l'atteggiamento del Maresciallo ed esigesse un superamento di quella politica del «terzo mondo», in auge all'epoca della conferenza di Bandung, cui il vecchio capo jugoslavo è ostinatamente affezionato, a dispetto dei tempi e degli uomini che ne furono protagonisti e che, se non sono scomparsi dalle scene, l'hanno da tempo abbandonata.


GLI UOMINI E I GIORNI


*Di nuovo con la distensione
Con la ripresa dei lavori all'ONU, in un'atmosfera accortamente preparata dalla minaccia di dimissioni di U Thant e dal noto messaggio pontificio, si sono prospettate possibilità di ripresa della distensione, anche questa volta a danno della Cina e dell'Europa. Infatti si intenderebbe rimuovere l'ostacolo costituito dalla guerra del Vietnam facendo ricadere tutto il peso di un accordo sulla Germania. Il complesso «mercanteggiamento» come ammette anche "il Corriere della Sera" del 24 settembre 1966 consiste in questo: «se l'America abbandona in modo definitivo il progetto di associare Bonn ai programmi di difesa atomica della NATO, l'URSS potrebbe non solo concludere il trattato di pace contro la proliferazione atomica ma altresì esaminare le prospettive di un negoziato per il Vietnam».

* Spagna - Franco prepara la consegna definitiva ai moderati, clericali e borghesi dell'Opus Dei
Nella scorsa estate un'ulteriore spinta verso l'indirizzo moderato si è avuta con alcuni provvedimenti intesi a colpire le correnti di reale alternativa al franchismo e all'Opus Dei. In particolare la direzione provinciale del Movimento ha deciso la chiusura del circolo "José Antonio" di Madrid, sede della corrente più estremista della Falange. Il consiglio nazionale dei circoli "José Antonio" aveva infatti approvato una dichiarazione che attaccava duramente la politica del governo, accusandolo di essere al servizio «dei gruppi di pressione capitalista». La dichiarazione negava l'obbligo di obbedire alla gerarchia del Movimento (di indirizzo paragovernativo), in quanto essa «aveva accettato l'abbandono della sovranità dello Stato nelle mani di una Chiesa senza vertebre; la politica neocapitalistica e tecnocratica dell'Opus Dei; le manovre di una oligarchia politico-religiosa senza più contenuti ideologici; il pericolo dei giochi bellici degli Stati Uniti e la complicità nella quale la Spagna si trova a poco a poco implicata».

* La Romania prosegue su ogni piano nello sganciamento dal legame imposto a Yalta
Dopo che la conferenza di Bucarest ha imposto il contenimento del processo di «de-russificazione» in atto in Romania a livello politico ed economico, si è trasferito lo stesso indirizzo sul piano ideologico e di costume. Un significativo episodio si è avuto nell'anniversario della festa nazionale allorché le forze armate sono sfilate non più col fregio della stella rossa copiata dal modello sovietico sui berretti, ma con un nuovo simbolo (uno scudo circondato da due foglie d'alloro).

* Convegno distensionista e radicale a Firenze fra i paesi dell'area russa ed americana
Si è tenuto a Firenze, nel mese di settembre, un convegno di economisti promosso dal CESES, avente per tema: «Il sistema dei prezzi nell'Est europeo». Partecipavano delegazioni di tutti i Paesi interessati: URSS, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Jugoslavia e Bulgaria. Il tema trattato nel convegno già indica nella sua formulazione l'intento degli organizzatori. Le basi per una ripresa della distensione sono infatti secondo autorevoli gruppi radicali legate ad un mutamento sostanziale dell'economia dei Paesi dell'Est. Non è un mistero che furono gli economisti polacchi di formazione radicale a puntare le carte, per l'introduzione della loro dottrina nei Paesi dell'area sovietica, su sostanziali modificazioni della struttura economica in senso tecnocratico e neocapitalista. Il significato del convegno può essere riassunto in quel passo del messaggio inviato dal ministro Pieraccini in cui si sostiene che è stato superato il momento della «incomunicabilità». Le relazioni dei convegnisti sono risultate concordi nel sostenere che il cosiddetto campo socialista si avvia fatalmente in economia alla formazione di prezzi sempre più vicini al livello di impresa. Reinserimento del profitto, del valore, del mercato, del salario, questo è stato l'oggetto di «dotte e illuminanti» conferenze. Va notato con rammarico che gli ungheresi sono stati all'avanguardia nel convegno: segno certo che l'orientamento prevalente ormai nel Paese, dopo il fallimento della rivoluzione nel '56, è quello di spostare l'iniziativa di sganciamento dall'Unione Sovietica dal campo politico e quindi europeista a quello economicistico e quindi radicale e filo-occidentale.


CINEMA

3 - "America Paese di Dio", di Sansone e Chroscki

Che cos'è l'America? Qual'è il volto, lo stile, la più intima essenza del cosiddetto Stato guida dell'Occidente; quali i «miti» che vorrebbe imporre al mondo? Quale sarebbe in definitiva il destino degli occidentalisti, se questa volontà dovesse prevalere?
"America Paese di Dio" è una risposta da sinistra a questi interrogativi, una risposta limitata e carente, proprio per l'impostazione sostanzialmente progressista dei registi.
La diagnosi risulta in conclusione nebulosa, conformista, inconcludente.
Il film è la descrizione di una società attraverso i suoi miti ufficiali, un caleidoscopio ricchissimo d'immagini, rapide e sconcertanti, che ci dà degli USA un quadro tuttavia solo a tratti criticamente valido, stante gli intenti degli autori, Che restano ancorati alle loro ideologie di sinistra, intrise di generico umanitarismo ed egualitarismo.
È la presentazione di una medaglia e del suo rovescio: ricchezza e povertà, organizzazione di massa ed individualismo, pragmatica sicurezza di sé e tormentosa incertezza, materialismo spinto alle estreme conseguenze ed ansiosa ricerca di divinità.
Un mondo in crisi, i cui «valori», costituenti il fondamento della sua presuntuosa. «certezza», sono ormai non solo discussi, ma ostentatamente disprezzati, da angoli visuali spesso diversi ed anche contraddittori, con atteggiamenti vari, consci od inconsci, ma comunque respinti.
Qual'è il mito dell'americanismo; è la fede dogmatica nel concreto, nell'empirico, nel pragmatico, nel successo, nel guadagno, nel progresso materiale, nell'organizzazione di massa.
Su ciò si fonda il costume americano, quel costume che quel «popolo eletto da Dio» vorrebbe, messianicamente, esportare nel mondo, quale componente-base di una nuova civiltà.
È questo il «motore», la «religione» dell'America. Ma funziona? Le immagini del film ci dicono di no, e proprio nel momento dei suoi più esaltanti successi.
Il film inizia appunto a Cap Kennedy, da dove gli «spaceman», i pionieri dello spazio, simbolo autentico della civiltà della meccanizzazione, si apprestano a diffondere il «verbo» nell'universo. Ma avranno qualcosa da dire? Vediamo le allucinanti città a prova di bacillo, dove tutto è previsto, tutto è calcolato e... assolutamente igienico; i «Residence Center» del deserto -aria condizionata, piscine ed aereo per recarsi in ufficio- le fantasmagoriche ville holliwoodiane; le poderose industrie in cui macchine guidano altre macchine; i battelli per pescare seduti comodamente in poltrona, cullati dal ritmo dei «juke box», con accanto un salsicciotto fumante e l'immancabile coca-cola; i surrealisti «solari» dove ci si può «rosolare» con sistemi assolutamente scientifici; gli scintillanti templi del consumo: i supermarket, dove comprare è quasi un atto di fede, e così una dopo l'altra, ci passano davanti agli occhi le «realizzazioni» della Civiltà del Benessere.
Produrre, produrre, produrre e poi consumare, consumare, consumare e poi ancora produrre, per raggiungere così appunto, il «Benessere», cioè la loro civiltà. Eppure anche questo meccanismo presenta nel suo stesso ordine, considerevoli scompensi.
Sulle strade che portano nell'Appalacchia, la zona più depressa degli Stati Uniti, abitata da 15 milioni di bianchi reietti, cartelli ammoniscono severi, facendosi largo tra le insegne pubblicitarie: «Segui la via di Dio»; per coloro che quella via non hanno saputo seguire non vi è ricchezza, per gli «sconfitti, che non hanno saputo meritare il segno tangibile della grazia di Dio» c'è la miseria, a loro spetta soltanto di abitare negli squallidi «slooms» del sottoproletariato, di nutrirsi alla meglio nelle mense popolari. E ciò è giusto, perché essi sono «le pecorelle smarrite nei bassifondi del peccato».
«La vergogna di essere poveri è marchio di colpa e di condanna per 50 milioni di americani non baciati dal sole del successo»; o si è qualcuno o si è meno di nulla!
Per chi il successo l'ha avuto, uomini o cose, ma che non riesce più a tenere il ritmo, c'è pure un amaro destino: cimiteri di ferraglie per le macchine, e città per i pensionati, razionali, confortevoli, umanitarie perché la morale sia salva: «uomini e macchine buttati in pasto alla ruggine e all'isolamento, perchè la società non sa come utilizzarli». Ed anche questo è giusto.
«La macchina degli interessi economici segue la sua logica senza curarsi degli uomini».
La ribellione assume forme diversissime, attive o passive, consapevoli o meno, revisioniste o nichiliste, tutte però limitate ad aspetti isolati, personali, individualistici, non politici.
Il caleidoscopio delle immagini ci mostra così la furia devastatrice degli «angeli dell'inferno» che, a cavallo delle loro rombanti moto, si avventano con impeto selvaggio contro tutto ciò che è rispettabile, contro tutto ciò che rappresenta l'americano medio, contro ogni manifestazione della civiltà del benessere, ... la gioventù «beat» che colpisce, sia pure in maniera più blanda, gli stessi bersagli, ... lo schivarsi sdegnoso degli ultimi anabattisti, ... i «Testimoni di Geova» che, organizzandosi ricadono nell'ingranaggio, ... i negri con le loro sette, le organizzazioni paramilitari, il ritorno ai riti ancestrali, le violenze incontrollate, ... i fanatici che seguono istericamente le concioni di predicatori improvvisati, ... i pallidi intellettuali di Berkeley e Harward che cercano di sfuggire al livellamento cercando una più ampia uguaglianza, ... ed ancora ... agitati mentali che cercano un rifugio nella spiritualità dei culti dell'oriente, ... irrequieti che trovano la via verso lo spirito negli allucinogeni, ... ed ancora altri che, più semplicemente, errano nomadi alla ricerca di una felicità che non possono trovare.
È una protesta vasta, che serpeggia contorta in vari strati sociali, che assume, come si è detto, le forme più diverse e contraddittorie, che hanno però in comune la condanna sia pure monca e disarticolata di una società sostanzialmente collettivista, massificata, priva di valori superiori.
Una società strutturata all'insegna dei comfort, che ha creduto di poter sostituire Dio con un televisore od un frigorifero, veri e propri totem del «Paese di Dio» dove l'uomo, orgoglioso dei suoi strepitosi successi, ormai privo del rapporto con il divino, si riduce ad un buffo pupazzo mosso da fili e sostenuto e gonfiato dall'aria della sua presunzione.
Come abbiamo già detto, il film, con la forza delle sue immagini e con le stesse spontanee contraddizioni del commento, è andato talora oltre le intenzioni degli autori, che la loro tesi, in linea con la loro estrazione. radicale è diversa: per essi la società americana è si da condannare nella sua forma presente, ma, in quanto affetta da un processo in fondo soltanto superficialmente degenerativo ed involutivo, è pur sempre e facilmente emendabile, purché ritorni alle sue vere origini: una maggiore «partecipatory democracy» (democrazia di partecipazione), un pizzico di integrazionismi in più, una più equa redistribuzione dei redditi, ed ecco gli ingredienti necessari e sufficienti per rimettere le cose a posto e ... ridare così nuovamente alla loro cara America il faro della civiltà e del vero progresso. Sotto questo profilo si spiega la condanna del razzismo proposta dai registi, come d'altra parte risulta chiara la debolezza della loro denuncia, contenuta nei limiti delle dottrine radicali,
È evidente che questa posizione degli autori del film deve essere respinta, in quanto il punto attuale a cui è giunto l'americanismo è il frutto proprio di quelle premesse che essi vorrebbero estese nella forma più ampia. La mentalità come la struttura economica americana, è basata sul consumatismo, che è derivazione diretta del fondamentale principio democratico calvinista secondo cui il guadagno è l'unico segno tangibile della grazia di Dio. L'«ascesi capitalista» ha questo marchio e i suoi frutti lo mantengono inalterato.


SAGGISTICA
4 - Spagna trent'anni dopo: dalla Falange all'Opus Dei

Nella primavera del 1937 la Spagna era spaccata in due, dai Pirenei alla Sierra Nevada. La linea del fronte attraversava la valle dell'Ebro e i monti di Temei; tagliava poi la Castiglia Nuova e l'Andalusia fino al mare: a nord ovest i nazionalisti, a sud-est e lungo la costa cantabrica i repubblicani.
Dopo la difesa di Madrid e l'insuccesso dell'offensiva nazionalista su Guadalajara, il conflitto aveva assunto chiaramente i caratteri di una lunga guerra di logoramento. Ciò imponeva, e al tempo stesso agevolava, estremizzando i contrasti, il consolidamento politico all'interno dei due campi avversari. La primavera del 1937 fu a questo riguardo decisiva.
Le discordie in campo repubblicano si conclusero con la conquista dell'egemonia da parte dei comunisti. Non meno drammatici furono gli avvenimenti che divisero il campo nazionalista. Il primo elemento di forza su cui avevano fatto leva i generali rivoltosi fu l'esercito. La debolezza dei governi che avevano guidato il Paese dall'inizio del secolo XIX avevano trasformato l'esercito in un fattore determinante della vita civile spagnola. Il pronunciamento militare era così diventato una carta abituale nel gioco politico.

* L'esercito e la massoneria
La forza dell'esercito consisteva, nel 1936 come nel passato, nei valori tradizionali del soldato spagnolo, che fondevano i quadri e la truppa in unità compatte, fedeli e di elevata capacità combattiva. Ciò non impedì talvolta ai militari di porre questa forza, rappresentata dalla fedeltà ai valori tradizionali, ali servizio di partiti o di concezioni con cui essi non avrebbero dovuto avere nulla in comune. Già nel 1934 essi avevano finito per appoggiare i liberali contro i monarchici carlisti. Non bisogna dimenticare che anche in Spagna, come altrove in Europa, la prima metà del secolo scorso fu l'epoca d'oro della massoneria, la cui influenza si faceva sentire anche negli alti comandi militari.
Uomini d'ordine, l'errore tipico che i militari compiono sul terreno politico è quello di ritenere che qualsiasi ordine meriti di essere difeso, senza curarsi di ciò che sta dietro ad esso e delle implicazioni politiche ed ideologiche del regime che essi contribuiscono ad instaurare. Quando si inducono a ribellarsi al potere legittimo è solo perchè questo si è dimostrato impotente ad assicurare l'ordine e la legalità. È questo il limite che porta così spesso i militari ad allinearsi sulle stesse posizioni della borghesia conservatrice.

* Francisco Franco, borghese conservatore
Il modo in cui Franco riuscì ad imporsi agli altri capi militari nei primi mesi della guerra civile, senza che alcuno lo avesse investito di questa autorità, indica la straordinaria abilità di questo giovane generale, accorto, paziente, deciso.
Privo di autentiche qualità geniali, sia sul piano militare che su quello politico, Francisco Franco aveva la rara dote di saper attendere e di saper afferrare il momento propizio senza mai porre avventure. Egli sapeva fare in modo che gli eventi maturassero creando condizioni favorevoli alle sue capacità personali di capo ed evitando invece quelle situazioni che era ben conscio di non saper dominare. Buon tattico, ma mediocre stratega, evitò che le campagne si risolvessero in scontri decisivi, preferendo frantumare la lotta in battaglie isolate che non impegnavano a fondo le sue forze e che, del resto, si guardava bene dal dirigere personalmente.
Più volte Hitler e Mussolini gli rimproverarono di menar le cose troppo per le lunghe, affermando che con gli aiuti che essi gli avevano inviato avrebbe potuto concludere la guerra in pochi mesi. Ma Franco preferiva logorare l'avversario di cui conosceva l'intrinseca debolezza, ed esaurirne nelle estenuanti battaglie sui fronti aragonesi il potenziale bellico di cui esso disponeva grazie agli aiuti militari stranieri.
Ma un'altra considerazione, oltre a quella di risparmiare i suoi reparti (a differenza dei repubblicani, i nazionalisti non erano ricorsi alla coscrizione obbligatoria), deve aver ispirato la tattica temporeggiatrice di Francisco Franco: la consapevolezza che il prolungamento della guerra rafforzava la sua posizione di «generalissimo» delle armate nazionaliste e gli dava modo di indebolire le opposizione interne.
Ogni settimana che passava aumentava il prestigio del «Caudillo» e la sua sfera di potere, mentre riduceva lo spazio degli organismi rivali. Se la guerra si fosse conclusa troppo rapidamente, egli si sarebbe trovato di fronte ai suoi colleghi su un piede di quasi parità ed avrebbe avuto a che fare con due organizzazioni; i Requetés e la Falange, nel pieno del loro vigore.
L'obiettivo di Franco nel primo anno di guerra fu quello di liquidare questi due movimenti, privandoli della loro carica rivoluzionaria e trasformandoli in docili e innocui strumenti del suo regime. Intanto l'importante era vincere, e a tal fine era doppiamente vantaggioso tenere subito saldamente in pugno tutte le forze del campo nazionalista.

* Franco liquida i carlisti
Nell'inverno 1936-37 i carlisti commisero un errore fatale, offrendo a Franco l'occasione per colpirli. Per colmare i vuoti aperti nelle file dei Requetés dagli ufficiali caduti in combattimento, i carlisti decisero di istituire un'accademia militare. Ma non informarono il Caudillo del loro progetto. Fai Conde, capo e organizzatore del partito, ricevette l'ordine di lasciare la Spagna entro quarantotto ore sotto l'accusa di aver tentato un colpo di stato. Franco avrebbe voluto farlo fucilare, ma ebbe timore delle ripercussioni sul morale dei 30.000 Requetés impegnati sul fronte. I carlisti dovettero obbedire e fu un colpo dal quale non si ripresero più.
Più difficile si presentava il problema della Falange. Essa era scesa nella lotta con un programma preciso, cui intendeva restare fedele. Quando, durante la campagna elettorale che precedette la consultazione del febbraio 1936, si prospettò la possibilità di una adesione della Falange al Fronte Nazionale, che raggruppava la destra, dai monarchici ai cattolici di Gil Robles, José Antonio de Rivera, il giovane capo della Falange, condizionò l'alleanza all'accoglimento di due precise richieste:
1) una riforma del credito, comprendente la nazionalizzazione delle banche;
2) una riforma agraria da attuarsi in senso rivoluzionario, lasciando in seconda linea la questione dei risarcimenti.
Queste tesi -com'era naturale- non trovarono alcun consenso e la Falange si presentò sola alle elezioni, patetico Don Chisciotte fra i due grandi blocchi. La forza elettorale dei falangisti era inconsistente e le destre non avevano alcun bisogno dei loro voti. Ebbero però bisogno, sei mesi dopo, dei 60.000 volontari da schierare sui campi di battaglia.

* La posizione politica della Falange
La Falange aveva anche rifiutato di prender parte alla cospirazione dei militari. Dal 14 marzo del 1936 la maggior parte dei suoi capi erano rinchiusi nelle prigioni repubblicane, gli altri comunicavano tra loro clandestinamente. Il 24 giugno, José Antonio dal carcere di Alicante riuscì ad inviare una circolare clandestina ai dirigenti locali in cui raccomandava di non aderire agli inviti di collaborazione rivolti loro dai militari e di non lasciarsi strumentalizzare per fini che non erano quelli del Movimento.
Se la Falange -ammoniva- partecipasse ad una impresa incompleta e prematura, in veste di comparsa o di semplice truppa ausiliaria, ne deriverebbe, anche in caso di trionfo, la sua sconfitta e la sua estinzione. La Falange -continuava- voleva la creazione di uno Stato nazional-sindacalista in conformità con i 27 punti del suo programma e non «la restaurazione di una mediocrità borghese conservatrice», per la quale ora si voleva sfruttare il suo intervento. Per i conservatori le formazioni falangiste non sarebbero state altro che una specie di forza d'assalto, una milizia giovanile da far sfilare il giorno della vittoria davanti ai «fantasmones» impadronitisi del potere.
Se questa era la netta posizione assunta da José Antonio, non ci si può stupire che in seguito, in occasione di uno scambio di prigionieri, ci fosse in campo nazionalista chi si oppose a inserire nella lista il suo nome.
Ma le severe disposizioni impartite da José Antonio de Rivera si mostrarono inapplicabili di fronte all'incalzare degli avvenimenti. Davanti al sangue che scorreva per le strade, i dirigenti locali, isolati gli uni dagli altri e separati dalla direzione centrale, si lasciarono prendere la mano dalle esigenze dell'azione: scesero in campo rinunciando a condizionare il loro appoggio a garanzie precise o credendo che queste fossero già state concordate al vertice dell'organizzazione. A nulla servì quanto sancito con tanta decisione nel punto 27: «Sarà nostro ardente impegno di sostenere la lotta per la vittoria solamente con le forze sottoposte alla nostra disciplina. Non scenderemo a patteggiamenti; solamente nella fase conclusiva per la conquista dello Stato, la direzione farà trattative per una necessaria collaborazione. Ma in questa dovrà essere sempre assicurato il nostro predominio».
Gimenez Caballero, il teorico falangista, aveva detto qualche anno prima che in José Antonio si raccoglievano quasi tutte le possibilità di vittoria. Il suo augurio di amico era che egli ne sapesse fare uso con successo.
José Antonio fu fucilato nel carcere di Alicante il 20 novembre 1936. I repubblicani avevano liberato Franco del rivale più pericoloso.
Gli successe come capo provvisorio della Falange Manuel Hedilla, un meccanico di Santander. La sua posizione era fra le più difficili. In pochi mesi il Movimento aveva decuplicato i suoi effettivi. Se ciò aumentava il suo contributo sul piano militare, determinava anche uno stemperamento ideologico fra le file dei nuovi iscritti ed un conseguente indebolimento politico di tutto l'organismo, aggravato dalla perdita dei quadri dirigenti, caduti in combattimento, imprigionati, giustiziati.

* Franco contro la Falange
In questo quadro si muove la manovra politica di Franco. La capacità dei comandanti e l'eroismo dei soldati non bastavano da soli, occorreva dare al fronte nazionale un contenuto ideologico, un programma per la direzione del futuro Stato. Consigliato dal cognato, Serrano Sufier, ex-dirigente della CEDA ed ora ardente «camicia nuova», Franco fece suoi molti dei 27 punti del manifesto della Falange, ponendo accuratamente in ombra tutto ciò che potesse suonare allarme alle classi conservatrici (nazionalizzazione del credito e delle aziende di interesse pubblico, eliminazione dei grandi monopoli industriali, riforma fondiaria, ecc.).
Con il decreto di unificazione, emesso a Salamanca il 19 aprile 1937, la Falange e i Requetés venivano riuniti in una sola unità politica, che assumeva il nome alquanto eclettico di «Falange Espanda Tradicionalista y de la JONS» (le antiche squadra di offensiva nazional-sindacalista fondate da Ledesma Ramos e da Onésimo Redondo). Per non lasciar fuori nessuno, venivano fatti confluire nel nuovo partito unico anche i volontari cattolici e repubblicani di destra provenienti dalla Renovaciòn Espanola e dalla Acciòn Popular. Di li a qualche mese i ranghi vennero ulteriormente allargati, facendovi entrare d'ufficio i funzionari governativi e gli ufficiali delle forze armate. Il decreto di Salamanca significava per Franco assicurarsi non solo il controllo ideologico e politico di tutte le forze del fronte nazionale, ma significava soprattutto la neutralizzazione della vecchia Falange, privata di ogni dinamica interiore. Nei mesi successivi Franco consoliderà il suo trionfo, fino alla formazione del primo gabinetto nel gennaio 1938. Nel nuovo governo le «camicie vecchie» avranno un solo esponente, Fernandez Cuesta, ministro dell'agricoltura.
La Falange reagì al decreto di unificazione. Nei giorni che precedettero immediatamente la sua emanazione, reparti di falangisti si concentrarono intorno a Salamanca, sede del quartier generale di Franco. Si verificarono disordini, un falangista rimase ucciso, è da pensare che il Generalissimo, di fronte alla minaccia, abbia affrettato la pubblicazione del provvedimento per mettere i suoi avversari dinanzi al fatto compiuto.
La Falange era l'unica in campo nazionalista ad aver compreso il significato europeo del conflitto spagnolo. Ma i governi di Roma e di Berlino non mossero un dito per salvarla. Avranno occasione di ricordarsene nel 1940.
All'azione tempestiva di Franco le camicie azzurre non cedettero. Nei giorni successivi al 19 aprile, Hedilla si presentò al quartier generale per porre a Franco le condizioni per l'appoggio della Falange al nuovo partito unico. Fu arrestato e con lui furono arrestati, fra il 24 e il 25 aprile, altri venti falangisti. Deferiti al Tribunale di guerra, Manuel Hedilla e altri tre dirigenti del movimento vennero condannati a morte, i rimanenti a pene detentive. In seguito la pena capitale fu commutata nel carcere a vita. Alcuni riuscirono a fuggire; furono ricatturati e fucilati.
Nell'ottobre 1936 José Antonio aveva dichiarato a un giornalista inglese del "News Chronicle", durante un'intervista in cui aveva ricordato il programma rivoluzionario della Falange: «L'unica cosa che so è che se la rivolta di Franco dovesse servire unicamente alla reazione, la mia Falange ed io ci ritireremmo e, per quanto mi riguarda, probabilmente tornerei in questo carcere, o in un altro nel giro di pochi mesi».
Le sue più tristi previsioni si erano avverate nella persona del suo successore. Ai superstiti che si riunivano ora nella casa di Pilar Primo de Rivera, sorella di José Antonio, non restava altro che contare i nomi dei compagni che continuavano a morire sui fronti nelle armate di Franco.
Nessun partito, né da una parte né dall'altra della trincea, perse nella guerra civile tanti capi quanti ne perse la vecchia Falange. Si calcola che il 60% degli iscritti di prima della guerra siano caduti nel conflitto. Il punto 26 del loro programma diceva: «La vita è milizia; essa deve essere vissuta con un servizio irreprensibile e con un ardente spirito di sacrificio». Questi uomini seppero vivere le idee in cui credevano.
«Voglia Iddio che la loro ardente ingenuità non sia mai impiegata in altro servizio che non sia quello della grande Spagna sognata dalla Falange» (dal testamento di José Antonio redatto nella prigione di Alicante il 18-11-1936).


LE VOCI DEL SISTEMA
 

* Florilegio occidentalista

Il centrista
«C'è da fare la considerazione che vi è un momento in cui ciascuno deve rientrare fra i propri, e i propri, per i russi, non si sa ancora se saranno i compagni comunisti di Pekino o i popoli occidentali, con i quali intendono vivere in pacifica convivenza». .
"il Messaggero" del 4 settembre 1966

Il socialdemocratico
«La nazione americana non accetterà mai una sconfitta disonorevole ed il governo di Hanoi va criticato per l'errata valutazione della posizione americana».
dichiarazioni dell'on. Cattani del PSDI

Il radicale
«Anche se Johnson non fosse succeduto a Kennedy, De Gaulle avrebbe cercato in tutti i modi di affermare in polemica nei confronti di Washington l'indipendenza della Francia e di mettere in tal modo in pericolo l'unità dell'Occidente».
"l'Espresso" del 4 settembre 1966

Il missino
«Bisogna contribuire a riannodare i legami della solidarietà europea, concependo l'Europa occidentale come legata per necessità di vita al grande continente americano».
dal documento politico della DN del MSI 8 luglio 1966

Il comunista
«Ci riteniamo in fin dei conti maggiormente tutelati dal Patto Atlantico che dalla politica nazionalistica europea promossa da De Gaulle».
dichiarazioni del ministro della difesa polacco in occasione della riunione dei Paesi del Patto di Varsavia a Bucarest.



* La vera sostanza dell'occidentalismo

«La NATO fu costituita per "contenere" la Russia, ma anche per "contenere" la Germania».
Ricciardetto su "Epoca" del 25-9-66