ATTUALITÀ
1 - Il diktat atomico
Il trattato sulla non proliferazione delle armi atomiche che Stati Uniti, Gran
Bretagna e Unione Sovietica vorrebbero imporre ai Paesi non nucleari costituisce
per le due massime potenze atomiche un ennesimo accordo per mantenere la
situazione di equilibrio esistente oggi nel mondo, situazione contrassegnata dal
dominio a due instaurato a Yalta e a Potsdam nel 1945.
Come è noto, per realizzare questo condominio su tutti i continenti le due
massime potenze vincitrici dello ultimo conflitto si intesero su due punti
fermi: in Europa impedire la rinascita della Germania e il sorgere di una
nazione unitaria europea; nel Pacifico impedire la nascita di una grande potenza
che potesse svolgere la funzione del Giappone nell'ultimo conflitto. Tutta la
politica internazionale dominata dagli Stati Uniti e dalla Unione Sovietica nel
dopoguerra si è sempre svolta in funzione di queste premesse.
Per realizzare il mantenimento dello status quo e conseguentemente della
situazione di preminenza, USA e URSS fra l'altro hanno sempre cercato di
impedire la diffusione in altri Paesi delle armi nucleari, e cioè il loro
possesso da parte di altri Stati.
La situazione di dominio a due però ha subito una grave alterazione per il venir
meno di una delle due basi sulle quali essa si fondava; in Asia infatti la Cina
ha assunto il ruolo di grande potenza, soprattutto dopo il suo provvidenziale
exploit atomico. Questo avvenimento ha costretto Stati Uniti e Unione Sovietica
ad affrettare il passo in materia nucleare per impedire il venir meno anche
della seconda premessa del loro dominio, con la rinascita della Germania, dotata
di armamento nucleare, e, a più lunga scadenza, con la possibilità
dell'affermarsi dell'Europa come forte potenza nucleare.
Ecco perché le proposte USA-URSS in materia nucleare non sono mai state così
pressanti come in questo delicato momento, in cui sono state accompagnate per di
più da minacce (quelle, note, di Kossighin a Kissinger) e presentate in maniera
tale da suscitare le più spontanee ed ovvie riserve ed opposizioni.
Infatti se le mire espansionistiche cinesi nel Pacifico e verso la Russia
asiatica potrebbero essere rese inefficaci dagli Stati Uniti e dalla Unione
Sovietica malgrado l'atomica cinese, questa situazione di predominio finirebbe,
e forse anzi si rovescerebbe, qualora anche la Germania, e con essa o per essa
l'Europa, diventasse una grande potenza nucleare. L'alleanza naturale e di fatto
USA-URSS potrebbe essere bilanciata da un'altra alleanza, per ora soltanto
naturale, fra Cina e Stati Europei, i quali tutti hanno infatti i medesimi
interessi antisovietici e antiamericani da soddisfare e ormai con una certa
urgenza.
Non si tratta quindi soltanto di un disarmo contro la Germania e l'Europa ma
anche di un disarmo contro la Cina, inteso precisamente ad isolarla.
I motivi economico-scientifici
A queste ragioni di superiorità militare e quindi politica, che costituiscono il
vero motivo delle insistenze delle due super potenze per ottenere al più presto
l'approvazione del trattato di non proliferazione, si accompagnano poi appetiti
in campo economico-scientifico che, se costituiscono dei riflessi del trattato
più che le vere ragioni motrici, non vanno tuttavia sottovalutati.
Con la stipulazione del trattato infatti Stati Uniti e Unione Sovietica
otterrebbero una sicura supremazia scientifica in campo nucleare sui Paesi non
nucleari, impediti nella ricerca scientifica e nella produzione del materiale
atomico e sottoposti a controlli nell'impiego della energia nucleare a scopi
pacifici, e una supremazia economica consistente nel fatto che si stabilirebbe
automaticamente con la firma dell'accordo da parte dei Paesi non nucleari la
loro perenne condizione di acquirenti di materiale nucleare e di brevetti dai
Paesi nucleari; senza contare poi che ove le due super potenze atomiche
bloccassero i mercati e la trasmissione dei risultati delle loro ricerche le
applicazioni pacifiche dell'energia nucleare dei Paesi firmatari sarebbero
completamente paralizzate con possibilità da parte loro di influire così
sull'intero ciclo industriale di questi.
È chiaro dunque che non sarebbero tanto i Paesi del terzo mondo e
sottosviluppati a subire le conseguenze dell'accordo capestro quanto invece i
Paesi altamente industrializzati dell'Europa, soprattutto occidentale e in
particolare la Germania.
Per la Gran Bretagna il discorso è diverso: non sono ormai più tanto le ragioni
di supremazia che hanno indotto questo Stato a coadiuvare la nuova Yalta quanto
invece le già viste ragioni di ordine scientifico e soprattutto economico. Non
sono comunque da sottovalutare i vantaggi che deriverebbero alla Gran Bretagna,
anche per ragioni di carattere psicologico, nell'ordine del Commonwealth,
qualora essa restasse uno dei pochi Paesi forniti non solo di un arma ma di una
scienza e di una economia nucleare.
Riflessi sull'Europa e sul Giappone
Ma le tre potenze nucleari ai vantaggi strategici, scientifici, economici, ne
assommerebbero un altro: non soltanto cioè privare gli Stati Europei dell'arma
atomica, ma determinare il rallentamento di un ipotetico processo di
unificazione europea, temibile, come abbiamo visto, per il binomio USA-URSS
tanto più poi ove l'elemento catalizzatore fosse la Germania.
La Francia infatti, soprattutto sotto la spinta di De Gaulle, potrebbe
condizionare a proprio favore la unificazione per i vantaggi che le derivano
dall'essere l'unica potenza nucleare europea (questa è una delle ragioni che
spingono De Gaulle a tenere fuori dal MEC l'Inghilterra); d'altra parte gli
altri Stati, soprattutto la Germania e l'Italia, sarebbero, proprio per evitare
questo condizionamento, indotte a cercare un equilibrio con l'ingresso della
Gran Bretagna nel MEC e della stessa Spagna, possibile futura potenza nucleare
(USA permettendolo).
E ciò vale non solo per gli Stati dell'Europa occidentale ma incide
negativamente anche per le relazioni fra l'Oriente e l'Occidente europeo: così
l'URSS, denunciando come pretesti le legittime riserve della Germania
Occidentale, ha inteso far sorgere serie apprensioni in quegli Stati dell'Europa
sud orientale che si apprestavano o stanno apprestandosi a scambiare
rappresentanze diplomatiche col governo di Bonn.
Simili ragioni valgono naturalmente anche nei confronti del Giappone ove si
pensi che questo, impossibilitato a possedere l'arma, si troverebbe in perenne
posizione di svantaggio nei confronti della Cina e sarebbe quindi restio a
quella alleanza fra i due grandi Stati asiatici che a tratti sembra profilarsi,
la quale costituirebbe un nuovo grave handicap per lo sviluppo
dell'espansionismo russo-americano. A causa del nuovo corso delle relazioni
pacifiche USA-URSS, per la Russia è preferibile un Giappone gravitante
nell'orbita americana che non una alleanza cino-giapponese.
Vaticano e ONU
Favorevoli all'accordo fra le tre potenze nucleari si sono dimostrati ovviamente
il segretario generale dell'ONU e il Vaticano; mai infatti un trattato potrebbe
essere più favorevole alle tesi pacifiste di questi ambienti para-radicali.
U Tanth poi, in particolare, per il prestigio che gli deriverebbe dall'essere
riuscito ad evitare un dialogo separato fra due grandi potenze nucleari e ad
innestare la conclusione dell'accordo in sede ONU, assicurando così la funzione
di mediazione dell'organismo da lui rappresentato.
Le riserve di natura economica e tecnologica
Il radicalismo, il pacifismo e l'economicismo che dominano oggi in ordine
crescente i governi europei, gli Stati neutrali e i Paesi del terzo mondo (non
allineati e sottosviluppati) hanno fatto sì che l'attenzione di questi si sia
rivolta soprattutto sui pregiudizi di ordine economico e scientifico che
deriverebbero dalla firma del trattato, onde le opposizioni di molti Paesi al
trattato sono state originate da queste ragioni, anche se democraticamente
mascherate dietro il paravento della necessità di un maggiore se non totale
disarmo e della eguaglianza fra gli Stati, compromessa dalla discriminazione
nucleare.
Solo il governo federale tedesco è stato spinto ad obiezioni e riserve anche da
motivi di sicurezza internazionale della Germania: «il trattato sarebbe la
nostra morte» ha ammonito pesantemente il vecchio Adenauer.
L'opposizione italiana e del Terzo Mondo
In Italia i pregiudizi di carattere economico hanno avuto un peso esclusivo
nella protesta contro il trattato. Il capitalismo italiano, malgrado le
contrarie apparenze, non ha mai trovato un terreno tanto favorevole come quello
che gli offre il centro sinistra, non solo nel mercato interno ma anche estero.
Esso perciò, benché progressivamente scalzato dal grande capitale americano
(circa il 32% di investimenti diretti o ben camuffati), risponde alla ingerenza
statunitense con la prospettiva di un grande giro di affari nel campo della
applicazione dell'energia nucleare a scopi pacifici. E per ottenere questo ha
condizionato il partito socialista, il quale ultimo poi per non perdere il
contatto con la base si mostra, per bocca di vari parlamentari, anche favorevole
al trattato. Circa l'improvvisa ventata nazionalistica di Moro e di Fanfani non
sono poi da escludere ragioni elettoralistiche: togliere alla destra un
pericoloso argomento di propaganda nazionale per le elezioni del '68, tanto
facile a sbandierarsi per il modo drastico e inopportuno con cui si è voluto
imporre il trattato sulla non proliferazione ai Paesi non nucleari.
Le preoccupazioni di Fanfani sull'avvenire nucleare della RAU, di Israele, e di
altri paesi dell'area mediterranea, soprattutto dell'Albania (leggi Cina) perciò
nascondono ben altro.
Fanfani poi non avrebbe potuto aderire, almeno subito, alla formazione di un
sicuro grave divario tecnologico fra l'Europa e le due superpotenze in materia
nucleare quando da vari mesi va proponendo il superamento del divario
tecnologico generale fra Stati europei e Stati Uniti.
Per quanto poi riguarda le riserve avanzate dagli Stati neutrali o non
allineati, è evidente che esse sono determinate dal fatto che una politica
neutralistica o di non allineamento per essere efficace presuppone un certo
contrasto internazionale e non un accordo che quel contrasto riduca in modo
notevole.
Previsioni sulla approvazione del Trattato
È difficile prevedere se si arriverà alla stipulazione del trattato sulla non
proliferazione. L'ostacolo maggiore è determinato dal fatto che vari Stati
attualmente non nucleari si rifiuteranno di firmarlo, ciò che renderà guardinghi
i restanti Paesi senza atomo.
È probabile tuttavia che a media scadenza si addiverrà alla stipulazione di un
trattato di non proliferazione fra vari Stati. E precisamente aderiranno al
progetto anglo-russo-americano tutti quei Paesi che si saranno decisi a farlo in
seguito a pressioni più o meno forti delle potenze nucleari proponenti attorno
alle quali gravitano dietro concessioni di carattere economico e garanzie
meramente formali.
Per quanto riguarda l'Italia noi riteniamo che il nostro governo prima o poi
sarà indotto a cedere; il punto debole all'interno del nostro paese è costituito
dalle correnti radicali che sanno bene farsi valere nelle grandi occasioni
(questa volta poi facilitate dal fatto che non dovrebbero neppure
strumentalizzare i circoli delle Botteghe Oscure).
Comunque già Foster è venuto a ricordare agli «alleati» occidentali, soprattutto
italiani, i vincoli di sudditanza che li legano agli Stati Uniti, ed è ben
difficile che la voce del padrone rimanga inascoltata.
Le due super potenze, coadiuvate, more solito, dalla Gran Bretagna, continuano
in questi giorni a premere con tutti i mezzi contro l'Europa; e il ventilato
accordo USA-URSS sul missile antibalistico e la avvenuta stipulazione di un
accordo (non ancora ratificato) sulla denuclearizzazione dell'America Latina non
giovano certo alla causa di una Europa per di più divisa e governata da uomini
che calcolano i grandi desitni in termini economici e tecnologici.
POLITICA INTERNA
2 - Perchè non c'è stata la verifica di
governo
Le attese di chi pensava che il voto sui previdenziali potesse determinare la
caduta o più semplicemente il rimpasto del governo di centro-sinistra oppure
almeno una verifica del programma concordato e mai rispettato fra i partiti di
governo, è rimasto deluso.
Domenica 19 marzo Nenni, parlando a Torino, ha affermato che un «cambio dei
cavalli» della diligenza governativa non era stato fatto per evitare un dannoso
arresto della marcia di realizzazione del programma concordato.
Quando si tiene a mente che almeno la verifica era richiesta da più parti, anche
all'interno dei partiti di governo, per le carenze riscontrate proprio nella
realizzazione del programma, appare chiaro il carattere giustificatorio della
tesi nenniana. In realtà, la verifica s'inseriva in un gioco politico più
complesso sul quale era meglio tacere, per cui sia le tesi di Nenni sia quelle
degli oppositori erano puramente di comodo.
Per comprendere la situazione determinatasi nelle scorse settimane e che appunto
minacciò la stabilità governativa, occorre rifarsi alle elezioni dell'autunno
passato, quando, di fronte al successo democristiano, i socialisti non
confermarono le attese di chi intravedeva nel PSU un grande partito di massa,
capace di contestare elettoralmente alla DC la posizione di priorità fra i
partiti italiani.
Il campanello d'allarme suonò immediatamente nelle menti radicali del partito
socialista, le quali avevano concepito l'ingresso del partito al governo e la
conseguente riunificazione socialista come il prezzo da pagare per giungere alla
formazione di un forte partito laicista e progressista.
I risultati elettorali venivano invece a smentire queste speranze e soprattutto
diminuivano la forza di contrattazione del PSU verso la DC, fino a far
prospettare come ineluttabile il trionfo delle posizioni moderate imposte alla
DC dai dorotei. I fatti confortavano d'altra parte questi timori poiché dalla
programmazione alla Federconsorzi, dalle regioni alla riforma delle società per
azioni, dalla legge urbanistica alla riforma sanitaria tutto l'arco del
programma governativo rimaneva statico per il presente e minacciava di divenirlo
definitivamente per il futuro.
Come i dorotei avevano egemonizzato la DC, giungendo fino ad ottenere
l'abolizione delle correnti interne, così essi minacciavano, dopo i risultati
elettorali, agli occhi dei radicali, di egemonizzare con le loro tesi moderate
tutto lo schieramento di centro-sinistra.
A questo punto "l'Espresso" scrisse articoli di fuoco contro l'inerzia del
governo, come se essa fosse di data recente. L'immobilismo di Moro venne bollato
a fuoco e si arrivò alle parole grosse contro gli stessi esponenti provenienti
dal PSI favorevoli alle tesi moderate.
In sostanza come apparve chiaro dalle affermazioni di De Martino capo dell'ala
radicale del PSU, si voleva una crisi di governo per poter portarsi fuori di
esso, lasciando soltanto alla DC la responsabilità governativa fino alle
elezioni del 1968. In tal modo si contava di sottrarre il PSU alle imposizioni
moderate dei dorotei, di diminuire per conseguenza il potere dei gruppi di
destra (Mancini, Corona, socialdemocratici) dello stesso partito e infine di
ricattare la Democrazia Cristiana con la prospettiva di un mancato reingresso
socialista nel governo. A tale disegno si oppose Nenni ma più che per le ragioni
addotte a Torino o per il timore che il «cambio dei cavalli» venisse a
costituire una perdita di contatto del partito socialista con il potere
(contatto sempre aperto considerata la presenza di Saragat al Quirinale) per il
timore che si potessero, durante il periodo di attesa, creare condizioni
favorevoli a un nuovo discorso della sinistra comprendente anche i comunisti.
Nenni aveva ben presente il tentativo operato dai radicali, 3 anni orsono, per
la costituzione di un partito unico dei lavoratori che andasse dal PSDI al
Partito Comunista compreso. Fu anzi proprio nel PCI che questo disegno venne più
largamente considerato, per le pressioni, le insistenze e la propaganda che ne
fece Amendola. L'ingresso nel governo e l'unificazione socialista avevano chiuso
quella prospettiva; l'uscita dal governo poteva riaprirla.
Per queste ragioni e non per le altre che i funamboli paragovernativi hanno
addotto, non vi è stata la crisi di governo, né un rimpasto («cambio dei
cavalli») che della prima sarebbe stato un misero succedaneo, né infine una
verifica del programma seria ed effettiva, la quale, dimostrando valide le
critiche dei radicali, avrebbe potuto far trarre conclusioni disperate sul
mantenimento in vita del governo stesso.
POLITICA
ESTERA
3 - Medio Oriente: la frattura del
mondo arabo
L'attuale situazione del Medio Oriente dimostra come esista all'interno del
mondo arabo una frattura non solo politica ma anche ideologica, ravvisabile nei
contrasti e nello stato di tensione tra gli Stati arabi: tra quelli
nazionali-rivoluzionari e quelli reazionari, conservatori e occidentalisti.
Un'analisi politica della situazione da una parte evidenzia la notevole
preoccupazione con cui Londra e Washington guardano al Medio Oriente e
dall'altra dimostra che le iniziative prese dai loro alleati (Feisal, Hussein,
Burghiba), sotto loro pressione, sono state finora solo dei tentativi inefficaci
e mal riusciti di opposizione al nasserismo.
Dopo il violento discorso di Nasser a Porto Said il 23 dicembre scorso, in
risposta a quello di Burghiba, nel quale il presidente della RAU ribadì la
volontà di arrivare a una soluzione militare e politica della questione
israeliana e accusò Burghiba, Feisal e Hussein di tradire la causa islamica e di
essere degli strumenti di Londra e di Washington, gli occidentalisti sono
passati all'offensiva tramite re Hussein.
Il re di Giordania ha infatti inviato, il 3 febbraio scorso, una nota ufficiale
alla Lega degli Stati Arabi, nella quale ha comunicato di non riconoscere più
l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e di riservarsi il diritto
di non partecipare a riunioni inter-arabe a cui fosse presente Ahmed Shukeiry,
presidente della organizzazione in questione.
Il motivo di questo improvviso ritiro dell'appoggio all'OLP, nata proprio in
Giordania il 2 giugno 1964 e sotto il patrocinio di re Hussein, è
inequivocabilmente contenuto nell'immediata risposta che Ahmed Shukeiry ha dato
in una intervista al Cairo. «Da molto tempo, egli ha detto, il governo giordano
lavora contro di noi e contro gli Arabi, rifiutandosi di partecipare ad una
azione comune. Non vi è alcuna differenza tra la posizione presa da re Hussein e
da Levi Eshkol, Presidente del Consiglio israeliano. Israele evidentemente non
ci riconosce e, da venerdì 3 febbraio, anche la Giordania non ci riconosce più».
Le dichiarazioni di Ahmed Shukeiry dimostrano come la Giordania si sia adeguata
alla linea distensionista verso Israele imposta da Londra e Washington e accetti
la loro politica volta a neutralizzare qualsiasi azione anti-israeliana e
rivoluzionaria. Devesi tuttavia rilevare che ciò potrebbe incontrare notevoli
difficoltà, in quanto, a sostegno di Nasser, dell'OLP e dello Yemen, si è
dichiarato il presidente dell'Irak, Abdel Rahaman Aref in una visita al Cairo
compiuta dal 2 al 7 febbraio. Prova ne è che Hussein si è immediatamente
preoccupato di stringere alleanze politiche economiche e militari con Feisal re
dell'Arabia e con gli sceiccati del Quater e di Abu Dhabi per condurre una
guerra unitaria alla repubblica dello Yemen. Alleanze queste che si sono
concluse con il ritiro del riconoscimento da parte della Giordania al governo
repubblicano dello Yemen, avvenuto il 18 febbraio, e l'invio di materiale
bellico degli Stati Uniti alla Giordania e ai suoi alleati. A questo punto è
opportuno rilevare che la situazione nel Medio Oriente si è aggravata non tanto
a causa del dissidio esistente tra RAU e Giordania sulla questione israeliana,
quanto per la questione yemenita, perché lo Yemen rappresenta una spina
rivoluzionaria nel fianco non solo dell'Arabia saudita e degli sceiccati del
Golfo Persico, ma anche di Aden e di quegli sceiccati che si accingono a
ricevere l'indipendenza dalla Gran Bretagna.
È quindi interesse comune di Hussein, Feisal, degli sceicchi arabi,
dell'Inghilterra e degli Stati Uniti eliminare a tutti i costi la repubblica
yemenita, e per far ciò essi hanno bisogno dell'appoggio militare americano.
Fino a che punto sia possibile ciò, si può dedurre dal discorso di Nasser del 22
febbraio in occasione dell'anniversario della costituzione della RAU, nel quale
ha affermato che, nonostante Hussein «re prezzolato» e Feisal vogliano con
l'aiuto anglo-americano condurre la guerra allo Yemen, l'Egitto con l'appoggio
siriano e irakeno, colpirà chiunque attaccherà lo Yemen, e a questo proposito il
presidente egiziano ha aggiunto che è stato proibito agli aerei militari
americani e britannici di sorvolare l'Egitto per impedire la fornitura di armi e
soldati.
La situazione è quindi ben lungi dalla prospettiva di una soluzione negoziata,
in quanto l'azione di Nasser costituisce una minaccia agli interessi economici
angloamericani; a ciò si deve aggiungere che il ritiro del proprio ambasciatore
al Cairo, in seguito al discorso di Nasser, da parte di Hussein, non fa altro
che fare il giuoco dell'Egitto, mentre il tentativo di riavvicinarsi alla
Germania, effettuato il 27 febbraio, dimostra ulteriormente che il re di
Giordania è costretto a muoversi nello spazio politico internazionale a cui lo
hanno confinato Stati Uniti e Gran Bretagna.
RECENSIONE
4 - "Il Patto Atlantico: sicurezza
nella libertà"
di Pietro Quaroni - Giovanni Volpe Editore
Di fronte a libri come questo, il primo sentimento che proviamo è quello del
disgusto e della rivolta. E non per la concezione di fondo, occidentalista, che
ispira l'autore e alla quale non ci sentiamo assolutamente di aderire, ma per il
tono che sostiene e anima le argomentazioni.
Dietro i richiami al «buon senso», dietro le esortazioni a guardare con
obiettività alla situazione, dietro l'invito all'Europa a «cercare di diventare
un elemento di cui l'America tenga conto nelle sue decisioni», c'è infatti una
concezione politica liberal-borghese affannosamente conservatrice ma
sostanzialmente rinunciataria, affermata con il classico tono del gerarca
massone, ora cinico ora falsamente idealista, sempre però con il richiamo
all'interesse pratico e allo pseudo realismo politico.
Il tono è perentorio: «Noi europei dobbiamo tener presente che nel mondo
occidentale la potenza decisiva sono gli Stati Uniti d'America; gli americani
debbono rendersi conto che le grandi signore decadute hanno diritto a certi
riguardi speciali ...» e al ruolo di «vecchie signore» dovremmo appunto
rassegnarci perché, secondo l'autore, «l'Europa non è più il centro politico del
mondo e non tornerà più ad esserlo», «non sarà più quella di prima».
Questa è la prospettiva, oltretutto jellatoria che l'occidentalista Quaroni
propone esplicitamente, ma questa, va notato, è la premessa o la conclusione di
tutte le scuole occidentaliste, da quella tattica a quella ideologica, da quella
militare a quella politica, tutte pienamente concordati circa la supremazia
americana sull'Europa.
Il Quaroni inoltre non pare perfettamente in buona fede nel sostenere il suo
occidentalismo, almeno così sembra, nel leggere le distorsioni e le
falsificazioni con le quali egli sostiene le sue tesi.
Ad esempio, la divisione della Germania e dell'Europa viene così spiegata:
«americani e russi non si sono seduti intorno ad un tavolo, non ci sono state
trattative», la spartizione non è stata «il risultato di un accordo nel senso
classico della parola», ma all'America «il mondo è caduto fra le braccia senza
che essa lo cercasse e senza esservi preparata» (e le feroci campagne belliciste
promosse nel 1940?); mentre gli accordi in base ai quali si decise la divisione
in sfere di influenza (l'autore cita solo quelli di Mosca fra Stalin e
Churchill, dimenticando completamente Yalta, Potsdam e Teheran) «non erano stati
approvati da Roosevelt».
A parte l'incredibile elogio di Roosevelt con il quale il Quaroni si porta ben
oltre le posizioni occidentaliste di un D'Andrea e di un Ricciardetto, non si
capisce in base a quale documentazione egli possa affermare tutto ciò. È
evidente, comunque, il fine: negando qualsiasi alleanza e comunione di interessi
fra Stati Uniti e Russia, si pone l'America in una posizione sinceramente
anticomunista, per la quale potrebbe intendersi che essa abbia dovuto subire
controvoglia la penetrazione sovietica nell'Europa dell'Est e la divisione della
Germania.
Ora è noto lipsis et tonsoribus che le cose stanno in maniera diversa. Quando
Roosevelt si accordò con Stalin, suo principale intento era di porre un certo
ordine mondiale, tanto è vero che la situazione veniva sancita dalla creazione
dell'ONU, e secondo fine era quello di spaccare per sempre il cuore del
continente europeo e di distruggere il blocco germanico. Si ritentava quel che
non era riuscito con la prima guerra mondiale, fino a concepire la totale
distruzione della Germania (piano Morgenthau).
L'aver raggiunto l'obiettivo più importante costò all'America il potenziamento
politico e militare dell'Unione Sovietica. Ora questo potenziamento poteva
essere sopportato dagli USA poiché fra Russia e America non vi erano motivi
diretti di conflitto e soprattutto perchè il radicalismo americano aveva già
individuato le basi di futuri sviluppi pararadicali nell'URSS, specialmente nel
caso della scomparsa di Stalin.
Fu appunto la «tenuta» nazionalistica di Stalin che scompose, fino al 1953
queste prospettive e che con la sua aggressività portò ad una reazione di tipo
nazionalistico negli USA. Sorse quindi il problema del contenimento militare
dell'Unione Sovietica, utilizzando anche la Germania ed altri Paesi europei, ma
in un modo tale per cui fosse esclusa per essi ogni possibile autonomia politica
dagli USA.
L'Alleanza Atlantica servì a questo scopo: ciò spiega il carattere
esclusivamente contenitore della strategia militare della NATO (corollario:
mancato intervento in Ungheria nel '56) e il comando integrato sotto il
controllo degli Stati Uniti. La NATO è cioè sorta per garantire il mantenimento
dell'ordine di Yalta di fronte all'invadenza stalinista ma soprattutto di fronte
ai tentativi di autonomia politica e militare dei Paesi europei. Controprova di
ciò è l'ostinazione a volerla mantenere anche dopo la fine di Stalin e l'avvio
della distensione. A questo punto vorremmo fare delle precisazioni riguardo alla
giustificazione militare dell'occidentalismo addotta dal Quaroni.
Essa viene posta in questi termini: esistono 130 divisioni sovietiche attestate
ai confini del «mondo libero» (pag. 57), l'Europa deve accettare la supremazia
americana perché solo la capacità militare statunitense può garantirci la difesa
dal comunismo (cap. VI). Noi rifiutiamo di ridurre il discorso politico ai
termini militari. Primo perchè le questioni militari sono l'effetto di quelle
politiche e non viceversa. Cioè, nel caso specifico, l'inferiorità militare
europea verso l'URSS è l'effetto della divisione fra i Paesi europei e della
loro sudditanza agli USA e non viceversa. Secondo perché l'Europa unita e
autonoma potrebbe sviluppare sia una politica di pace verso l'URSS sia una
politica di contrapposizione armata, nel qual caso non sarebbe certo inferiore
ad essa, né militarmente, né industrialmente. Terzo: la facilità per gli europei
di procurarsi, senza i divieti USA, un deterrente atomico comporterebbe un
ombrello nucleare europeo che renderebbe superflua la protezione americana. Come
si vede tutto si riduce all'autonomia politica dell'Europa e tutto dipende da
essa anziché dalle 130 divisioni sovietiche, che fanno evidentemente da «palo»
alla leadership USA sull'Europa.
Oltre alla giustificazione militare, l'occidentalismo ha, nell'anticomunismo
degli USA, la sua giustificazione ideologica.
E se l'anticomunismo viene a mancare? Se cioè i fatti dimostrano che l'America è
disposta a rischiare solo dove esistono suoi precisi interessi, mentre di fronte
alla Unione Sovietica è sempre pronta al discorso distensivo? Insomma nei
riguardi della «distensione» che posizione prende l'occidentalismo?
Il libro dedica alla distensione sette pagine di affannose giustificazioni.
L'autore scrive: «la base di questa coesistenza è oggi l'equilibrio di forze, di
distruzione, di terrore, fra Stati Uniti e Russia». Ora questo è assolutamente
contestabile poiché la base della coesistenza è ben più profonda: è il nuovo
accordo per mantenere l'ordine di Yalta, è l'identificarsi in termini di civiltà
del comunismo tecnocratico russo con il consumatismo americano.
La coesistenza, prosegue il Quaroni, potrebbe essere definita come «non guerra»;
anche questo non può essere accettato poiché con la distensione Russia e Stati
Uniti si pongono come gendarmi dell'ordine internazionale (accordo per la non
proliferazione delle armi atomiche). C'è quindi un contenuto positivo, attivo
(coesistenza competitiva).
Il libro del Quaroni è una «summa» delle tesi occidentaliste. Non poteva quindi
mancare l'identificazione del comunismo russo con quello cinese: «in questo
affare del Vietnam è molto difficile fare una netta distinzione fra la parte
della Cina e quella della Russia».
In realtà, oggi non esiste più un «blocco comunista». Lo statalismo pararadicale
dell'URSS e il nazionalismo della Cina hanno fini completamente opposti: l'uno è
per il mantenimento dell'ordine di Yalta e per la distensione, l'altra per il
suo superamento e per la lotta agli USA. Il Vietnam è il banco di questo scontro
poiché per l'una costituisce una spina nel cuore e per l'altra il mezzo per
estremizzare la situazione e far fallire la coesistenza. In quanto al terzo
mondo, nel quale, secondo le belle speranze del radicalismo internazionale, si
sarebbero dovute accomodare tutte le questioni extra-Yalta, oggi per la comparsa
della Cina sulla scena mondiale, si può dire che esso, alla pari del Vaticano,
sia praticamente annullato non avendo più il benché minimo spazio politico. Non
è un caso che l'ultima iniziativa politica di Paolo VI abbia avuto come teatro
l'ONU, vera casa del terzo mondo pacifista e occidentalista. Dopo sono venute le
risaie vietnamite.
Infine non si può mancare di notare il falso e volgare cinismo dell'«europeo»
Quaroni quando afferma: «sono convinto che la coesistenza potrebbe benissimo
andare avanti così com'è e magari approfondirsi, anche se non si risolve il
problema dell'unificazione della Germania». È in verità ben chiaro che la
distensione ha fra i suoi scopi quello di perpetuare la divisione della Germania
e dell'Europa. Ne abbiamo avuto la dimostrazione nel 1961 con il muro di Berlino
edificato nel bel mezzo del colloquio Kennedy-Krusciov e ne abbiamo avuto ancora
una pesante conferma da parte americana durante l'ultima crisi governativa
tedesca. E il Quaroni se ne compiace.
Non poteva mancare in un'opera di tanto sicura fede USA, magari nell'ultima
pagina, l'elogio del neocapitalismo che l'autore definisce infatti «soluzione
dei nostri problemi». Ma lo sapevamo, vecchia volpe diplomatica, che tra
occidentalismo e neocapitalismo v'è un'«amicizia particolare»...
CINEMA
5 - "Non per soldi... ma per denaro" di
Billy Wilder
«Secondo me di tutte le arti la più importante è il cinema ...» ebbe a dire,
verso il 1917, Lenin al critico Lunaciarski, con una frase rimasta famosa e...
che non conteneva alcun giudizio di carattere estetico!
Era il primo uomo politico che afferrava la straordinaria capacità potenziale
del cinema ad essere veicolo di idee e più ancora formatore e manipolatore di
«coscienze».
«Dall'immagine al sentimento, dal sentimento alla tesi» teorizzò un tecnico, S.
M. Eisenstein, con sintesi felice ed insuperata malgrado ogni successivo
approfondimento .
Era nata la propaganda cinematografica e con essa il suo più valido strumento:
il film impegnato.
Da allora milioni e milioni di metri di pellicola si sono svolti davanti agli
occhi ignari ed attoniti della folla degli spettatori, sono mutati e più volte i
protagonisti della politica mondiale, ma la lezione di Lenin ed Eisenstein non è
stata dimenticata.
Voler trovare oggi un film che non cerchi, in qualche modo, di diffondere un
«messaggio» o di inculcare una «tesi» sarebbe un'impresa più che ardua
impossibile.
A qualsiasi genere appartenga, drammatico, sentimentale, musicale o, come nel
caso presente, brillante, la «tesi» scoperta o più subdolamente velata, non
manca mai, che la legge è ormai inderogabile.
E a questa legge non poteva di certo sottrarsi Billy Wilder, regista quanto mai
impegnato fin dagli esordi e sensibile ai problemi di una certa società,
accettata nella sostanza, ma di cui ama mettere in luce con spirito caustico e
graffiante gli aspetti più sgradevoli, al fine di emendarla ed indirizzarla alle
sue estreme e coerenti conseguenze.
"Non per soldi... ma per denaro", sotto una maschera di falsa innocenza, è in
questo senso esemplare: un soggetto solido ed adeguato allo scopo, una
sceneggiatura scorrevole ed efficace, interpreti eccellenti ed accuratamente
scelti per toccare negli spettatori, con la loro carica patetica o di simpatia,
quelle determinate corde che si volevano appunto sensibilizzare e per suscitare
quindi in questi le reazioni automatiche previste, neutralizzandone, con tattica
avvolgente e cloroformizzante, i centri di natura ed istintiva difesa.
Il dipanarsi delle immagini, dirette apparentemente ad impegnare, con la loro
estrema mutevolezza dal comico al patetico e viceversa, esclusivamente la sfera
emotiva e sentimentale (senso-propaganda), susseguendosi ordinate secondo il
filo logico di una pseudo-dimostrazione (razio-propaganda), orienterà infine,
fondendo perfettamente i due mezzi di pressione, lo spettatore alla tesi,
creando in questi, come accade per certi circuiti elettrici, la predisposizione
ad accettarla, e con esclusione di ogni altra, quando gli verrà successivamente
proposta in forma esplicita ed ufficiale dal politico propriamente detto.
Così dietro le cortine fumogene di una storia, condotta in maniera garbata e
felice, l'insidia della tesi, anzi delle tesi, che come vedremo sono due, si fa
strada ed arriva subdolamente ed efficacemente allo scopo.
Come abbiamo detto due tesi: una principale e l'altra secondaria, ma che nello
svolgersi della vicenda, quasi in un gioco ad incastro, si danno reciproco
sostegno, fondendosi praticamente in un tutto unico.
La società, accettata ma da emendare, è quella americana o più in generale
democratico-capitalista o del Benessere.
Il suo aspetto degenerativo sarebbe la mitizzazione del successo comunque
conseguito e reso tangibile dalla conquista del denaro, che verrebbe così ad
assumere il valore di simbolo e di metro dell'uomo.
A questa sfrenata corsa all'oro, a questa lotta, senza esclusione di colpi, per
la conquista di qualche metro in più, come dice la protagonista femminile del
film, ogni nobile sentimento, ogni valore viene sacrificato.
Per chiunque abbia occhi e volontà di vedere è la visione sconsolante ed
agghiacciante di una società ormai disumanizzata. E la critica, se fosse tale,
non potrebbe che investire alle basi una siffatta società, rimetterne in
discussione, con spirito rivoluzionario, i princìpi, imputando ad essi il
«risultato» raggiunto. Ma per Wilder, che in essa crede, si risolve ed esaurisce
invece nel suo stesso ambito, divenendo anzi spunto per riaffermare e
propagandare proprio quei princìpi.
Una critica, quindi, nel sistema e per il sistema!
COSTUME
6 - Costumi d'America
Grande risalto è stato dato dalla stampa nostrana ad un matrimonio satanico
svoltosi in USA, con la liturgia della messa nera e conseguente strega ignuda
sull'altare. A parte qualsiasi giudizio sul buon gusto della manifestazione,
occorre rilevare che questa e altre consimili costituiscono validi esempi dei
limiti della civilizzazione americana e della sua inadeguatezza alla leadership
mondiale sul piano culturale e politico. L'americano medio è incapace di
concepire il soprannaturale in altri termini che gioco, stravaganza, canti
lamentosi di negri.
La ragione addotta per giustificare, sul piano storico, la funzione di guida
degli altri Stati, («gli USA apportatori di benessere»), non è sufficiente. Mai
un puro concetto materialista ha permesso ad un popolo di improntare di sé un
periodo di storia.
La facilità con la quale gli immigrati vengono assorbiti nella macchina sociale
USA dimostra che di fronte ad essi si pone una non cultura, il cui elemento
predominante è il primitivismo morale e di costume. Il modo stesso con cui negli
USA vengono ripresentati i temi e gli organismi di altre civiltà ne è la prova.
Ad esempio negli USA sono presenti i Cavalieri di Rosacroce, un tempo ordine
iniziatico con una sua ben precisa cosmogonia; gli epigoni americani pubblicano
una rivista di consigli a tipo divulgativo sulla salute e si mostrano di tanto
in tanto pubblicamente con strani cappelli di carta colorata. Il fenomeno «Beat»
giunto in Europa con le pagine di Kerouac illustra in che modo la gioventù
ribelle di America, stufa del materialismo consumatista, sia riuscita ad
assorbire il Buddismo. Questa dottrina del risveglio è diventata per i ribelli
americani una giustificazione per godere gli aspetti più volgari della vita. Si
può riconoscere un certo valore a certi uomini di cultura americani, ma è chiaro
che il supporto culturale americano è solo quello che possiamo intravedere dalle
suddette manifestazioni.
7 - Tecnica psicologica applicata alla politica
Una nuova frase è entrata in Italia nella prassi politica, per definire il
fascismo. È una frase che ha tutte le caratteristiche della fabbricazione in
laboratorio psicologici: «Il fascismo è il regime condannato dalla Storia».
La pressione psicologica della frase sta nella sua assenza di significato.
Più che su una base logica, questa frase si fonda sul sentimento storicista e
calvinista secondo cui l'aver perso una guerra, come qualsiasi insuccesso, è
indice di condanna in assoluto. La ragione psicologica è quella di offrire al
discorso dell'uomo della strada una frase-slogan priva di significato preciso
quindi non controbattibile con un'altrettanto rapida definizione perchè
l'asserzione è vaga, non specifica, è, cioè, sciocca. Ma è incisiva per la
psicologia spicciola; regala una certezza gratuita, scomodando quell'ente tanto
caro ai nuovi cattolici dopo Theilard De Chardin e al radicalesimo come erede
politico della filosofia del divenire: la Storia. Toglie dalla mente la voglia
di iniziare una analisi fuori degli schemi fissati dal regime. Anche ai fini
elettorali è stato utilizzato il termine Storia quale elemento base di pressione
psicologica sostituendo il concetto statico di divinità. Es: «Cammina con la
storia, vieni con noi». Questa frase ha in particolare lo scopo di ingenerare un
senso di insicurezza e di ansia nell'individuo che si sente respinto al di fuori
del gregge.
MISCELLANEA
Spudoratezza occidentalista
«Nessuno si adombri se in questi giovani americani che destano incondizionata
ammirazione, l'italiano della mia generazione scorge lo stesso entusiasmo e la
stessa dedizione che avevano i giovani italiani, i quali, con il consenso di
tutta la Nazione, si recarono in Africa Orientale per costruire strade,
ospedali, scuole con un impegno analogo a quello messo da queste nuove leve per
fare del Vietnam del Sud uno Stato democratico modello da proporre ad esempio in
tutta l'Asia»..
E. Beltrametti su "Il Tempo" 20 gennaio 1967
Cooperatori e protettori
«La cooperazione tra la Spagna e gli Stati Uniti serve a tutta l'Europa,
compresa la Repubblica Federale Tedesca, la quale, da parte sua, si trova
strettamente vincolata agli Stati Uniti per la protezione dell'Occidente».
(Dal discorso di Schroeder, ex ministro degli esteri tedesco, rivolto a Fernando
Maria Castiella il 24 X 66)
Europeismo socialista
Un alto dirigente del partito di Nenni ebbe a dirmi nella primavera del 1962:
«Finché avremo un po' d'influenza sul governo italiano, potete essere certi che
non ci sarà nessun asse Parigi-Bonn-Roma contro Londra e Washington»
(Da "I mille giorni" di Arthur M. Schlesinger jr. pag. 875 |