Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO II - N. 12
Roma, 10 luglio 1967


SOMMARIO

ATTUALITÀ
I sei aspetti della crisi nel Medio Oriente:
1 - La questione palestinese e l'unità panaraba
2 - Ampiezza e limiti della politica nasseriana
3 - Di nuovo Yalta: USA e URSS per lo status quo
4 - De Gaulle: all'incontro a quattro mancano i due di Yalta
5 - Italia: come la crisi del Medio Oriente ha assestato il centrosinistra
6 - Il petrolio rende possibile la guerra rivoluzionaria

POLITICA INTERNA
7 - Nota sulla situazione politica universitaria

POLITICA ESTERA
8 - Il protettorato USA sugli Stati dell'America Latina (1ª parte)

SINDACALISMO
9 - Eletto a Roma il consiglio provinciale del SINAPS - Sindacato Propagandisti Scientifici

COSTUME
* Manifesto rivelatore
* America di gomma

ATTIVITÀ DEL CENTRO POLITICO AUTONOMIA EUROPEA
* Manifesto sulla crisi del Medio Oriente
* Dibattito sul tema «Lo Spirito di Yalta nella crisi del Medio Oriente»
* Programmazione di conferenze-dibattiti in sede di campeggi
 

 

ATTUALITÀ

I sei aspetti della crisi nel Medio Oriente:

1 - La questione palestinese e l'unità panaraba

La furiosa campagna filo-sionista sviluppata dagli organi di informazione italiani durante la crisi del Medio Oriente ha fatto salire in superficie le vene sotterranee che li hanno, sempre alimentati. Ora a ciascuno è chiara la profondità di certe influenze occulte. Nella difesa di Israele tuttavia il giornalismo italiano ha mostrato la sua vera dimensione, che è quella faccendiera del «giornalismo di guerra», tutto teso ad ampliare, a diffondere, a sostenere e a puntellare le tesi politiche promananti da un organo superiore. Di conseguenza si è trascurato il discorso politico generale per addentrarsi nella boscaglia delle questioni particolari.
Era evidente lo scopo di far perdere all'opinione pubblica le tracce della verità. È sintomatico al riguardo che la questione più dibattuta sia stata quella del ritiro delle truppe dell'ONU ordinato da U Thant. Posta su questo piano la propaganda filo-israeliana si è via via alimentata di notiziole, fatterelli, questioni di terz'ordine, pieghe e sottopieghe della storia: cose più pertinenti ad avvocati che a giornalisti. L'opinione pubblica, provinciale, impiegatizia, piccolo borghese, ha risposto appieno essendo stata chiamata proprio sul suo terreno.
In conseguenza di tale posizione della stampa italiana riteniamo opportuno riprendere la questione palestinese nei suoi reali termini storici.
La Palestina nel 1917 era ormai da millenni un Paese arabo, abitato da un popolo arabo, facente parte dell'Impero Ottomano. Alla fine della prima guerra mondiale fu occupata dagli inglesi ai quali la famigerata pace di Versailles la concesse come «mandato».
L'Inghilterra che aveva con Lawrence staccato gli arabi dalla Turchia, facendo balenare dinanzi agli occhi della dinastia aschemita la creazione di una grande monarchia islamica indipendente, si affrettò a tradire queste promesse con la "Dichiarazione Balfour" del 2 novembre 1917, con la quale venne promessa agli ebrei l'istituzione di un «National Home» in Palestina.
Nei trenta anni del «mandato» britannico l'azione filo sionista, evidentemente favorita da ben qualificati gruppi di potere interni, pose le basi per la realizzazione della promessa di Balfour. Nel 1918 infatti gli ebrei in Palestina erano 50 mila, ossia il 7 per cento della popolazione della regione. Nel 1947 essi erano 650 mila cioè il 33 per cento della popolazione. Una analoga trasformazione avvenne per la proprietà terriera. L'intento britannico era d'altra parte, ben chiaro quando si pensi che nei primi anni del mandato l'Alto Commissario di S.M. era un ebreo.
Alla fine della seconda guerra mondiale l'Inghilterra, passò la mano agli Stati Uniti, nei quali i ben noti gruppi di pressione erano certamente più influenti che nel Regno Unito. Infatti già l'11 maggio 1942 il Congresso Sionista mondiale tenutosi a New York aveva deciso di trasformare la Palestina in uno Stato ebraico e di scacciarne tutti gli abitanti arabi. Tale risoluzione fu fatta propria e inserita nella piattaforma elettorale sia dal Presidente Roosevelt che dal suo antagonista Dewey. Intanto, anche il Comitato esecutivo del Partito Laburista inglese nel suo congresso del dicembre 1944 decideva d'appoggiare, la mozione tendente a trasformare la Palestina in uno Stato ebraico.
Vinta la guerra, gli Stati Uniti trasferirono di peso la questione in seno al loro braccio secolare, le Nazioni Unite, le quali puntualmente eseguirono le direttive impartite ad esse e il 29 novembre 1947 votarono, con una maggioranza di due terzi, in favore della spartizione.
Il 14 maggio 1948 il disegno sionista sviluppato dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti si concluse con la proclamazione dello Stato di Israele.
Negli anni che seguirono gli ebrei, forti delle armi e degli istruttori di origine anglo-americana, riuscirono a contenere la reazione armata dei Paesi arabi e con il provvidenziale « cessate il fuoco» ordinato dalle Nazioni Unite giunsero a stabilire una situazione armistiziale.
Intanto, l'operazione era costata agli arabi ben 1 milione 130.000 profughi.
La questione palestinese sta dunque in questi termini, che in linea di diritto danno indubbiamente ragione agli Arabi. Tuttavia la questione di diritto và considerata in politica per quella che realmente vale cioè niente. Anzi, richiamarsi al buon diritto equivale solo a chiamare in causa quell'ignobile arnese che sono le Nazioni Unite.
Abbiamo voluto ripropone i reali termini della questione per due motivi ben diversi da quelli del «buon diritto»:
1) per una smentita diretta delle tesi del giornalismo filo-sionista;
2) per chiarire il nesso che corre fra la questione palestinese e, l'unità panarabo.
Non c'è dubbio che la prima sta alla seconda come mezzo a fine, vale a dire che il processo di unificazione dei popoli arabi ha nel momento di lotta contro Israele il migliore cemento. Ora, è evidente che intanto il mondo arabo sente la spinta anti-israeliana in quanto dalla creazione di Israele è stato offeso ed ha visto conculcare il suo diritto. La solidarietà fra gli arabi, premessa all'unità si fonda sulla comune avversione allo Stato ebraico.
Per l'importanza che noi attribuiamo alla creazione di un grande centro geopolitico arabo capace dì contribuire alla rottura della bipolarità russo-americana, noi siamo contro Israele. Soltanto per questo, poiché circa il ritorno degli ebrei dalla diaspora noi vorremmo che esso avvenisse presto e nel modo più completò. Anzi a tale proposito, rileviamo come attualmente la creazione dello Stato d'Israele abbia evidenziato il problema della presenza e dell'influenza ebraica all'interno dei vari Paesi del mondo. Si deve forse credere che Israele è stato concepito non come rifugio di perseguitati ma come base di dominio del «popolo eletto» secondo il noto disegno messianico?
 

2 - Ampiezza e limiti della politica nasseriana

La dottrina panaraba di Nasser intende promuovere l'unità dei Paesi di ugual lingua, di uguale razza, di uguale religione (dottrina dei tre cerchi). Essa svela un disegno strategico non privo di grandezza. Peraltro non sembra che l'azione politica con la quale si vuol raggiungere tanto obiettivo sia adeguata ed efficace.
Nasser ha certamente subìto l'influenza politica anglosassone, così come alcuni ambienti algerini e tunisini hanno sentito la cultura razionalista francese. Della concezione politica inglese Nasser ha ereditato l'incapacità di concepire guerre ideologiche. Tutto in politica deve essere limitato alla difesa degli interessi concreti di un Paese. La natura mercantilistica dell'Impero britannico ha lasciato il suo segno nella concezione di chi ha pur combattuto una vita per sottrarsi a quel dominio. Per questo Nasser non va oltre un'azione politica piccolo nazionalista assolutamente inadeguata a costituire quel grande centro geopolitico che dovrebbe essere lo Stato panarabo. Pensare di ripetere negli anni correnti una azione politica di tipo «piemontese», dove per l'appunto l'Egitto dovrebbe rappresentare il Piemonte, gli altri Stati Arabi le regioni italiane e Nasser Cavour significa per l'appunto non aver compreso i termini della lotta politica contemporanea. È fatale che da una impostazione del genere derivi una serie di conseguenze negative sul piano dei mezzi politici. La continua insistenza presso le Nazioni Unite per tentar di vincere delle inutili battaglie diplomatiche: il concepire la guerra nei termini dello scontro di mezzi corazzati nel deserto, secondo tecniche ormai vecchie di venticinque anni (Rommel) e oltretutto richiedenti un apparato militare di alta concentrazione ed efficienza, che non è alla portata degli Stati arabi; il conseguente rifiuto delle organizzazioni di guerriglieri e terroristi: tutto ciò spiega gl'insuccessi del '56 e del '67 che appunto sono stati gravosi sul piano della solidarietà dell'opinione pubblica mondiale e su quello degli scontri armati.
Se il nasserismo ha mostrato i suoi limiti per quanto concerne l'unità araba a causa della posiziona piccolo nazionalista che gli è propria, a conseguenze peggiori esso ha portato nel campo della politica internazionale.
La politica neutralista vide Nasser allineato; con Nehru e Tito nella ricerca non di uno spazio politico fra i due blocchi ma soltanto di aiuti, surplus agricoli americani e mezzi tecnici sovietici. In sostanza essa veniva a costituire non un'alternativa ma una appendice a Yalta. Lo stesso continuo richiamo alla solidarietà interafricana dimostra che la dottrina nasseriana non va oltre l'anti-colonialismo ed è carente sul piano della costruzione di un grande centro geopolitico. La solidarietà dei Paesi africani ha rigettato sempre di più Nasser nell'ONU, tempio massimo del terzo mondo africano occidentalizzato. In ultima analisi i Paesi africani sono un valido strumento occidentalista per mantenere Nasser nei binari della legalità dell'ONU e di Yalta.
L'incapacità di concepire la lotta politica in termini di civiltà ha come immediata conseguenza il rifiuto della guerra rivoluzionaria ed è proprio a causa di questo rifiuto che è saltato il gioco politico iniziato nel maggio scorso e risoltosi nel triste modo che sappiamo. Nasser infatti chiuse lo stretto di Tiran alle navi israeliane per provocare una crisi il cui fine non era evidentemente la distruzione di Israele (che con la protezione degli Stati Uniti nell'attuale condizione di strapotenza non era nemmeno concepibile), ma per imporre la sua iniziativa agli Stati arabi moderati e occidentalisti (Marocco - Tunisia - Arabia Saudita - Kuwait - Libia e Giordania) i quali in effetti nei giorni precedenti al conflitto mandarono i loro rappresentanti a Canossa. Vi era inoltre l'intenzione di ricondurre gli estremismi pro guerriglia serpeggianti in Algeria, Siria ed Iraq nei limiti della tradizionale politica egiziana. Beninteso nel disegno nasseriano il punto fisso era rappresentato dal mantenimento del blocco di Aqaba o da altro equivalente vantaggio. Condizione per conseguire tale risultato era l'acquiescenza di Israele al fatto compiuto, in quanto essa nel disegno nasseriano si sarebbe dovuta trovare priva dell'appoggio americano e di quello russo. Infatti Nasser di fronte agli Stati Uniti minacciava l'apertura di un secondo Vietnam e di fronte all'Unione Sovietica minacciava lo scivolamento su posizioni filo-cinesi. Il termine base di questo gioco era, come si vede, la minaccia di Nasser di vietnamizzare il Medio Oriente. In realtà, proprio per le dimensioni piccolo-nazionaliste della sua politica, era proprio, Nasser l'ultimo a volere la guerra rivoluzionaria nel mondo arabo. Tale reale disposizione non poteva sfuggire agli americani che infatti «chiamavano» il bluff e costringevano Nasser prima alla sconfitta e poi a mostrare la sua reale disposizione contraria alla guerriglia.


3 - Di nuovo Yalta: USA e URSS per lo status quo

Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica si sono trovati nel Medio Oriente di fronte ad una crisi particolarmente insidiosa per la loro partnership mondiale. Si prospettava il salto di un'altra maglia nella corazza fatta indossare al mondo con gli accordi di Yalta. A Budapest, alla Cina, al Vietnam, a De Gaulle, a Castro si stava per aggiungere anche il Medio Oriente, un'area particolarmente importante per la posizione geografica, le ricchezze petrolifere e la vastità dei territori.
Gli Stati Uniti in particolare venivano a sostenere una posizione che difficilmente poteva passare sotto la comoda etichetta dell'anticomunismo. All'origine dell'impegno antiarabo degli USA è evidente infatti il filo-sionismo che troppo robusti gruppi di pressioni alimentano in quel paese. Ciò avviene anche a discapito dei reali interessi statunitensi: clamoroso fu ad esempio il mancato finanziamento della diga di Assuan che, arricchendo l'agricoltura egiziana, implicitamente sarebbe venuta a danneggiare Israele. Da tale filo-sionismo era derivata quella contrapposizione agli interessi arabi che aveva in sostanza fatto sorgere la «questione» del Medio Oriente, con i possibili sviluppi anti-Yalta che si sono poi realmente avuti.
L'Unione Sovietica dopo la fine della linea Nehru-Nasser-Tito si era vista offrire la possibilità di espansione e di influenza verso il mondo arabo e certamente tale prospettiva espansionista non sarebbe passata invano per Stalin.
I radicali che hanno ora il potere nell'Unione Sovietica hanno da tempo rinunciato ad una linea aggressiva, espansionista o, a maggior ragione, rivoluzionaria.
Si dimostra sempre più valida l'ipotesi sulla quale il radicalismo rooseveltiano concepì l'alleanza con l'URSS (…) e sulla quale venne stabilita la divisione del mondo di Yalta, che infatti fu un accordo ideologico più che politico.
L'ipotesi era appunto quella della progressiva radicalizzazione della Russia, della quale abbiamo in continuo sott'occhio gli episodi: il reinserimento del profitto nell'economia (Liberman), la pianificazione tecnocratica, il socialismo cibernetico, il mondialismo ONU, la cultura razionalista e progressista, il costume americanizzante. Il concreto dato politico, oltre a questi indirizzi, con il quale gli Stati Uniti hanno assicurato l'agganciamento della politica sovietica a quella statunitense, è Yalta e il suo mantenimento.
In ciò rientra l'insieme delle comuni iniziative prese per tutelare i rispettivi campi di influenza e quelle volte ad impedire nell'un campo e nell'altro estremismi sovvertitori. Rientrano nel primo caso i patti diktat, quello atlantico e quello di Varsavia, fino al progettato trattato di non proliferazione nucleare; tra ì secondi si deve annoverare il mancato intervento USA in Ungheria e la analoga ritirata sovietica a Cuba. Vi è poi quel tentativo di accordo globale che fu la distensione o coesistenza competitiva.
Nella crisi palestinese l'Unione Sovietica ha mantenuto il suo impegno, prima tenendo il posto filo-arabo che altrimenti sarebbe andato alla Cina, poi rifiutandosi di vietnamizzare il Medio Oriente quando a ciò sarebbe bastato l'invio di poche migliaia di volontari, infine deponendo la questione in seno all'ONU per far accettare agli Arabi, prima lasciati sconfiggere, una soluzione di compromesso pacifista e moderata.
L'Unione Sovietica ha preferito il mantenimento dello status quo rispetto agli Americani piuttosto che il petrolio medio-orientale.
Tuttavia, mentre la posizione filo-israeliana non genererà una seria opposizione anti-sionista negli Stati Uniti, l'ulteriore atteggiamento distensionista radicale filo-americano dell'URSS potrà provocare la reazione dei gruppi militari e la reimpostazione dei rapporti di forza fra radicali e nazionalisti sovietici.
Forse questa è solo una speranza essendo chiaro l'aspetto conservatore anziché rivoluzionario della politica dell'esercito sovietico ma è una ipotesi da non sottovalutare. Intanto a Glassboro, Johnson e Kossighin, anziché prendere la guerra fredda, come qualche giornalista borghese aveva frettolosamente pronosticato, hanno ripreso l'idea di un componimento globale delle questioni.
Rimane il fatto che è sfuggito ad entrambi un reale potere di contrattazione. Come nel Vietnam, l'Unione Sovietica non può imporre la pace ad Hanoi senza perdere ogni influenza su quel paese, così nel Medio Oriente essa non può giocarsi gli interessi arabi sull'altare della solidarietà di Yalta. Se infatti Podgorni ha potuto probabilmente far digerire a Nasser gli accordi di Glassboro, la stessa cosa non gli è forse riuscita con Atassi.
Non crediamo comunque che Nasser rinunci a ristabilire il suo prestigio e questa volta lo può fare giocando la parte del moderato (come avevano previsto esperti ambienti politici inglesi) di fronte agli estremismi filo-cinesi.
Naturalmente chiederà un congruo prezzo che soddisfi gli estremisti più che lui. È questo che rende difficile la pace: cioè è il pericolo della linea filo-cinese e del suo naturale strumento: la guerriglia.
Non ci sembra che la manovra impostata sull'equivoca figura di Hussein possa portare a reali risultati. Hussein e la sua inglesizzante Legione Araba sono stati utili per abbandonare Gerusalemme dopo una simbolica resistenza in una città che avrebbe consentito venti mesi e non venti ore di conflitto. Hussein è stato valido per spezzare il fronte dei paesi arabi e per accettare la pace e la mediazione USA. Però Hussein non può, nonostante la sua volontà occidentalista, riuscire ad eliminare il problema palestinese dando vita ad uno Stato confederato tra l'Israele e la Giordania, poiché ciò equivarrebbe al passaggio aperto nelle file israeliane.
Gerusalemme internazionalizzata è il massimo che Hussein può proporre agli arabi senza perdere la faccia.


4 - De Gaulle: all'incontro a quattro mancano i due di Yalta

La crisi del Medio Oriente ha avuto una vera e propria funzione di «cartina di tornasole». Di fronte ad essa sul piano delle politiche interne e di quella internazionale si è mostrata la vera sostanza di uomini e di partiti. Anche De Gaulle non è sfuggito a questa prova della verità. La sua linea politica ha mostrato i limiti derivanti da una falsa contrapposizione a Yalta. De Gaulle infatti rifiuta quell'accordo non sulla base di motivazioni ideologiche ma unicamente per il carattere «ristretto» che esso ha avuto, per cui la sua linea è volta a allargare quell'accordo con l'inserimento della Francia e magari dell'Inghilterra.
Da ciò nasce la pretesa di rovesciare Yalta facendo perno sull'opposizione agli Stati Uniti, quale Paese più forte, e sull'offerta di alleanze bilanciane agli altri Stati più deboli: URSS, Germania, Inghilterra. Finora è apparso chiaro che nessuno di questi Stati ha un reale interesse antiamericano. Soltanto Adenauer dette vita ad una «entente cordiale» con la Francia che tuttavia aveva funzioni di stimolo per gli Stati Uniti anziché dì alternativa.
In particolare, l'Unione Sovietica ha detto chiaramente che i suoi interlocutori rimangono gli Stati Uniti, che sono i veri garanti per il mantenimento dello status quo.
L'ultima sconfitta degollista è stato il mancato incontro a quattro proposto dal Generale, che l'Unione Sovietica e Stati Uniti hanno sostituito con l'incontro di Glassboro. Di conseguenza De Gaulle è ora fuori della partita del Medio Oriente: non accettato dai pacifisti che si apprestano a stabilire i termini del compromesso, lontano dai filo-cinesi che si apprestano a trasformare la guerra in guerriglia, surrogato dal Vaticano per i tentativi di accordi parziali (internazionalizzazione di Gerusalemme).


5 - Italia: come la crisi del Medio Oriente ha assestato il centrosinistra

La posizione filo-israeliana più netta, al di fuori delle destre, è stata presa nello schieramento politico italiano dal Partito Socialista Unificato e in particolare da Nenni. Al di là delle fin troppo facili congetture sui canali che convogliano certe acque filo-israeliane, si deve impostare la questione sul piano di un discorso politico.
Il socialismo nenniano cercava da anni di trovare il passaporto adatto per entrare nell'area occidentalista. Di fronte alla base, abituata per anni al linguaggio frontista, era ovviamente difficile sostenere l'occidente impegnato nella guerra del Vietnam. Anzi proprio su ciò contavano i comunisti per mettere in imbarazzo la direzione del Partito Socialista Italiano mediante manifestazioni unitarie pacifiste.
L'occasione del conflitto palestinese ha offerto a Nenni là possibilità di appoggiare la posizione americana ed anzi di proporsi come un oltranzista rispetto alla stessa. Con il passaporto degli ebrei uccisi dai nazisti egli si è trovato nel pieno della cittadella occidentale e con lui l'intera base.
Il Partito Comunista ha ripetuto fedelmente la posizione sovietica e questa volta lo ha fatto non soltanto perché esso è ad est più che a sinistra, ma per la sua definiva posizione riformista anticinese e antirivoluzionaria. La tesi del Partito Comunista Italiano è stata infatti quella di rimettere tutto all'ONU e all'incontro fra i due grandi, fermo restando il diritto di Israele all'esistenza e ad una valida tutela.
Verso l'ONU ha finito per convergere anche Fanfani al quale le necessità di polemica antisocialdemocratica e antimorotea, oltre alla occasione della difesa di interessi petroliferi italiani, avevano suggerito una linea di equidistanza.
Nel campo radicale propriamente detto le dimissioni di Benedetti da "l'Espresso", a differenza di quelle di altri collaboratori ebrei del settimanale, hanno mostrato che il dissenso andava oltre la questione palestinese ed era radicato in una diversa interpretazione del centrosinistra: occidentalista e socialdemocratizzante quella di Benedetti, kennediana quella di Scalfari.
A destra va innanzitutto registrata l'offerta personale di Pacciardi a militare concretamente con gli israeliani; ma sappiamo che il nostro non è nuovo ad imprese guerresche nell'aerea mediterranea.
Il Movimento Sociale è stato anch'esso su posizioni oltranziste filo-Israele in parte per il calcolo elettoralesco di evitare in futuro l'accusa di antisemitismo e in parte per quell'atteggiamento super-occidentalista è ultra-atlantista che lo qualifica ormai da vari anni. Vale la pena di notare che il beneficiario dell'atlantismo sarà questa volta proprio il Partito Socialista, proprio il centrosinistra e per giunta nella sua versione moderata. Ma per un partito che non fa più neppure combattimenti di retroguardia le prospettive politiche non contano, Ritenendo peraltro difficile l'accettazione della posizione fìlo-israeliana da parte della base, Michelini è ricorso al consueto machiavello dell'appello nostalgico. A sostegno delle tesi del Segretario è infatti apparsa sul "Secolo" un articolo di Vittorio Mussolini che avallava con tanto nome l'indirizzo micheliniano. Dopo il caso di Svetlana Stalin sappiamo bene la differenza che passa tra padri e figli, ne d'altra parte avevamo mai pensato di poter accettare il jazz perché lo suona Romano Mussolini.
Una nota a parte meritano le pubblicazioni della destra liberal-fascista: "Il Tempo", "«Il Borghese", "Roma", "Lo Specchio", ecc.
Si tratta di liberali e di borghesi per il quali il fascismo è la punta armata della borghesia è per i quali l'occidente e il mondo libero sono la costruzione politica ideale. Poggiando su una concezione classista conducono una battaglia di retroguardia rispetto alle nuove classi borghesi che si esprimono politicamente nel radicalismo e perciò da questo sono di continuo sconfitti: così in Italia il centrosinistra ha superato il centrismo, così in America Johnson ha sconfitto Goldwater. Le loro prospettive di una ripresa politica sono vincolate al riaprirsi della guerra fredda e di una conseguente necessità di un comunismo da contrastare e da abbattere. Eppure ad essi dovrebbe essere ben chiaro che l'occidente non ha mai espresso neppure con Mac Carty, una posizione di aggressività anticomunista, ma al massimo di difesa dal comunismo. Dovrebbe apparire chiaro ad essi che l'Unione Sovietica è ormai la vera partner dell'occidente su una dimensione ideologica e politica. Pertanto l'estremizzazione della politica americana può oggi avvenire soltanto contro il nazionalismo cinese e comporta non già la veste goldwateriana ma quella socialdemocratica e moderata, cioè johnsoniana dell'accodo USA-URSS.
Circa il Medio Oriènte si dimostra quindi non valida la loro tesi della necessità di un'impennata militarista occidentale contro gli arabi e l'Unione Sovietica. Eppure è una vecchia maniera degli scrittori di questa parte di voler insegnare la politica agli «ingenui» americani.
A monte di questa linea c'è un disegno grossolano e ritardatario: l'apertura di uno stabile contatto fra il sionismo e la destra. Non è un caso che sia stata rispolverata la visita di Herzl a Vittorio Emanuele III nel lontano 1904, che poi è anche l'anno in cui quel Re inaugura la Sinagoga di Roma.
Provino pure i buoni borghesi a proporre queste alleanze. Giovannini difenda pure Benedetti: un giorno si accorgeranno che la naturale dimensione politica del sionismo è il radicalismo e solo esso. Per ora ci interessa che non seguitino a deviare oltre un'opinione pubblica che non è la loro e che nell'ultima guerra non stava certamente dalla parte del «mondo libero».


6 - Il petrolio rende possibile la guerra rivoluzionaria

Le difficoltà di trovare una soluzione alla crisi del Medio Oriente sono la grande nota positiva del conflitto, da un punto di vista rivoluzionario e anti-Yalta.
Al contrario si può dire che l'apertura stessa del conflitto e a maggior ragione le difficoltà per un suo componimento e per l'arginamento della guerriglia danno la misura della sconfitta subita dai partners di Yalta.
Il vantato successo USA è in realtà una grossa falla nel sistema di dominio mondiale statunitense: si è aperta un'altra area di contestazione del potere americano.
Un'area enorme nella quale l'odio anti-yankee può assumere aspetti di guerra guerreggiata.
Per la Russia vi è stata una perdita di prestigio presso chi evidentemente non ne conosceva il carattere conservatore. Anche questa perdita si assomma sul conto di Yalta.
Al momento il vero enigma del Medio Oriente è rappresentato dalla disponibilità alla guerriglia di Boumedienne e di Atassi. Tutto lascia credere che qualcosa di nuovo va maturando.
Durante il seminario sul socialismo nel Mondo arabo tenutosi ad Algeri dal 22 al 28 maggio scorso Boumedienne ha sostenuto una interpretazione del socialismo straordinariamente vicina a quella cinese, cioè nazionalista, scendendo fino all'esaltazione della carica rivoluzionaria delle masse rurali. Larga eco hanno avuto le posizioni filo-guerriglia enunciate in due punti:
1) evitare la realizzazione di una supremazia militare su Israele che è difficile da raggiungere e che provoca il rinvio sine die della battaglia decisiva;
2) evitare l'accumulazione e l'acquisto massiccio, di armi che pregiudica le economie dei diversi Paesi ed esalta solo la funzione dell'esercito tradizionale.
Al contrario di quanto sostiene il Generale Dayan il Medio Oriente è un'area favorevolissima alla guerriglia. Laddove il consenso e la solidarietà popolare non mancano e dove il petrolio sostituisce vantaggiosamente la giungla ci sono le condizioni per imporre una volontà politica Per chi, distratto dalla prosa dei vari Ricciardetto, avesse dimenticato alcuni dati sarà bene ricordare che nel '66 il 28,7% del petrolio grezzo mondiale è stato estratto nel Medio Oriente, dove per la prima volta è stata anche superata la produzione nord-americana. Dal sabotaggio su vasta, scala rimarrebbero duramente colpiti, oltre all'Europa che ne produce l'1,1% e ne raffina il 30%, anche gli Stati Uniti che ne consumano il 40% e ne producono il 27,7%.



POLITICA INTERNA
7 - Nota sulla situazione politica universitaria


Purtroppo per un difetto di impaginazione e "rifilatura" della pagina, non possiamo riportare il testo di questo articolo… Con la speranza di trovare altra copia di questo numero di "Corrispondenza Repubblicana" o che qualche lettore ci invii fotocopia dell'articolo in questione dandoci la possibilità di integrare la parte mancante, ci scusiamo con i lettori.



POLITICA ESTERA
8 - Il protettorato USA sugli Stati dell'America Latina (1ª parte)

Le condizioni dell'America Latina nell'immediato dopoguerra mostrano come anche sul piano strettamente economico i tentativi indipendentistici fossero miseramente falliti.
Infatti i trusts statunitensi operanti nel continente sudamericano avevano escogitato varie tecniche per mantenere il controllo delle strutture economiche dei vari Paesi.
Le deboli autorità locali concedevano, date le condizioni dei Paesi al termine della guerra in seguito alla situazione del mercato mondiale, concessioni di sfruttamento delle risorse a condizioni molto favorevoli. In questo modo le compagnie americane si trovavano a poter possedere ingenti partecipazioni dirette. Ad esempio il noto trust United Fruit Co. nel 1959 arriverà a possedere circa un milione di ettari e più di duemila chilometri di strade ferrate nell'area caraibica. Contemporaneamente si assiste all'intensificarsi della colonizzazione tecnologica, del controllo dei commerci grazie al monopolio dei noli e dei trasporti.
Esempio sconcertante di questa situazione fu la reazione che incontrò il governo Arbenz nel suo tentativo di nazionalizzare le concessioni locali in mano ai trusts nordamericani: l' United Fruit Co. detronizzò il governatore nel giro di pochi giorni.
In questa situazione tutto ciò che i governi avevano tentato sul piano delle nazionalizzazioni si scontra necessariamente con un rapporto di potere tra capitale USA e capitale locale a tutto favore degli Stati Uniti. Nel Messico, alla fine della guerra, delle 400 maggiori Imprese 233 erano controllate dagli Stati Uniti che finanziavano in forma diretta il 36% dei grandi investimenti. Se si tiene presente inoltre il collegamento esistente nelle imprese miste tra capitale locale e trusts finanziari statunitensi (Morgan, Du Pont, Rockefeller, First National) il condizionamento economico risulta pressochè totale. Ci sono infine da registrare i casi nei quelli il capitale USA non rifugge dall'attaccare frontalmente le imprese pubbliche locali da cui è ostacolato (Brasile). Per non parlare poi delle forme di auto-nazionalizzazione, particolarmente nel settore petrolifero, con le quali non soltanto le compagnie americane non perdevano il controllo del capitale (49 per cento ufficiale, più forti tangenti con le partecipazioni indirette), ma venivano, a beneficiare anche di aiuti e speciali trattamenti fiscali accordati a questi nuovi complessi.

Il peronismo
Nel panorama dei tentativi indipendentistici a base nazionalista del sudamerica, l'unico movimento che si distinguerà nella formulazione di una linea politica valida è il peronismo.
Ricordando gli avvenimenti che erano culminati nell'insurrezione militare che lo aveva spodestato, Peron, nel corso di una intervista, ha affermato che la sua caduta fu determinata dall'opposizione alle direttive dell'ambasciata USA.
A questo proposito occorre dire che l'anti-americanismo di Peron aveva avuto un peso minore di altri elementi che dovevano catalizzare contro il capo argentino una congiura di dimensioni vastissime: questi elementi furono il contenuto ideologico dello Stato giustizialista e la solidità della sua struttura.
In effetti gli Stati Uniti di fronte all'Argentina di Peron si erano trovati innanzi a qualcosa di diverso dalle varie oligarchie politiche e militari facilmente corrotte dal dollaro.
A capo di un Paese ricco ed economicamente forte, con la forza di una pace sociale raggiunta grazie a soluzioni di carattere corporativo che avevano conquistato le masse lavoratrici (i sindacati sono tutt'oggi una solida base a tendenza peronista), con una politica che sembrava superare il piccolo nazionalismo di cui Roosevelt si era servito per la sua politica di «buon vicinato», il peronismo rappresentò il più serio tentativo di contestazione in termini politici ed economici e soprattutto ideologici del protettorato statunitense sull'America Latina. Sfortunatamente si collocò in un periodo storico chiuso che non offriva il minimo spiraglio ad un anti-americanismo autonomo.
Quello peronista era il modello dell'America Latina, modello che avrebbe potuto risolvere stabilmente il problema della instabilità delle strutture politiche del continente.
Nello Stato giustizialista gli Stati Uniti non videro solo un nazionalismo desideroso di porsi un'economia indipendente, ma scorsero il pericolo di un'America Latina con strutture politiche solide, con valori ideologici difficilmente attaccabili, con istituti e valori, che si adattavano perfettamente all'uomo sudamericano (si pensi invece ai continui fallimenti dei movimenti laicisti-radicali che riescono a mantenersi per mezzo di regimi polizieschi e che non riescono mai a raggiungere la stabilità).
Per scalzare il peronismo gli Stati Uniti agirono attraverso due veicoli, particolarmente pronti a prestarsi ai giochi politici di Washington: gerarchie militari e gerarchie cattoliche. L'azione del Vaticano fu veramente la più disgustosa. Nessun motivo di ordine morale e religioso poteva spingere, la S. Sede a condannare il regime peronista: semplicemente il desiderio di rendere un buon servizio agli Stati Uniti. Il colpo alle spalle di Peron, è bene rilevarlo, rientra nel quadro della politica pacelliana-montiniana di appoggio agli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale e della «crociata anticomunista» fatta nei quadri del «mondo libero».
Su temi come quello della lotta al peronismo, il cattolicesimo americano si incammina sulla strada della intesa con il radicalismo americano. E ciò mette in evidenza come fu proprio l'occidentalismo di Pio XII a spianare la strada al periodo d'oro dei successori.
In quanto alle gerarchie militari è inutile qui ribadire il carattere massonico e quindi corruttibile di queste nell'America Latina. I nomi dei fomentatori della rivolta ce ne danno un'idea: dal contrammiraglio Samuel Calderon nei primi moti del 16 giugno, a Isaac Royas nei giorni decisivi.
Perduto il potere politico, il peronismo ha visto cadere anche la testa politica.
Oggi è rimasta la sola organizzazione sindacale. Dal '55 ad oggi il peronismo ha sempre avuto i sindacati argentini in mano, ma la linea sindacalista si è dimostrata sterile ed incapace di porre il movimento sul piano della lotta per la conquista del potere.
Il gesto più clamoroso, dopo anni di stillicidio sindacalista ed elettoralista è stato, per i suoi possibili sviluppi politici, il famoso telegramma del capo della federazione sindacale del movimento a Mao Tse-tung. Un'apertura politica di questo genere avrebbe permesso al peronismo un collegamento politico e rivoluzionario che avrebbe tagliato fuori e superato a sinistra il castrismo, senza porsi su una posizione comunista. L'incapacità di portare avanti una linea in questo senso, l'unica linea rivoluzionaria oggi possibile in America Latina, mostra però i limiti dell'attuale classe politica peronista.

Un periodo di transizione
Insieme a Peron cadono nell'America Latina diverse dittature personali che avevano goduto in passato l'appoggio degli Stati Uniti.
Nei secondi anni '50 ci si trova nell'area sudamericana di fronte a numerosi mutamenti.
È difficile costruire una trama unica degli sviluppi latino americani senza cadere in uno schematismo superficiale e insufficiente. Comunque la linea di fondo degli avvenimenti la si può isolare abbastanza chiaramente.
L'America Latina compie lenti, ma sensibili progressi economici che producono dei mutamenti sociologici. Un ceto medio borghese si forma oltre che in Argentina, Brasile, Messico, anche in Cile, Venezuela, Uruguay e Bolivia. Il problema del gruppo di potere più forte non si pone più nei termini degli anni tra le due guerre, nei quali per la inesistenza o la incapacità delle borghesie locali i gruppi militari o dei grossi proprietari terrieri detenevano oligarchicamente o personalmente il potere. La soluzione militarista, quindi comincia a presentarsi come soluzione provvisoria del potere. Pur non essendo eliminabile nella realtà sudamericana a causa delle situazioni di squilibrio dovute a numerosissimi motivi (demografici, economici e sociali), essa lascia il posto al potere dei civili.
Gli Stati Uniti appoggiano le modificazioni che avvengono all'insegna della democrazia e della libertà favoriscono lo stabilirsi dei governi civili (Frondizi, Quadros, Valencia, Prado), impostano la politica della "Alleanza per il progresso", favoriscono la creazione di industrie a capitale misto cercando di adattare le proprie strutture economiche in Sudamerica alla ricerca di una integrazione economica locale.
L'esperimento che sul piano politico definisce bene questo indirizzo è la democrazia cristiana di Frey; il modello economico e l'ALALC elaborato dal CEPAL (la commissione dell'ONU per l'America Latina).
Ma su questo sviluppo si innestano le vicende del castrismo.

La rivoluzione di Castro
La rivoluzione cubana, all'inizio, si inserisce nel quadro di questi mutamenti,
Fidel Castro ha una formazione politica e culturale di tipo populista. All'inizio delle sue esperienze politiche e praticamente fino alla conquista del potere ignora, sostanzialmente, il marxismo. Il programma politico del movimento da lui diretto non ha un'impostazione classista, ma si rivolge ad una larga massa popolare («contadini, lavoratori, disoccupati, insegnante intellettuali, piccoli proprietari ed altri settori del Paese»), crede fermamente nei mezzi legali e nel Parlamento, perlomeno fino al colpo di Stato di Batista, né sul piano della politica estera si pone il problema di una contestazione della supremazia americana («non avevo capito del tutto la relazione esistente tra il fenomeno dell'imperialismo e la situazione di Cuba»). Per sua stessa ammissione Fidel Castro è all'inizio fortemente influenzato da atteggiamenti, idee, educazione piccolo-borghesi.
In piena lotta rivoluzionaria, al processo per l'attacco di Moncada, il suo linguaggio non è marxista, ma propugna riforme di carattere economico, con obiettivi di tipo democratico-borghese («libertà di stampa, ritorno alla costituzione del 1940»).
Infatti la componente più vera del castrismo è un filone nazional-popolare che è caratteristico dei movimenti indipendentistici sudamericani.
Una volta giunto al potere, l'influenza di Che Guevara che pur non essendo un marxista ne usa i termini, l'aggancio internazionale con l'Unione Sovietica e un annacquato collettivismo economico che però non assume un atteggiamento di classe, ma popolare, gli fanno assumere una coloritura marxista e comunista. Mai come nel caso del fidelismo l'ideologia comunista assume un così chiaro aspetto sovrastrutturale, di strumentalizzazione mancando sostanzialmente nell'esperienza di Castro qualsiasi elemento fondamentale del comunismo, dall'internazionalismo al partito politico della classe operaia, ad una impostazione veramente collettivista.
Anche le vicende che portano Cuba a rompere con gli Stati Uniti hanno assai più l'impronta nazionalistica che non quella comunista. Castro rompe con gli USA perché questi si dimostrano ostili ad alcune nazionalizzazioni operate dal suo regime e questo nonostante le «speranze» di Castro di mantenere buoni rapporti e di avere «la comprensione del popolo americano».
Su questa linea, a livello internazionale, Castro si rivolge verso la Russia nei termini di una «nazione amica», cerca l'appoggio sul piano commerciale, e cioè nei termini nazionalisti e para-borghesi.
Durante la crisi di Cuba si dimostrano i limiti dell'appoggio sovietico; finché si tratta di fare un «miglior prezzo dello zucchero» o di fornire «attrezzature industriali» la Russia si fa avanti, al momento di dare un sostanziale appoggio rivoluzionario la «nazione amica» fa marcia indietro, preferisce non rompere con gli Stati Uniti. Certi fatti hanno le loro conseguenze sul piano della propaganda rivoluzionaria.
Dopo il 1962 la posizione del castrismo in America Latina comincia a diminuire.
Deluso dall'atteggiamento sovietico, ma pesantemente condizionato dalla «nazione amica» Castro arriverà a dichiarare, nel '64, di essere disposto a porre fine all'assistenza di Cuba ai movimenti rivoluzionari in altri Paesi, come base per un possibile negoziato con gli Stati Uniti e darà vita ad una pesante polemica con la Cina nel '66.
I fatti più recenti sembrano però modificare il quadro attendista nel quale si era mosso Castro dal '62. Soggetto prima alla strategia coesistenziale dell'URSS con aperte critiche all'oltranzismo cinese, dopo aver dimostrato una marcata insofferenza per questo tipo di condizionamento, Fidel Castro, dopo aver riaperto in sede di conferenza tricontinentale il colloquio con i movimenti rivoluzionari dell'America Latina, dell'Africa e dell'Asia è giunto recentemente a condannare a viso aperto la condotta rinunciataria dei partiti comunisti legati a Mosca con un contemporaneo rilancio dell'appello rivoluzionario.
Nello stesso tempo tutto il movimento rivoluzionario comincia a riprendersi: nel Venezuela guidato da Dougla Bravo espulso dal Partito Comunista Venezuelano alla fine del 1965, mentre tra poco la nuova strategia dell'OLAS (Organizzazione Latino-americana di solidarietà) dovrebbe aprire nuovi fronti insurrezionali.
La ripresa di un discorso rivoluzionario castrista e soprattutto l'aggancio internazionalista che finalmente sembra farsi strada nella mente dei capi locali apre la possibilità di un superamento del piccolo nazionalismo che aveva caratterizzato la politica di Castro tra Washington e Mosca. Che Guevara nel suo recente discorso ha detto: «L'imperialismo è un sistema mondiale e lo si deve abbattere in un grande scontro mondiale». Nella misura in cui il movimento rivoluzionario sudamericano saprà emanciparsi da certe forme di riformismo paramarxista, da certi contatti a livello afrasiatico destinati a ricondurlo nel legalismo onusiano, dal piccolo nazionalismo, per accettare la guida rivoluzionaria della Cina, aumenterà il peso della contestazione statunitense e la robustezza del discorso rivoluzionario.
(continua)


SINDACALISMO
9 - Eletto a Roma il consiglio provinciale del SINAPS - Sindacato Propagandisti Scientifici

Durante l'assemblea provinciale del 26 maggio 1967 è stato eletto il Consiglio Provinciale SINAPS nelle persone di:
Giorgio Vitali - Presidente
Roberto Bucci - Tesoriere
Adolfo Putignano - Segretario
Mario Transi - Consigliere
Sandro Ferrari - Consigliere
Il Consiglio curerà essenzialmente i problemi sindacali dei collaboratori scientifici dell'industria farmaceutica, mentre gli organi direttivi nazionali seguiranno e interverranno in tutto ciò che concerne il riconoscimento della personalità giuridica e dell'albo professionale della categoria.


COSTUME

* Manifesto rivelatore
In questi ultimi tempi è apparso sui muri d'Italia un manifesto del Partito Comunista, che illustra chiaramente l'aspetto ideologico della «via italiana al socialismo». Il manifesto espone una «teen ager».
Nella mente degli ideatori, probabilmente le giovane truccatissima, con sigaretta e l'aria assorta di chi esprime la protesta beat, avrebbe dovuto esercitare un richiamo fra le giovani generazioni o almeno mostrare la modernità del PCI.
In realtà il manifesto con la dicitura «Sono giovane: divento comunista» mostra soltanto che questo partito, che una volta si definiva rivoluzionario, è oggi sul piano della concorrenza alle grandi case discografiche. Si contendono i giovani per convogliarli ciascuno al proprio dancing o alla propria «sezione». Quando si associa l'idea di comunista con quella di ballerino-contorsionista si dimostra che la carica rivoluzionaria è da tempo esaurita, la forza delle idee è esausta e invece di proporre ai giovani di cambiare il mondo in cui vivono, si dice loro che la rivoluzione ed il ballo frenetico sono sinonimi, si dimostra come questa civiltà è quella che i comunisti italiani hanno sempre voluto, per la quale hanno lottato a suo tempo, e oltre alla quale non sanno né vogliono andare.

* America di gomma
Ultimo prodotto della civiltà dei consumi e del disordine fisiologico ad essa legato, è comparsa prepotente a menar strage di cuori la Party-Poli.
Si tratta di un manichino femminile al naturale in gomma, che si gonfia e fa alcuni movimenti. Vista da lontano, mollemente abbandonata su una poltrona, Party Doli non ha nulla da invidiare alle più languide bellezze holliwoodiane. Dai puritani giornali statunitensi si apprende che Party Doli viene utilizzata durante le feste da ballo come partner di ballerini solitari. Si aggiunge in sordina che la nostra bambola ha già provocato gravi fenomeni psichici, squilibri, feticismo, vortici di sentimenti.
Per ben valutare come facilmente sì possano instaurare dei processi psichici allucinanti, invitiamo i nostri lettori ad immaginare le situazioni paradossali in cui può trovarsi sentimentalmente implicato un uomo medio americano, sradicato dal mondo reale da mille immagini, assalito nell'intelletto da infinite sollecitazioni propinate dalla propaganda di mercato, esasperato dalla estrema durezza e competitività di ogni attività lavorativa moderna, straziato dal freudismo, abituato alla freddezza della donna americana, quando venga a convivere con un essere di gomma dalla conturbante bellezza.


ATTIVITÀ DEL CENTRO POLITICO AUTONOMIA EUROPEA

* Manifesto sulla crisi del Medio Oriente
Nei giorni scorsi sono state distribuite a Roma, a cura del Centro, della "Caravella" e di "Nazione Europa", copie del volantino di cui riproduciamo di seguito il testo:
NO AL PREDOMINIO RUSSO AMERICANO NEL MONDO
Il conflitto nel Medio Oriente dimostra che:
- alla riunificazione del mondo arabo si oppone la presenza dello stato di Israele, creato dall'ONU contro i millenari diritti arabi;
- USA e URSS, interessati a mantenere la spartizione nel mondo stabilita a Yalta, sono i massimi oppositori dell'unità panaraba, della Grande Asia Orientale, della libertà dell'America Latina e dell'autonomia europea;
- come gli USA non intervennero in Ungheria nel 1956 per l'indipendenza del popolo europeo, così l'URSS non è intervenuta nel Medio Oriente durante la lotta rivoluzionaria del popolo arabo;
- ora il minacciato intervento sovietico vuole soltanto far accettare agli Stati arabi, prima lasciati sconfiggere, la presenza di Israele, negazione dell'unità panaraba.
Viva l'unità araba! Viva l'autonomia europea!

* Dibattito sul tema «Lo Spirito di Yalta nella crisi del Medio Oriente»
Il giorno 13 giugno si è svolto un dibattito al "circolo dei Selvatici" in Roma: «Lo spirito di Yalta nella crisi del Medio Oriente». Lucci Chiarissi e Vulpitta per "l'Orologio" e Giraldi per "il Centro" hanno svolto le relazioni introduttive.

* Programmazione di conferenze-dibattiti in sede di campeggio
Nel quadro del campeggio organizzato dalla FNCRSI a Capistello dal 6 al 13 agosto il Centro curerà la puntualizzazione della propria tematica politica. Sono state programmate le 7 conferenze-dibattiti seguenti:
Domenica 6 agosto - L'uomo tradizionale nel mondo moderno.
Lunedì 7 agosto - Le condizioni della lotta politica nell'attuale momento storico: la strategia del radicalismo e dell'occidentalismo verso l'URSS, la Chiesa e i regimi e i movimenti di destra.
Martedì 8 agosto - Le condizioni della lotta politica nell'attuale momento storico: le caratteristiche ideologiche e politiche dell'opposizione al radicalismo e all'occidentalismo in America Latina, in Asia, nel Medio Oriente, in Europa e nella Chiesa.
Mercoledì 9 agosto - Il carattere della nostra opposizione al radicalismo e lo spazio politico della stessa.
Giovedì 10 agosto - La connessione in Italia fra centrosinistra, opposizione costituzionalizzata, sistema democratico parlamentare e occidentalismo.
Venerdì 11 - Gruppi sociali in Italia e loro permeabilità al nostro programma politico.
Sabato 12 agosto - Obiettivi politici immediati, linee d'azione e strumenti organizzativi del nostro Centro.