Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO II - N. 13
Roma, 1 novembre 1967


SOMMARIO

ATTUALITÀ
1 - Che Guevara: la morte di un rivoluzionario

POLITICA INTERNA
2 - L'attacco radicale alla Chiesa

POLITICA ESTERA
3 - Medio Oriente: i paesi arabi dopo Kartum
4 - Il viaggio di De Gaulle in Polonia

POLEMICHE
5 - Un nuovo equivoco: la Costituente Nazional Rivoluzionaria
6 - Il meticciato: un pericolo del mondo moderno

RECENSIONE
7 - "Un piano per l'Europa" di F. J. Strauss, Giovanni Volpe Editore

CINEMA
8 - "La Cina è vicina" di M. Belloccio

 

AVVISO AL LETTORE

Dopo il periodo estivo e la sosta imposta soprattutto dalla difficoltà di far recapitare l'Agenzia nelle varie sedi di villeggiatura, col presente numero riprendiamo le pubblicazioni di "Corrispondenza Repubblicana", delle quali manterremo la regolare periodicità per il prossimo futuro.

 

ATTUALITÀ

1 - Ernesto Che Guevara: la morte di un rivoluzionario

Dopo l'incertezza delle prime notizie sembra ormai confermata definitivamente la morte del rivoluzionario sudamericano Ernesto «Che» Guevara.
La sua morte segna senz'altro una pesante sconfitta del movimento rivoluzionario in Sud America poiché Guevara non rappresentava soltanto un abile stratega o un mito affascinante, la sua esperienza recente lo aveva portato ad una maturazione politica, ad una comprensione dei problemi della rivoluzione che ne facevano una guida insostituibile.
È indicativo a questo proposito seguire il più recente itinerario del pensiero di Guevara.
Ministro dell'Economia e direttore della Banca Centrale, al termine della rivoluzione egli crede che la cosa più importante sia di costruire lo Stato socialista a Cuba. È colui che dà maggior impulso alle nazionalizzazioni dei beni statunitensi, e per ciò che riguarda l'attuazione della riforma agraria tenta di impostare un sistema di incentivizzazione ideale, in contrasto in ciò con Fidel Castro che invece vuole degli incentivi di carattere economico. Col maturare degli eventi, dopo il 1962, mentre si fa sempre più pesante il condizionamento sovietico Guevara si scontra nelle sue teorie economiche con Fidel e con l'Unione Sovietica. Voleva spingere l'economia cubana su una strada di forte industrializzazione, ma l'appoggio sovietico presupponeva aiuti limitati per l'industrializzazione e una grossa produzione di zucchero da esportare nei paesi comunisti.
Guevara lascia il Ministero dell'Economia, perde completamente la sua fiducia nell'appoggio «rivoluzionario» dell'Unione Sovietica (parlerà molto raramente dell'URSS, ma questo silenzio, in una certa misura, è molto indicativo), comincia a fare viaggi in alcuni Paesi dell'Asia e dell'Africa. Non crede più nel nazionalismo o «socialismo cubano» di Castro, ma comincia ad intuire un disegno più vasto.
Nell'aprile del 1964 è ad Algeri a colloquio con Ben Bella. Il «radicale» Ben Bella che concepisce ben altri disegni che quelli rivoluzionari, orientato decisamente su una via riformista e tecnocratica e con in più un progetto di forti legami con il capitale americano, delude profondamente Guevara e gli conferma anzi la sua intuizione sulla logica fine di una rivoluzione a sfondo nazionale.
Ormai ha chiaro in mente che la lotta «anti-imperialista» non può che comprendere un vasto fronte internazionale se vuole avere qualche possibilità di vittoria.
Nei primi mesi del '65 tenta di organizzare la guerriglia nel Congo, ma questa volta è il materiale umano a deluderlo: le bande tribali del Congo non sono addestrabili per nessun tipo di lotta seria e con delle parole più o meno simili lascerà in breve il tentativo nell'Africa Occidentale.
Il viaggio a Pekino e l'esperienza del Vietnam sono quelle che più influenzano il «Che».
La Cina aveva condotto tempo addietro un tentativo di collegamento della politica di alcuni Paesi del terzo mondo per tentare su queste basi una lotta internazionalista. Il fallimento del viaggio di Ciu En Lai in Africa aveva fatto scartare definitivamente questa idea, mentre la via della lotta nel Vietnam in una delimitata area di influenza, nella quale si potevano far sentire concretamente un appoggio economico e dei motivi di carattere nazionale e razziale, aveva portato la Cina a restringere l'orizzonte della sua politica, ma ad aumentare l'efficacia della lotta rivoluzionaria.
Il viaggio a Pekino non fece di Guevara un «cinese» come comunemente è dato di pensare, ma anzi fece maturare in lui la presa di coscienza della inutilità dell'internazionalismo a sfondo cosmopolita, e della validità della via delle lotte nell'ambito delle grandi aree nazionali.
Ecco il compiersi del lungo viaggio di Guevara. Da solo, mentre il castrismo aveva abbandonato la lotta, e i partiti comunisti ufficiali sotto la guida dell'esperienza sovietica si impegnavano sulla via politica subordinando a questa la guerriglia o addirittura, come nel Venezuela, tradendo i guerriglieri, egli gira l'America Latina nel tentativo di riallacciare le maglie della rivoluzione.
L'esperienza vietnamita che cerca di ripercorrere nell'America Latina è l'unica possibilità rivoluzionaria che possa attuarsi nella regione, ma è molto più difficile organizzare la lotta nel continente sudamericano che ai confini della Cina.
Il Vietnam ha grandi aiuti militari ed economici, i guerriglieri sono facilmente riforniti in continuazione e, nello stesso tempo, gli Stati Uniti sono costretti in quella regione ad agire con le mani legate avendo a che fare con delle possibili complicazioni che essi non desiderano e vogliono evitare (il bombardamento della Cina avrebbe come riflesso, quasi certamente, il colpo di stato militare nell'Unione Sovietica con la fine della distensione).
I pochi rivoluzionari sudamericani avevano comunque iniziato a dare grossi fastidi. In Bolivia era stata occupata una cittadina e nella regione di Vallegrande i rivoluzionari avevano cominciato ad avere un certo appoggio dalla popolazione locale. Nel Venezuela, in Colombia, nel Guatemala la lotta ha degli alti e bassi ma già è impossibile sradicarla.
Non crediamo che Guevara si facesse soverchie illusioni sui risultati immediati della sua azione, comprendeva bene le difficoltà che il movimento rivoluzionario aveva di fronte. L'importante era tenere deste le coscienze, dare un punto di riferimento per la rivoluzione, mettere in moto il piccolo motore. L'appello che lanciò nei primi mesi di quest'anno si chiude con queste parole: «In qualsiasi posto ci sorprenda la morte sia essa benvenuta, purché questo nostro grido di guerra giunga ad un orecchio sensibile, e un'altra mano si tenda ad impugnare le nostre armi, e altri uomini si apprestino ad intonare il canto funebre con il crepitio della mitraglia e nuove grida di guerra e di vittoria».
Barrientos ha intascato la taglia che il Dipartimento di Stato aveva messo sul suo capo, il movimento rivoluzionario sudamericano ha perso il suo capo più prestigioso, Feltrinelli e gli intellettuali radicali si appresteranno a fare un manifesto di protesta ed una raccolta di firme invocando insieme agli «utili idioti» comunisti la distensione e la pace, "Paese Sera" ha ricordato il «partigiano Che Guevara», ma quale differenza tra «Che» e i partigiani arricchiti dalla Repubblica Italiana, oggi alla guida di grosse società commerciali che nei locali notturni di Riccione cantano con Ornella Vanoni le vecchie canzoni della resistenza!
In Cina, nel Vietnam, in alcuni paesi arabi, in Sudamerica, nasce un movimento politico rivoluzionario nuovo, ma ancora condizionato dalla terminologia comunista, ma che non è comunista e che scopre di essere molto simile alla rivoluzione nazionale che va mettendo radici in Europa.
Gli avvenimenti dei prossimi anni diranno se le ripercussioni di questi rivolgimenti potranno influire positivamente sulla politica europea contribuendo ad affrancare questa dalla sudditanza agli Stati Uniti e alla Unione Sovietica.


POLITICA INTERNA
2 - L'attacco radicale alla Chiesa

La discussione sull'opportunità di revisione del Concordato con la «Santa Sede», che ha tenuto impegnato il parlamento nella prima decade di ottobre e che si è conclusa con un voto di fiducia accordato alla maggioranza, rientra in una manovra politica ad ampio raggio tentata dalle forze radicali.
Gli obiettivi che tali forze si propongono di raggiungere sono molteplici ed ambiziosi.
In primo luogo, tenendo conto che la revisione del Concordato è una tappa sulla via del divorzio, si vuole continuare quell'opera di disgregazione della famiglia, quale valore naturale non in linea con il mondo puramente utilitaristico e materialistico propugnato dalle forze laiche, e spingere ancora di più il Vaticano verso la negazione di ogni principio metafisico della società, su quella strada «democratica» spianata dal Concilio Ecumenico e dall'azione di revisione ideologica di Giovanni XXIII, prima, e da quella politica di Paolo VI, poi.
A questo punto sarebbe di domandarsi perché seguire un iter cosi lungo e complesso, quando prima si è fatto insabbiare il più semplice progetto Fortuna, che, proponendo il piccolo divorzio, era ampiamente condiviso dall'on. La Malfa, centro animatore della sollevata iniziativa parlamentare, come è stato rilevato dagli stessi organi di stampa filo-sistema (vedi, ad es., "Domenica del Corriere" del 17 ottobre u. s.).
In questo caso si son fatte valere delle ragioni di carattere politico e tecnico: ci si è accorti che i tempi non sono ancora maturi e che si correva il pericolo di creare una frattura, o peggio una rottura nel centro-sinistra, profondamente diviso sulla questione divorzio, dopo che si era fatto di tutto da parte dei radicali per mantenerlo in vita e per non arrestarne il processo di realizzazione, anche a costo di gravi rinunzie e di gravi ritardi nei loro programmi, non disponendo di un campo migliore per le loro azioni politiche, ora che l'accarezzato progetto del partito unico dei lavoratori è ancora in alto mare.
Ci si è poi anche accorti che le politiche del '68 sono molto vicine e non era conveniente porre in crisi, con un elettorato prevalentemente popolare e quindi con poche possibilità di recepire un simile discorso, la DC, il PSU e lo stesso PCI, lentamente catturato ai grandi temi laicisti e radicali. Questo si è visto particolarmente nel corso del suo ultimo congresso quando era stata annunziata una proposta, preparata da Leonilde lotti, di riforma organica del diritto familiare. Questo tema, infatti, era stato considerato fino ad allora proprio della società borghese ed estraneo quindi ai grandi problemi della società marxista.
Inoltre l'accettazione del progetto Fortuna avrebbe richiesto un procedimento di revisione costituzionale, con la necessità di proporre, nel corso della prossima legislatura, una legge costituzionale. Per varare questa sarebbero state necessarie ben due votazioni a maggioranza semplice, ed un lungo periodo di tempo, con una serie di possibili intralci e obbiezioni, superabili solo con una votazione a maggioranza qualificata (due terzi dell'assemblea), difficilmente raccoglibile, nonostante l'ampio controllo esercitato dai radicali nel vertice dei partiti di maggioranza governativa, compresa la DC, tramite la corrente di Forze Nuove appoggiata dallo stesso Moro, e il forte contributo delle filo-radicali ACLI. Invece con una modifica bilaterale del Concordato, secondo l'articolo 7 della costituzione, sarebbe risultata necessaria, per la proposta di divorzio, una semplice legge ordinaria; senza contare, poi, che, con una revisione bilaterale (Stato Chiesa) si sarebbero potuti raccogliere frutti più cospicui, come, ad esempio, una revisione dell'articolo riguardante l'insegnamento della religione nelle scuole, o addirittura quello riguardante la legittimità del privilegio della religione cattolica come religione di Stato.
In ultimo, con la questione del concordato si sarebbe potuto ricreare la solidarietà e il fronte delle forze laiche, progressiste e democratiche e rilanciare cosi l'idea del partito unico dei lavoratori, per ora tenuto sotto naftalina per una questione di scelta del momento politico adatto; momento che si potrebbe presentare favorevolissimo da qui a poco e consentire cosi la creazione di questo nuovo strumento per l'azione della nuova sinistra italiana, da opporre sul piano delle scelte politiche, alla DC.


POLITICA ESTERA
3 - Medio Oriente: i paesi arabi dopo Kartum

Chi guardava il vertice arabo di Kartum aspettandosi grossi risultati si è ritrovato deluso dalle decisioni conclusive dell'incontro. A nostro avviso il vertice tra i capi arabi non ha fatto altro che acuire il dissidio esistente all'interno del mondo medio orientale, e porre in maggior evidenza i limiti politici dell'azione nasseriana.
Nelle linee fondamentali il vertice di Kartum è stato un completo cedimento alla politica moderata e negoziata nell'ambito dell'ONU, imposta da Londra, Washington e Mosca, anche se a conclusione dei lavori è scaturita la volontà dei paesi arabi di non riconoscere Israele, di non intavolare con esso alcun negoziato di pace e di garantire il diritto dei palestinesi alla loro terra. Tuttavia se queste decisioni erano prevedibili per ragioni di prestigio e di orgoglio, il fatto nuovo che evidenzia le carenze di Nasser è il suo proposito di voler giungere ad una soluzione politica del conflitto con Israele, in contrasto con le sue vecchie affermazioni di ricercare una soluzione militare della questione. Essendo in effetti la ripresa della guerra completamente al di fuori della realtà, si doveva intraprendere una azione veramente rivoluzionaria, come ad esempio la guerriglia; mantenere cioè la minaccia di fare della Palestina un secondo Vietnam; su la qual cosa torneremo dopo.
Questa mancanza di una visione globale delle vicende politiche ha fatto si che il presidente della RAU scivolasse su posizioni riformiste, schierandosi così dalla parte dei Paesi moderati, quali la Giordania e il Sudan che hanno contribuito a spingerlo tra le braccia del suo vecchio nemico Feisal d'Arabia, e inoltre la Tunisia, la Libia, il Marocco e il Kuwait.
Sta di fatto che alla conferenza non si è detto nulla in merito alla preparazione militare per una eventuale rivincita ed è scomparso ogni attacco ai paesi occidentali, che si erano schierati con Israele. Anzi è stato deciso di riprendere regolarmente le forniture di petrolio e le relazioni diplomatiche, interrotte durante il conflitto, con quegli stessi paesi, non accettando le mozioni dei paesi intransigenti che richiedevano drastiche misure, quali l'embargo del petrolio agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, e il ritiro dei fondi arabi depositati presso le banche inglesi.
Che Nasser e i paesi arabi non siano interessati, all'infuori di Siria ed Algeria, ad una estremizzazione della crisi fino a farle raggiungere un carattere mondiale, lo dimostra il fatto che, disponendo il blocco arabo, secondo calcoli non ufficiali, di circa un miliardo e mezzo di dollari depositati a Londra, i quali servono, almeno in parte, come riserva di valuta pregiata alla Banca d'Inghilterra, senza contare altri tre milioni di dollari, appartenenti a sceicchi e commercianti, depositati in banche private inglesi, se esso avesse ritirato contemporaneamente tutto questo denaro, avrebbe messo in crisi l'intero sistema monetario mondiale e probabilmente fatto crollare la sterlina. Se poi avesse convertito tutte le sue riserve in dollari e quindi questi in oro il disastro avrebbe investito anche gli USA.
Altro fatto che dimostra il cedimento di Nasser, è l'accordo stipulato con Feisal per porre termine alla guerra nello Yemen; accordo basato sul ritiro graduale del corpo di spedizione egiziano; la cessazione dell'appoggio saudita ai monarchici yemeniti; la nomina dì una commissione tripartita, composta dai rappresentanti dell'Irak, del Marocco e del Sudan, incaricata di presiedere all'attuazione dell'impegno egiziano e saudita; la formazione di un governo provvisorio, presieduto da Sallal, ma sotto l'alto controllo della commissione tripartita, in attesa di un plebiscito che stabilisca il regime definitivo dello Yemen. Evidentemente a Nasser interessavano di più i 140 milioni di sterline che l'Arabia, la Libia, e il Kuwait si sono impegnati a versare a Egitto, Siria e Giordania, quale contributo per il risanamento dei danni della guerra. Ma per salvare la faccia di fronte a Siria, Irak e Algeria, Nasser ha cercato di uscire dall'accordo a testa alta tenendo chiuso per il momento il canale di Suez, sbloccando i fondi dell'Arabia sequestrati in Egitto, per costringere Feisal, come contropartita, a snazionalizzare le banche egiziane operanti nel suo Paese e quindi, quello che più importa, ottenere i 140 milioni di sterline.
A questo accordo hanno reagito violentemente sia Sallal che l'Iman El Badr, dichiarandosi entrambi decisi ad impedirne l'esecuzione. Ma la loro opposizione è destinata a rimanere lettera morta in quanto, contrariamente a quanto avvenne per l'accordo precedente dell'agosto 1965, pare che l'attuale sia già in fase esecutiva poiché il corpo di spedizione egiziano ha già iniziato l'imbarco.
Come si poteva prevedere, l'accordo ha danneggiato notevolmente sia i repubblicani dello Yemen che il FLOSY (Fronte di liberazione del sud Yemen occupato), il quale opera nella Federazione dell'Arabia Meridionale, a tutto vantaggio del NLF di estrazione saudita, che ormai l'Inghilterra riconosce come suo legittimo interlocutore.
Contro questa serie di cedimenti e di azioni moderate esaltate anche dalla Russia, hanno preso posizione l'Algeria e la Siria, che si erano già rifiutate di partecipare alla conferenza. Inoltre l'Algeria ha denunciato il cedimento che si sarebbe verificato a Kartum e ha lanciato minacce contro ogni possibile tradimento della causa araba, riferendosi direttamente al presidente egiziano. Atto assai significativo di Boumedienne che dimostra la sua volontà di continuare la lotta contro Israele, gli Stati Uniti e l'Inghilterra, è la nazionalizzazione di cinque società petrolifere americane operanti in territorio algerino e, quel che più conta, l'aiuto ai guerriglieri arabi operanti in Palestina. Ciò che era stata una minaccia di Nasser è divenuta, per volontà di Atassi e Boudemienne, una realtà. Tramite organizzazioni come l'«Al Fattah», l'«El Assifah», il «Fronte di liberazione palestinese» di Mustafà Khamayes, l'«Organizzazione di liberazione della Palestina» di Ahmed Schukeiry e i «Pionieri della liberazione», appoggiate e sostenute dalla Siria e dall'Algeria, i guerriglieri arabi, addestrati principalmente in Algeria, hanno iniziato una serie di azioni terroristiche nella fascia di Gaza e nel Sinai, in Cisgiordania e a Gerusalemme, sull'altopiano siriano, contro kibbuzim israeliani, pattuglie militari, treni, edifici e arabi cooperatori: azioni queste che preludono ad una guerriglia di tipo vietnamita, o meglio di tipo algerino.
Dopo la conclusione sfortunata della guerra contro Israele la guerriglia è l'unica iniziativa seriamente pensabile per una volontà autenticamente rivoluzionaria. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo che, contrariamente all'ottimismo di Moshe Dayan, il petrolio rende possibile la guerra rivoluzionaria.
Come avevamo previsto ciò si sta avverando.


4 - Il viaggio di De Gaulle in Polonia

Approfittando della crisi del Medio Oriente, il generale De Gaulle aveva tentato una nuova manovra per inserire la Francia nel gioco delle grandi potenze che si erano spartite il mondo a Yalta.
A tal uopo egli aveva lanciato la proposta di un incontro tra i grandi per cercare di trovare una soluzione rapida per la questione palestinese.
Se a questo incontro avesse partecipato la Francia, essa sarebbe stata indirettamente riconosciuta facente parte del «circolo di Yalta» e le aspirazioni di «grandeur» del generale sarebbero state finalmente soddisfatte.
Questo «storico» incontro ebbe infatti luogo a Glassboro, ma, come del resto era prevedibile, la Francia si trovò esclusa e intorno al tavolino si trovarono riuniti come sempre Johnson e Kossighin.
Il generale ebbe perciò bisogno di continuare il suo cammino battendo altre strade. Dopo il fallimento della iniziativa di allargare il suo discorso politico alla Germania, fallimento dovuto ai troppi legami che vincolano il governo di Bonn agli Stati Uniti, nei quali esso vede, per miopia o per malafede, l'unica sicura garanzia per la riunificazione tedesca, De Gaulle si è visto costretto a rivolgere il suo discorso ad altri Paesi Europei.
Scartati a priori la filo-americana Gran Bretagna e l'equivoca e insicura Italia, esso ha pensato bene di compiere un passo verso i Paesi dell'Est. La qual cosa, se fosse riuscita, avrebbe consentito di creare nell'area del patto di Varsavia una situazione analoga a quella creata nella zona NATO dalla Francia.
Per una simile manovra non si poteva pensare ad un Paese migliore della Polonia, dove certe iniziative e certe situazioni davano l'impressione di un risveglio nazionale e della ricerca di una certa autonomia dall'Unione Sovietica.
Ed allora il generale intraprende dal 6 al 12 settembre una visita ufficiale in Polonia.
Per abbattere le eventuali diffidenze e per accattivarsi le simpatie del governo polacco De Gaulle pensa bene di riconoscere, primo tra i governanti occidentali, la linea di confine dell'Oder Neisse, badando, per non irritare troppo Bonn, di ribadire la necessità di una riunificazione negoziata delle due Germanie, presupposto per una vera politica Europea autonoma. A questo punto il governo polacco si impunta e ribadisce seccamente la sua fiducia e il suo appoggio ad Ulbricht, affermando che ormai bisogna riconoscere come realtà operante la esistenza delle due Germanie. Irrigiditasi, per il timore che solo il pensiero di una Germania unita e forte gli incute, nonostante la ricerca, in chiave distensionistica, di un interlocutore all'ovest, sulle sue posizioni di fedeltà a Mosca, Varsavia sembra aver deluso le aspettative del Generale De Gaulle e aver fatto fallire anche questa sua mossa; ma, d'altra parte, non possiamo escludere la possibilità di un certo risultato politico a lunga scadenza.


POLEMICHE
5 - Un nuovo equivoco: la Costituente Nazional Rivoluzionaria

Abbiamo assistito giorni fa ad un comizio tenuto in una piazza romana da Costituente Nazional Rivoluzionaria ed abbiamo preso spunto da ciò per fare alcune considerazioni.
Non ci soffermeremo sul piccolo e sterile nazionalismo, sul metodo di lotta condotto mediante l'organizzazione delle categorie che contraddistingue la linea politica di detta Costituente e dimostra che non si sono capiti l'attuale società, il presente momento politico e il superamento sia del comunismo che del liberalismo. È nostro interesse porre in rilievo l'assoluta mancanza di tesi politiche che dimostrino una volontà autenticamente rivoluzionaria concepita in termini di civiltà e di antitesi a due mondi che si incontrano e si avvicinano. Tutto ciò è dimostrato dalla tesi di fondo sostenuta nella manifestazione e cioè quella della scheda bianca in nome della lotta contro il sistema. A nostro avviso questa tesi non fa altro che rafforzare il sistema in quanto porta gli incerti e gli ingenui sul piano del disimpegno e della diseducazione politica. Anche se sul piano contingente riteniamo che non si debba contribuire al rafforzamento di strumenti politici fondamentalmente equivoci, tuttavia respingiamo la battaglia per la scheda bianca come metodo politico, in quanto verremmo a porci automaticamente dalla parte di coloro che pretendono di opporsi al sistema senza idee e tesi politiche. L'adesione di certe organizzazioni alla manifestazione è, d'altra parte, la prova di ciò che sosteniamo, non avendo queste fatto altro che sostenere la scheda bianca senza proporre tesi nuove e rivoluzionarie, al massimo presentandosi come estremizzatori delle tesi missine. Al contrario l'adesione da parte della FNCRSI è motivata dalla continuità di una certa tradizione, sempre sostenuta, che implica il rifiuto totale del mondo democratico, di cui questo sistema è l'espressione.
Teniamo quindi a porre in guardia i nostri lettori che se l'iniziativa della scheda bianca può contribuire a eliminare un equivoco, tuttavia contribuisce a crearne altri.
La lotta contro il sistema va condotta, secondo noi, con precise tesi politiche rivoluzionarie, utilizzando se necessario, sul piano tattico, anche le armi che lo stesso sistema ci offre, senza moralismi esasperati e sterili polemiche.
Riteniamo quindi necessario, ora che ci si offre la occasione, dal momento che non abbiamo potuto farlo prima, porre in rilievo i motivi politici e ideologici che qualificano il nostro metodo di lotta politica, la nostra concezione della vita, la nostra visione del mondo e che ci hanno spinto in seguito alle diversità delle tesi emerse a non aderire a «Costituente Nazional Rivoluzionaria».
Per evitare quindi interpretazioni di comodo delle tesi di "Corrispondenza Repubblicana", riteniamo opportuno ribadirle, ovviamente per sommi capi.
Il problema di fondo della lotta politica dei tradizionalisti deve ravvisarsi, secondo "Corrispondenza Repubblicana", nella identificazione del nemico capitale della Tradizione. Non pare dubbio che esso sia il radicalismo; con il quale termine si intende l'ideologia giacobina aggiornata al secolo ventesimo e cioè: nella cultura il neoilluminismo, il relativismo, il progressismo, lo storicismo; nella politica la tecnocrazia e il mondialismo; nella economia il neocapitalismo (Keynesismo) e il consumatismo; nel costume l'edonismo piccolo borghese e la massificazione.
L'area di nascita e di sviluppo del radicalismo è rappresentata certamente dagli Stati Uniti, nei quali infatti si può facilmente rintracciare una società, uno Stato e una dottrina politica (cioè una civiltà) radicale. La cosiddetta destra americana, sulla quale taluni nutrono speranze alibistiche, non solo è totalmente ignara di ogni valore tradizionale, ma affonda le sue radici ideologiche esattamente sul terreno della dottrina radicale. Per chi conosce -con cognizione di causa e cioè avendoli letti- i testi e le pubblicazioni di un minimo livello della destra americana sa infatti che la sua ideologia è derivata dalle concezioni machiavelliche (rottura del rapporto tra politica e morale cioè tra politica e concezione di vita) e si sostanzia nei princìpi della politica di potenza, più adatta certamente alla grande borghesia ottocentesca che ad un gruppo politico tradizionalista.
La rilettura di Machiavelli fatta da destra attraverso Pareto, Mosca e Michels conferma appunto questa analisi.
Quanto sopra emerge chiaramente da riviste come la "National Review" o da testi come "The conservative mind in the USA" di Russel Kirk e sui quali è allineata tutta l'intellighentia di destra americana.
Ovviamente in tale quadro non possono prendersi in considerazione i variopinti gruppetti più o meno ben finanziati che trovano la loro espressione migliore nelle carnevalate blasfeme in cui si confonde allegramente la croce uncinata e la reclame del pop corn.
Le posizioni della destra USA hanno sul piano della politica generale del Paese una funzione pericolosissima che è bene denunciare. Il nazionalismo USA ha infatti avuto sempre la funzione di dare il cambio al radicalismo per consentirgli poi puntualmente di riprendere la corsa. Il passaggio da Roosevelt a Kennedy attraverso Truman ed Eisenhover ne è la conferma più evidente. In politica internazionale avviene esattamente la medesima cosa nel gioco delle parti fra l'occidentalismo atlantista e il distensionismo radicale filo-sovietico.
Ne è da credere infine che i soldati USA impegnati nel Vietnam possano mutare le caratteristiche di fondo moderate e patriottarde della destra americana. Coloro che nutrono ora queste speranze sono gli stessi che le nutrivano in occasione della guerra di Corea, L'irriducibilità della mentalità americana a concepire veri princìpi di destra li smentì clamorosamente e dimostrò che in fin dei conti unica eredità della guerra era per i soldati americani bianchi la solidarietà verso i compagni d'arme negri (non poco numerosi).
In termini di politica internazionale, l'opposizione al radicalismo comporta l'opposizione alla distensione e all'occidentalismo.
In particolare per quanto concerne l'occidentalismo "Corrispondenza Repubblicana" non accetta la tesi della necessità di dover scegliere fra comunismo e «mondo libero». A prescindere dal fatto che la scelta occidentalista la porrebbe automaticamente sulle posizioni del Movimento Sociale, del Partito Liberale, dell'intero schieramento del centro sinistra, dei Comitati Civici e della Coltivatori Diretti, sussiste una ragione di fondo che impedisce tale scelta, quella cioè che non si ritiene valida l'analisi del mondo comunista operata dalla destra.
Il comunismo non è stato mai realizzato nella sua accezione sovversiva di carattere marxista-leninista per la semplice ragione che come tale esso è irrealizzabile, essendo al di fuori della misura dell'uomo.
Esso è stato realizzato in Russia come nazionalismo e come panslavismo e come tale ha avuto la funzione di arrestare, intorno al 1925/30, la spinta sovversiva del radicale Trotzky (rivoluzione permanente). La rielaborazione che nel periodo stalinista è stata fatta di temi propri dell'anima russa e l'opposizione condotta nello stesso periodo contro l'influenza del radicalismo nella macchina statale sovietica ci dicono che in Russia, pur lontano dai principi tradizionali, si seguiva in quel periodo storico una rivalutazione di valori naturali sicuramente anti-radicali. La ripresa del mito «Mosca terza Roma», il mantenimento della mitologia zarista, il trasferimento della capitale da Leningrado a Mosca, il processo di espansione nazionale sui canali propri della politica degli Zar, l'utilizzazione della «Internazionale» a fini nazionalistici anziché internazionalistici (quasi si trattasse della nuova diplomazia uscita dalla rivoluzione), l'industrializzazione forzata per la costituzione delle basi economiche del nuovo grande Stato sovietico, la preferenza accordata nelle campagne ai colcos di derivazione zarista (artel) rispetto ai sovcoz statalisti, la cultura tenuta lontano dalla decadenza borghese e dal sovversivismo formalistico sono le prove più appariscenti della sostanziale strutturazione nazionalistica della Russia stalinista.
Dopo la morte di Stalin si è iniziato nell'URSS un processo di riconquista delle posizioni perdute da parte dei radicali. L'alleanza con l'America, che Stalin accettò per ragioni di guerra, è stata invece promossa dai nuovi radicali sovietici per ragioni di affinità ideologica e politica. Il radicalismo statunitense con la penetrazione nell'URSS post stalinista ha mostrato di aver ben individuato i motivi di assorbimento del mondo sovietico. La lotta fra i gruppi di potere attualmente in corso nell'URSS tra radicali distensionisti raccolti nei settori economici e culturali e quelli nazionalisti raccolti nei settori militari e dell'industria pesante va seguita, secondo "Corrispondenza Repubblicana", con la consapevolezza che la vittoria dei primi rappresenta una vittoria ed una estensione su scala mondiale del radicalismo statunitense di cui quei gruppi ripetono puntualmente i princìpi culturali, ideologici e politici.
In Cina si ripresenta un fenomeno analogo a quello stalinista, con alcuni elementi maggiormente positivi: primo, il carattere razzista del nazionalismo cinese; secondo il momento storico che ha fatto della Cina il nemico più efficiente verso la distensione; terzo, la mancanza di quegli elementi che resero possibile l'utilizzazione di Stalin da parte di Roosevelt per cui oggi non si rende possibile quella di Mao da parte di Johnson; quarto, la conseguente impossibilità di introdurre in Cina tesi, principi e uomini radicali (vedi l'attuale lotta contro l'economicismo).
Naturalmente l'apprezzamento verso la Cina non implica la pretesa di ripeterne nelle diverse condizioni europee il moto rivoluzionario. Ne vanno però apprezzate in particolare le posizioni che incidono sulla situazione europea (collegamento tra antiamericanismo cinese e antiatlantismo degollista).
Per chi infine giustifica una posizione anticinese con l'equivoco argomento della necessità di tutelarsi dalla razza gialla, rammentiamo che la medesima necessità non fu avvertita dai migliori tradizionalisti durante la seconda guerra mondiale.
Rapportando le suddette considerazioni alla situazione politica italiana, deriva che la lotta politica in Italia deve essere impostata contro il centro sinistra come tale, in quanto espressione del radicalismo internazionale e non -come sostengono le destre e la stampa moderata dal "Giornale d'Italia" al "Tempo", dal "Borghese" allo "Specchio", dal "Secolo" al "Roma"- in quanto ponte al comunismo.
Il carattere riformista del PCI, la sua mancanza di prospettive rivoluzionarie e il suo assorbimento delle tematiche del radicalismo (Amendola), ne fanno un organo incapace di porre la minima minaccia all'ordine costituito. Il PCI si offre sempre più ai gruppi radicali per sostenerne ed estremizzarne le posizioni politiche. Quando si ripete, per «épater le bourgeois», che il PCI ha un apparato di grossa consistenza, duttile fino al punto di seguire una nuova metodologia rivoluzionaria, allora evidentemente non si capisce che un apparato non si mantiene per venti anni in gelatina e non si vuol vedere la strutturazione clientelistica e cooperativistica del PCI che ormai ha confinato interi quadri del partito all'inventario delle mortadelle bolognesi e del parmigiano reggiano. Bisognerebbe conoscere le radici ideologiche di questo partito (il crocianesimo di Gramsci e la sua polemica con Bordiga) per poter capire l'appoggio da esso dato alla costituzione borghese italiana e la perfetta gestione da esso tenuta di vari comuni dell'Italia democratica (vedi Dozza a Bologna).
D'altra parte l'orientamento verso le «vie nazionali» al socialismo e la crisi della leadership sovietica segnano la fine di un disegno unitario a scala mondiale nel quadro del quale forse sarebbe stato possibile credere ad un indirizzo rivoluzionario del PCI.
Sulla destra italiana non è il caso di dilungarsi mettendo conto soltanto di rilevarne l'assoluta sudditanza alle posizioni politiche filo-americane, per cui fra l'altro ogni spostamento della politica USA verso l'Unione Sovietica viene a metterla puntualmente in crisi.
Il motivo maurassiano del «paese reale» che si contrapporrebbe al «paese legale» è ormai valido in Italia esclusivamente per la stampa scandalistica. Rimane il fatto che centinaia di scandali non hanno finora sortito alcuna reazione in questo «paese reale», per cui è lecito dubitare se non della sua esistenza almeno della sua sensibilità politica. Il fatto è che questo «paese reale» in realtà ha venduto la sua sensibilità alla difesa delle sue condizioni di vita che i settori moderati della DC gli assicurano nel quadro del sistema socio-politico italiano. Esso pertanto costituisce un grosso sostegno del sistema e non è assolutamente utilizzabile per una politica rivoluzionaria.
I militari che di questo «paese reale» sarebbero poi l'anima, non hanno obiettivamente in Italia tradizioni e posizioni tali da poter sperare in una loro attività rivoluzionaria. Non crediamo inoltre che ufficiali di derivazione badogliana possano oltrepassare politicamente i limiti di una «marcia di addestramento». Chi ha avuto occasione di vivere negli ambienti militari dal dopoguerra in poi conosce bene l'impreparazione politica e il qualunquismo di quegli ambienti. A prescindere da queste osservazioni di fatto sul «ceto» militare italiano, dobbiamo precisare che in linea di principio non riteniamo valido il «golpe» quale strumento di iniziativa politica rivoluzionaria. È chiaro infatti che la prassi del «golpe», oltre ad essere propria a Paesi extra-europei, implica la direzione dell'atto rivoluzionario da parte dei militari e quindi la subordinazione della politica alla tecnica. È significativa al riguardo la triste esperienza che si è avuta in Francia, quando i militari preparati da anni, nelle condizioni migliori per attuare una «guerra rivoluzionaria» (appoggio dei pieds noirs) e con il totale disfacimento dell'opposizione sovversiva e del sistema, si lasciarono prendere la mano prima che da De Gaulle dai vari Salan, Gialle e Jouin.
Altre notazioni andrebbero fatte sulla posizione verso la Chiesa, il cui progressismo deve essere imputato, secondo "Corrispondenza Repubblicana", all'occidentalismo e all'accettazione della protezione americana.
Dalle tesi su esposte brevemente deriva una metodologia politica i cui punti sono: formazione di una classe dirigente; contemporaneamente elaborazione e approfondimento di una tematica politica; preparazione capillare dei quadri; diffusione di massa, senza la rigida applicazione dei quali ogni iniziativa politica sarebbe inevitabilmente destinata a fallire.


6 - Il meticciato: un pericolo del mondo moderno

Quanto avviene in Africa, la proliferazione di piccoli Stati, le loro lotte interne ed esterne che, talvolta, assumono le proporzioni di veri e propri genocidi con la eliminazione di intere razze (Vatussi, negri del Sudan), dimostra lo stato di balcanizzazione voluto dall'ONU in quel continente.
Anche in Africa vive ed opera, seppur con le trascurabili varianti golliste e portoghesi, lo spirito di Yalta, caratterizzato però fortunatamente da una maggiore debolezza intrinseca e da una più facile vulnerabilità agli attacchi tendenti a rovesciare tale equilibrio.
L'Europa ha ceduto il predominio in Africa a causa delle sue guerre civili e, soprattutto, per aver rinunciato, in nome di un egualitarismo indiscriminato, che caratterizza ed insieme condiziona l'esistenza, al senso della propria superiorità razziale.
Quando già si avvertiva in Europa la graduale riduzione dell'immigrazione di elementi bianchi verso le colonie e l'aumento della re-immigrazione dai territori di oltre mare, ebbe luogo tuttavia il poderoso intervento italiano in Etiopia che si palesò chiaramente idoneo ad arrestare la ormai chiara rinuncia al diritto di signoria dei bianchi nel continente nero e capace di provocare un generale ravvedimento nella politica coloniale. Ciò non fu compreso e, peraltro, non mancarono gli ostacoli sorti per meschini nazionalismi.
Altro e più criminale atto di abdicazione degli europei «democratici» fu il reclutamento di interi eserciti negri, portati poi a combattere in funzione di «liberatori» nel cuore stesso della comune patria europea.
Mentre l'ONU maneggia la quasi totalità dei nuovi Stati africani, a testimoniare pietosamente la presenza europea in Africa, rimangono la Francia, la Spagna, il Portogallo, la Rodesia e la repubblica Sudafricana, senza peraltro alcuna norma che tuteli l'integrità delle varie stirpi, dai negri ai bianchi, che popolano quel continente. Alla luce delle considerazioni esposte, non ci è più possibile comprendere o condividere gli atteggiamenti e le iniziative di taluni ambienti politici, i quali, da una parte considerano «fascista» Jan Smith, la politica del Sudafrica ed il meticciato eretto a sistema dal Portogallo e, dall'altra, si scandalizzano per il genocidio nel Sudan, per i «distretti chiusi» organizzati dagli Arabi a danno delle popolazioni negre, e che solidarizzano con preti cattolici estromessi da quel Paese per attività sovversive.
Pur di sopravvivere a qualsiasi costo tali ambienti organizzano squallide manifestazioni, per nulla giustificate da qualche motivo politico; e nel momento in cui tutte le energie dovrebbero essere utilizzate per contestare l'ipoteca russa e americana sull'Europa, ci si perde in piccole questioni completamente al di fuori da questo unico e vero problema.
Ad ogni modo non col pietismo qualunquistico si individuano le vie per la risoluzione dei problemi euro-africani, bensì con idee chiare e soprattutto con fattive iniziative tendenti a realizzare una nuova anima ed un nuovo prestigio europeo.


RECENSIONE
7 - "Un piano per l'Europa" di F. J. Strauss, Giovanni Volpe Editore

La pubblicazione di questo libro da parte della Casa Editrice Giovanni Volpe ci permette di riprendere un discorso sostanzialmente polemico nei confronti della suddetta casa.
Evidentemente, egregio ingegnere, non avevate ben compreso i termini del nostro ribrezzo nei confronti del libro del Quaroni se avete avuto la presunzione di presentarci il libro del Ministro Strauss in cui a Vostro giudizio, sono contenute argomentazioni più valide e più realistiche delle nostre, a sostegno di una posizione diversa da quella del Quaroni.
Evidentemente non avevate capito che sia Quaroni che Strauss sostengono tesi collaterali ed affini, anche se il secondo segue apparentemente una linea più avanzata, e che quindi il preannunciato libro del ministro bavarese non poteva non suscitare in noi gli stessi sentimenti provocati da quello della «vecchia volpe diplomatica».
L'impressione avuta di Strauss che più ha provocato in noi ribrezzo è che il fatto di essere tedesco gli produce quasi un complesso di colpa nei confronti degli Europei a causa della recente storia tedesca, per cui vede l'unità della Germania, nell'unità europea, come «una via per riscattare il suo recente passato», e perciò spende intere pagine per rassicurare gli Stati europei che una Germania unita politicamente non sarebbe più una minaccia, ma una garanzia per la loro sicurezza economica e militare. Ma lo sapevamo anche noi questo, non c'era bisogno di calarsi le brache fino a questo punto, anche perché siamo convinti che la Germania non è mai stata una minaccia, ma sempre una difesa per l'Europa.
Non mancano i soliti inviti al «realismo» e la solita fraseologia di tipica marca occidentalista: «L'America, dopo il 1945, unica difesa dei popoli liberi», «La libertà di decisione, interna ed esterna, rende noi della Germania libera, responsabili del destino di tutti i tedeschi». Fraseologia questa comune al Quaroni e che li rende simili nella loro concezione politica democratica e borghese, conservatrice e rinunciataria.
La tesi di fondo del ministro bavarese è la ripresa del mito kennediano di una partnership dell'Europa con gli USA.
L'Europa per Strauss deve essere in grado di difendersi da sola con proprio potenziale nucleare e realizzare con gli USA una partnership paritaria nei confronti dell'America Latina, dell'Africa e del Medio Oriente. Una Europa unita politicamente eserciterebbe influenza sui Paesi orientali e nel quadro della distensione e di una più vasta pacificazione a cui dovrebbe partecipare anche essa, potrebbe indurre l'Unione Sovietica ad accordarsi con l'Europa per unificare la Germania, superando così lo status quo.
A dir la verità ci aspettavamo un libro un po' più serio dal modo in cui, egregio ingegnere, ce lo avevate presentato; ma il semplicismo con il quale Strauss espone le sue tesi, facilmente confutabili, ci ha fatto ricredere. Non si capisce infatti come possa un'Europa, che eserciti una partnership paritaria con gli USA, indurre l'URSS ad accordarsi con essa per unificare la Germania, specialmente se questa con armamento atomico, anche in un clima distensivo.
Non è chiaro allora come mai, proprio in questo clima, la Russia prema per un area centro europea smilitarizzata e gli Stati Uniti propongano ai sovietici il trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari e l'antimissile in comune; azioni queste miranti ad impedire la rinascita politica dell'Europa per continuare ad esercitare il loro controllo sul resto del mondo.
Creda a noi, egregio ingegnere, Quaroni e Strauss marciano sullo stesso binario, anche se uno in posizione più avanzata dell'altro. Occidentalista da guerra fredda il Quaroni, occidentalista da distensione Strauss. Ma il secondo è più equivoco e più nocivo, perché dietro la sua logica, dietro il suo presuntuoso realismo, «La Germania, però, nel suo interesse deve adottare questo sistema, a lunga scadenza ma realistico - a prescindere dal fatto che nessuno sa indicarne un altro più breve e altrettanto convincente», si nasconde una serie di errate valutazioni e la sostanziale rinuncia a fare dell'Europa una potenza di primo piano completamente autonoma da ogni influenza straniera.
A questo punto non resta che ribadire le nostre tesi a dispetto di Strauss e di tutti gli occidentalisti.
Solo l'autonomia politica, militare ed economica degli Stati dell'Europa occidentale rispetto agli USA può portare all'unità politica e alla integrazione militare ed economica, sviluppando in questo caso un potenziale atomico da renderla certamente non inferiore all'Unione Sovietica, sia militarmente che industrialmente, e quindi superflua ogni presenza americana.
Solo quindi uno sganciamento totale degli USA da parte dei Paesi dell'Europa occidentale può indurre i Paesi dell'est a fare altrettanto (ciò non è impossibile, purché avvenga in chiave nazionalista e non radicale).
Solo la denuncia del Patto Atlantico e del Patto di Varsavia (non nella maniera distensionista), può indurre i Paesi europei alla collaborazione e all'unità.
Solo se la Germania occidentale non accetterà la partnership con gli USA può permettere alla Germania orientale di fare lo stesso con l'URSS e di porre quindi le basi per la riunificazione.


CINEMA
8 - "La Cina è vicina" di M. Belloccio

Anche in questo film, come nel precedente "I pugni in tasca", Bellocchio ha diretto i suoi strali contro il mondo borghese, il piccolo mondo borghese di una qualsiasi provincia italiana con la sua totale mancanza di ideali, con le sue misere ambizioni, con la sua meschina e squallida esistenza di tutti i giorni che ha la soddisfazione dei più bassi istinti, come fine ultimo. Anche l'amore, che potrebbe sollevare con la forza del sentimento i vuoti personaggi di questo mondo, è ridotto ad essere il mezzo per una facile sistemazione.
I personaggi intorno a cui ruota la vicenda del film sono cinque: il conte, professore liceale di idee marxiste, pronto a rinnegare la sua fede rivoluzionaria, a cui in fondo non aveva mai veramente creduto, appena gli si prospetta l'occasione di presentarsi candidato alle elezioni per il partito socialista unificato e di una facile carriera politica; la sorella che è sempre pronta a riempire l'alcova con un amante diverso; la segretaria del conte che gli si concede con la speranza di un matrimonio riparatore che la sistemi; il collaboratore politico dello stesso, il quale, vistosi soffiare la candidatura nel partito e la conseguente elezione, getta alle ortiche i suoi ideali e cerca di compromettere la contessa con l'intenzione di potersi inserire, anch'egli tramite il matrimonio, nel mondo borghese, da lui prima combattuto; e infine il fratello del conte, collegiale di fede marxista leninista, il quale a capo di altri due ragazzi forma il gruppo cinese della cittadina.
Tramite questi personaggi Bellocchio però non si limita ad una acuta e feroce satira della borghesia, ma attacca il sistema che di questa borghesia è l'espressione, sistema retto e difeso non solo dai democratici cristiani, ma anche dai socialisti, dai radicali, da tutti quei riformisti che per un facile inserimento, una facile carriera hanno abbandonato la difficile via dell'intransigenza, da tutti coloro insomma, che pur non rinnegando totalmente i loro ideali, hanno intrapreso una vita immensamente più facile, e che alla fine non sortirà altro risultato che servire al loro tornaconto personale.
E proprio i socialisti, con il corollario di comunisti redenti alle vie della democrazia da crisi di coscienza, sono il bersaglio centrale, i riformisti ferocemente sbeffeggiati e posti alla berlina, i sicuri tutori di quell'ordine che prima volevano distruggere.
Nessuno è risparmiato dal comunista Bellocchio, neppure il partito comunista. Egli si accorge che qualcosa è mutato: man mano che la via dell'intransigenza viene abbandonata, non sono più i comunisti a guidare verso il successo integrale le altre forze di sinistra, ma sono proprio queste a guidarlo ora; sono i radicali, già padroni del PSU, a strumentalizzare il PCI, ad attirare verso di loro le sue forze, a fargli accettare le sue tematiche della distensione, del benessere, della vita facile. E i cinesi, quei tre ragazzi, il fratello del conte e i suoi amici forse gli unici personaggi simpatici del film, per quella fede che hanno, sono usati qui come strumento di polemica nei confronti del PCI: è infatti colpa del partito e della sua lassatezza politica, se oggi si parla di Cina, cosa senza senso perché essa è lontana. Si torni alle vecchie posizioni di intransigenza, si ridiventi di nuovo guida del movimento operaio e allora certe inutili posizioni cadranno da sole e si ricreerà di nuovo l'unità all'interno del partito.
Discorso questo di una persona che sente, come noi che siamo dall'altra parte della barricata, la crisi del suo ambiente e del suo mondo.