ATTUALITÀ
1 - Le prospettive rivoluzionarie del
regime dei colonnelli
All'alba di giovedì 14 dicembre a bordo di
un aereo militare giungeva all'aeroporto di Ciampino la famiglia reale greca.
Si concludeva con questa ingloriosa fuga il «controcolpo di Stato» che re
Costantino aveva tentato per rovesciare il regime che era stato instaurato in
Grecia il 21 aprile scorso da un gruppo di ufficiali ellenici, guidati dai
colonnelli Papadopulos e Pattakos.
Che Costantino non avesse approvato la giunta militare, ma che anzi la subisse
limitandosi ad apparire in pubblico solo in occasione di cerimonie, lo si sapeva
da tempo ed anzi la sua disapprovazione del colpo di Stato aveva avuto la più
clamorosa conferma quando, durante il suo viaggio a Washington, intervistato da
alcuni giornalisti, i quali gli avevano domandato se approvasse la politica del
governo di Atene, aveva risposto: «ma quello non è il mio governo». E
sicuramente a Washington erano state poste le basi del tentativo di Costantino,
il quale certamente nei colloqui avuti con Johnson avrà avuto da quest'ultimo
assicurazione che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato la sua azione.
Non bisogna dimenticare infatti che il governo installatosi con il colpo di
Stato ha destato subito timori e apprensioni alla Casa Bianca, che si è
immediatamente affrettata a sospendere gli aiuti finanziari alla Grecia e a
mettere l'embargo alle forniture di armi pesanti (mezzi corazzati ed aerei da
combattimento).
La Grecia era stata la pupilla mediterranea della Gran Bretagna che l'aveva
aiutata a soffocare il tentativo rivoluzionario di Markos, ma venuta a crollare
la sua potenza era passata, come del resto tutto il bacino del Mediterraneo
sotto il controllo degli Stati Uniti. Sventata la minaccia comunista la
Monarchia greca, ormai resa sicura, si era trovata, dopo il lungo governo
conservatore e autoritario di Karamanlis, a dover fronteggiare la spinta dei
nuovi gruppi radicali che si erano venuti formando in Grecia sotto la guida
della famiglia Papandreu. Certamente se si fosse giunti alle elezioni fissate
per il maggio del '67 le destre sarebbero state sconfitte e il governo affidato
a Giorgio Papandreu. Quindi il colpo di Stato dei colonnelli aveva liquidato
definitivamente il problema, dopo i tentativi di Costantino che, per indebolire
la formazione politica di Papandreu, era arrivato a comperare a suon di dollari
eminenti personaggi del suo partito. Quindi il colpo di stato, mascherato dalla
solita scusa della minaccia dei comunisti (invece solitamente strumentalizzati
dalle altre forze di sinistra) aveva finito per colpire personaggi ben quotati a
Washington come Andrea Papandreu, che si era politicamente e culturalmente
formato nelle università statunitensi. Il fatto non poteva non preoccupare e
destare allarmi negli Stati Uniti, tanto più giustificati durante la guerra
arabo-israeliana, quando il Governo di Atene aveva mostrato le sue simpatie per
i paesi arabi.
Il pericolo di nuovi De Gaulle che potessero turbare il già precario equilibrio
mondiale destava preoccupazione alla Casa Bianca la quale non ha perso occasioni
per mostrare il suo dissenso col governo greco. Non è difficile pensare che gli
USA aspettassero il ritorno della Grecia sulla via della legalità democratica e
appoggiassero perciò ogni tentativo su questa strada. Non per nulla, infatti, un
perno nel tentativo di Costantino è stata la città di Larissa, che è una base
NATO e il primo ambasciatore straniero a vedere Costantino, appena questi è
giunto a Roma, è stato l'ambasciatore americano. E la CIA che sicuramente sarà
all'oscuro di ciò che è accaduto in Grecia, allo stesso modo non avrà saputo che
ad attendere all'aeroporto il giovane sovrano in fuga c'era una macchina della
stessa Ambasciata.
La giunta militare, che ha sempre giustificato il suo operato con la scusa del
pericolo comunista pare non essersi ancora resa conto che gli americani si
sentono i soli colpiti dal loro intervento. Ciò deriva dal fatto che i militari
sono sempre dei tecnici, mai dei politici, come è stato dimostrato dalla
perfetta esecuzione del colpo di Stato la notte del 21 aprile, e dalle
incertezze, cedimenti e dalla poca chiarezza che ha caratterizzato il regime di
Atene fino ad oggi. Dirsi rivoluzionari, dire di essere l'opposto e l'antitesi
di quel sistema che hanno fatto crollare e poi accettare Pipinellis, vecchio
esponente della destra conservatrice, come ministro degli Esteri, e insistere
per il ritorno di Costantino in Patria, oltre il lecito e il dovuto ad una
manovra politica per addossare al re la responsabilità del suo esilio, come
minimo significa cedere a dei compromessi. E di compromesso in compromesso non
si sa mai dove si può andare a finire. C'è veramente il pericolo di trovarsi da
rivoluzionari a difensori armati di quella ricca borghesia che fa capo ai gruppi
finanziari ed imprenditoriali del Pireo. E se qualche esponente della destra
economica e conservatrice greca è stato colpito, come la ottima signora Vlakos,
proprietaria di un buon numero di quotidiani di Atene, ciò non è avvenuto in
base a un piano preciso ma solo perché si è agito in base alle circostanze.
Un'ottima cosa sarebbe per i colonnelli se si chiarissero un po' le idee e
cominciassero a concepire un piano strategico a vasto raggio, il cui campo
d'azione superi lo spazio angusto della stessa Eliade, e cercassero di capire
contro quali forze hanno in realtà agito, smettendola con la ridicola farsa
dell'azione anticomunista. In Grecia il pericolo comunista ha cessato di essere
tale dalla sconfitta di Markos. L'EDA, il partito filo-comunista greco, oltre ad
essere di modeste condizioni numeriche, è completamente isolato politicamente e
strumentalizzato dai circoli radicali, i quali se ne servono per agitare la
piazza e per azioni dimostrative. E proprio questi circoli radicali, che hanno
il capo nella figura di Giorgio Papandreu, appoggiati e incoraggiati dai
consimili americani, con cui tiene stretti legami il figlio di Giorgio, Andrea
Papandreu, si sono rinforzati e hanno trovato il loro momento durante la
amministrazione Kennedy. Quindi il capire che la loro azione non è stata contro
il comunismo, ma contro gli Stati Uniti contribuirebbe in maniera determinante
alla formazione di una strategia rivoluzionaria globale, che permettesse di
uscire dalle strettoie di un nazionalismo non impostato in termini di civiltà e
in senso europeo, strettoie le quali ridurrebbero la Grecia ad un regime di tipo
franchista, qualora addirittura non si ritornasse ad un parlamentarismo rivisto
e corretto. E le prospettive e le possibilità per una tale azione non
mancherebbero. Già De Gaulle sembra interessarsi alla situazione determinatasi
in Grecia, la vicinanza dell'Albania permetterebbe un'apertura politica verso la
Cina e il collegamento con i paesi arabi potrebbe garantirle maggiori aperture e
appoggi politici e diplomatici.
2 - La rivoluzione di De Lorenzo passa per il Palazzo di Giustizia
Il processo tra il generale De Lorenzo e
il direttore e un giornalista del settimanale "l'Espresso" ha subito una svolta
imprevista: durante la seduta del 23 dicembre il Pubblico Ministero ha infatti
messo sotto accusa l'ex capo di stato maggiore dell'Esercito per i fatti emersi
durante gli interrogatori dei testi.
Il generale De Lorenzo aveva diretto il servizio segreto dell'esercito, il
famoso SIFAR, da 1956 al 1962, durante la presidenza Gronchi, e dopo, con una
rapidissima carriera, era stato nominato prima comandante generale dell'Arma dei
Carabinieri e successivamente Capo di stato maggiore dell'Esercito. Pur
assumendo questi nuovi incarichi, riuscì a mantenere sotto il suo controllo il
SIFAR tramite uomini di fiducia da lui posti al vertice di tale organismo.
Nel 1966, anno in cui si assisté ad una sorda lotta fatta di reciproche accuse
tra il generale De Lorenzo ed il generale Aloia, capo di stato maggiore della
Difesa, scoppiò lo scandalo dei «dossier» segreti. Si disse che il
controspionaggio avesse approfittato di alcune sue prerogative per compilare un
buon numero di fascicoli riguardanti le attività pubbliche e private di noti
uomini politici, scienziati e prelati. Così il 15 aprile dello stesso anno, in
una riunione segreta del Consiglio dei Ministri, il capo di stato maggiore
dell'Esercito veniva destituito dalla sua carica, la quale veniva affidata al
generale Guido Vedovato. Nello stesso periodo il ministro della Difesa
Tremelloni aveva rivoluzionato il SIFAR, che assunse la denominazione di SID
(Servizio Informazioni Difesa), trasformandone radicalmente i quadri,
diminuendone sensibilmente i fondi segreti e sostituendo il suo comandante,
generale Allavena, con il contrammiraglio Henke. De Lorenzo frattanto ricorreva
al Consiglio di Stato.
Si era a lungo vociferato negli ambienti politici di un presunto colpo di Stato,
che avrebbe dovuto aver luogo nell'estate del 1964, più precisamente nel luglio,
durante la crisi governativa la cui soluzione sembrava non dover mai essere
trovata. Il settimanale "l'Espresso", che durante quel periodo aveva parlato più
che di colpo di Stato di ricatto dei notabili dorotei nei riguardi del partito
socialista per imprimere al centro-sinistra quel carattere moderato che poi di
fatto assunse, nel maggio del 1967 era tornato sull'argomento, mutando
decisamente posizione con una serie di articoli, i quali denunciavano il
pericolo corso, in quel periodo, dalle istituzioni democratiche. Si indicava nel
generale De Lorenzo l'esecutore materiale del colpo di Stato, il quale avrebbe
avuto la copertura dell'allora Presidente della Repubblica, senatore Segni. Non
avendo avuto risposta da! generale, accusato direttamente e pesantemente, il
giornale era ritornato all'attacco in occasione di un incarico affidato da un
ente pubblico a De Lorenzo. Allora questi si era querelato contro "l'Espresso".
Si è così giunti al processo di questi giorni. Dalle testimonianze rese da
autorevoli personaggi politici e militari sono emersi fatti gravi nei riguardi
del generale De Lorenzo: l'effettiva esistenza di liste di proscrizione,
diramate dal comando generale dell'Arma ad alcuni comandi periferici nei giorni
«caldi» della crisi governativa, interessanti affermazioni rilasciate dallo
stesso De Lorenzo in colloqui con uomini politici, in cui questi avrebbe fatto
risalire la responsabilità ultima all'ex-presidente della Repubblica Segni.
Altri fatti significativi al riguardo, al di fuori del processo, restano tutti i
tentativi attuati per fare insabbiare la faccenda, servendosi del pretesto del
segreto militare, la qual cosa confermerebbe l'ipotesi che De Lorenzo non abbia
agito da solo, ma sotto la spinta e la protezione di personaggi più potenti di
lui, i cui ambienti di origine sono facilmente immaginabili.
Noi, tuttavia, che se già in un precedente articolo avevamo optato per l'ipotesi
del colpo di Stato come ricatto degli ambienti moderati della DC verso il
partito socialista ora siamo indotti a pensare che, in effetti, nel '64 si sia
«tramato» qualcosa. Questo qualcosa comunque serve benissimo ai radicali e al
partito socialista per controricattare la Democrazia Cristiana e, in previsione
del prossimo centro-sinistra, farla cedere su quei punti che fino ad ora avevano
agito da freno nei riguardi delle istanze più estremiste: ricatto che la DC
dovrà subire ottenendo per contropartita l'insabbiamento della questione, che se
portata alle estreme conseguenze potrebbe avere per le prossime elezioni gravi
risultati.
Naturalmente a noi non interessa affatto il pericolo corso dalle istituzioni
democratiche, ma preme mettere in evidenza, ancora una volta, un altro problema.
L'accaduto infatti ci deve far riflettere sulle possibilità reali di un
intervento diretto delle Forze Armate nella vita politica del Paese e sulle loro
capacità di rivoluzionare radicalmente il sistema. Non si deve dimenticare che
mai un esercito ha fatto la rivoluzione (che i colonnelli greci siano veri
rivoluzionari dobbiamo ancora convincerci), ma se ha agito lo ha sempre fatto al
servizio di forze politiche poste al di fuori di se stesso, cioè questo ha avuto
una funzione tattica mai strategica. In Italia nella ipotesi che l'esercito
avesse agito, la sua azione, proprio perché diretta da determinati gruppi
politici e finanziari, si sarebbe risolta nell'appoggio di forze moderate e
conservatrici, in un generico senso anticomunista, sempre nell'ambito del
sistema democratico parlamentare. D'altra parte da un esercito di derivazione
badogliana non ci sarebbe da aspettarsi di più.
POLITICA INTERNA
3 - La Democrazia Cristiana del X Congresso Nazionale
Flessione della maggioranza, rafforzamento
della sinistra: questi i fatti più importanti che si sono verificati alla
conclusione del congresso della Democrazia Cristiana a Milano. Il segretario
nazionale del partito, Rumor, ha visto assegnati al cartello della maggioranza
solo il 64 per cento dei voti, contro l'85 per cento previsto. Oltre a ciò i
delegati ottenuti risultano difficili da controllare, essendo il gruppo di
maggioranza non omogeneo e diviso in diversi gruppi, i quali fanno capo ai
maggiori notabili della DC.
Anche la riapparizione delle correnti in seno al partito, dopo che Rumor era
riuscito ad eliminarle dopo molto lavoro, ha caratterizzato questo congresso.
Il gruppo doroteo, che fa capo allo stesso Rumor e all'on. Piccoli, può contare
nel cartello di maggioranza su circa il 20 per cento dei delegati eletti.
Il doroteismo rappresenta il più ampio tentativo di fornire una ideologia, e
quindi un preciso programma politico, alla DC e di attuare, su sollecitazione di
alcune forze, una sintesi tra moderatismo e progressismo, che ha il merito di
non essere né di sinistra né tantomeno radicale. Altro suo obiettivo è il
riproporre un senso alla validità di un partito unico dei cattolici, tuttavia
indirettamente e tra opposizioni (Moro).
La corrente dorotea si appresta a compiere per il prossimo futuro un grosso
sforzo, ma difficilmente potrà per validi motivi, raggiungere gli obbiettivi
fissati. Innanzi tutto la mancanza di una grossa personalità politica. Rumor,
che senza dubbio è uno dei migliori uomini della democrazia cristiana, è
limitato per la sua intrinseca componente moderata, la quale gli impedisce di
avere quei grandi slanci che l'attuale momento politico richiederebbe, essendo
il partito impegnato in una gara con le forze laiche del centro-sinistra per la
realizzazione di grossi impegni, come il rinnovamento delle strutture dello
Stato. Questa gara ha come obbiettivo la conquista, per gli uni, e il
mantenimento, per l'altra, di posizioni di preminenza nell'ambito del
centro-sinistra stesso. A Rumor si fa risalire il merito di aver circoscritto il
peso politico di uomini della vecchia destra democristiana, come Scelba e Pella,
ormai ridotti ai margini della vita politica del partito.
Anche Flaminio Piccoli non è l'uomo capace di grandi realizzazioni, essendo
fondamentalmente un conservatore e non un innovatore: ottimo «arginatore» in
grado di salvare delicate situazioni politiche, e quindi adatto al momento
attuale, ha in questo il suo limite.
Un altro motivo di debolezza dei dorotei è la mancanza costituzionale di un
entroterra culturale valido ed efficace. Ad ogni modo essi hanno guidato fino ad
ora il centro-sinistra, imprimendogli quel carattere moderato e guardingo, che è
al centro delle critiche e accuse di immobilismo le quali vengono a loro rivolte
continuamente dalle forze laiche e radicali della coalizione di maggioranza.
Viceversa Fanfani è la personalità senza dubbio più forte del partito: è l'uomo
dagli improvvisi colpi di testa, della ripresa più impensabile, delle grandi
capacità manovriere, non privo di larghe vedute politiche. Egli ha saputo
mantenersi sempre aperte tutte le porte, sia alla destra che alla sinistra del
partito. Ma questa capacità può sfociare facilmente nell'ambiguità, come si è
visto al congresso. Nella maggioranza che si è determinata egli ha ottenuto
nella lista per il consiglio nazionale tanti posti quanti ne ha ottenuti Rumor,
ma il suo programma, la sua cosiddetta «politica delle cose», si è mantenuto nel
vago e nel generico, non ha assunto un carattere proprio, nel momento in cui il
suo partito è impegnato in temi di fondo, che richiedono una impostazione
politica strategica, e non tattica e limitata, quale è la politica delle cose.
Tali fatti potrebbero indicare un momento di stasi, derivato dall'isolamento in
cui per la sua stessa ambiguità Fanfani si è venuto a trovare, che farebbe
pensare ad un suo oscuramento politico {sebbene non sia da escludere una
sterzata in una qualche direzione).
La sinistra, come già abbiamo detto, è uscita vincitrice e rafforzata dal
congresso di Milano, dove si era presentata già con una forza maggiore di quella
prevista, ottenuta nei precongressi provinciali. Ad ogni modo per il prossimo
futuro non sembra essere in grado di porre serie ipoteche sulla democrazia
cristiana, sebbene il suo appoggio sarà più che ambito.
La preparazione culturale ed ideologica, l'apporto continuo di forze giovanili
(convegno nazionale giovanile di Stresa), gli appoggi derivati dal kennedismo,
prima, e dal «nuovo corso» del Vaticano, poi, che costituiscono l'essenza della
sua forza, non riescono a controbilanciare il peso della sua intrinseca
debolezza, dovuta principalmente a inconsistenza elettorale, difficilmente
superabile, almeno finché non emerga una nuova valida guida politica. L'attuale
«capo» della sinistra, Donat Catten, in fondo non è altro che un estremista,
sempre pronto a partecipare a dibattiti e a riunioni con i comunisti e con le
altre forze della sinistra, ma incapace dì formulare una nuova solida tematica
politica, in grado di diversificare nettamente questa corrente dalle forze
radicali, le quali riescono sempre a strumentalizzarla per i loro scopi di
ricatto verso la maggioranza dorotea.
In merito al successo della sinistra, ad ogni modo, si è anche parlato di
accordi più o meno segreti, intercorsi in sede congressuale con lo stesso
segretario nazionale, per isolare il gruppo facente capo a Taviani, il quale,
avendo avuto modo di radunare un certo seguito a carattere protestatario,
impensieriva seriamente la segreteria nazionale.
Il congresso ha messo in evidenza anche le ambizioni di Colombo, il quale si è
presentato con una relazione più da Presidente del Consiglio che da Ministro del
Tesoro. Con il suo discorso, questo tecnocrate della democrazia cristiana, è
parso abbia voluto porre la sua candidatura alla leadership della sinistra,
essendosi ricollegato più volte con quanto detto da De Mita nel suo intervento.
Colombo ha infatti reinterpretato la sua gestione della politica economica del
centro-sinistra, secondo moduli di sinistra, come per legittimare alle radici la
sua candidatura alla testa di un nuovo centro-sinistra, arrivando a rivendicare
l'unità di tutte le forze operaie, cioè la unificazione sindacale dalla CGIL
alle ACLI, quale presupposto di una nuova spinta politica contro il potere
economico degli imprenditori. Ma contro la riuscita del suo progetto concorrono
i suoi passati legami con i gruppi industriali e con Guido Carli, cosa che gli
conferma una superiore autorità tecnica, ma, per gli attacchi che il Presidente
della Banca d'Italia ha rivolto contro alcune misure del centro-sinistra, non lo
qualifica positivamente negli ambienti di sinistra. D'altra parte sarebbe troppo
azzardato vedere alla presidenza del consiglio un tecnocrate meno preparato dopo
il fallimento di uomini come Erarhd, Wilson e, per altro verso, Mc Namara.
Ad ogni modo, stando alle conclusioni del congresso, resta molto azzardato fare
delle previsioni su ciò che accadrà dopo le elezioni politiche. L'unica cosa
certa, a meno che non si verifichino delle situazioni impreviste, è che il
centro-sinistra sarà riconfermato. La sua guida resterà affidata sempre a Moro,
che gode e godrà l'appoggio, oltre che della sinistra democristiana, anche dagli
ambienti laici, il PSU e il PRI, i quali vedono in lui, per il momento, la più
sicura garanzia per la continuità di ciò che così a fatica si è costruito, al
sicuro da eventuali sorprese di spostamenti a destra. Rumor, il quale gode
dell'appoggio del resto del suo partito, il cui elettorato in fin dei conti non
è recettivo delle istanze estremiste che partono dai gruppi di pressione
radicale, conserverà la carica di segretario nazionale. Non potendo contare di
appoggi al di fuori della democrazia cristiana, dovrà rimandare a tempi migliori
l'ambizione di diventare Presidente del Consiglio.
POLITICA ESTERA
4 - L'Inghilterra non entra nel MEC: De Gaulle ha vinto un'altra battaglia
Da quando il governo inglese ha
ripresentato a Bruxelles, la richiesta formale di adesione alla CEE, tutta la
stampa occidentalista e anglofila ha messo in moto la macchina della propaganda
per preparare l'opinione pubblica italiana all'ingresso della Gran Bretagna nel
MEC, e spianare a questa la strada.
Le prime dichiarazioni di Parigi, infatti, non erano molto chiare in proposito.
Il ministro degli esteri francese Couve de Murvilìe aveva affermato in un
discorso pronunciato all'Assemblea nazionale che non esisteva alcuna preclusione
di principio alla candidatura britannica, bensì la preoccupazione di stabilire
preliminarmente, in seno ai Sei, un indirizzo comune che tenga conto delle
prospettive di allargamento della Comunità.
Nonostante Couve de Murvilìe ribadisse il problema della politica agraria
comune, il resto del discorso del ministro degli esteri francese lasciava ampie
speranze ai sostenitori dell'Inghilterra, che De Gaulle questa volta non avrebbe
posto il veto
«L'Europa dei sette è vicina» gridava esultante "Il Tempo", mentre "l'Espresso"
si preparava ad accogliere degnamente Wilson tra i «veri europei». Le speranze
degli occidentalisti nostrani, infatti, si erano andate mano mano rinforzando
dal gennaio del '67 ad oggi, ma, contrariamente alle loro previsioni,
"Corrispondenza Repubblicana" fin da un anno fa (vedi n° 9: "L'internazionale
dell'Occidente a congresso") poneva in evidenza il fatto che le posizioni della
Francia al riguardo non erano sostanzialmente cambiate.
Anche questa volta il direttore dell'orchestra anglofila, l'uomo che
maggiormente si fa esecutore delle richieste e delle pressioni dei radicali è
stato La Malfa, in quale si è adoperato al massimo nel cercare di coprire i
fallimenti e le follie laburistiche di Wilson.
La cosa che maggiormente colpisce per la sua singolarità, è il fatto che
nonostante si prevedesse già da tempo la svalutazione della sterlina, tutto lo
schieramento politico europeo, malato di anglofilia, ha cercato di muovere
l'opinione pubblica in senso favorevole all'Inghilterra, e a convincere le
Banche centrali a rinunciare alle garanzie. Tali garanzie sono infatti le
scadenze del saldo dei prestiti che la Banca d'Inghilterra deve rispettare per
ottenere nuovi prestiti dalla Banca Mondiale o da banche private. Evidentemente
tutto lo schieramento che va da «"Il Tempo" a "l'Espresso", deve aver fatto
appello a tutto il suo senso di filantropia e di umanitarismo, se per sostenere
l'Inghilterra era disposto a rinunciare alle garanzie e magari pagare anche i
passivi dei pagamenti inglesi.
Ma evidentemente quel che interessava l'Inghilterra era un appoggio politico,
che doveva risolversi poi necessariamente in aiuto economico, a tutto svantaggio
dell'Italia e degli altri paesi
Se la Banca d'Italia avesse infatti «liquidato» (completamente e non in parte e
di nascosto per non dispiacere agli Inglesi) in previsione della svalutazione,
il proprio stock di sterline, non avremmo subito la perdita del 14,3 per cento
dell'intero stock rispetto al valore originario della moneta inglese. Ma il
servilismo del governo italiano legato politicamente ed economicamente
all'intero sistema occidentale ha fatto si che l'Italia rinunciasse a quel 14,3
per cento.
Nella stessa maniera, al governo americano, dopo le restrizioni annuncite da
Johnson, è necessario un appoggio politico, cioè che i paesi occidentali non
mutino le proprie riserve monetarie di dollari in oro, come invece ha fatto De
Gaulle, perché ciò corrisponderebbe alla bancarotta di Fort Knox. Al contrario
una crisi improvvisa negli Stati Uniti, l'accelerarsi del fenomeno
inflazionistico in corso in quel paese (come è stato messo in evidenza dal
"Time") ed ecco che le riserve monetarie in dollari dei paesi europei si
ridurrebbero a «carta straccia».
Per ritornare al problema si è voluto quindi dare all'Inghilterra la possibilità
di sostenersi e di entrare nel MEC senza che questa muti minimamente le sue
strutture economiche e i suoi rapporti politici con l'Europa.
La finanza britannica da tempo, infatti, sta passando periodi non molto floridi
a causa del disavanzo della bilancia dei pagamenti, delle frequenti crisi
interne (importazione superiore all'esportazione, crisi dei Trasporti, scioperi,
ecc.) e delle crisi internazionali (guerra arabo-israeliana, chiusura del canale
di Suez, questione di Aden). In tale situazione Wilson si è visto costretto a
svalutare la sterlina del 14,3 per cento riducendo da 2,80 a 2,40 il rapporto
con il dollaro e a chiedere al Fondo Monetario e a varie banche centrali, 3
miliardi di dollari per coprire il passivo della bilancia dei pagamenti.
Evidentemente Wilson chiedendo insistentemente l'adesione al MEC sperava in un
certo senso di «scaricare» i suoi debiti sui paesi della Comunità; per questo
numerosi economisti europei hanno tirato un sospiro di sollievo quando il
presidente francese ha posto il veto.
Solo così si può spiegare Fattuale atteggiamento favorevole della Gran Bretagna
nei confronti del MEC, in contrasto con quello ostile del passato.
De Gaulle ha potuto infatti parlare di cinque atti degli Inglesi dalla firma del
Trattato di Roma ad oggi. Il primo atto è stato il rifiuto di partecipare
all'elaborazione del trattato, il secondo è stato l'ostilità contro il MEC
verificatasi nel 1958 quando Mac Millan minacciava la guerra tariffaria, il
terzo quando Maudling a Bruxelles sperava di piegare la Comunità alle condizioni
dell'Inghilterra, il quarto è stato caratterizzato dal disinteresse di Wilson
per il MEC all'inizio del suo governo, mentre rafforzava i rapporti con i paesi
dell'EFTA e si sforzava di consolidare i legami interni del Commonwealth. Ora
accortosi dello scarso interesse derivante dalla zona di libero scambio, dalla
tendenza centrifuga di alcuni membri del Commonwealth (Rhodesia) e della crisi
monetaria causata dal fallimento della politica laburista interna ed estera
chiede l'adesione al MEC nella speranza di poter risollevare le proprie finanze.
Il mercantilismo degli Inglesi non si tradisce.
Ma il veto di De Gaulle annunciato nella sua conferenza stampa del 27 novembre
ha fatto cadere i sogni di Wilson e le rosee speranze di tutto lo schieramento
liberal-radicale nostrano.
"Il Tempo" pestava i piedi dalla rabbia e "l'Espresso" dava segni di autentica
follia politica, e mentre da ogni parte giungevano insulti ad attacchi al
generale vi era addirittura chi parlava di ricostruire la Comunità economica
europea con l'Inghilterra, senza la Francia.
Ma evidentemente questa era solo una minaccia, non essendo possibile questa
operazione senza un autentico terremoto economico e finanziario; minaccia,
tuttavia, che dimostra il vicolo cieco in cui sono entrati tutti i sostenitori
dell'Inghilterra dopo il veto di De Gaulle.
È interessante infatti mettere in rilievo le contraddizioni degli schieramenti
politici italiani a questo proposito.
La sinistra radicale moderata ("l'Espresso", La Malfa) ha dato il suo appoggio
incondizionato al governo inglese nonostante questo non si sia dissociato dalla
politica e dall'economia americana.
I radicali, infatti, strumentalizzando i comunisti, premono per il disimpegno
americano nel Vietnam, per le riduzioni delle spese militari, e affinché i
governi occidentali si dissocino dall'azione bellica di Johnson; e inoltre sulla
scia delle tesi kennedyane auspicano la non dipendenza economica dei paesi
europei rispetto agli Stati Uniti. (In realtà il Kennedy round era un ulteriore
forma di condizionamento e di pressione degli Stati Uniti sull'Europa). Ora
tutte queste condizioni non sono state rispettate da Wilson, il quale non solo
si è schierato contro la sinistra del proprio partito, contraria all'intervento
americano nel Vietnam, ma ha accentuato i suoi legami con la finanza
internazionale e non si è dissociato dalla politica di Johnson.
La destra liberale moderata ("Il Tempo") non ha perduto l'occasione di
dimostrare il suo servilismo nei confronti dell'Inghilterra, cercando di
mascherare o di rendere meno grave la crisi della sterlina e i fallimenti di un
governo di sinistra come quello laburista.
Solo la destra ultra conservatrice ("Borghese" - "Secolo") ha parlato di andare
«ad accendere un cero a De Gaulle» solo perché -si badi bene- questi ha
risparmiato al MEC di pagare i debiti dell'Inghilterra, mentre le premesse
politiche del presidente francese, e la volontà di contestazione degli Stati
Uniti in Europa sono respinte.
La posizione ufficiale dell'Italia è stata illustrata dal ministro Fanfani, il
quale ha cercato di dare tutto l'appoggio all'Inghilterra, ma nello stesso tempo
di non dispiacere troppo a De Gaulle, tanto è vero che tale posizione è stata
definita «wobbly», cioè vacillante. A questo proposito Fanfani ha dichiarato di
essere favorevole all'apertura di trattative tra i Sei e il Regno Unito, ma come
era da prevedersi tale posizione è stata rifiutata da De Gaulle in quanto
l'apertura di un negoziato segnerebbe la fine della Comunità.
L'Inghilterra ha una sola possibilità per entrare nel MEC: rinunciare alle
follie radical-laburiste, alla tutela americana e ottemperare alle richieste di
De Gaulle realizzabili a lunga scadenza (la sterlina come moneta europea e non
di riserva internazionale, adeguamento dell'economia inglese a quella della
Comunità, regolare la bilancia dei pagamenti trasformando radicalmente la sua
economia, regolare i rapporti speciali con il Commonwealth).
Il nostro rifiuto dell'Inghilterra nel MEC non è dovuto a motivi di ordine
economico, ma politici e di civiltà, in quanto la sua entrata porterebbe in
Europa, a livello di potere, princìpi e metodi radicali che finirebbero per
distruggere quel poco di nazionalismo europeo che si è venuto a creare. (Il
rifiuto del Trattato di non proliferazione è partito proprio dai circoli del
MEC).
Per questo ci sentiamo di condividere e di sottoscrivere la dichiarazione di De
Gaulle concludendo con le sue parole.
«Tutto dipende dunque non da un negoziato, che sarebbe per i Sei una marcia
rinunciataria e una campana a morto per la loro Comunità, ma dalla volontà e
dall'azione del grande popolo inglese, che ne farebbero uno dei pilastri
dell'Europa europea».
5 - Mc Namara lascia il Pentagono:
Johnson ha fatto la sua scelta per le elezioni
Le dimissioni improvvise di Mc Namara
hanno avuto l'effetto di un sasso lanciato in uno stagno tranquillo: subito si
sono diffuse voci e dichiarazioni a tale riguardo, ma la verità è ben diversa e
ben più difficile da appurare. Gli ambienti radicali si sono sforzati a
difendere l'operato del ministro della difesa cercando di far ricadere la
responsabilità degli insuccessi militari nel Vietnam sui generali con i quali Mc
Namara, a più riprese, era entrato in polemica.
Jhonson costringendo Mc Namara alla presidenza della Banca Mondiale si è
sbarazzato dell'ultimo rappresentante delle «teste d'uovo» o tecnocrati del
vecchio «entourage» del presidente Kennedy. Mc Namara era stato definito a suo
tempo dallo stesso Johnson come «il miglior ministro della difesa che la nazione
abbia mai avuto», ma nonostante questo apprezzamento egli ha collezionato, nei
sette anni nei quali è rimasto in carica, una tale serie di errori da essere
malvisto da quella larga parte dell'elettorato, la quale, non sensibile alla
tematica radicale, rappresenta l'ambita fonte di voti che Johnson vuol riversare
sul suo nome nelle elezioni presidenziali di quest'anno.
Mc Namara è uno di quei tecnocrati scaturiti durante la guerra per i quali è del
tutto simile elaborare piani militari per il Pentagono e piani economici per le
industrie, per i quali si passa conservando lo stesso spirito dall'attività
politica alla direzione della Ford, da questa al dicastero della difesa e quindi
alla Banca Mondiale. Come abbiamo già ampiamente dimostrato (vedi n° 6
dell'agenzia) il ministero della difesa americano è sempre stato un feudo
indiscusso degli ambienti economici USA e quindi non è possibile pensare che le
dimissioni siano una effettiva vittoria dei «falchi», ma bensì una manovra di
Johnson per accattivarsi le loro simpatie in vista delle sempre più vicine
elezioni. Mc Namara era diventato uno degli uomini più influenti della vita
politica statunitense, aveva sostituito migliaia di militari negli uffici con
altrettanto personale civile ed aveva concentrato il potere di questi ultimi
nelle sue mani. Le previsioni sull'andamento della guerra erano state raccolte
dal gruppo di tecnocrati che Mc Namara aveva raccolto intorno a sé utilizzando
le schede che i computers avevano elaborato. Dallo studio di queste schede si
era giunti alla conclusione che gli USA, con il ritmo che avevano assunto le
operazioni belliche, avrebbero vinto la guerra nel Vietnam entro il 1965. Ma ciò
non è avvenuto anche perché dai computers non era stato tenuto conto né
dell'enorme spirito di sacrificio dei Vietcong, né del grande spirito di
combattività di quel popolo che non si batte in vista di ottenere il frigorifero
o la seconda automobile. Mc Namara ha sbagliato, ha sbagliato profondamente: ha
esautorato sempre di più i generali, a vantaggio dei civili, facendoli diventare
dei buoni tecnocrati ma dei pessimi condottieri; il suo errore non è stato solo
questo, egli, da buon tecnocrate al di fuori della politica, non ha compreso che
un certo sentimento nazionale è sempre vivo negli Stati Uniti, e nel dilemma
dovuto alla scelta tra Mc Namara e i generali, ovverosia tra le forze politiche
di cui sono espressone, Johnson ha preferito questi ultimi perché portano più
voti.
Nonostante la sconfitta subìta dagli ambienti radicali in questa occasione, essi
in fondo non sono rimasti molto colpiti. Dopo una prima reazione hanno fatto
buon viso a cattivo gioco; questo perché la loro politica è a più vasto raggio e
a lunga scadenza; essi sanno che Johnson verrà riconfermato nella sua carica
nelle prossime elezioni e che la nuova sinistra americana non ha ancora la forza
per presentare con possibilità di successo un suo candidato (non candidatura di
Bob Kennedy alla presidenza). Per loro è il momento di aspettare ancora, perché
sanno anche che ad un governo di tipo moderato socialdemocratico con
caratteristiche nazionali, succede sempre un governo di sinistra, il quale porta
sempre più avanti le tesi progressiste e più intransigenti. Questa è infatti una
costante della politica americana: da Wilson a Kennedy tutte le amministrazioni
presidenziali con caratteristiche conservatrici-nazionaliste (Truman, Eisenower)
hanno avuto il compito di dare il cambio alle forze radicali, che hanno
approfittato di ciò per raccogliere e rinsaldare le loro fila e ripresentarsi
poi più agguerrite di prima. E l'amministrazione Johnson, siamone certi, non
farà eccezione. |