Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO III - N. 15
Roma, 1 gennaio 1968


SOMMARIO

ATTUALITÀ
1 - Le prospettive rivoluzionarie del regime dei colonnelli
2 - La rivoluzione di De Lorenzo passa per il Palazzo di Giustizia

POLITICA INTERNA
3 - La Democrazia Cristiana del X Congresso Nazionale

POLITICA ESTERA
4 - L'Inghilterra non entra nel MEC: De Gaulle ha vinto un'altra battaglia
5 - Mc Namara lascia il Pentagono: Johnson ha fatto la sua scelta per le elezioni

 

AVVISO AL LETTORE


È nostro dovere avvertire i lettori che dal n° 13 sono avvenuti alcuni mutamenti in seno alla redazione dell'agenzia. Tali mutamenti tuttavia non pregiudicano minimamente la linea e le tesi di "Corrispondenza Re pubblicana", l'azione della quale è sempre volta a porre le basi di un'azione rivoluzionaria in Italia e in Europa.

 

ATTUALITÀ

1 - Le prospettive rivoluzionarie del regime dei colonnelli

All'alba di giovedì 14 dicembre a bordo di un aereo militare giungeva all'aeroporto di Ciampino la famiglia reale greca.
Si concludeva con questa ingloriosa fuga il «controcolpo di Stato» che re Costantino aveva tentato per rovesciare il regime che era stato instaurato in Grecia il 21 aprile scorso da un gruppo di ufficiali ellenici, guidati dai colonnelli Papadopulos e Pattakos.
Che Costantino non avesse approvato la giunta militare, ma che anzi la subisse limitandosi ad apparire in pubblico solo in occasione di cerimonie, lo si sapeva da tempo ed anzi la sua disapprovazione del colpo di Stato aveva avuto la più clamorosa conferma quando, durante il suo viaggio a Washington, intervistato da alcuni giornalisti, i quali gli avevano domandato se approvasse la politica del governo di Atene, aveva risposto: «ma quello non è il mio governo». E sicuramente a Washington erano state poste le basi del tentativo di Costantino, il quale certamente nei colloqui avuti con Johnson avrà avuto da quest'ultimo assicurazione che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato la sua azione.
Non bisogna dimenticare infatti che il governo installatosi con il colpo di Stato ha destato subito timori e apprensioni alla Casa Bianca, che si è immediatamente affrettata a sospendere gli aiuti finanziari alla Grecia e a mettere l'embargo alle forniture di armi pesanti (mezzi corazzati ed aerei da combattimento).
La Grecia era stata la pupilla mediterranea della Gran Bretagna che l'aveva aiutata a soffocare il tentativo rivoluzionario di Markos, ma venuta a crollare la sua potenza era passata, come del resto tutto il bacino del Mediterraneo sotto il controllo degli Stati Uniti. Sventata la minaccia comunista la Monarchia greca, ormai resa sicura, si era trovata, dopo il lungo governo conservatore e autoritario di Karamanlis, a dover fronteggiare la spinta dei nuovi gruppi radicali che si erano venuti formando in Grecia sotto la guida della famiglia Papandreu. Certamente se si fosse giunti alle elezioni fissate per il maggio del '67 le destre sarebbero state sconfitte e il governo affidato a Giorgio Papandreu. Quindi il colpo di Stato dei colonnelli aveva liquidato definitivamente il problema, dopo i tentativi di Costantino che, per indebolire la formazione politica di Papandreu, era arrivato a comperare a suon di dollari eminenti personaggi del suo partito. Quindi il colpo di stato, mascherato dalla solita scusa della minaccia dei comunisti (invece solitamente strumentalizzati dalle altre forze di sinistra) aveva finito per colpire personaggi ben quotati a Washington come Andrea Papandreu, che si era politicamente e culturalmente formato nelle università statunitensi. Il fatto non poteva non preoccupare e destare allarmi negli Stati Uniti, tanto più giustificati durante la guerra arabo-israeliana, quando il Governo di Atene aveva mostrato le sue simpatie per i paesi arabi.
Il pericolo di nuovi De Gaulle che potessero turbare il già precario equilibrio mondiale destava preoccupazione alla Casa Bianca la quale non ha perso occasioni per mostrare il suo dissenso col governo greco. Non è difficile pensare che gli USA aspettassero il ritorno della Grecia sulla via della legalità democratica e appoggiassero perciò ogni tentativo su questa strada. Non per nulla, infatti, un perno nel tentativo di Costantino è stata la città di Larissa, che è una base NATO e il primo ambasciatore straniero a vedere Costantino, appena questi è giunto a Roma, è stato l'ambasciatore americano. E la CIA che sicuramente sarà all'oscuro di ciò che è accaduto in Grecia, allo stesso modo non avrà saputo che ad attendere all'aeroporto il giovane sovrano in fuga c'era una macchina della stessa Ambasciata.
La giunta militare, che ha sempre giustificato il suo operato con la scusa del pericolo comunista pare non essersi ancora resa conto che gli americani si sentono i soli colpiti dal loro intervento. Ciò deriva dal fatto che i militari sono sempre dei tecnici, mai dei politici, come è stato dimostrato dalla perfetta esecuzione del colpo di Stato la notte del 21 aprile, e dalle incertezze, cedimenti e dalla poca chiarezza che ha caratterizzato il regime di Atene fino ad oggi. Dirsi rivoluzionari, dire di essere l'opposto e l'antitesi di quel sistema che hanno fatto crollare e poi accettare Pipinellis, vecchio esponente della destra conservatrice, come ministro degli Esteri, e insistere per il ritorno di Costantino in Patria, oltre il lecito e il dovuto ad una manovra politica per addossare al re la responsabilità del suo esilio, come minimo significa cedere a dei compromessi. E di compromesso in compromesso non si sa mai dove si può andare a finire. C'è veramente il pericolo di trovarsi da rivoluzionari a difensori armati di quella ricca borghesia che fa capo ai gruppi finanziari ed imprenditoriali del Pireo. E se qualche esponente della destra economica e conservatrice greca è stato colpito, come la ottima signora Vlakos, proprietaria di un buon numero di quotidiani di Atene, ciò non è avvenuto in base a un piano preciso ma solo perché si è agito in base alle circostanze.
Un'ottima cosa sarebbe per i colonnelli se si chiarissero un po' le idee e cominciassero a concepire un piano strategico a vasto raggio, il cui campo d'azione superi lo spazio angusto della stessa Eliade, e cercassero di capire contro quali forze hanno in realtà agito, smettendola con la ridicola farsa dell'azione anticomunista. In Grecia il pericolo comunista ha cessato di essere tale dalla sconfitta di Markos. L'EDA, il partito filo-comunista greco, oltre ad essere di modeste condizioni numeriche, è completamente isolato politicamente e strumentalizzato dai circoli radicali, i quali se ne servono per agitare la piazza e per azioni dimostrative. E proprio questi circoli radicali, che hanno il capo nella figura di Giorgio Papandreu, appoggiati e incoraggiati dai consimili americani, con cui tiene stretti legami il figlio di Giorgio, Andrea Papandreu, si sono rinforzati e hanno trovato il loro momento durante la amministrazione Kennedy. Quindi il capire che la loro azione non è stata contro il comunismo, ma contro gli Stati Uniti contribuirebbe in maniera determinante alla formazione di una strategia rivoluzionaria globale, che permettesse di uscire dalle strettoie di un nazionalismo non impostato in termini di civiltà e in senso europeo, strettoie le quali ridurrebbero la Grecia ad un regime di tipo franchista, qualora addirittura non si ritornasse ad un parlamentarismo rivisto e corretto. E le prospettive e le possibilità per una tale azione non mancherebbero. Già De Gaulle sembra interessarsi alla situazione determinatasi in Grecia, la vicinanza dell'Albania permetterebbe un'apertura politica verso la Cina e il collegamento con i paesi arabi potrebbe garantirle maggiori aperture e appoggi politici e diplomatici.


2 - La rivoluzione di De Lorenzo passa per il Palazzo di Giustizia

Il processo tra il generale De Lorenzo e il direttore e un giornalista del settimanale "l'Espresso" ha subito una svolta imprevista: durante la seduta del 23 dicembre il Pubblico Ministero ha infatti messo sotto accusa l'ex capo di stato maggiore dell'Esercito per i fatti emersi durante gli interrogatori dei testi.
Il generale De Lorenzo aveva diretto il servizio segreto dell'esercito, il famoso SIFAR, da 1956 al 1962, durante la presidenza Gronchi, e dopo, con una rapidissima carriera, era stato nominato prima comandante generale dell'Arma dei Carabinieri e successivamente Capo di stato maggiore dell'Esercito. Pur assumendo questi nuovi incarichi, riuscì a mantenere sotto il suo controllo il SIFAR tramite uomini di fiducia da lui posti al vertice di tale organismo.
Nel 1966, anno in cui si assisté ad una sorda lotta fatta di reciproche accuse tra il generale De Lorenzo ed il generale Aloia, capo di stato maggiore della Difesa, scoppiò lo scandalo dei «dossier» segreti. Si disse che il controspionaggio avesse approfittato di alcune sue prerogative per compilare un buon numero di fascicoli riguardanti le attività pubbliche e private di noti uomini politici, scienziati e prelati. Così il 15 aprile dello stesso anno, in una riunione segreta del Consiglio dei Ministri, il capo di stato maggiore dell'Esercito veniva destituito dalla sua carica, la quale veniva affidata al generale Guido Vedovato. Nello stesso periodo il ministro della Difesa Tremelloni aveva rivoluzionato il SIFAR, che assunse la denominazione di SID (Servizio Informazioni Difesa), trasformandone radicalmente i quadri, diminuendone sensibilmente i fondi segreti e sostituendo il suo comandante, generale Allavena, con il contrammiraglio Henke. De Lorenzo frattanto ricorreva al Consiglio di Stato.
Si era a lungo vociferato negli ambienti politici di un presunto colpo di Stato, che avrebbe dovuto aver luogo nell'estate del 1964, più precisamente nel luglio, durante la crisi governativa la cui soluzione sembrava non dover mai essere trovata. Il settimanale "l'Espresso", che durante quel periodo aveva parlato più che di colpo di Stato di ricatto dei notabili dorotei nei riguardi del partito socialista per imprimere al centro-sinistra quel carattere moderato che poi di fatto assunse, nel maggio del 1967 era tornato sull'argomento, mutando decisamente posizione con una serie di articoli, i quali denunciavano il pericolo corso, in quel periodo, dalle istituzioni democratiche. Si indicava nel generale De Lorenzo l'esecutore materiale del colpo di Stato, il quale avrebbe avuto la copertura dell'allora Presidente della Repubblica, senatore Segni. Non avendo avuto risposta da! generale, accusato direttamente e pesantemente, il giornale era ritornato all'attacco in occasione di un incarico affidato da un ente pubblico a De Lorenzo. Allora questi si era querelato contro "l'Espresso".
Si è così giunti al processo di questi giorni. Dalle testimonianze rese da autorevoli personaggi politici e militari sono emersi fatti gravi nei riguardi del generale De Lorenzo: l'effettiva esistenza di liste di proscrizione, diramate dal comando generale dell'Arma ad alcuni comandi periferici nei giorni «caldi» della crisi governativa, interessanti affermazioni rilasciate dallo stesso De Lorenzo in colloqui con uomini politici, in cui questi avrebbe fatto risalire la responsabilità ultima all'ex-presidente della Repubblica Segni. Altri fatti significativi al riguardo, al di fuori del processo, restano tutti i tentativi attuati per fare insabbiare la faccenda, servendosi del pretesto del segreto militare, la qual cosa confermerebbe l'ipotesi che De Lorenzo non abbia agito da solo, ma sotto la spinta e la protezione di personaggi più potenti di lui, i cui ambienti di origine sono facilmente immaginabili.
Noi, tuttavia, che se già in un precedente articolo avevamo optato per l'ipotesi del colpo di Stato come ricatto degli ambienti moderati della DC verso il partito socialista ora siamo indotti a pensare che, in effetti, nel '64 si sia «tramato» qualcosa. Questo qualcosa comunque serve benissimo ai radicali e al partito socialista per controricattare la Democrazia Cristiana e, in previsione del prossimo centro-sinistra, farla cedere su quei punti che fino ad ora avevano agito da freno nei riguardi delle istanze più estremiste: ricatto che la DC dovrà subire ottenendo per contropartita l'insabbiamento della questione, che se portata alle estreme conseguenze potrebbe avere per le prossime elezioni gravi risultati.
Naturalmente a noi non interessa affatto il pericolo corso dalle istituzioni democratiche, ma preme mettere in evidenza, ancora una volta, un altro problema.
L'accaduto infatti ci deve far riflettere sulle possibilità reali di un intervento diretto delle Forze Armate nella vita politica del Paese e sulle loro capacità di rivoluzionare radicalmente il sistema. Non si deve dimenticare che mai un esercito ha fatto la rivoluzione (che i colonnelli greci siano veri rivoluzionari dobbiamo ancora convincerci), ma se ha agito lo ha sempre fatto al servizio di forze politiche poste al di fuori di se stesso, cioè questo ha avuto una funzione tattica mai strategica. In Italia nella ipotesi che l'esercito avesse agito, la sua azione, proprio perché diretta da determinati gruppi politici e finanziari, si sarebbe risolta nell'appoggio di forze moderate e conservatrici, in un generico senso anticomunista, sempre nell'ambito del sistema democratico parlamentare. D'altra parte da un esercito di derivazione badogliana non ci sarebbe da aspettarsi di più.


POLITICA INTERNA
3 - La Democrazia Cristiana del X Congresso Nazionale

Flessione della maggioranza, rafforzamento della sinistra: questi i fatti più importanti che si sono verificati alla conclusione del congresso della Democrazia Cristiana a Milano. Il segretario nazionale del partito, Rumor, ha visto assegnati al cartello della maggioranza solo il 64 per cento dei voti, contro l'85 per cento previsto. Oltre a ciò i delegati ottenuti risultano difficili da controllare, essendo il gruppo di maggioranza non omogeneo e diviso in diversi gruppi, i quali fanno capo ai maggiori notabili della DC.
Anche la riapparizione delle correnti in seno al partito, dopo che Rumor era riuscito ad eliminarle dopo molto lavoro, ha caratterizzato questo congresso.
Il gruppo doroteo, che fa capo allo stesso Rumor e all'on. Piccoli, può contare nel cartello di maggioranza su circa il 20 per cento dei delegati eletti.
Il doroteismo rappresenta il più ampio tentativo di fornire una ideologia, e quindi un preciso programma politico, alla DC e di attuare, su sollecitazione di alcune forze, una sintesi tra moderatismo e progressismo, che ha il merito di non essere né di sinistra né tantomeno radicale. Altro suo obiettivo è il riproporre un senso alla validità di un partito unico dei cattolici, tuttavia indirettamente e tra opposizioni (Moro).
La corrente dorotea si appresta a compiere per il prossimo futuro un grosso sforzo, ma difficilmente potrà per validi motivi, raggiungere gli obbiettivi fissati. Innanzi tutto la mancanza di una grossa personalità politica. Rumor, che senza dubbio è uno dei migliori uomini della democrazia cristiana, è limitato per la sua intrinseca componente moderata, la quale gli impedisce di avere quei grandi slanci che l'attuale momento politico richiederebbe, essendo il partito impegnato in una gara con le forze laiche del centro-sinistra per la realizzazione di grossi impegni, come il rinnovamento delle strutture dello Stato. Questa gara ha come obbiettivo la conquista, per gli uni, e il mantenimento, per l'altra, di posizioni di preminenza nell'ambito del centro-sinistra stesso. A Rumor si fa risalire il merito di aver circoscritto il peso politico di uomini della vecchia destra democristiana, come Scelba e Pella, ormai ridotti ai margini della vita politica del partito.
Anche Flaminio Piccoli non è l'uomo capace di grandi realizzazioni, essendo fondamentalmente un conservatore e non un innovatore: ottimo «arginatore» in grado di salvare delicate situazioni politiche, e quindi adatto al momento attuale, ha in questo il suo limite.
Un altro motivo di debolezza dei dorotei è la mancanza costituzionale di un entroterra culturale valido ed efficace. Ad ogni modo essi hanno guidato fino ad ora il centro-sinistra, imprimendogli quel carattere moderato e guardingo, che è al centro delle critiche e accuse di immobilismo le quali vengono a loro rivolte continuamente dalle forze laiche e radicali della coalizione di maggioranza.
Viceversa Fanfani è la personalità senza dubbio più forte del partito: è l'uomo dagli improvvisi colpi di testa, della ripresa più impensabile, delle grandi capacità manovriere, non privo di larghe vedute politiche. Egli ha saputo mantenersi sempre aperte tutte le porte, sia alla destra che alla sinistra del partito. Ma questa capacità può sfociare facilmente nell'ambiguità, come si è visto al congresso. Nella maggioranza che si è determinata egli ha ottenuto nella lista per il consiglio nazionale tanti posti quanti ne ha ottenuti Rumor, ma il suo programma, la sua cosiddetta «politica delle cose», si è mantenuto nel vago e nel generico, non ha assunto un carattere proprio, nel momento in cui il suo partito è impegnato in temi di fondo, che richiedono una impostazione politica strategica, e non tattica e limitata, quale è la politica delle cose. Tali fatti potrebbero indicare un momento di stasi, derivato dall'isolamento in cui per la sua stessa ambiguità Fanfani si è venuto a trovare, che farebbe pensare ad un suo oscuramento politico {sebbene non sia da escludere una sterzata in una qualche direzione).
La sinistra, come già abbiamo detto, è uscita vincitrice e rafforzata dal congresso di Milano, dove si era presentata già con una forza maggiore di quella prevista, ottenuta nei precongressi provinciali. Ad ogni modo per il prossimo futuro non sembra essere in grado di porre serie ipoteche sulla democrazia cristiana, sebbene il suo appoggio sarà più che ambito.
La preparazione culturale ed ideologica, l'apporto continuo di forze giovanili (convegno nazionale giovanile di Stresa), gli appoggi derivati dal kennedismo, prima, e dal «nuovo corso» del Vaticano, poi, che costituiscono l'essenza della sua forza, non riescono a controbilanciare il peso della sua intrinseca debolezza, dovuta principalmente a inconsistenza elettorale, difficilmente superabile, almeno finché non emerga una nuova valida guida politica. L'attuale «capo» della sinistra, Donat Catten, in fondo non è altro che un estremista, sempre pronto a partecipare a dibattiti e a riunioni con i comunisti e con le altre forze della sinistra, ma incapace dì formulare una nuova solida tematica politica, in grado di diversificare nettamente questa corrente dalle forze radicali, le quali riescono sempre a strumentalizzarla per i loro scopi di ricatto verso la maggioranza dorotea.
In merito al successo della sinistra, ad ogni modo, si è anche parlato di accordi più o meno segreti, intercorsi in sede congressuale con lo stesso segretario nazionale, per isolare il gruppo facente capo a Taviani, il quale, avendo avuto modo di radunare un certo seguito a carattere protestatario, impensieriva seriamente la segreteria nazionale.
Il congresso ha messo in evidenza anche le ambizioni di Colombo, il quale si è presentato con una relazione più da Presidente del Consiglio che da Ministro del Tesoro. Con il suo discorso, questo tecnocrate della democrazia cristiana, è parso abbia voluto porre la sua candidatura alla leadership della sinistra, essendosi ricollegato più volte con quanto detto da De Mita nel suo intervento. Colombo ha infatti reinterpretato la sua gestione della politica economica del centro-sinistra, secondo moduli di sinistra, come per legittimare alle radici la sua candidatura alla testa di un nuovo centro-sinistra, arrivando a rivendicare l'unità di tutte le forze operaie, cioè la unificazione sindacale dalla CGIL alle ACLI, quale presupposto di una nuova spinta politica contro il potere economico degli imprenditori. Ma contro la riuscita del suo progetto concorrono i suoi passati legami con i gruppi industriali e con Guido Carli, cosa che gli conferma una superiore autorità tecnica, ma, per gli attacchi che il Presidente della Banca d'Italia ha rivolto contro alcune misure del centro-sinistra, non lo qualifica positivamente negli ambienti di sinistra. D'altra parte sarebbe troppo azzardato vedere alla presidenza del consiglio un tecnocrate meno preparato dopo il fallimento di uomini come Erarhd, Wilson e, per altro verso, Mc Namara.
Ad ogni modo, stando alle conclusioni del congresso, resta molto azzardato fare delle previsioni su ciò che accadrà dopo le elezioni politiche. L'unica cosa certa, a meno che non si verifichino delle situazioni impreviste, è che il centro-sinistra sarà riconfermato. La sua guida resterà affidata sempre a Moro, che gode e godrà l'appoggio, oltre che della sinistra democristiana, anche dagli ambienti laici, il PSU e il PRI, i quali vedono in lui, per il momento, la più sicura garanzia per la continuità di ciò che così a fatica si è costruito, al sicuro da eventuali sorprese di spostamenti a destra. Rumor, il quale gode dell'appoggio del resto del suo partito, il cui elettorato in fin dei conti non è recettivo delle istanze estremiste che partono dai gruppi di pressione radicale, conserverà la carica di segretario nazionale. Non potendo contare di appoggi al di fuori della democrazia cristiana, dovrà rimandare a tempi migliori l'ambizione di diventare Presidente del Consiglio.


POLITICA ESTERA
4 - L'Inghilterra non entra nel MEC: De Gaulle ha vinto un'altra battaglia

Da quando il governo inglese ha ripresentato a Bruxelles, la richiesta formale di adesione alla CEE, tutta la stampa occidentalista e anglofila ha messo in moto la macchina della propaganda per preparare l'opinione pubblica italiana all'ingresso della Gran Bretagna nel MEC, e spianare a questa la strada.
Le prime dichiarazioni di Parigi, infatti, non erano molto chiare in proposito. Il ministro degli esteri francese Couve de Murvilìe aveva affermato in un discorso pronunciato all'Assemblea nazionale che non esisteva alcuna preclusione di principio alla candidatura britannica, bensì la preoccupazione di stabilire preliminarmente, in seno ai Sei, un indirizzo comune che tenga conto delle prospettive di allargamento della Comunità.
Nonostante Couve de Murvilìe ribadisse il problema della politica agraria comune, il resto del discorso del ministro degli esteri francese lasciava ampie speranze ai sostenitori dell'Inghilterra, che De Gaulle questa volta non avrebbe posto il veto
«L'Europa dei sette è vicina» gridava esultante "Il Tempo", mentre "l'Espresso" si preparava ad accogliere degnamente Wilson tra i «veri europei». Le speranze degli occidentalisti nostrani, infatti, si erano andate mano mano rinforzando dal gennaio del '67 ad oggi, ma, contrariamente alle loro previsioni, "Corrispondenza Repubblicana" fin da un anno fa (vedi n° 9: "L'internazionale dell'Occidente a congresso") poneva in evidenza il fatto che le posizioni della Francia al riguardo non erano sostanzialmente cambiate.
Anche questa volta il direttore dell'orchestra anglofila, l'uomo che maggiormente si fa esecutore delle richieste e delle pressioni dei radicali è stato La Malfa, in quale si è adoperato al massimo nel cercare di coprire i fallimenti e le follie laburistiche di Wilson.
La cosa che maggiormente colpisce per la sua singolarità, è il fatto che nonostante si prevedesse già da tempo la svalutazione della sterlina, tutto lo schieramento politico europeo, malato di anglofilia, ha cercato di muovere l'opinione pubblica in senso favorevole all'Inghilterra, e a convincere le Banche centrali a rinunciare alle garanzie. Tali garanzie sono infatti le scadenze del saldo dei prestiti che la Banca d'Inghilterra deve rispettare per ottenere nuovi prestiti dalla Banca Mondiale o da banche private. Evidentemente tutto lo schieramento che va da «"Il Tempo" a "l'Espresso", deve aver fatto appello a tutto il suo senso di filantropia e di umanitarismo, se per sostenere l'Inghilterra era disposto a rinunciare alle garanzie e magari pagare anche i passivi dei pagamenti inglesi.
Ma evidentemente quel che interessava l'Inghilterra era un appoggio politico, che doveva risolversi poi necessariamente in aiuto economico, a tutto svantaggio dell'Italia e degli altri paesi
Se la Banca d'Italia avesse infatti «liquidato» (completamente e non in parte e di nascosto per non dispiacere agli Inglesi) in previsione della svalutazione, il proprio stock di sterline, non avremmo subito la perdita del 14,3 per cento dell'intero stock rispetto al valore originario della moneta inglese. Ma il servilismo del governo italiano legato politicamente ed economicamente all'intero sistema occidentale ha fatto si che l'Italia rinunciasse a quel 14,3 per cento.
Nella stessa maniera, al governo americano, dopo le restrizioni annuncite da Johnson, è necessario un appoggio politico, cioè che i paesi occidentali non mutino le proprie riserve monetarie di dollari in oro, come invece ha fatto De Gaulle, perché ciò corrisponderebbe alla bancarotta di Fort Knox. Al contrario una crisi improvvisa negli Stati Uniti, l'accelerarsi del fenomeno inflazionistico in corso in quel paese (come è stato messo in evidenza dal "Time") ed ecco che le riserve monetarie in dollari dei paesi europei si ridurrebbero a «carta straccia».
Per ritornare al problema si è voluto quindi dare all'Inghilterra la possibilità di sostenersi e di entrare nel MEC senza che questa muti minimamente le sue strutture economiche e i suoi rapporti politici con l'Europa.
La finanza britannica da tempo, infatti, sta passando periodi non molto floridi a causa del disavanzo della bilancia dei pagamenti, delle frequenti crisi interne (importazione superiore all'esportazione, crisi dei Trasporti, scioperi, ecc.) e delle crisi internazionali (guerra arabo-israeliana, chiusura del canale di Suez, questione di Aden). In tale situazione Wilson si è visto costretto a svalutare la sterlina del 14,3 per cento riducendo da 2,80 a 2,40 il rapporto con il dollaro e a chiedere al Fondo Monetario e a varie banche centrali, 3 miliardi di dollari per coprire il passivo della bilancia dei pagamenti.
Evidentemente Wilson chiedendo insistentemente l'adesione al MEC sperava in un certo senso di «scaricare» i suoi debiti sui paesi della Comunità; per questo numerosi economisti europei hanno tirato un sospiro di sollievo quando il presidente francese ha posto il veto.
Solo così si può spiegare Fattuale atteggiamento favorevole della Gran Bretagna nei confronti del MEC, in contrasto con quello ostile del passato.
De Gaulle ha potuto infatti parlare di cinque atti degli Inglesi dalla firma del Trattato di Roma ad oggi. Il primo atto è stato il rifiuto di partecipare all'elaborazione del trattato, il secondo è stato l'ostilità contro il MEC verificatasi nel 1958 quando Mac Millan minacciava la guerra tariffaria, il terzo quando Maudling a Bruxelles sperava di piegare la Comunità alle condizioni dell'Inghilterra, il quarto è stato caratterizzato dal disinteresse di Wilson per il MEC all'inizio del suo governo, mentre rafforzava i rapporti con i paesi dell'EFTA e si sforzava di consolidare i legami interni del Commonwealth. Ora accortosi dello scarso interesse derivante dalla zona di libero scambio, dalla tendenza centrifuga di alcuni membri del Commonwealth (Rhodesia) e della crisi monetaria causata dal fallimento della politica laburista interna ed estera chiede l'adesione al MEC nella speranza di poter risollevare le proprie finanze.
Il mercantilismo degli Inglesi non si tradisce.
Ma il veto di De Gaulle annunciato nella sua conferenza stampa del 27 novembre ha fatto cadere i sogni di Wilson e le rosee speranze di tutto lo schieramento liberal-radicale nostrano.
"Il Tempo" pestava i piedi dalla rabbia e "l'Espresso" dava segni di autentica follia politica, e mentre da ogni parte giungevano insulti ad attacchi al generale vi era addirittura chi parlava di ricostruire la Comunità economica europea con l'Inghilterra, senza la Francia.
Ma evidentemente questa era solo una minaccia, non essendo possibile questa operazione senza un autentico terremoto economico e finanziario; minaccia, tuttavia, che dimostra il vicolo cieco in cui sono entrati tutti i sostenitori dell'Inghilterra dopo il veto di De Gaulle.
È interessante infatti mettere in rilievo le contraddizioni degli schieramenti politici italiani a questo proposito.
La sinistra radicale moderata ("l'Espresso", La Malfa) ha dato il suo appoggio incondizionato al governo inglese nonostante questo non si sia dissociato dalla politica e dall'economia americana.
I radicali, infatti, strumentalizzando i comunisti, premono per il disimpegno americano nel Vietnam, per le riduzioni delle spese militari, e affinché i governi occidentali si dissocino dall'azione bellica di Johnson; e inoltre sulla scia delle tesi kennedyane auspicano la non dipendenza economica dei paesi europei rispetto agli Stati Uniti. (In realtà il Kennedy round era un ulteriore forma di condizionamento e di pressione degli Stati Uniti sull'Europa). Ora tutte queste condizioni non sono state rispettate da Wilson, il quale non solo si è schierato contro la sinistra del proprio partito, contraria all'intervento americano nel Vietnam, ma ha accentuato i suoi legami con la finanza internazionale e non si è dissociato dalla politica di Johnson.
La destra liberale moderata ("Il Tempo") non ha perduto l'occasione di dimostrare il suo servilismo nei confronti dell'Inghilterra, cercando di mascherare o di rendere meno grave la crisi della sterlina e i fallimenti di un governo di sinistra come quello laburista.
Solo la destra ultra conservatrice ("Borghese" - "Secolo") ha parlato di andare «ad accendere un cero a De Gaulle» solo perché -si badi bene- questi ha risparmiato al MEC di pagare i debiti dell'Inghilterra, mentre le premesse politiche del presidente francese, e la volontà di contestazione degli Stati Uniti in Europa sono respinte.
La posizione ufficiale dell'Italia è stata illustrata dal ministro Fanfani, il quale ha cercato di dare tutto l'appoggio all'Inghilterra, ma nello stesso tempo di non dispiacere troppo a De Gaulle, tanto è vero che tale posizione è stata definita «wobbly», cioè vacillante. A questo proposito Fanfani ha dichiarato di essere favorevole all'apertura di trattative tra i Sei e il Regno Unito, ma come era da prevedersi tale posizione è stata rifiutata da De Gaulle in quanto l'apertura di un negoziato segnerebbe la fine della Comunità.
L'Inghilterra ha una sola possibilità per entrare nel MEC: rinunciare alle follie radical-laburiste, alla tutela americana e ottemperare alle richieste di De Gaulle realizzabili a lunga scadenza (la sterlina come moneta europea e non di riserva internazionale, adeguamento dell'economia inglese a quella della Comunità, regolare la bilancia dei pagamenti trasformando radicalmente la sua economia, regolare i rapporti speciali con il Commonwealth).
Il nostro rifiuto dell'Inghilterra nel MEC non è dovuto a motivi di ordine economico, ma politici e di civiltà, in quanto la sua entrata porterebbe in Europa, a livello di potere, princìpi e metodi radicali che finirebbero per distruggere quel poco di nazionalismo europeo che si è venuto a creare. (Il rifiuto del Trattato di non proliferazione è partito proprio dai circoli del MEC).
Per questo ci sentiamo di condividere e di sottoscrivere la dichiarazione di De Gaulle concludendo con le sue parole.
«Tutto dipende dunque non da un negoziato, che sarebbe per i Sei una marcia rinunciataria e una campana a morto per la loro Comunità, ma dalla volontà e dall'azione del grande popolo inglese, che ne farebbero uno dei pilastri dell'Europa europea».
 

5 - Mc Namara lascia il Pentagono: Johnson ha fatto la sua scelta per le elezioni

Le dimissioni improvvise di Mc Namara hanno avuto l'effetto di un sasso lanciato in uno stagno tranquillo: subito si sono diffuse voci e dichiarazioni a tale riguardo, ma la verità è ben diversa e ben più difficile da appurare. Gli ambienti radicali si sono sforzati a difendere l'operato del ministro della difesa cercando di far ricadere la responsabilità degli insuccessi militari nel Vietnam sui generali con i quali Mc Namara, a più riprese, era entrato in polemica.
Jhonson costringendo Mc Namara alla presidenza della Banca Mondiale si è sbarazzato dell'ultimo rappresentante delle «teste d'uovo» o tecnocrati del vecchio «entourage» del presidente Kennedy. Mc Namara era stato definito a suo tempo dallo stesso Johnson come «il miglior ministro della difesa che la nazione abbia mai avuto», ma nonostante questo apprezzamento egli ha collezionato, nei sette anni nei quali è rimasto in carica, una tale serie di errori da essere malvisto da quella larga parte dell'elettorato, la quale, non sensibile alla tematica radicale, rappresenta l'ambita fonte di voti che Johnson vuol riversare sul suo nome nelle elezioni presidenziali di quest'anno.
Mc Namara è uno di quei tecnocrati scaturiti durante la guerra per i quali è del tutto simile elaborare piani militari per il Pentagono e piani economici per le industrie, per i quali si passa conservando lo stesso spirito dall'attività politica alla direzione della Ford, da questa al dicastero della difesa e quindi alla Banca Mondiale. Come abbiamo già ampiamente dimostrato (vedi n° 6 dell'agenzia) il ministero della difesa americano è sempre stato un feudo indiscusso degli ambienti economici USA e quindi non è possibile pensare che le dimissioni siano una effettiva vittoria dei «falchi», ma bensì una manovra di Johnson per accattivarsi le loro simpatie in vista delle sempre più vicine elezioni. Mc Namara era diventato uno degli uomini più influenti della vita politica statunitense, aveva sostituito migliaia di militari negli uffici con altrettanto personale civile ed aveva concentrato il potere di questi ultimi nelle sue mani. Le previsioni sull'andamento della guerra erano state raccolte dal gruppo di tecnocrati che Mc Namara aveva raccolto intorno a sé utilizzando le schede che i computers avevano elaborato. Dallo studio di queste schede si era giunti alla conclusione che gli USA, con il ritmo che avevano assunto le operazioni belliche, avrebbero vinto la guerra nel Vietnam entro il 1965. Ma ciò non è avvenuto anche perché dai computers non era stato tenuto conto né dell'enorme spirito di sacrificio dei Vietcong, né del grande spirito di combattività di quel popolo che non si batte in vista di ottenere il frigorifero o la seconda automobile. Mc Namara ha sbagliato, ha sbagliato profondamente: ha esautorato sempre di più i generali, a vantaggio dei civili, facendoli diventare dei buoni tecnocrati ma dei pessimi condottieri; il suo errore non è stato solo questo, egli, da buon tecnocrate al di fuori della politica, non ha compreso che un certo sentimento nazionale è sempre vivo negli Stati Uniti, e nel dilemma dovuto alla scelta tra Mc Namara e i generali, ovverosia tra le forze politiche di cui sono espressone, Johnson ha preferito questi ultimi perché portano più voti.
Nonostante la sconfitta subìta dagli ambienti radicali in questa occasione, essi in fondo non sono rimasti molto colpiti. Dopo una prima reazione hanno fatto buon viso a cattivo gioco; questo perché la loro politica è a più vasto raggio e a lunga scadenza; essi sanno che Johnson verrà riconfermato nella sua carica nelle prossime elezioni e che la nuova sinistra americana non ha ancora la forza per presentare con possibilità di successo un suo candidato (non candidatura di Bob Kennedy alla presidenza). Per loro è il momento di aspettare ancora, perché sanno anche che ad un governo di tipo moderato socialdemocratico con caratteristiche nazionali, succede sempre un governo di sinistra, il quale porta sempre più avanti le tesi progressiste e più intransigenti. Questa è infatti una costante della politica americana: da Wilson a Kennedy tutte le amministrazioni presidenziali con caratteristiche conservatrici-nazionaliste (Truman, Eisenower) hanno avuto il compito di dare il cambio alle forze radicali, che hanno approfittato di ciò per raccogliere e rinsaldare le loro fila e ripresentarsi poi più agguerrite di prima. E l'amministrazione Johnson, siamone certi, non farà eccezione.