ATTUALITÀ
1 - Università e crisi del sistema
Il mondo universitario è in fermento. Gli studenti di tutta Europa sono entrati
in agitazione. Occupazioni, assemblee, tafferugli, scontri con la polizia che a
volte hanno assunto il carattere di vere e proprie battaglie; questo, nella
apparenza, la cronaca degli avvenimenti. L'Italia non è stata da meno in questa
situazione. I fatti di Torino, Milano e Roma lo confermano. Ma una cosa non è
avvenuta, una cosa della massima importanza che la stampa infeudata al sistema
ha sempre sperato che avvenisse: lo scontro fra fascisti e comunisti. Al
contrario fascisti e comunisti si sono battuti insieme contro la polizia, e ciò
ha creato una situazione di costernazione a destra e di meraviglia a sinistra,
mentre i grossi giornali, per un evidente interesse lo hanno tenuto nascosto o
hanno tentato di falsarne il significato.
Perché? Che cosa è avvenuto in questi due mesi di «rivoluzione studentesca» per
cui si è giunti a tali posizioni? La risposta a questi interrogativi è
nell'analisi politica degli avvenimenti che faremo, premettendo che ci rifaremo
in particolar modo alla situazione politica venutasi a creare a Roma, in quanto
innanzi tutto presenta dei caratteri non comuni con le altre Università italiane
ed europee, in secondo luogo perché ne siamo stati diretti testimoni.
Prendendo lo spunto da una reale situazione di disagio che da anni si fa sentire
all'interno dell'Università, gruppi di sinistra occupano alcune facoltà. «Sono
comunisti, sono cinesi!» grida la stampa moderata e di destra, e invita gli
studenti anticomunisti a «liberare» le facoltà, la realtà è che insieme ai
cinesi vi sono castristi, guevariani, trotzkisti, ortodossi, socialisti e
cattolici di sinistra.
I più attivi sono i cinesi e i cattolici che costituiscono l'anima del
cosiddetto «movimento studentesco», mentre gli altri gruppi, quelli intermedi,
ne subiscono l'iniziativa e non riescono ad arginare la spinta ideologica degli
estremisti. L'agitazione assume immediatamente un carattere politico. Dalle
rivendicazioni tecniche settoriali a carattere scolastico si passa alla
contestazione generale del sistema, agli slogans di «No alla scuola dei baroni»,
«No a Gui», «Riforma dell'Università», succedono ben presto altri come «W Mao»,
«Vietcong vince» e «Potere studentesco». All'interno del «movimento studentesco»
inizia ben presto un braccio di ferro tra i gruppi estremisti che vogliono dalla
agitazione una precisa impostazione politica di lotta al sistema. La vittoria è
dei cinesi, mentre i capi dei democratici-progressisti sono costretti al margine
del movimento, la stessa sorte tocca ai vari caporioni comunisti inseriti più o
meno nel PCI, quindi gli ortodossi.
Sbaglia quindi chi vuole dare un carattere di unitarietà al fenomeno del
«movimento studentesco» dandogli la qualifica di «comunista» o di
«strumentalizzato dal PCI». La realtà è che il «movimento studentesco» è un
mosaico di gruppi e di gruppetti molto difficile da individuare ed ha perfino
come coreografia finale gli Hippies (uccelli) acerrimi nemici dei «compagni». Il
sistema ha tentato più volte di strumentalizzare (PCI, PSIUP, PSU) o impedire
(DC, PLI, MSI,) le agitazioni, ma puntualmente forze universitarie di
ispirazione rivoluzionaria di sinistra o di destra glielo hanno impedito.
Tutto ciò rientra, da una parte, nella nuova strategia dei radicali per dare
l'assalto alle strutture dello Stato (in questo caso l'Università) con nuovi
metodi di lotta, dall'altra nella volontà rivoluzionaria che i gruppi fascisti
universitari hanno messo in pratica.
La nuova strategia dei Radicali
Le attuali agitazioni universitarie si riallacciano, per quel che riguarda
l'Italia, agli avvenimenti del 1966, nei quali i radicali, cogliendo
l'occasionale morte dello studente Paolo Rossi, tentarono la scalata alle
strutture universitarie. In quella occasione si resero conto che la loro azione
basata sui tradizionali uomini e partiti di sinistra non era stata sufficiente a
far cedere la DC ai loro ricatti, in quanto si accorsero che gli universitari
rifiutavano gli schemi partitici. Per questa ragione videro di buon occhio un
metodo di lotta altrettanto radicale, che sviluppatosi enormemente negli Stati
Uniti, incominciava a destare simpatie anche in Europa. È quella della Nuova
Sinistra (New Left) come si è denominata in America, teorizzata da Marcuse,
propugnante il rifiuto di lotta dei vecchi partiti di sinistra, dei sindacati e
delle organizzazioni giovanili, il contatto diretto con gli operai e le masse
popolari, la democrazia diretta, il pacifismo e la lotta all'imperialismo. È su
queste basi che si fonda il metodo di lotta della organizzazione studentesca
socialisti (SDS) di Rudy Dutschke in Germania, che è servita come modello
tecnico organizzativo e politico al «movimento studentesco». Iniziato a Torino,
si è sviluppato a Milano, Firenze, Roma e mano a mano negli altri atenei
italiani. Esso ha come organo ufficiale il giornale "Quindici" di Torino, dal
quale sono partiti gli slogans, i temi politici e il metodo di lotta.
L'entroterra ideologico di questo giornale è a sua volta costituito da una serie
di riviste marxiste come "Quaderni rossi", "Classe operaia", "Quaderni
piacentini", "Classe e Stato", "Giovane critica", "Lavoro politico", "Nuovo
impegno", le cui tesi sono fatte proprie dal foglio torinese e applicate dal
«movimento studentesco».
Sul modello degli slogans radicali in America, viene coniato in Italia «Potere
studentesco», mentre le parole d'ordine sono «no ai professori», «no ai
partiti», «contestazione globale del sistema», e prendono come pretesto il piano
Gui e la riforma universitaria, il movimento inizia le agitazioni con un disegno
politico più ampio. Risultato: scavalcamento dei professori (anche di coloro che
inizialmente avevano appoggiato le occupazioni), delle organizzazioni giovanili,
degli schemi partitici, del PCI e del PSU «rendendo di nuovo chiaro che la vera
spaccatura in una società è quella tra riformatori e conservatori»
("l'Espresso!).
La volontà rivoluzionaria dei gruppi fascisti
A prescindere dalla volontà e dalle belle parole del verbalismo rivoluzionario
di alcuni gruppi di sinistra, è una illusione credere che la situazione venutasi
a creare abbia avuto un carattere rivoluzionario. Al massimo si è venuto a
creare un clima insurrezionale, tra l'altro perfettamente controllabile, se non
dai partiti di sinistra, dalle forze radicali, laiche e progressiste, che si
sono servite in questo caso dei gruppi estremisti. Trasformare il clima
insurrezionale in quello rivoluzionario; questo era il problema. In questo senso
ha operato la Caravella e i gruppi che come noi, "Iniziativa di base" ed altri,
hanno agito in essa. All'inizio delle occupazioni all'interno della Caravella
iniziò subito un braccio di ferro tra fascisti anticomunisti e fascisti
rivoluzionari. «Buttiamoli fuori a calci nel sedere» dicevano gli anticomunisti;
«L'Università, lo Stato, il Sistema è in crisi, non dobbiamo fare le guardie
bianche del regime! Questa volta D'Avack e Moro le castagne dal fuoco se le
levano con le loro mani. Non dobbiamo far si che i comunisti monopolizzino le
rivendicazioni, entriamo in agitazione anche noi. Il Fascismo non è solamente
anticomunismo, è soprattutto contro il sistema democratico parlamentare, e il
comunismo come il MSI è nel sistema» replicavano i rivoluzionari.
La stampa di destra si aspettava da un momento all'altro l'azione anticomunista,
mentre si fanno più insistenti le Voci che da parte della Questura e del Rettore
si sia richiesta alla Caravella un'azione di forza contro gli occupanti, per
offrire il pretesto alla polizia di intervenire. Ma costoro non conoscono i
fatti interni della Caravella, non sanno che i rivoluzionari hanno vinto, e che
quindi questa volta dovranno ripiegare sui cattolici dell'Intesa, sui liberali
dell'AGIR e su altri studenti genericamente anticomunisti. Proseguendo su questa
linea, cioè strumentalizzare la massa degli studenti per creare il clima
rivoluzionario, la Caravella occupa l'Istituto di Farmacologia. Per la stampa di
destra è una doccia fredda e subito tenta di minimizzare il fatto dicendo che
«gli studenti anticomunisti presidiano l'Istituto per impedire ai comunisti di
occupare» ma la Caravella replica che Farmacologia è occupata e che i comunisti
sono dei nemici come lo sono le forze di destra. Per il 29 febbraio viene
indetta una assemblea, ma la polizia «libera» l'università e così ha inizio la
violenta reazione degli studenti.
In serata cortei di fascisti e comunisti percorrono le strade di Roma, mentre
per il giorno dopo il Comitato Studentesco indice una manifestazione a Piazza di
Spagna. I fascisti decidono di prendervi parte. «La nostra presenza è valsa a
privare i comunisti di una manifestazione -afferma Cesare Perri, presidente
della Caravella- Su migliaia di studenti solo poche decine erano comunisti. Se
fossero rimasti soli avrebbero certamente dato il la alla massa. Appena ci siamo
messi in moto i compagni si sono messi a scandire: "Polizia fascista". Noi
abbiamo replicato: "Fuori la polizia dalla Università". Naturalmente il nostro
slogan ha prevalso e loro hanno dovuto smettere. Ci siamo così accorti che è
molto facile levare l'iniziativa ai comunisti. La stessa stampa di sinistra,
descrivendo la giornata di Valle Giulia, non ha potuto usare il termine
"studenti democratici" sino ad allora impiegato, ma ha dovuto usare il termine
"studenti"». (da "l'Orologio")
Si arriva a Valle Giulia e inizia la battaglia. «In un primo momento ci facevamo
sotto solo noi -racconta un ragazzo della Caravella- i comunisti se ne stavano
sulle gradinate a gridare: "Polizia fascista". Noi gli gridavamo: "Vigliacchi,
fatevi sotto! Borghesi". Allora i cinesi hanno incominciato a muoversi. Poi
anche i comunisti hanno preso qualche manganellata e così hanno perso la testa.
Me lo immagino il loro stato d'animo. Si facevano sotto per puntiglio per non
rimanere dietro a noi. Li abbiamo tirati per i capelli ...» (da "l'Orologio").
«Poi le guardie hanno alzato le mani -aggiunge un altro- non volevamo credere ai
nostri occhi, ma era proprio così, stavano tutti con le mani in alto! Allora una
cinquantina di fessi si sono precipitati nella Facoltà gridando: "Vittoria!"
Proprio in quel momento è arrivata la Celere che li ha imbottigliati e riempiti
di mazzate. Manco a dirlo erano tutti compagni: mica siamo nati ieri, noi, che
ci andiamo a mettere in trappola!» (da "l'Orologio").
È l'unica azione rivoluzionaria di tutta l'agitazione. La stampa del sistema non
ci capisce niente; quella di destra è costernata, mentre quella di sinistra
parla di «provocazioni fasciste». Intuite grosso modo, le intenzioni
rivoluzionarie dei fascisti, il PCI interviene pesantemente con il suo apparato
e blocca qualsiasi altra azione. Ma non finisce qui; la doccia fredda per il
sistema e in particolar modo per la destra continua. La facoltà di Economia e
Commercio, concessa dal Rettore agli studenti, viene occupata dai fascisti che
espellono a calci da essa i liberali, i democratici e gli altri moderati, poi
procedono alla occupazione di Legge.
Il sistema è prostrato; non ha più armi per ridurre all'obbedienza il «movimento
studentesco» e i ragazzi della Caravella. Alla Università la situazione era
questa: da una parte Lettere occupata dai cinesi, in mezzo il Rettorato,
dall'altra Legge occupata dai fascisti. In tale contesto il sistema interviene
per vie traverse.
Venerdì notte 16 Marzo a Legge circolava la voce che il giorno dopo sarebbero
successe le «botte», che a organizzarle era stato il Ministero degli Interni
pagando MSI da una parte e PCI dall'altra, e un tale Marino Bon Valsassina che
avrebbe offerto a Cesare Mantovani, presidente del FUAN, un tanto a ferito.
Quanto c'è di vero in tutto ciò non lo sappiamo, ad ogni modo la Caravella
decise di scindere le proprie responsabilità dal MSI e non cedette alle
pressioni di Mantovani. La mattina del Sabato, Legge non era più occupata dalla
Caravella; c'erano i missini con Caradonna, Mantovani, Anderson, Turchi,
Almirante, il così detto «bava», e altri tromboni, nello stesso tempo dall'altra
parte i capi della FGCI e del PCI.
La cronaca è nota a tutti. Conclusione: rinascita dell'antifascismo, bandiere
rosse sui pennoni, intervento della polizia, fine delle agitazioni. Ma l'odio
del MSI contro la Caravella non è finito. Marino Bon Valsassina -si dice- ha
chiesto a Mantovani la testa di Cesare Perri. Mantovani esegue. I «bavosi»
occupano la Caravella, Perri viene destituito con tutto l'esecutivo e sostituito
da un «ortodosso». A questo punto per i rivoluzionari non esistono altre
alternative: creare la «Caravella indipendente».
Ad un collega che, profondamente schifato dell'azione del MSI ci ha chiesto: «Ma
allora la rivoluzione è finita?» «No gli abbiamo risposto- forse ha ragione
quell'ignota mano che ha scritto sui muri dell'Università: "Valle Giulia è solo
l'inizio" ...».
DOCUMENTAZIONE
2 - Documento introduttivo del G. U. Caravella
Pubblichiamo di seguito il "Documento introduttivo" del G. U. Caravella
approvato dalla commissione politica del gruppo, nella facoltà di Economia e
Commercio, ritenendo utile sottoporre all'attenzione dei lettori un documento
che condividiamo interamente.
«Il G. U. Caravella ritiene che la crisi dell'Università non possa prescindersi
dai problemi posti dal disfacimento dello Stato democratico parlamentare.
Inoltre è consapevole che i problemi dell'Università italiana non possono
risolversi nell'ambito dell'Università stessa ma solo nell'ambito delle
strutture dello Stato. Solo chi è al vertice di quest'ultimo e detiene realmente
le leve del potere, e non si accontenta di fittizie concessioni che in ultima
analisi verrebbero ad essere strumentalizzate dal più forte, può concretamente
operare nella realtà politica del Paese. Poste queste premesse il G. U.
Caravella considera dì vitale importanza non restringere il discorso nei limiti
dell'Università ma ampliarlo e rivolgerlo a tutto l'insieme della società
italiana, da venti anni ubriacata da falsi miti, per stimolare tutte le forze
valide ad una azione veramente rivoluzionaria avente per obbiettivo la
distruzione dell'attuale assetto politico, al di là degli schematismi imposti
dai partiti, ormai senza alcuna distinzione inseriti nel gioco del
parlamentarismo, grazie a cui il sistema può sopravvivere.
Tale assetto politico, imposto dalla sconfitta militare delle forze
autenticamente europee ad opera degli eserciti russi ed americani e sancito
dalla spartizione dell'Europa avvenuta a Yalta, ha la sua scaturigine ideologica
dalle teorie egualitaristiche di marca illuminista e marxista. In tale contesto
politico si inserisce la falsa cultura creatrice di controvalori, materialistici
ed intellettualistici, contrastanti i valori dinamici della tradizione europea,
basata su di una concezione storica e spirituale della realtà.
Il G. U. Caravella respinge le ideologie democratiche liberali socialistiche, le
quali hanno distrutto la nozione dello Stato, confondendone la sostanza
etico-politica con il mito del benessere e con il mito della civiltà dei
consumi. Il risultato di questa mistificazione è lo scadimento della politica a
mera routine amministrativa, la confusione di politica ed economia, la
involuzione dello stesso linguaggio politico ad oscuro gergo tecnicistico. La
politica, viceversa è la creazione di forme storiche che promuovono, conservano
e tramandano i valori spirituali di una civiltà e che nello stesso tempo non
rifiutano le soluzioni sociali.
La mentalità democratica sostituisce ai valori di cultura e di civiltà il mito
economico della «Libertà» e della «Pace», intese come indifferentismo e
disimpegno e non come forze vivificatrici e creatrici volte a fini superiori.
Si respingono pertanto questi presupposti egoistici e borghesi e si auspica una
educazione rivolta all'azione impersonale e disinteressata per la creazione di
cittadini politicamente validi.
Uno Stato ispirato ad una concezione di sintesi fra civiltà ed esigenze sociali
non può non assumere una responsabile posizione nel campo dei valori, non può
rimanere indifferente ai problemi della Cultura e deve respingere la propaganda
come strumento di suggestione delle masse, come da anni indiscriminatamente sta
accadendo.
È compito dello Stato dare una direttiva in materia di educazione della
gioventù, considerata fonte di energie politiche, difendendo la scuola dalla
influenza di organismi proiettati verso fini particolaristici.
La nostra visione della scuola e dell'Università trova la sua realizzazione
nell'ideale etico di uno Stato che esprima, attraverso la sua autentica e
selezionata classe dirigente, la volontà universale e che sia quindi antitetico
al tipo di Stato Democratico che esprime le esigenze particolari di una
aritmetica e atomica maggioranza.
Pertanto ribadiamo la nostra volontà rivoluzionaria nei confronti dell'attuale
sistema politico che snatura gli autentici valori della educazione, degradandola
ad esclusiva esigenza economica degli individui, laddove lo studio è una
esigenza culturale, spirituale e sociale dello Stato e del cittadino come
strumento dell'attuazione di esso.
Lo Stato espressione di una autentica volontà politica deve approntare un
apparato globale che dia a tutti la possibilità di attuare il compito
principale: quello di servire la Stato attraverso l'approfondimento della
cultura e della scienza. Soltanto sotto la prospettiva di realizzare le finalità
dello Stato l'individuo ha il diritto di chiedere gli strumenti per attuare tale
dovere attraverso il raggiungimento della maturità politica e del pieno sviluppo
della coscienza civile.
Determinata quindi la necessità di distruggere questa organizzazione sociale di
cui il sistema democratico parlamentare è l'espressione onde creare un nuovo
stato sulla base di valori qualitativi e gerarchici sorge il problema del
reimpostare l'insegnamento ad ogni livello.
Negli ultimi anni si è colpito l'indirizzo classico in nome delle esigenze dei
tempi che reclamano quadri tecnici ed industriali. È indubbio che bisognerà dare
un nuovo impulso allo studio dei problemi tecnici creando speciali istituti. Ma
è altresì indubbio che lo studio del greco e del latino devono rimanere a
fondamento di ogni educazione superiore.
D'altra parte, se si vuole veramente l'Europa, bisognerà insegnare seriamente le
lingue straniere.
Si ribadisce poi che l'insegnamento della storia e della filosofia deve
preparare alla educazione politica.
L'attuale impostazione democratica-liberale, quella stessa che identifica nella
rivoluzione francese la «liberazione dell'Umanità» e che riduce i fini dell'uomo
alla semplice soddisfazione dei bisogni biologici, deve essere gradualmente
cancellata.
Infine intendiamo proteggere lo sviluppo delle arti plastiche, rivalutiamo
l'architettura come arte politica per eccellenza, vogliamo che dalla nostra idea
sorga una volontà plastica formatrice che dia un nuovo volto alle nostre città.
Infatti non si deve dimenticare che le arti plastiche e figurative, come pure le
grandi concezioni architettoniche sono quelle che comunicano con maggiore
immediatezza gli ideali e il sentimento di un'epoca. Ammirando il Partenone o
una Cattedrale gotica noi comprendiamo immediatamente che cosa siano stati
l'antichità e il Medio Evo. Nella nostra epoca di crisi e di transizione così
come difetta una solida idea informatrice, che superi il vuoto ed il
particolarismo delle concezioni democratiche, così mancano certi criteri
urbanistici ed architettonici.
3 - Vietnam: una tomba per gli Stati Uniti
La decisione imprevista del presidente Johnson di non presentare la sua
candidatura per le elezioni presidenziali di quest'anno e di sospendere i
bombardamenti su gran parte del Nord Vietnam pare offrire nuove prospettive per
il tormentato Sud-est asiatico.
Il governo di Hanoi ha infatti mostrato di essere disponibile per l'apertura di
trattative tra esso e gli Stati Uniti e si è già mosso per via diplomatica in
questo senso.
Coll'aprirsi di questa nuova fase, che potrà avere ripercussioni di portata
imprevista non limitati alla sola penisola indocinese o all'Asia per il
cedimento degli Stati Uniti, ci pare doveroso dare uno sguardo panoramico agli
avvenimenti succedutisi nel Vietnam dalla disfatta della Francia ad oggi.
Pertanto con questo numero iniziamo una seria di articoli che considereranno
distintamente gli avvenimenti militari e politici che hanno avuto per
protagonisti da una parte il popolo statunitense e dall'altra il piccolo popolo
del Nord Vietnam.
Da Ginevra all'offensiva del Tet
Quattordici anni fa, esattamente il 21 luglio 1954, concludeva i suoi lavori la
Conferenza di Ginevra sull'Indocina. Essa poneva fine al dominio francese in
quella regione asiatica. L'Indocina veniva smembrata in maniera definitiva: Laos
e Cambogia diventavano stati indipendenti, il Vietnam rimaneva invece diviso
provvisoriamente in due parti da un confine che corre circa lungo il 17°
parallelo. Gli accordi di Ginevra comprendevano anche una "Dichiarazione finale"
sul futuro dell'Indocina. L'articolo 7 di questa dichiarazione prevedeva, entro
due anni, elezioni a scrutinio segreto e controllate da una commissione
internazionale, per le due parti del Vietnam. Ma gli anni che seguirono videro
una graduale e consistente pressione comunista in tutto il Vietnam così da far
sospendere queste elezioni. Dopo qualche anno di relativa calma, il Vietnam del
Nord, nel 1959, iniziò quell'iter della guerra rivoluzionaria che Mao Tse Tung
ed Ho Ci Minh avevano già applicato nella guerra indocinese che vide la
sconfitta dei francesi e la conseguente sostituzione politica di essi da parte
degli Stati Uniti nel Sud Vietnam.
I Vietminh, che all'armistizio di Ginevra erano rimasti nel Sud, dissotterrarono
le armi nascoste e diedero inizio alla prima fase della guerriglia: il
terrorismo.
Questi uomini cominciarono a far sparire un capo di villaggio al giorno secondo
una tecnica paziente ma dinamica ed efficace. Alla fine del 1959 nel Sud
avvenivano dieci rapimenti al giorno; alla fine del '60 la media era salita a
venticinque.
Nel gennaio del 1961 J. F. Kennedy subentrò ad Eisenhower alla presidenza degli
Stati Uniti e varò subito un piano di rinnovamento sociale nel Sud Vietnam e per
lenire la povertà delle masse si affrettò ad inviare ed incrementare gli aiuti
militari.
I Vietcong passarono subito dalla prima fase della tattica (terrorismo) alla
seconda: la guerriglia.
Una stima dei soliti ricercatori statistici americani valutò i guerriglieri, nel
1962, a circa 15 mila unità, ma nella primavera del 1963 un'altra indagine li
dichiarò oltre 30 mila. Gli americani, per aumentare il peso della loro
presenza, continuavano a figurare nel Vietnam come «consiglieri». Nel 1963 vi
erano a Saigon oltre ventisette generali degli Stati Uniti che preparavano piani
di guerra; l'esercito sud-vietnamita veniva addestrato ed inquadrato da
ufficiali e da istruttori yankees e intorno alla città stazionavano più dì 30
mila americani. Erano trascorsi solo dieci anni dal Trattato di Ginevra che
dichiarava Stato indipendente il Vietnam.
Quando Kennedy disse: «La punta dell'aggressione è spezzata», il Sud Vietnam
stava passando il momento più oscuro ed intricato della sua storia. Infatti il
presidente sud-vietnamita Ngo Dinh Diem si rifiutava di realizzare quelle famose
«riforme sociali» suggerite o meglio imposte da Kennedy. L'esercito mostrava un
sempre minor impegno contro i guerriglieri e la popolazione civile non
collaborava assolutamente nella «crociata anticomunista». Kennedy fece capire a
Diem di non esser disposto ad attendere ulteriormente. Egli non poteva tollerare
che gli Stati Uniti «democratici» dovessero continuare a servirsi di un regime
totalitario per sostenere «la causa della libertà».
Dopo un periodo di lotta interna al Regime sostenuto dagli elementi buddisti
ostili, che vide il suicidio di alcuni bonzi, appoggiati direttamente od
indirettamente dalla Casa Bianca il 1° novembre 1963 una rivolta di generali
sobillata, organizzata e finanziata dagli agenti della CIA spodestò con un colpo
di stato Ngo Dinh Diem ed il fratello Nhu; i loro cadaveri furono esposti per
diverse ore agli occhi del popolo sud-vietnamita allibito.
Il 22 novembre 1963 Kennedy moriva a Dallas e Johnson ereditava il drammatico e
caotico problema del Vietnam.
Il nuovo presidente confermò in pieno ed anzi aumentò, gli impegni assunti dai
suoi predecessori. Da allora però, le condizioni della lotta nel Vietnam si
fecero drammatiche. Dopo la tragica fine di Diem il potere era in mano ad alcuni
generali incaricati di imbastire un politica che affrontasse in qualche modo i
problemi civili, inoltre questi stessi generali erano mossi come marionette
dalla presenza politico-militare degli Stati Uniti.
La guerriglia, alla quale avevano aderito anche numerosi elementi politici, non
comunisti, animati da sentimenti nazionalisti, otteneva notevoli successi. Non
esisteva un fronte, come in una guerra classica: i Vietcong riuscivano a
controllare vaste zone del Sud con improvvisi combattimenti notturni. Di giorno
sparivano come inghiottiti dalla giungla. Furono scoperti tunnel di oltre cinque
chilometri, scavati da un villaggio all'altro che permettevano ai Viet di
sparire e di riapparire alle spalle del nemico. Gli uomini del fronte nazionale
di liberazione si battevano con grande risolutezza ed audacia, attirando
l'attenzione e l'interesse di quegli uomini politici che fino ad allora erano
rimasti in posizione di attesa.
Nel corso del 1964 il contingente americano fu portato a 23 mila uomini mentre i
vietcong controllavano i due terzi del territorio. Il 1965 fu l'anno in cui
l'escalation, ossia il progressivo aumento delle forze americane, cominciò a
scattare con balzi impressionanti. Da 23 mila divennero di colpo 165 mila.
Questo fu l'anno anche, dell'inizio dei bombardamenti aerei; ormai si era alla
terza fase: la guerra.
Alla fine del 1965 la situazione pareva riequilibrata, ma gli USA si
dimostravano sempre più incapaci a risolvere la guerra: ormai Washington si era
impantanata fino al collo nel Vietnam cosicché la sua reazione, si faceva più
rabbiosa e più crudele verso il polo vietnamita. Con i bombardamenti a tappeto
usarono il napal che incendia e incenerisce ogni cosa; impiegarono gas con
aggressivi chimici.
Nel novembre scorso Westmoreland, comandante in capo delle forze statunitensi
nel Vietnam, si è recato a Washington per affermare che la guerra poteva
considerarsi vinta e che gran parte del territorio sud-vietnamita era ormai
pacificato. Ed ecco l'iniziativa del generale Giap, il vincitore di Dien Bien
Phu, modificare profondamente il quadro della situazione.
Gli attacchi contemporanei contro 21 dei 44 capoluoghi di provincia sono stati
temerariamente e meravigliosamente eseguiti; i Vietcong hanno smentito in un
solo colpo tutto quanto il generale Westmoreland aveva riferito a Johnson.
Anche quando verso il 29 gennaio il Servizio di informazioni lo metteva a
conoscenza che i Vietcong stavano preparando un attacco contro la capitale, il
generale Westmoreland non prendeva nessuna misura di sicurezza e si lasciava
sorprendere il 31 gennaio scorso con soli 300 uomini in assetto di combattimento
entro tutta Saigon. Il suo errore principale è di aver ragionato da militare
anziché da politico. Non ha tenuto contro dell'importanza psicologica che
avrebbe avuto per i Viet anche un successo parziale. Inoltre egli, ha
sottovalutato l'efficacia e soprattutto il disperato coraggio dei Vietcong i
quali hanno dimostrato di meritare la solidarietà e la simpatia di tutte le
forze rivoluzionarie.
L'operazione modello dei Vietcong è stato l'assalto all'ambasciata americana da
parte di 19 guerriglieri i quali avevano pressoché assoluta certezza di morire
ma erano anche decisi a portare a termine la missione.
Precedute da un intenso bombardamento, alcune compagnie di Vietcong passano
all'attacco seguendo undici direttrici e occupando i punti nevralgici della
città. Forti reparti investivano il Palazzo della Indipendenza e, l'ambasciata
americana ritenuta imprendibile. Nel perimetro della residenza diplomatica il
combattimento è stato violentissimo: i Viet sono riusciti a conquistare con
eccezionale coraggio i primi piani dell'edificio mentre da un altro palazzo
adiacente i loro mortai battevano il palazzo presidenziale sud-vietnamita. In
tutta la capitale cannonate, proiettili traccianti, esplosioni e raffiche di
armi automatiche, hanno creato un'atmosfera da prima linea. Con l'attacco e la
momentanea conquista dell'ambasciata americana i Vietcong hanno moralmente e
praticamente invaso il suolo degli Stati Uniti, riuscendo, con azione
rivoluzionaria, a creare un particolare clima di insicurezza nel popolo
americano.
Nelle altre città i guerriglieri sono passati all'attacco proprio mentre il Tet
buddista salutava l'inizio dell'«anno della scimmia», sferrando la più violenta
offensiva di questa guerra.
I grandi centri urbani investiti sono stati dieci: Huè, Saigon, Pllikn, Tan Cauh,
Da Nang, Qui Nhan, Nha Thang, Bai He Thuot, Hai Au e Ban San, dove si è avuta la
distruzione dei palazzi governativi e di tutte le installazioni militari.
POLITICA INTERNA
4 - Il «colpo di stato» e il centro sinistra
Un anno e cinque mesi di reclusione a Eugenio Scalfari, un anno e quattro mesi a
Lino Iannuzzi. Questa la sentenza dei giudici della IV sezione penale del
Tribunale di Roma che ha posto fine al processo De Lorenzo-Espresso dopo ben
quattro mesi di dibattito. I giudici hanno perciò mostrato di non credere alle
accuse di tentativo di colpo di Stato che il giornale incriminato aveva lanciato
contro l'ex-comandante dell'Arma dei Carabinieri. Per altro una minaccia di
azione giudiziaria pende sul capo di quest'ultimo, come chiaramente ha fatto
intendere il Pubblico Ministero, Occorsio.
Giunti al termine di questo procedimento giudiziario è doveroso trarre alcune
considerazioni di ordine politico. In una vicenda in cui, in ultima analisi,
tutto è rimasto oscuro ed incerto, dove ogni ipotesi può avere la sua parte di
verità e dove non è stato possibile determinare precise responsabilità di gruppi
e uomini politici, l'unica cosa certa è la sequela di vicendevoli ricatti che ha
contrassegnato il corso di quest'ultima edizione del centro-sinistra dall'anno
della sua formazione ad oggi.
Ma procediamo con ordine.
Nell'estate del 1964, precisamente in giugno, la lunga crisi del
centro-sinistra, che si era venuta maturando fin dai primi mesi del '63 era
giunta al culmine quando i socialisti, votando contro un emendamento presentato
dalla Democrazia Cristiana sul finanziamento dello Stato alla scuola materna
privata, mettevano in minoranza il governo.
La ricostruzione del centro-sinistra si presenta lunga e difficile. Tutti sono
inquieti. Il presidente della Repubblica Segni riceve con frequenza visite del
comandante dell'Arma dei Carabinieri, generale De Lorenzo. La stampa di destra,
moderata e non, dal "Tempo" al "Corriere della Sera" al "Borghese", lancia
appelli per un governo «forte» che salvi l'Italia dai «rossi». Gli ambienti
giovanili di estrema destra sono agitati, come bene può ricordare chi allora li
ha frequentati. Si dice che qualcosa di grosso è nell'aria: bisogna tenersi
pronti ad agire, che le armi arriveranno al momento opportuno. Misteriosi
individui, che si presentano come ufficiali o sottufficiali dei Carabinieri, si
muovono per questi ambienti promettendo enigmaticamente molte cose. L'euforia è
al massimo grado, ma nessuno pensa a che cosa porterebbe in realtà una simile
azione. Che tutto si risolverebbe in funzione dei gruppi finanziari
confindustriali della grossa borghesia del nord Italia, che intanto mettono a
disposizione grandi capitali, e che le radici del sistema democratico
parlamentare non verrebbero in alcun modo intaccate. Che si tratterebbe insomma
di un cambio della guardia al vertice e non di una azione autenticamente
rivoluzionaria.
Comunque si arriva alla composizione del nuovo governo di centro-sinistra, la
crisi è superata e di colpo di Stato si parlerà chiaramente e decisamene solo
nel '67, quando a maggio "l'Espresso" pubblicherà una serie di articoli.
Perchè sono passati tre anni nel silenzio più assoluto?
Perchè se già nel periodo critico "l'Avanti" ha fatto talune affermazioni e
rivelazioni non si è andato al fondo della questione e si è fatto passare tanto
tempo? E perché si sono dovute attendere le rivelazioni di Parri, di Schiano e
di Anderlini?
Una sola risposta si può dare a tutti questi quesiti.
La Democrazia Cristiana, la cui linea di condotta era determinata dalla corrente
dorotea, dopo aver ceduto largamente alle spinte e alle richieste dei loro
alleati di governo, nel '63 si era decisa a riconquistare quelle posizioni di
potere che aveva perso precedentemente e perciò aveva iniziato quella azione
frenante nei riguardi di quel pacchetto di riforme che il centro-sinistra
avrebbe dovuto attuare. I socialisti avevano reagito a questa manovra, la
situazione si era fatta insostenibile e si era giunti alla famosa crisi.
Dopo la ricomposizione del nuovo governo la DC è decisa a prendere in mano la
condotta del centro-sinistra e a non cedere a nessun costo. Ed ecco allora
scattare il meccanismo ricattatorio nei riguardi dei socialisti e dei
socialdemocratici: o accettare le proposte e la impostazione della DC oppure il
«salto nel buio», il ritorno a destra. Il centro-sinistra è troppo importante
per i socialisti, i quali al di fuori di esso non vedono alcuna seria
prospettiva, e per i radicali che finalmente hanno trovato lo strumento per la
diffusione delle loro tesi, e perciò il ricatto sorte il suo effetto. Si vara
questa nuova edizione del centro-sinistra, pur mutilata nei suoi programmi di
fondo, che assume quel carattere moderato che conserverà fino ad oggi.
Ma se i socialisti e socialdemocratici, ora riunificati nel PSU, sono stati
costretti a cedere, ciò non significa che abbiano rinunciato del tutto ai loro
programmi e ad assumere una posizione di avanguardia nel centro-sinistra.
E quale momento migliore per rendere la pariglia alla Democrazia Cristiana se
non al termine di questa legislatura e in prossimità delle elezioni politiche?
Ed ecco scattare il secondo ricatto, questa volta ai danni della DC. Risalta
fuori il colpo di Stato del '64. "L'Espresso" e gli altri organi di stampa di
ispirazione laica montano al massimo la questione, aiutati in ciò anche dal
processo che è scaturito dalla querela del generale De Lorenzo contro il
direttore ed un giornalista de "l'Espresso", i quali lo hanno indicato come
l'esecutore materiale del tentativo eversivo. Il clamore suscitato assume
dimensioni enormi e fa quasi passare in secondo piano problemi di grande
interesse, come la discussione sulla legge elettorale per le regioni.
I comunisti sono nuovamente strumentalizzati da questa ennesima iniziativa dei
socialisti e dei radicali e puntualmente estremizzano le loro tesi.
Le destre reagiscono al solito confusamente, gridano al pericolo rappresentato
dalla collusione tra socialisti e comunisti, anticamera del "Fronte Popolare",
coinvolgendo in scandali esponenti socialisti, come lo stesso vicepresidente del
Consiglio Nenni, accusato di aver preso dei finanziamenti del SIFAR.
La Democrazia Cristiana scricchiola paurosamente ai violenti assalti che le sono
mossi. Un attacco di questo genere è pericolosissimo alla vigilia delle elezioni
politiche: un calo di voti e un rafforzamento delle forze di sinistra potrebbe
determinare una nuova situazione politica, quale la creazione del fronte laico,
dai repubblicani ai comunisti, che potrebbe scalzare la DC dal governo.
La DC tenta perciò di insabbiare il più possibile la faccenda, di resistere il
meglio possibile.
I socialisti incalzano, sicuri di strappare larghe concessioni per il prossimo
centro-sinistra, e di togliere ai dorotei il monopolio su di questo, offrendo
come contropartita un graduale ridimensionamento della questione.
Ma inaspettatamente la Democrazia Cristiana reagisce con estrema decisione. Moro
si oppone, per «ragioni di sicurezza interna ed internazionale», alla richiesta
dei socialisti di creare una commissione parlamentare di inchiesta per indagare
sui fatti del '64, minacciando la prospettiva di una crisi politica, delle
elezioni anticipate, e di un nuovo «salto nel buio». L'estrema decisione di Moro
costringe il PSU, dopo lunghe e concitate riunioni della direzione, a fare
marcia indietro e a desistere dal richiedere la commissione parlamentare.
La nuova manovra ricattatoria consentiva alla DC di riprendere il sopravvento su
tutta la linea e di tenere in pugno i socialisti, minati all'interno anche da
profondi contrasti. Questo consentiva anche di tenere testa, con lo spauracchio
dell'isolamento politico, alla impennata di La Malfa, il quale, non volendo più
sottostare ad alcun ricatto, aveva minacciato di non votare la fiducia al
governo.
Con questa vittoria democristiana si chiude la vicenda: il processo è terminato,
le Camere sono sciolte, la legislatura è finita; ma si tratta di una battaglia
vinta e la guerra riprenderà dopo le elezioni, quando gli sconfitti cercheranno
la rivincita, una rivincita che umilii i propri avversari.
SINDACALISMO
5 - Il SINAPS unico sindacato difensore degli interessi dei propagandisti
scientifici
È stata recentemente discussa alla Camera la proposta di legge riguardante il
riconoscimento giuridico e l'albo professionale dei propagandisti scientifici.
Tale proposta di legge prevede un corso triennale all'Università per ottenere il
diploma per l'esercizio della professione di propagandista scientifico. La
Commissione parlamentare di Sanità ha accolto l'istanza presentata a suo tempo
dal SINAPS, ed ha emendato la proposta di legge De Maria che essendo
incostituzionale, era priva di possibilità pratiche di realizzazione.
Con ciò il SINAPS ha ulteriormente dimostrato di saper affrontare con serietà e
senso pratico i problemi effettivi di tutta la categoria dei propagandisti
scientifici. |