Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO III - N. 17
Roma, 5 luglio 1968


SOMMARIO

ATTUALITÀ
1) Il Movimento Studentesco e Operaio "Avanguardia Europea".
2) De Gaulle e la «rivoluzione» studentesca.

POLITICA INTERNA
3) Le elezioni politiche.

POLITICA ESTERA
4) Vietnam: una tomba per gli Stati Uniti (2a parte).
5) Il «Nuovo corso» nei paesi comunisti.
6) La morte di Bob Kennedy e le elezioni americane.

SAGGISTICA
7) Americanizzazione dell'Europa.
 

 

ATTUALITÀ

 

1 - Il movimento studentesco e operaio "Avanguardia Europea".
Nel maggio del 1967 ("Corrispondenza Repubblicana" n. 11) demmo notizia ai nostri lettori della costituzione del Centro Politico «"Autonomia Europea", elencandone nel contempo finalità ed obiettivi. Da allora è passato un anno; un anno denso di attività e di novità politiche. La crisi dei partiti e la situazione universitaria hanno visto il sorgere spontaneo od organizzato di vari gruppi, mentre si diffondeva in mezzo a loro quella precisa tematica e volontà politica rivoluzionaria che ha sempre contraddistinto l'azione di "Corrispondenza Repubblicana".
È precisamente questa situazione che vede nascere il Movimento Studentesco e Operaio "Avanguardia Europea", il quale ha finito con l'assorbire i vari gruppi già esistenti, "Autonomia Europea" compresa. È una nuova entità politica che nasce; ma bisogna tener conto che essa non nasce su fenomeni di sintesi fra gruppi, ma su precise basi politiche ed ideologiche, quali premesse necessarie per portare avanti una battaglia politica rivoluzionaria.
Battaglia certamente non priva di difficoltà; ma che gli uomini di "Avanguardia Europea" dovranno affrontare con la stessa decisione e con la stessa intransigenza che li ha contraddistinti nel passato. Battaglia quindi che ha come postulati necessari: lotta fuori dai partiti, contro i partiti, contro il sistema. Nel prossimo numero di "Corrispondenza Repubblicana", che conseguentemente fin da ora diviene l'organo ufficiale di "Avanguardia Europea", ci riserviamo di pubblicare i quadri organizzativi del gruppo, le finalità, gli obbiettivi e il programma politico che intendiamo portare avanti nella nostra lotta.

2 - De Gaulle e la «rivoluzione studentesca»
Quando i «gruppuscoli» di Nanterre si unirono per dare vita al "Movimento del 22 marzo", non immaginavano, neanche per un attimo, che gli avvenimenti accaduti, a distanza di qualche settimana, avrebbero determinato in Francia una situazione politica di portata storica. Per poter meglio valutare ciò che è accaduto in Francia dai primi di maggio a questi giorni, in cui tutto il mondo ha gli occhi puntati sui fatti elettorali francesi, occorre stabilire dei punti di riferimento cronologici.
La prima fase degli avvenimenti la possiamo collocare fra il 3 maggio, inizio degli scontri al quartiere latino, ed il 13 maggio, giorno della manifestazione unitaria tra partiti, sindacati e studenti. In questo periodo si verificava una sequenza di fatti da cui è possibile rilevare l'evoluzione della situazione politica: dalla «contestazione globale» dei «gruppuscoli» alla sfida dei partiti allo Stato. La mattina del 3 "l'Humanité" (organo del PCF) denunciava «i figli dei grandi borghesi», i «pseudo-rivoluzionari che si ispirano alle ridicole teorie di Marcuse, filosofo tedesco» e che «sono guidati dall'anarchico Cohn-Bendit tedesco». Questa giornata segnava l'inizio degli scontri. La polizia irrompeva nella Sorbona sgomberandola dagli occupanti che, poco dopo, raggruppatisi al quartiere latino si scontravano con 1.500 gendarmi. Molti feriti, centinaia di fermi, e vari arresti, era il bilancio di questo primo scontro di rilievo. La situazione peggiorava notevolmente qualche giorno dopo. Il 10 maggio gli studenti organizzavano una manifestazione contro la «repressione poliziesca» tentando di raggiungere la Sante al grido «liberate gli studenti incarcerati»; ma la polizia aveva previsto tutto: la zona era bloccata e così tutti i punti che potevano diventare obiettivo della marea di studenti, oltre 20.000. Chiusi da tutte le parti i giovani si ritiravano al quartiere latino e in boulevard Saint Michel bloccavano il traffico ed innalzavano la prima barricata. Alle prime ore dell'alba, dopo aver tentato l'approccio con gli studenti, le CRS (compagnie repubblicane di sicurezza) attaccavano senza preavviso le barricate con lanci di granate lacrimogene di notevole potere irritante (forse le stesse usate dagli americani nel Viet Nam). Gli studenti reagivano coraggiosamente con nutriti lanci di bottiglie Molotov; la loro resistenza era poderosa, mentre le CRS dovevano guadagnarsi il terreno con i denti, metro per metro. La battaglia si protraeva per quattro ore, con estrema violenza da ambo le parti.
Il bilancio finale era pesante: circa un migliaio di feriti, di cui molti in gravi condizioni e cinquecento fra fermi e arresti. Queste ultime battute portavano la situazione parigina a grossi titoli sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. In quei giorni la stampa si occupava della Francia per faccende del tutto diverse: De Gaulle recatosi in Romania faceva delle dichiarazioni pesanti contro la NATO. Il presidente romeno Ceausescu, a sua volta, affermava l'opportunità di liquidare i «blocchi» e quindi il patto di Varsavia. La stampa italiana, di fronte a questo fatto di enorme portata politica, imbarazzata non sapeva che atteggiamento prendere; ciò perchè il collegamento politico franco-romeno mal si prestava al ritratto del «Generale» come «arteriosclerotico ammalato di complessi di inferiorità verso l'Unione Sovietica» e «liquidatore della unità europea». Fra le righe dei giornali dell'epoca si notava invece l'intima soddisfazione dei giornalisti che potevano finalmente dire che De Gaulle era una tigre di cartapesta, che ormai era politicamente battuto e che i giocherelli internazionali gli avevano fatto dimenticare la grave situazione sociale in cui versava la Francia.
Questa la prima fase degli avvenimenti; in essa gli studenti erano gli unici protagonisti della vicenda. Da questo momento però la situazione cambiava di tono: dalle violente manifestazioni dei giovani si passava in questa seconda fase, ai calcoli ed ai soppesati comunicati stampa delle segreterie dei partiti e dei sindacati.
Lunedì 13 maggio i sindacati CGT e CFDT insieme ai partiti di opposizione indicevano lo sciopero generale ed organizzavano una manifestazione da piazza della Repubblica a Piazza Rochereau; circa 600.000 parigini sfilarono in segno di solidarietà con gli studenti e contro la repressione poliziesca. I partiti dopo il periodo iniziale di sorpresa e di incertezza decidevano che era il momento di agire. Dato che gli studenti avevano mosso le piazze occorreva giocare la grossa carta.
La manifestazione unitaria prendeva una piega decisamente antigollista; lo slogan era «De Gaulle, 10 anni sono sufficienti». C'è da rilevare che, fino a quel momento, la tematica studentesca era imperniata non sull'antigollismo ma sulla «contestazione globale»; quanto più o meno accadeva in tutta Europa. Da questo momento gli studenti sparirono dalla scena, salvo sporadiche eccezioni. Le organizzazioni partitiche presero in mano la situazione politica. Iniziava quindi quella vorticosa girandola di scioperi, di occupazioni, di manifestazioni e di scontri violentissimi con la polizia, in conseguenza dei quali un giovane comunista moriva annegato nella Senna. È interessante rilevare che il partito comunista in tutta la «bagarre», ha assolto il ruolo di moderatore. Dopo gli attacchi feroci de "l'Humanité" agli studenti, il PCF si buttava nella mischia più trascinato dai fatti che per autonoma volontà. Si deve tener presente inoltre che il sindacato comunista CGT è stato più volte tacciato di moderatismo dalla stessa stampa moderata. Infatti mentre Seguy, segretario della CGT invitava gli studenti a non immischiarsi dei problemi dei lavoratori, la CFDT, sindacato moderato, si diceva pienamente d'accordo con gli studenti e sul piano delle rivendicazioni, faceva richieste a «lungo termine», quali la completa riforma di struttura dell'assetto sociale e la cogestione delle imprese. La CGT faceva invece solo richieste a «breve termine»; riduzione dell'orario di lavoro ed aumenti salariali. Gli operai iniziavano, senza ascoltare gli appelli alla moderazione dei sindacati, gli scioperi a catena, le occupazioni, i sequestri di dirigenti di impresa. La massa operaia scatenata sfuggiva al controllo e scavalcava i sindacati ridotti al ruolo di «intermediari a posteriori»; dovendo le loro trattative col Governo ricevere l'assenso delle maestranze operaie. I sindacalisti della CGT venivano accusati di tradimento e presi a pedate all'ingresso delle fabbriche. Fatto da rilevare è che gli operai più oltranzisti erano quelli della Renault, della Citroen, della Peugeot e della Sud-Aviation.
Nemmeno i notevoli aumenti (fino al 35%) concessi subitamente dal Governo, e che senza la «bagarre» probabilmente non avrebbero ottenuto in anni ed anni di trattative, erano riusciti a placare l'impeto della rivolta operaia. Il collegamento studenti-operai si realizzava in pieno, e a Flins gli studenti e i giovani operai si battevano fianco a fianco. La verità è che non si trattava della solita rivendicazione salariale; la rivendicazione era «globale».
De Gaulle sembrava vacillare. I partiti gridavano vittoria; il demo-moderato Lecaunet proponeva un governo di salute pubblica che comprendeva tutte le forze politiche di opposizione, fino all'estrema sinistra. Mendes-France, leader del PSU (simile al nostro PSIUP) poneva la sua candidatura alla presidenza della Repubblica.
De Gaulle era incerto sul da farsi. Il 29 maggio dopo aver mandato a casa i ministri convocati per un «consiglio», partiva repentinamente per Colombey. Prima di arrivare alla sua casa di campagna, lo si è saputo poi, il generale passava per Baden-Baden, da Massu comandante delle truppe francesi di stanza in Germania. Il 30 prendeva la parola alla televisione: «non mi ritirerò», «non cambierò il primo ministro», «sciolgo la Assemblea Nazionale», «convocherò le elezioni... se risulteranno impossibili impedirò la sovversione con altri mezzi». De Gaulle accettava la battaglia, senza mezzi termini: frontalmente. Poche ore dopo l'allocuzione televisiva un milione di parigini sfilava lungo i Campi Elisi, da piazza della Concordia all'Arco di Trionfo. La piazza non era il parco privato dei soli partiti e sindacati: era anche di De Gaulle.
Da questo momento iniziava la terza fase: quella finale. Era il generale a passare alla ribalta; il giorno dopo scioglieva l'Assemblea Nazionale: «la ricreazione è finita». Le elezioni legislative venivano indette per il 23 giugno.
De Gaulle aveva vinto. Il lavoro lentamente riprendeva nelle fabbriche; i partiti erano ridimensionati, i leaders dell'opposizione ridicolizzati: «uomini politici di secondo ordine». È di questi giorni la notizia della schiacciante vittoria gollista.
A nostro avviso quanto è accaduto in Francia in queste ultime settimane suona a vergogna di tutta una partitocrazia imbelle e venduta ai grossi blocchi USA ed URSS, in tutto simile alla nostra. Il fatto è che i partiti francesi hanno cercato di approfittare della situazione creata dagli studenti, dimostrando di non essere all'altezza. L'unica cosa che sono stati capaci di fare è stato di pugnalare alla schiena la spinta rivoluzionaria degli studenti infrangendola con le piccole beghe e con le stupide rivendicazioni da piccolo riformatorio.
Interessante e, certamente non casuale, il fatto che i più intransigenti siano stati i moderati: il partito atlantico. Silurare De Gaulle significava per essi riportare la Francia nello schema di Yalta, quindi nuovamente nella NATO. Dall'altra parte i comunisti, caratterizzati da una visibile indecisione non sapevano in quale direzione muoversi non dovendo dispiacere ai voleri dell'Unione Sovietica da una parte, e dall'altra temendo di perdere definitivamente la faccia di fronte alle loro basi; ciò che poi è avvenuto.
De Gaulle ha vinto non tanto, come da più parti si sostiene, perchè sostenuto dal «partito della paura», quanto per il fatto di essere stato capace di dare alla Francia una politica nuova, una politica autonoma, un ruolo storico.
 

POLITICA INTERNA

 

3 - Le elezioni politiche
Ora che gli schiamazzi sulle ultime consultazioni elettorali si sono dissolti nella nebbia degli intrighi di palazzo e delle ansiose preoccupazioni di tornare ai giocherelli di sempre, ci fermiamo ad osservare la situazione e le eventuali nuove prospettive.
Ad un'analisi attenta e scevra da spirito di partito o da blocchi psicologici determinati dalla grande propaganda, non sfugge che il significato principale dei risultati è la stabilità del moderatismo conservatore. Infatti l'unione delle forze moderate e democratiche, espressa a livello di governo dalla formula di centro-sinistra, è uscita non solo indenne, ma consolidata nella sua realtà numerica (da 363 a 366 deputati). Di fronte all'aumento della DC e del PRI, si è avuto un netto calo del PSU. Il partito socialista, che fino a ieri ha rappresentato l'anello di congiunzione fra lo schieramento democristiano e lo schieramento comunista, è quello che inevitabilmente doveva fare le spese della radicalizzazione della lotta politica italiana.
Il PSU oltre ai 23 deputati, staccatisi in occasione della scissione del PSIUP, ha perso l'ala estremista a favore del PCI e PSIUP stesso; infatti maggiormente danneggiate sono state le correnti di sinistra, che le impennate estremiste di Lombardi, non sono riuscite a trattenere nell'ambito moderato. Così il PSU, uscito da queste elezioni ridotto di dimensioni e sicuramente socialdemocratizzato, ora può tranquillamente parlare di «area democratica» e di «insufficienza del comunismo a risolvere i problemi della società moderna», come testualmente si afferma nel recente comunicato della direzione socialista, chiarendo così una posizione di scelta democratica e anticomunista, che da tempo avevamo indicato; ciò ad onta di quanto andava blaterando Michelini ed i sostenitori del «pericolo rosso», circa possibilità frontiste. Checché se ne dica, Lombardi nel PSU fa lo stesso gioco di Almirante nel MSI; tiene a sinistra il malcontento che l'altro tiene a destra. Altro elemento che risulta chiaro dalla analisi dei fatti è la tendenza al bipartitismo. La progressiva radicalizzazione della lotta politica ha portato ad una divisione sempre più netta fra lo schieramento conservatore della DC e l'opposizione progressista del PCI, il quale si è ormai qualificato come l'unico partito d'opposizione al Governo. Il fatto saliente è che PCI e DC sono aumentati; ciò nonostante le molte difficoltà interne ed esterne che i due partiti hanno incontrato in questi ultimi tempi. Notevolissimo da un punto di vista politico più che numerico, l'aumento in voti della DC, considerando il sempre crescente malcontento delle categorie del paese verso la politica del regime, il fallimento del programma di riforme sociali del centro-sinistra e la catena di scandali che hanno caratterizzato la DC in quest'ultima legislatura.
Non è esatto parlare di «spostamento a sinistra» dell'elettorato nazionale in quanto trattasi più che altro di un fenomeno di concentrazione intorno ai due grossi partiti; né è esatto parlare di «pericolo comunista», come si spolmonano i sostenitori del «pericolo rosso», poiché i comunisti con un aumento progressivo in voti, del tipo di quello registrato nella ultima consultazione, andrebbero al potere nel duemila, a meno che non intervengano grandi eventi di portata internazionale o nazionale. Questa tesi è avvalorata dalla entrata del PSU nell'area moderata, democratica ed anticomunista, a coronamento dell'operazione di centro-sinistra che, secondo la strategia democristiana, doveva servire appunto a spezzare, con una azione graduale, il fronte delle sinistre. La strategia del centro-sinistra, secondo la logica democristiana, ha raggiunto gli obiettivi prestabiliti, riuscendo così ad isolare il PCI. Il fronte delle sinistre si è ridotto così ad avere in comune solo una origine sociale, ed una vaga terminologia. La destra, secondo quella che è ormai una tradizione, ha assolto alla funzione di serbatoio di voti della DC; né poteva essere diversamente dato che, da molto tempo, Liberali, Missini, Monarchici avevano rinunciato al ruolo di opposizione, a favore di una comoda azione di puntello della politica democristiana. Cosicché la «grande destra» micheliniana si è ridotta ad una piccolissima quanto inutile entità politica, destinata ad assolvere un ruolo di secondo piano nel futuro politico italiano. La nuova dimensione della destra, alla luce della situazione elettorale determinatasi, porterà probabilmente ad un mutamento della strategia malagodiana dell'inserimento; tutto ciò a favore di un probabile pateracchio di destra destinato, a nostro avviso, a delusioni e ridimensionamenti sempre maggiori. Sulla base degli elementi scaturiti dalla nostra analisi, è prevedibile che i due grandi schieramenti, DC e PCI, si contendevano il grosso dell'elettorato nazionale. Andiamo incontro cioè ad un duopolio politico destinato ad accentuarsi progressivamente sulle spalle di tutti gli altri partiti che, alla lunga, perderanno le proprie ragioni d'essere.
DC e PCI in queste prospettive perderanno le rispettive caratterizzazioni per facilitare l'assorbimento degli schieramenti minori e per adeguarsi sempre più al ruolo di partiti di massa. Per quanto riguarda la formula di centro-sinistra riteniamo che, in questa situazione, sia l'unica possibile; ciò, nonostante le impennate del PSU, dovute più a motivi di ordine interno e di «contrattazione», che ad una reale volontà di rompere con «l'area democratica» e di rinunciare alla camera dei bottoni in cui i socialisti si sono adattati altrettanto bene, e forse più, dei loro colleghi democristiani. Un fenomeno che si è posto alla ribalta dell'osservazione politica è il PSIUP. Questo nuovo schieramento ha ottenuto un successo di notevoli proporzioni; i 23 deputati scissionisti del PSI hanno visto riconfermati integralmente i rispettivi seggi. La spiegazione del fenomeno, a nostro avviso, va ricondotta alle suaccennate tendenze dell'elettorato. Cosicché il PSIUP ha usufruito della radicalizzazione, strappando al PSU buona parte dei voti da questo persi, e della massificazione del PCI, che teso alla nuova dimensione di grosso partito progressista, ha perso sempre più grinta e caratterizzazione, lasciando così spazi vuoti alla sua sinistra.
Il PSIUP ha tuttavia una veste che non è quella della contestazione del moderatismo democratico del PSU, ma è quella del malcontento estremista, oltre al PCI. Vero è che questa semplificazione dello schieramento partitico in una posizione di bipartitismo (più o meno perfetto) porterà ad una maggiore stabilizzazione della politica nazionale, nel senso che la lotta si ridurrà a un duello tra conservatorismo e progressismo, ma è anche vero che il sistema ne risulterà notevolmente indebolito. Ciò perchè le strutture dei due partiti, nelle nuove dimensioni di partiti di massa, saranno sempre meno suscettibili di contenere singoli e gruppi mal disposti a sfumare le proprie posizioni. Il processo di assenteismo e di dissidentismo, per altro già ad uno stato avanzato, è destinato ad acuirsi; le forze più vive si porteranno fuori dell'orbita dei partiti, i giovani si organizzeranno autonomamente. I primi sintomi già li abbiamo avuti. La nuova situazione che verrà a determinarsi vedrà categorie ed ambienti di fronte e contro i partiti; si vanno a nostro avviso costituendo delle basi sulle quali è possibile costruire una politica nuova, fuori dagli schemi tradizionali. Tutto ciò è molto interessante e pieno di conseguenze imprevedibili. Questa situazione sarà oggetto delle nostre maggiori attenzioni, sicuri come siamo che la strada della nostra battaglia passa ben distante dalla sfera dell'attuale partitocrazia.


POLITICA ESTERA

 

4 - Vietnam: una tomba per gli USA dall'offensiva del Tet a Parigi
Le dichiarazioni del Ministro degli Esteri nord-vietnamita Nguyen Dry Trinh del 30 dicembre 1967, le quali promettevano l'inizio di trattative tra Hanoi e gli Americani, quando questi avessero cessato ogni attività bellica contro il Viet-Nam del Nord, appaiono ora -alla luce degli avvenimenti che le hanno seguite-, come un tentativo di distrarre l'attenzione dell'avversario dai preparativi di una nuova fase della guerra.
Gli Stati Uniti, fidando troppo sulla loro supremazia militare, sono caduti nella più semplice delle trappole.
Essi sentivano che la loro presenza nel Viet-Nam diventava di giorno in giorno più gravosa per la loro politica estera; inoltre la crisi economica causata dalla lunghezza imprevista della guerra e l'onta di vedere la più forte potenza militare imbrigliata da un piccolo ed audace popolo di contadini, li costringeva a tendere verso una pur sbrigativa pace o armistizio.
Contemporaneamente i Viet hanno colpito esattamente nel punto più delicato del nemico, grazie all'esecuzione di un piano militare organizzato da un maestro della guerra rivoluzionaria: quello stesso generale Giap che nella guerra contro i francesi manifestò indubbie doti di abile stratega. Ne è prova che gli uomini di Giap hanno costretto ad una vita di trincea nel campo di Khe Sanh il meglio delle forze americane, le quali si sono viste così sfuggire di mano la iniziativa della guerra e nonostante che gli USA, con un formidabile sforzo militare, siano riusciti ad uscire da quella precaria situazione, già è ben delineata la grave sconfitta morale che la storia ha voluto dare a questo popolo e a quegli stessi soldati che ventitre anni fa intrapresero la loro «guerra di liberazione» rendendo vassalla l'intera Europa solo e soltanto con il peso della loro industria pesante.
Le vicende militari di questa nuova fase della guerra sono tuttora in corso, mentre sono iniziati a Parigi, in un clima di incertezza, i pre-negoziati di pace.
Cosa c'è dietro questi negoziati, come vi si è giunti e quale è stata la strategia di Hanoi?
Non vi è dubbio che ormai sia sul piano politico che su quello militare il conflitto vietnamita sia giunto ad una svolta decisiva: l'offensiva del Tet non è stata altro che il preludio di una nuova fase della guerra intesa a cogliere una vittoria militare e a mantenere l'iniziativa dell'azione per acquistare un certo prestigio politico da fare pesare in sede di negoziati. La strategia di Hanoi è riuscita. Infatti, mentre i Vietcong intensificavano gli sforzi diretti a prolungare la lotta armata nelle città del Sud Vietnam, gli Stati Uniti proseguivano nella loro intensa azione diplomatica tesa soprattutto ad uscire al più presto dal fango in cui sono caduti.
Il presidente Johnson inviò infatti, il 25 agosto scorso un messaggio ad Hanoi nel quale comunicava una nuova linea politico-militare in funzione dell'apertura di trattative di pace. Questa formula veniva enunciata un mese dopo a San Antonio e da allora è nota, appunto, come «formula di San Antonio». Il messaggio di Johnson permetteva il mantenimento di unità nordvietnamite nel territorio del Sud ed in cambio delle limitazioni dei bombardamenti chiedeva, anzi pietiva, ad Hanoi di non lanciare offensive a sorpresa oltre la fascia smilitarizzata. Era evidente che Hanoi respingesse totalmente le offerte della «formula di San Antonio» essendo chiaro che gli Stati Uniti, cercavano ad ogni costo di uscire dalla loro precaria situazione. Ho Ci Minh e Giap, allora, prepararono nei dettagli la grande offensiva che doveva espandersi a macchia d'olio durante il Tet, nel Vietnam del Sud. Johnson preoccupato dagli eventi, che si susseguivano in quei giorni, inviò, precisamente il 22 gennaio, un messaggio personale al Primo Ministro Kossyghin, consegnato a questi dall'ambasciatore americano Thompson, dove il presidente chiedeva esplicitamente un incontro al vertice ed un sondaggio da parte di Mosca verso Hanoi per raggiungere un accordo pacifico sul conflitto in corso. Nel messaggio Johnson chiedeva a Kossyghin di rinverdire lo spirito di Glassboro, e di aprire un'azione diplomatica verso Hanoi per costringerla ad una, sia pur sbrigativa, conferenza di pace. L'URSS accettò subito tali proposte americane, anche perché la sua politica verso il conflitto vietnamita è stata sempre offuscata dalla Cina. Infatti Mosca ha sempre tentato di togliere a Pechino il predominio politico sulla questione vietnamita, per poter un domani, essendo copresidente della Conferenza di Ginevra insieme all'Inghilterra, accampare maggiori «chances» politiche per estromettere del tutto la politica rivoluzionaria di Pechino e ristabilire l'equilibrio politico-militare contrattato insieme agli USA a Glassboro.
Tutto ciò è avvalorato dai commenti di vari osservatori diplomatici i quali sostengono che il Cremlino ha cercato a più riprese di persuadere Ho Ci Minh ad abbandonare la speranza che un ulteriore inasprimento del conflitto possa alterare la decisione statunitense di restare nel Vietnam.
Ma i tentativi compiuti si sono infranti sulla ferma decisione di Hanoi che, intensificando lo sforzo bellico è riuscita ad acquistare prestigio costringendo gli USA a stringere i tempi: i pre-negoziati di Parigi sono il primo passo.
Gli Stati Uniti hanno perduto su tutti i campi.

5 - Nuovo corso nei paesi comunisti
Una serie di significativi avvenimenti sembra indicare che l'edificio del comunismo europeo subisce con sempre maggiore intensità i contraccolpi della grande crisi aperta dall'insorgere della politica rivoluzionaria cinese.
Non soltanto, infatti, le conferenze di Budapest e di Sofia hanno messo in evidenza lo scalzamento dell'URSS dal suo ruolo di Stato guida, ma nei vari paesi dell'Est europeo si vanno accentuando fermenti che dall'ambito degli ambienti culturali si sono trasferiti in settori sempre più vasti della società di quei paesi, creando un clima di instabilità nel quale rilevanti mutamenti politici potrebbero verificarsi. Infatti la riunione consultiva dei 65 partiti comunisti mondiali, che si era aperta a Budapest, il 26 febbraio scorso, per gettare le basi di un prossimo «vertice» nella capitale sovietica, si è conclusa con un colpo di scena provocato dal clamoroso scontro ideologico fra i capi delle delegazioni rumena e siriana. Il rappresentante rumeno, Niculescu-Mizil, dopo aver sopportato i ripetuti attacchi del sovietico Suslov alla Cina di Mao, ha abbandonato l'assemblea dopo il violento intervento del segretario generale del partito comunista siriano, Khadel Bagdas, il quale accusava la Romania di svolgere una politica di secessione e di manifestare simpatie verso la politica di Pechino. Il rappresentante rumeno prima di lasciare l'assemblea accusava pubblicamente l'Unione Sovietica di aver tradito i patti, trasformando cioè una «fraterna» riunione consultiva, in una serie di attacchi e di accuse contro la Cina di Mao.
Inoltre, un'altra manifestazione della secessione politica rumena si è avuta alla Conferenza di Sofia, il 9 marzo scorso, in cui la Romania si è rifiutata di sottoscrivere il documento politico, preparato in precedenza a Mosca, sulla non proliferazione atomica; a nulla è servita la massiccia presenza dei delegati sovietici.
A Glassboro i due «blocchi», apparentemente opposti, si sono dati reciproca assicurazione che il trattato di non proliferazione atomica sarebbe stato imposto a tutti i loro paesi satelliti; invece sia da parte «atlantica» che da parte comunista si sono verificati importanti fatti politici che fanno sperare sinceramente in uno sgretolamento dei rapporti di forza esistente fra i due blocchi, statunitense e sovietico. Significative sono le secessioni francese e rumena e altrettanto significativa è la loro politica di rottura dei blocchi e di graduale «apertura» verso la Cina.
Chi non credeva anni fa nel fenomeno cinese oggi deve ricredersi e la continua pressione, anche da parte italiana, per far entrare la Cina alle Nazioni Unite non è altro che un tentativo di insabbiare nel caos borghese e revisionista del Palazzo di vetro, la politica rivoluzionaria cinese, la quale anche se apparentemente «isolata» è stata capace di galvanizzare l'attenzione e la politica di molti Paesi.
L'esempio rumeno è seguito con vivo interesse dal blocco comunista dell'Europa Orientale, dove la spinta verso l'autonomia, o quello che viene ufficialmente chiamato «il policentrismo dei movimenti comunisti», si fa sentire sempre più forte.
Infatti le dimissioni di Antonin Novotny da presidente della Repubblica cecoslovacca dimostrano quanto sia avanzato il sentimento di autonomia esistente in alcuni settori delle società dei paesi dell'Est. A questo punto è opportuno però seguire da vicino e mettere a fuoco gli avvenimenti che hanno portato alla sua destituzione e al «nuovo corso cecoslovacco». Da tempo l'Unione degli scrittori a Praga, si muoveva verso direzioni non del tutto ortodosse con la linea politica-culturale imposta dalla Russia ai paesi satelliti. Di fatto quell'organizzazione sociale era sfuggita, in una certa misura, al diretto controllo del Partito, per cui si era venuto a creare un clima di critica verso metodi ed impostazioni del partito stesso. Tale clima, allargatosi all'ambiente studentesco e ad altri settori della vita nazionale, ha dato origine a quelle spontanee agitazioni della gioventù e degli studenti cecoslovacchi. In questa situazione Dubcek appoggiandosi e utilizzando il movimento di rinnovamento ha iniziato la scalata al potere, conclusa la quale, ha riportato il tutto nell'ambito del Partito e imponendo nuovamente il suo controllo. È opportuno seguire le fasi. Nel Settembre 1967, nonostante la situazione fosse ormai ad uno stato avanzato, tuttavia Dubcek al Comitato Centrale de] Partito è ancora in minoranza. La situazione si capovolge tre mesi dopo. Alla riunione durata dal 3 al 5 gennaio scorso Dubcek e i suoi seguaci conquistano la maggioranza; Novotny è costretto a dare le dimissioni da Segretario del Partito. Con questi avvenimenti Dubcek ha in mano la situazione e Novotny è costretto a dimettersi anche da Presidente della Repubblica. In questo clima si è svolto il tentativo di un colpo di stato militare capeggiato dai generali Sejna e Janko in appoggio a Novotny. Janko si uccise e Sejna fuggì stranamente negli Stati Uniti. Perché? Sejna era una spia della CIA, la quale aveva tutto l'interesse di appoggiare o incoraggiare un colpo di stato filo russo e filo Novotny. La ragione è da ricercare secondo noi principalmente nello spirito di Yalta, secondo il quale i due blocchi hanno tutto l'interesse di puntellarsi a vicenda per giustificare in nome della libertà, l'uno e in nome della dittatura del proletariato l'altro, la presenza politica militare ed economica di entrambi sul nostro continente. In secondo luogo ciò si rende possibile perché Novotny non è uno «stalinista» come la destra spaventatrice italiana sostiene, ma non altro che un fedele vassallo dell'Unione Sovietica e della sua politica.
Analogamente in Polonia, in coincidenza con l'inizio di significativi movimenti di piazza ad opera degli studenti circolavano voci di possibili mutamenti al vertice. Ma Gomulka, altro fedele, soffoca l'opposizione interna al partito, scatena operai e polizia contro gli studenti, e riesce così a controllare la situazione. Tuttavia questa è ancora ad uno stato labile, e se non vi saranno imprevedibili rovesciamenti, è probabile che il 5° Congresso del Partito Comunista Polacco, che sarà tenuto verso la fine di quest'anno, segni la caduta di Gomulka. Non c'è da attendersi, con queste premesse, un rovesciamento dei regimi comunisti; non bisogna cioè farsi prendere dai facili entusiasmi e dai facili ottimismi, ne si può assumere una posizione di cieca condanna in nome di un ormai sorpassato anticomunismo. La situazione va seguita attentamente e valutata, tenendo ben presente quale è lo spirito che spinge all'autonomia i paesi dell'Est. Se questa avviene, infatti, in chiave radicale e distensionista essa non fa altro che sostituire lo spirito di Glassboro a quello di Yalta, mentre se essa avviene in chiave nazionalista (nazionalismo comunista beninteso) è possibile un incrinamento ulteriore all'equilibrio dei blocchi. Attualmente sia in Romania che in Cecoslovacchia non esistono elementi tali da poter giudicare quali di queste due componenti sia prevalsa. Forse sarebbe più esatto affermare che entrambe sono presenti, nonostante che in Romania, a nostro avviso, sia forte la linea nazionalista, e in Cecoslovacchia quella radicale. Dubcek, infatti, si appoggia agli ambienti radicali e occidentalisti; tuttavia anche gli ambienti nazionalisti fanno sentire il loro peso. È nella prospettiva che vincano questi ultimi che la Cecoslovacchia può svolgere un ruolo simile a quello della Francia e della Romania. In generale si può affermare che le pressioni che si vanno manifestando all'Est per ridurre lo strapotere di Mosca e restituire ai singoli paesi una funzione politica autonoma, potrebbero portare ad una evoluzione della politica in una direzione che non è certamente quella desiderata dal Cremlino. Tutto ciò va auspicato per forzare ed allargare le crepe che si sono prodotte nei due blocchi, (statunitense e sovietico) i quali, con la nefasta politica di equilibrio, predominano e assoggettano gli altri paesi.

6 - La morte di Bob Kennedy e le elezioni americane
John Kennedy, Malcom X, Martin Luther King, Robert Kennedy: negli Stati Uniti il delitto politico sta decisamente diventando una istituzione.
Se l'assassinio del Bob internazionale non ci servirà minimamente come pretesto per tessere la tela ormai logora dei moralismi a buon mercato, esso ancor meno ci servirà come motivo per strapparci le vesti, e questo in vista di più di un motivo: innanzitutto perché crediamo che la stampa e la televisione abbiano ampiamente assolto entrambi i compiti, poi perché il moralismo non è davvero il nostro forte, ed infine perché una morte violenta non ci sembra un valido motivo per trasformare in santo uomo chi sant'uomo non era.
L'uccisione del giovane senatore americano ci interessa in questa sede solo dal punto di vista delle ripercussioni che tale evento potrà avere sulla politica interna statunitense.
La morte di Luther King aveva avuto come effetto un sensibile spostamento della opinione pubblica americana verso le posizioni di sinistra dello schieramento politico nazionale. Chi di questo spostamento si era avvantaggiato più direttamente era stato proprio Bob Kennedy: aveva così potuto superare la impopolarità che lo aveva colpito negli ultimi tempi, e mietere considerevoli successi alle elezioni primarie. La morte dello stesso Kennedy, ora, provoca un ulteriore spostamento a sinistra dell'elettorato.
Per comprendere il senso di questo spostamento, non ci si può fermare al duplice assassinio, che al massimo può essere una circostanza favorevole, ma non la causa unica. Bisogna infatti riferirsi a quelli che senza dubbio attualmente rappresentano i problemi più «scottanti» della società americana: guerra nel Vietnam, lotte razziali, crescente malcontento delle generazioni più giovani.
L'America ha ormai abbandonato (e non a torto) ogni speranza di vincere militarmente il conflitto nel sudest asiatico. Impopolare da sempre, questa guerra è ora diventata più impopolare che mai. Inoltre tutti si rendono conto che ormai gli Stati Uniti la faccia l'hanno già persa, ad allora tanto vale mollare subito piuttosto che continuare a sacrificare inutilmente la vita di tanti «boys». La tesi dell'ala progressista (e pacifista), quella cioè di abbandonare le jungle e tornarsene a casa più o meno alla chetichella, fa particolarmente presa sull'americano medio. C'è poi la questione razziale: le dimensioni che va assumendo il conflitto fra neri e bianchi pone questo problema al vertice delle preoccupazioni della società americana. Di fronte al sorgere e l'affermarsi di movimenti negri estremisti ("Black Power", "Black Muslims", etc.), non sono pochi coloro che vedrebbero di buon occhio una soluzione moderata sulla base integrazionista della sinistra.
Infine c'è il malcontento dei giovani. Votati in larga parte agli ideali neo-illuministici (nonché radicaloidi) della "New Left", anche i giovani rappresentano una riserva di voti per lo schieramento progressista.
In definitiva, si può affermare che in generale, per quanto riguarda la base, le «colombe» hanno un certo vantaggio sui «falchi».
Ma come succede in tutte le democrazie, l'opinione «del popolo» conta ben poco. Sia l'apparato del partito democratico, che quello del partito repubblicano -infatti- sono per la nomina a candidato presidenziale di un uomo di destra: Humprhey nel primo caso, Nixon nel secondo.
Nel partito democratico i contrasti stanno assumendo dimensioni preoccupanti. Nonostante che la base, nella misura dell'ottanta per cento, abbia optato per il progressista McCarthy, da parte delle gerarchie di partito si continua a voler a tutti i costi eleggere Humphrey. I delegati maccartiani da mandare alla convenzione di Chicago sono molto meno di quanti dovrebbero essere in base ai risultati delle primarie. Alla riunione del comitato di assegnazione, tenutasi il 29 giugno al Commodore Hotel di Nuova York, cinquanta dei cinquantadue membri favorevoli a McCarthy hanno abbandonato per protesta la seduta. In seguito a questa «debacle democratica» (come l'ha chiamata il "New York Times") il direttore della rivista "New Republic", Gilbert A. Harrison, ha addirittura avanzato la proposta di spaccare in due lo schieramento democratico e di fondare un nuovo partito. Paul O'Dwyer, che con l'appoggio determinante di McCarthy è stato eletto candidato senatoriale, ha affermato che se questi sistemi dovessero perdurare, egli non potrebbe appoggiare un candidato eletto con la frode.
Nel partito repubblicano la situazione è molto simile, anche se finora il dissidio non ha assunto toni drammatici quanto quelli che agitano il campo democratico. Anche Rockefeller, come McCarthy, ha la base dalla sua. Ma Nixon è il favorito del partito, il quale non la darà troppo facilmente vinta alla base. Il senatore ultra-conservatore del Texas, Tower, ha rinunziato alla propria candidatura per poter aiutare Nixon, con i 67 voti della sua delegazione, a vincere la battaglia.
A questo punto ogni pronostico è arrischiato: tutto dipende dall'esito che avrà questo braccio di ferro fra le base ed i «bosses» dei due partiti.


SAGGISTICA


7 - Americanizzazione dell'Europa
Come ogni imperialismo, anche quello americano ha una dimensione ideologica. La nazione imperialista non si limita a voler imporre il proprio dominio politico-economico, ma aspira anche a voler «esportare» la propria ideologia, cioè il sistema di valori che essa personifica. Tale discorso va fatto anche a riguardo della seconda guerra mondiale, la quale non può essere interpretata unicamente come lo scontro di contrastanti interessi politici ed economici, ma anche come l'urto inevitabile fra diverse ed opposte concezioni del mondo. Non si vuole qui negare che gli Americani abbiano fatto la guerra per aprire la strada alle automobili di Ford, in altri termini per procurare nuovi mercati alla loro super-produzione industriale, né si vuole asserire ch'essi l'abbiano fatta unicamente per abbattere fascismo e nazismo: si vuole solo affermare che la verità è comprensibile solo se si tiene presente che i due obiettivi sono concomitanti, sovrapposti.
A distanza di due decenni, le cose non sono cambiate di molto: il motivo economico è la molla dell'imperialismo statunitense, il quale è anche politico, perché una supremazia economica nel mondo, non appoggiata e favorita da un continuo controllo politico (esercitato mediante classi dirigenti asservite), sarebbe priva di ogni garanzia di continuità; ma il quadro non è completo se sì tralascia la volontà di satellizzare ideologicamente il mondo, imponendogli la «weltanschauung» americana.
Per comprendere quanto intensa e priva di scrupoli sia questa volontà, basta comprendere quanto di sfuggita ha scritto l'inglese Gorer nella sua "Storia delle dottrine politiche e sociali" a proposito dell'americanismo: «essendo equiparati l'uno all'altro perfetto americanismo e perfetta umanità, a popoli che siano stati collocati nella serie negativa -come per esempio il Giappone dell'ultima guerra mondiale- viene negato lo "status" umano, ed essi vengono privati dei diritti dell'uomo. Finché la resa, e l'occupazione che ne seguì, non ha trasformato i Giapponesi in tanti Americani "in SPE", i soldati americani al fronte riferivano ai loro compatrioti, pronti ad approvarli (!), storie raccapriccianti della crudeltà e della perfidia con cui procedevano contro i soldati giapponesi (dunque non viceversa), storie che senza dubbio avrebbero suscitato disapprovazione se si fosse trattato di animali».
L'America, personificazione del famoso «chi non la pensa come me peste lo colga», resasi conto che ormai sulla peste c'è poco da contare, ha deciso di illustrare al mondo la bellezza dei suoi ideali calvinisti a furia di carri armati e -opinione pubblica mondiale (adeguatamente manipolata) permettendo,- di bombe atomiche, specie se la «crociata» promette allettanti prospettive per la economia nazionale. E questo «spirito di crociata» non è che il riflesso, in campo internazionale, dello «spirito» dell'americano medio, il quale «si chiami pure Wilson, Bryan o Rockfeller, è un evangelista che non può lasciare tranquilli i suoi simili, che costantemente sente il dovere di predicare e di darsi da fare per convertire, purificare, elevare ognuno al livello morale standard degli Stati Uniti, che egli non dubita essere il più alto» (1).
Premesso che fra gli obiettivi prefissisi dagli USA nella sua guerra contro il Tripartito vi era anche quello di «incivilire» (= americanizzare) Europa e Giappone, bisogna chiedersi fino a che punto tale obiettivo sia stato raggiunto. Consideriamo il caso dell'Europa, al quale siamo più direttamente interessati: con relativa facilità ci si rende subito conto di quanto avanzato sia ormai il processo di americanizzazione del Vecchio Continente, pseudo-democratico e consumista: continuando di questo passo, la mentalità americana avrà presto completamente conquistato l'uomo europeo. La cosiddetta «civiltà dei consumi» rappresenta il terreno ottimale per lo sviluppo rigoglioso dell'americanismo: vien quasi da chiedersi fino a qual punto tale «civiltà» sia un fenomeno universale e fino a qual punto invece non sia la logica conseguenza del tipo di vita americano. In tutti i casi, è innegabile che se tale «civiltà del benessere» è inumana, lo è anche perché porta con sé degli aspetti tipici della pseudo-civiltà statunitense, nella quale «tutte le energie comprese quelle dell'ideale e sin della religione, conducono verso lo stesso scopo produttivo: si è in presenza di una società di rendimento, quasi di una teocrazia di rendimento, la quale tende più a produrre cose che uomini» e nella quale, inoltre, «l'essere umano, diventa mezzo più che scopo, accetta questa parte di ruota nella immensa macchina, senza pensare un istante che possa esserne diminuito». (2)
L'uomo europeo tradizionale sta scomparendo; sostituito dall'«Americano "in SPE"» di cui parla Gorer, egli ha già imparato, appunto sulla scia dell'uomo americano, a confondere -come già fece notare il Sombart- «la grandezza con la Grandezza», ed a giudicare il suo prossimo col parametro del «successo», cioè del danaro che ha saputo accumulare, e non già con quello della sua levatura morale e spirituale; la nostra civiltà, la millenaria civiltà europea, ha ormai ceduto il passo a quella specie di «civiltà» americana che ha «introdotto definitivamente la religione della pratica e del rendimento, ha posto l'interesse del guadagno, della grande produzione industriale, della realizzazione meccanica, visibile, quantitativa, al disopra di ogni altro interesse» e che «ha dato luogo ad una grandiosità senz'anima di natura puramente tecnico-collettiva, priva di ogni sfondo di trascendenza e di ogni luce di interiorità e di vera spiritualità; anch'essa ha opposto alla concezione, in cui l'uomo è considerato come qualità e personalità in un sistema organico, quella, in cui egli diviene un mero strumento di produzione e di rendimento materiale in un insieme meccanico». (3)
A questo punto l'antiamericanismo diventa un passaggio obbligato dell'europeismo: se l'Europa unita deve essere la somma delle singole miserie «nazionali» attuali, noi gridiamo forte che quest'Europa non ci interessa minimamente. Noi continueremo a guardare all'ideale europeo come al frutto di una Rivoluzione che riporti l'uomo alla sua dignità di uomo, nel quadro di una più umana visione del mondo, la quale deve necessariamente partire dal presupposto che civiltà non significa minimamente Opulenza, essendo la civiltà non un fatto di ricchezza o di progresso tecnico, ma bensì la «nobiltà delle nazioni».
Un vero Europeo -quindi- non può limitarsi a combattere l'imperialismo americano unicamente nella sua dimensione economica e politica perché -in quanto Europeo- egli deve concepire la propria lotta come conseguenza di una scelta di civiltà ancor prima che come una lotta di liberazione nazionale, e pertanto deve combattere l'imperialismo americano anche ed innanzitutto nella sua dimensione ideologica.
Solo così l'Europa potrà ritornare ad essere degna del suo nome, solo così per l'Europa varrà la pena di vivere e di morire. Se quel giorno non dovesse arrivare mai, se cioè il processo di americanizzazione in atto dovesse rivelarsi irreversibile, allora non ci resterebbe che applicare il consiglio dato all'America da Bernard Shaw, dovremmo cioè erigere sui confini del nostro continente degli immensi cartelli recanti la frase dantesca: «lasciate ogni speranza voi ch'entrate».

(1) Julius Evola, «Rivolta contro il mondo moderno», Milano, 1951.
(2) A. Sigfried, «Les Etats-Unis d'aujourd'hui», Paris, 1927.
(3) Julius Evola, op. cit.