Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO IV - N. 19
Roma, 31 marzo 1969


SOMMARIO

Avvertenza ai lettori

Saggistica: Fine dell' Utopia
 

AVVERTENZA  AI  LETTORI

Dopo alcuni mesi di ritardo "Corrispondenza Repubblicana" riprende le pubblicazioni. Di ciò ce ne scusiamo con i lettori e con tutti coloro che ci hanno seguito nella nostra attività; tuttavia la causa di tale ritardo non è dipesa dalla volontà della redazione della agenzia, ma da una intensa attività interna tendente alla chiarificazione e alla elaborazione di documenti politici e ideologici. In seguito a ciò la redazione di "Corrispondenza Repubblicana" riprende la propria autonomia organizzativa e politica per continuare a portare avanti il discorso politico-rivoluzionario che ha sempre contraddistinto la sua azione.
Riprendiamo la pubblicazione con un interessante saggio di natura ideologica sul comunismo come testimonianza del lavoro svolto. Seguiranno altre analisi sistematiche e maggiori chiarificazioni anche su altri indirizzi ideologici rivoluzionari o pseudo-rivoluzionari per precisarne i limiti e le finalità.

SAGGISTICA


Fine dell'utopia


Con questo saggio vogliamo mostrare tragicamente quali insidiose sabbie mobili possano inghiottire una rivoluzione. La rivoluzione è quella d'Ottobre, quella bolscevica: la rivoluzione comunista.
Vogliamo far comprendere, tanto per parafrasare Marx, che una società agonizzante si crea da sé i suoi malaticci affossatori. Far capire come è stato possibile che la vecchia società capitalistica sia stata ristabilita; come un nuovo e terrificante dispotismo comprima e sfrutti l'uomo, con tutta la abietta e servile mentalità del servaggio.

Capitalismo di Stato
C'è dunque uno sfruttamento dell'uomo da parte dello Stato! Si partì dal presupposto che in un sistema economico vincolato, quale fu creato nella fase primaria della rivoluzione d'ottobre, dove il cosidetto «Sistema dei commissari» dominava incondizionato, le valutazioni di carattere strutturale erano sottoposte alla necessità palese di informare la struttura interna dell'URSS ad una concentrazione burocratica e dal minuzioso controllo di ogni piccola cosa. Ci si domanda ora, come da una simile impostazione di carattere pseudo-burocratico, oseremmo dire zarista, si sia arrivati, attraverso una «fase dialettica» (sic) di tipo socialista-leniniano, alla rivelazione di un processo i cui prodomi sussistono tutt'ora. La questione si pone dunque in questi termini: in quale misura è stata operata la rottura con il vecchio mondo burocratico-dogmatista di tipo zarista? È stata poi operata una rottura? E se lo è stata, in quale senso? Con un ritorno alle tesi primordiali marxiste? E quali i risultati? Per noi si è proceduto ad una prevaricazione di certi presupposti dell'ideologia marxista in senso di pura statolatria.
Nell'odierno capitalismo di Stato lo stesso processo «evolutivo» non ha fatto che progredire in questa direzione: verso il perfezionamento del meccanismo della gestione statale di tipo borghese e verso una burocratizzazione ed un più esteso e celato parassitismo. È essenzialmente in questi termini che si deve porre il problema, perché il proletario sociale, nell'antico senso marxista, oramai è quasi inesistente!
La crisi delle strutture economico-sociali trascina con sé la crisi delle sovrastrutture politiche, ma quest'ultima acquista di volta in volta un valore risolutivo in quanto apre o chiude la strada a tutto il successivo sviluppo.
Una fede non si acquista col ragionamento. Non ci si innamora di una donna, né si entra in seno ad una confessione religiosa o ad una concezione politica a causa di una persuasione di ordine logico.
La ragione può difendere un atto di fede ma soltanto quando l'atto è già stato espresso e l'uomo si è impegnato in esso; la persuasione può avere una parte nella conversione di un uomo, ma soltanto quella di portare al suo culmine pieno e cosciente un processo che è andato maturandosi là ove esso non può giungere.

Rivoluzione come atto di fede
Una fede non si acquista; essa cresce come un albero: le sue fronde si protendono verso il cielo e le sue radici, verso il basso, si espandono nel passato e si nutrono del succo oscuro dell'antichissimo «humus» degli avi.
In politica, un uomo di fede, un «rivoluzionario», è sempre ritenuto, a torto o a ragione, una persona un po' «sfasata».
Il suo sguardo si spinge oltre la prossima svolta, mentre gli altri tengono gli occhi fissi sulla strada; egli arrischia la sua fede puntando su idee incomprensibili agli altri, invece di limitarsi alle realtà quotidiane.
È in anticipo sugli eventi e, quindi, un estremista.
Se la storia giustifica le sue previsioni, tanto meglio. Ma se invece essa prende un'altra direzione, egli dovrà andare avanti fino a raggiungere un punto morto, oppure tornare ignominiosamente indietro, ripudiando quegli ideali che erano divenuti parte della sua personalità. Tutto questo discorso serve a far comprendere lo stato d'animo di coloro che in buona fede e completamente convinti della «santità» della loro scelta, aderirono al comunismo. Il richiamo fu sentito con particolare forza da coloro che erano troppo «onesti» per accettare la fede dominante in un progresso, per così dire, fatalistico, in un capitalismo in fase di regolare ascensione nell'abolizione della politica di potenza.
Essi riconobbero nel regime di Coolidge in America, di Baldwin e Mac Donald in Inghilterra, nel «pacifismo collettivo» della Società delle Nazioni, nient'altro che pigre illusioni intellettualistiche le quali servivano soltanto a mascherare ai loro occhi, di cauti e benpensanti democratici, la catastrofe in cui stavano precipitando.
Presentando la catastrofe, essi cercarono una filosofia che potesse aiutarli a spiegarla ed a superarla; e molti trovarono nel marxismo quello di cui avevano bisogno.
Peraltro, l'attrazione intellettuale del marxismo stava nella sua reale capacità di mettere a nudo gli errori del liberalismo, che erano e sono autentici errori. Esso insegnava le amare verità che il progresso non è un processo automatico, che prosperità e crisi sono inerenti al capitalismo, che l'ingiustizia sociale non si cura semplicemente con l'aiuto del tempo, che la politica di potenza non può essere abolita ma soltanto usata per scopi buoni o cattivi.
Se la disperazione, la fame, la solitudine furono i motivi principali delle conversioni al comunismo, la coscienza cristiana di tanti li rafforzò ancora di più. Non è un paradosso.
Anche qui, l'intellettuale, pur avendo abbandonato il cristianesimo ortodosso, ne sentiva gli stimoli più acutamente di molti suoi contemporanei che andavano in chiesa senza sapere il perché. Egli almeno era consapevole che la condizione ed i privilegi di cui godeva gli erano toccati in sorte ingiustamente, per ragioni di razza, di classe o di educazione.
L'attrattiva sentimentale del comunismo stava appunto nei sacrifici, morali e materiali, che esso richiedeva ai suoi adepti.
Si può chiamare «masochismo» una reazione simile, oppure si può definirla come un desiderio sincero di «servire l'umanità».
Ma comunque la si chiami, l'idea di una fratellanza di lotta, che implichi il sacrificio personale e l'abolizione delle differenze di classe e di razza, ha esercitato una influenza determinante in tutte le democrazie occidentali. L'attrattiva di un partito politico qualunque consiste in ciò che esso offre ai suoi membri; l'attrattiva, invece, del comunismo, stava nel non offrire nulla e nel chiedere tutto, compreso l'abbandono della libertà spirituale. Nelle ideologie di tipo comunitario e democratico ricorre spesso l'idea del sacrificio e della prostrazione. La subordinazione, l'altruismo e lo stesso sacrificio del singolo in vista di un interesse generale, sono parole d'ordine contrabbandate in modo più o meno pietistico. In ciò si scorge di nuovo una statolatria o almeno una sociolatria, in ogni caso un feticismo.
In ciò è appunto la spiegazione di un fenomeno che ha lasciato perplessi molti osservatori.
Come potevano, ad esempio, questi intellettuali accettare il dogmatismo staliniano?
Per l'intellettuale, gli agi materiali hanno relativamente poca importanza: ciò che gli preme maggiormente è la libertà dello spirito. La forza della chiesa cattolica ha sempre consistito nel chiedere il completo sacrificio di tale libertà, e nel condannare l'orgoglio spirituale come un peccato mortale.
Il novizio comunista, sottomettendo la propria anima alla legge canonica del Cremlino, provava un sollievo simile a quello che il cattolicesimo arreca all'intellettuale stanco e turbato dal privilegio della libertà.
Una volta che la rinuncia è stata compiuta, la mente, invece di agire libera, si mette al servizio di uno scopo più «alto» ed incontestato.
Ecco perché è inutile discutere qualsiasi problema politico particolare con il comunista.
Qualunque autentico contatto «spirituale» che si riesca a stabilire con lui implica una sfida al suo credo fondamentale, una lotta per la sua anima. È infatti molto più facile deporre il proprio orgoglio spirituale come obolo sull'altare della «rivoluzione» mondiale che non riprenderselo indietro.
Una delle più strane realtà del marxismo è l'atteggiamento del comunista di professione verso l'adepto intellettuale.
C'è da rilevare un dato di fatto, ben esplicito, ben codificato. Parlando di intellettuali, non si può non precisare che le simpatie di questi ultimi per il marxismo hanno un certo carattere paradossale, dal momento che il comunismo disprezza il tipo dell'intellettuale come tale, giustificando tale reazione con il declinare esplicitamente l'appartenenza di quest'ultimo essenzialmente al mondo dell'odiata borghesia.
Non solo egli è mal tollerato e sospettato, ma anche, sottoposto ad una continua e deliberata tortura mentale.
Da principio questo trattamento non serve che a consolidare la sua fede e ad approvare ed approfondire il suo senso di umiltà di fronte al proletariato.
Egli deve, in qualche modo, acquistare, in virtù di un esercizio mentale, le qualità che, come egli si compiace di immaginare, il lavoratore possiede naturalmente. Ma è chiaro che non appena egli comincia a conoscere di più la realtà, a sapere di più sulle condizioni di vita in Russia, il suo stato d'animo cambia.
All'umiltà si sostituisce la persuasione che l'Occidente deve illuminare l'Oriente (ciò era, del resto, confermato dalla autorità di Marx, il quale aveva il massimo disprezzo per gli slavi) e la borghesia il proletariato.
Tale convincimento era l'inizio della delusione ed insieme il pretesto per continuare a restare nel partito.
Delusione in quanto l'incentivo principale a convertirsi al comunismo era stata la sfiducia completa nella civiltà occidentale, che invece, come ora si scopriva, conteneva i valori essenziali per redimere il socialismo russo. Pretesto, perché si poteva sostenere che venendo a mancare gli influssi occidentali, la brutalità orientale avrebbe trasformato la «difesa delle libertà umane» in una «odiosa tirannia».

Rivoluzione ed utopia
Dal punto di vista dello psicologo, c'è poca differenza tra una fede rivoluzionaria ed una tradizionale: ogni vera fede è intransigente, radicale, rigorosa, completa; per cui il vero tradizionalista è sempre un entusiasta, un rivoluzionario in conflitto con la società farisaica, con i tiepidi corruttori della dottrina.
E viceversa: l'Utopia del rivoluzionario, che in apparenza rappresenta una rottura col passato, è sempre modellata su qualche immagine del paradiso perduto, di una leggendaria età dell'oro.
La società comunista senza classi, secondo Marx ed Engels, doveva, al termine della spirale dialettica, segnare il risorgere della società comunista primitiva che si trovava al suo inizio.
Tale società doveva tendere ad illuminare la struttura e la portata della società individualistico-borghese presente, in vista del suo superamento rivoluzionario: aveva lo scopo, quindi, gettando luce sul passato, di dimostrare il carattere storicamente condizionato di istituti «arcaici» quali la famiglia, la proprietà privata e lo Stato.
Vogliamo esemplificare! Si sa della parte che ha avuto nella storiografia comunista la valorizzazione del matriarcato sociale, da essa concepito come la costituzione delle origini e lo stato di giustizia a cui posero fine il regime della proprietà privata e le forme politiche che ad esso si assocerebbero. (Polemica Engels-Bachofen).
La regressione dal maschile al femminile è tuttavia egualmente visibile nella ideologia «rivoluzionaria» dianzi accennata. È dunque di importanza capitale riconoscere la continuità della corrente che ha generato le varie forme politiche di tipo comunitario.
Così ogni vera fede implica una rivolta contro l'ambiente sociale del credente, e la proiezione nel futuro di un ideale derivante dal lontano passato: tutte le utopie si alimentano alle fonti della mitologia.
I progetti ed i disegni del sociologo non sono che edizioni rivedute del testo antico. La dedizione all'Utopia pura e la rivolta contro una società degenerata, ("Rivolta contro il mondo moderno") sono i due poli che generano la tensione di ogni dottrina attiva. Chiedersi quale dei due faccia scaturire la corrente -attrazione di un ideale o repulsione dell'ambiente sociale- è come riproporre l'annosa questione dell'uovo e della gallina.
Per lo psichiatra sia l'anelito all'Utopia che la Ribellione contro lo STATUS QUO, sono sintomi di un mancato adattamento alla società; per il sociologo sono sintomi di una sana disposizione razionale.
Lo psichiatra è incline a dimenticare che il lento adattamento ad una società guasta crea individui «guasti», ed il sociologo è in eguale misura proclive a dimenticare che l'odio, anche per cose obiettivamente odiose, non produce quella giustizia e quella carità su cui la società utopistica dovrebbe basarsi.
Così ciascuno dei due atteggiamenti, quello dello sociologo e quello dello psichiatra, riflettono una mezza verità.
È vero che la storia personale di molti «rivoluzionari» rivela un conflitto di carattere nevrotico con la famiglia o la società, ma questo prova soltanto, per parafrasare Marx, che una società agonizzante, si crea da sé i suoi malaticci affossatori.
È pure vero che, davanti a rivoltanti ingiustizie, l'unico atteggiamento ONOREVOLE consiste appunto nel ribellarsi, e rimandare l'introspezione a tempi migliori; ma se percorriamo la storia e confrontiamo i «grandi ideali» nel cui nome vennero iniziate le rivoluzioni sociali, con la triste fine cui esse giunsero, vediamo sempre meglio come una civiltà contaminata e degenerata, contamini e degeneri le sue stesse conseguenze rivoluzionarie.
Accostando le due mezze verità (dal momento che per la «dialettica sociale» non esistono verità assolute, ma convivono identità relative) giungiamo alla conclusione che se da un lato la ipersensibilità nei confronti dell'ingiustizia sociale e l'anelito ossessionato all'Utopia, sono segni di un mancato adattamento di carattere «nevrotico», dall'altro la società può toccare un grado di decadenza tale che la ribellione del nevrotico provochi più delizie in cielo della salute dell'uomo «positivo e pratico» che ordina di far affogare i maiali sotto gli occhi di uomini affamati.
La parabola è convincente, ci sembra: in effetti, questa è la condizione della nostra civiltà e delle consequenziali aderenze attraverso le quali un intellettuale si colloca nell'ambito di fedi «rivoluzionarie ».

Morale borghese e morale «proletaria»
«(...) La famiglia borghese sparirà naturalmente con lo sparire del capitale (...) Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sulla educazione, sui dolci legami che uniscono i figlioli ai genitori divengono sempre più nauseanti quanto più per effetto dell'industria moderna, i legami di famiglia fra i proletari vengono spezzati». Così il manifesto comunista.
Effettivamente ogni pagina di Marx ed ancor più di Engels, reca all'adepto comunista in potenza, una nuova rivelazione, ed un piacere intellettuale che uno può sperimentare, per esempio, al primo contatto con Freud o Kafka.
Tolto dal suo contenuto, il passo di cui sopra suona ridicolo; inserito in un sistema chiuso, che organizza la filosofia sociale in un ideale chiaro e comprensibile, la dimostrazione della relatività storica di istituzioni ed ideali -della famiglia, della classe, del patriottismo, della morale borghese, dei tabù sessuali- aveva sul simpatizzante l'effetto inebriante di una improvvisa liberazione dalle catene arrugginite in cui era stata costretta la mente di chi aveva avuto un infanzia ed una educazione piccolo-borghesi.
In genere, appunto l'educazione e l'infanzia di un «intellettuale». In realtà, oggi che la filosofia marxista è degenerata conseguenzialmente e naturalmente (dal momento che già nelle sue enunciazioni contiene i germi del suo disfacimento) in una sorta di culto bizantino, e praticamente ogni punto del programma comunista è stato stravolto nel suo contrario, è difficile afferrare quello stato di animo di fervore emotivo e di «beatitudine intellettuale».
Quanti «onesti» furono abbindolati, quando stanchi di elettroni e di meccanica ondulatoria (tanto per citare esempi di aderenza «al mondo moderno») cominciarono a leggere per la prima volta Marx, Engels, Lenin od altri.
È necessaria una valutazione apodittica di questi intuizioni? Bene, ve la possiamo fornire.
Immaginiamo uno studente che si converte alla fede comunista tramite letture del tipo "Stato e Rivoluzione", "Feuerbach", "Rivoluzione in Occidente ed infantilismo di sinistra" e cosi via. Qualcosa scatta nel suo cervello, scuotendolo tutto come un'esplosione. Dire che si è «vista la luce» significa descrivere miseramente il rapimento mentale che soltanto il convertito conosce (indipendentemente dalla fede a cui si è rivolto).
La nuova luce sembra riversarsi da ogni direzione attraverso il cranio, e l'universo intero si dispone ordinatamente e coerentemente come se, per magia, i pezzi dispersi di un gioco di pazienza andassero di un colpo a posto.
Adesso ogni domanda ha la sua risposta: dubbi e conflitti appartengono al tormentoso passato: un passato lontano in cui la vita trascorreva in una cupa ignoranza, nel mondo insipido e sbiadito di coloro che «non sanno».
Nulla d'ora in poi può turbare la «pace interiore» e la serenità del convertito. Salvo il timore che di tanto in tanto lo coglie di perdere nuovamente la fede, perdendo così ciò che soltanto rende la vita degna di essere vissuta, per ricadere nella nell'oscurità esterna.
Nella maggior parte dei casi, questa forma di simpatia paradossale per il comunismo (paradossale perché ben sappiamo che parte abbia nel comunismo il disprezzo per il tipo del vero intellettuale) è intimamente legata a quel particolare «pathos » antiborghese che il comunismo ha fatto proprio.
C'è da precisare, tra l'altro, il rifiuto categorico del comunismo verso forme soggettivistiche ed individualistiche, quali il culto romantico dell'«IO» e le altre forme della retorica idealista. Tutto ciò al fine di interpretare la realtà come superamento dell'era borghese, procedendo ad una restrizione di ogni orizzonte sistematico, avviando l'uomo verso un nuovo realismo: il mondo dell'economia e della «classe», appunto.
Forse solo codesta interpretazione di una fede acquisita ciecamente ed irrazionalmente può spiegare come gli intellettuali comunisti, pur avendo occhi per vedere e cervelli per pensare, possano ancora agire soggettivamente in «buona fede» nell'anno di grazia 1969.
In tutti i tempi ed in tutte le circostanze ed in tutte le credenze soltanto una minoranza esigua è stabilizzata una gravosa atmosfera di imposizione, e di compiere un «karakiri» sentimentale ed emotivo in nome di verità astratte.
Ciò perché, nei paesi a regime socialista, a differenza delle rivoluzioni precedenti che nel loro demonismo, sono quasi sempre sfuggite dalle mani di coloro che le avevano suscitate, si è completamente attuata una continuità ferrea di potere e si è stabilizzata una gravosa atmosfera di imposizione. Uscire dalla rotta è quindi impossibile, o per lo meno ciò costituisce un suicidio mentale e fisico.

L'uomo massa
Colui che si impegna in un'attività esistenziale in seno ad organismi comunitari di tipo bolscevico, a poco a poco apprende a diffidare, per esempio, della sua preoccupazione tutta meccanicista dei fatti ed a considerare poi il mondo intorno a sé alla luce dell'interpretazione dialettica.
È certo una condizione soddisfacente e beata; una volta assimilata la tecnica dell'ingranaggio dell'uomo-collettivizzante, realizzazione ultima e finale dell'«uomo-massa» e del «materialismo storico», non si è più turbati dai fatti contingenti, al punto tale che la razionalizzazione si presenta come una delle vie, insieme alla meccanizzazione ed alla disintellettualizzazione, per liquidare i «residui» e gli «accidenti individualistici» dell'«epoca borghese».
Il singolo non ha più ragione di esistere in quanto si è disintegrato in un ente collettivo, in un ente plurimo e poliartico, senza nome né volto: il Partito.
Tutte le cose pigliano automaticamente il colore giusto e si sistemano al posto giusto.
Sia dal punto di vista morale che da quello logico, il Partito è infallibile: dal punto di vista morale, perché i suoi fini sono giusti, cioè in accordo con la dialettica della storia, e questi fini giustificano ogni mezzo; dal punto di vista logico, perché il partito è all'avanguardia del proletariato, ed il proletariato a sua volta l'incarnazione del principio attivo della storia.
Ma intendiamoci bene: l'abolizione della proprietà privata e dell'iniziativa personale, che sussiste, sia ben chiaro, come Idea-Policentrica delle verità assiomatiche del marxismo ed al di là delle accondiscendenti prese di posizioni di tipo libertario-stakanovista, rappresenta solo un episodio, uno dei tanti, isolato, limitato: la conclusione è la realizzazione dell'«uomo-massa», lo ripetiamo.

Arte di massa
Già si è proceduti alla liquidazione di tutte le prevaricazioni individualistiche, libertarie e romantiche della cosiddetta «epoca borghese». Né ci si illuda che l'intellettuale, l'artista, lo scienziato, svolgano funzioni diverse da quelle che realmente esercitano. Fatto sta che sono stati ri-condizionati ogni sorta di gusti letterari, artistici o musicali. Già a suo tempo Lenin aveva da qualche parte asserito di aver imparato di più sull'Occidente dai romanzi di Balzac che da tutti i libri di storia messi assieme. Per questa ragione, Balzac era il più grande scrittore di tutti i tempi mentre altri romanzieri del passato si limitavano a riflettere i valori fissati e deformati della società decadente che li aveva prodotti, Dostojewskij, Cekov, Puskin, compresi.
Forse, per essere in tema con le accezioni dialettiche, Lenin, non si accorse dell'immenso caos che trapela da ogni scritto balzachiano.
Cosmopolita tra i generi e nello stesso tempo degenere, il contenuto letterario delle opere di Balzac offre asilo a tutti gli stili e a tutte le forme di linguaggio, falsando la realtà e traviandola. Erede tardo ma riconoscente della letteratura tardo-borghese, accetta tutto quello che può in qualche modo utilizzare: informe spazzatura e cloaca massima, raccoglitore di stracci letterari, non si vergogna di fregiarsi di quell'orpello e di ori scaduti, che generi ben più nobili ed esclusivi, da tempo avevano ripudiato.
L'arte per l'arte, quindi, e non l'arte per la vita: «arte di massa» poi, nella misura in cui quest'ultima cessa di occuparsi delle vicissitudini individualistiche ed esce dai binari della «psicologia» del singolo per spersonalizzarsi e trasformarsi in un «Potente martello che inciti il proletariato all'azione».
Questo per inciso.
Sul fronte dell'arte il principio ispiratore del periodo bolscevico iniziale fu il Dinamismo Rivoluzionario.
Un quadro senza ciminiere fumanti o trattori era considerato «d'evasione»; d'altra parte bisogna riconoscere che il motto «Dinamismo» lasciava spazio sufficiente per il cubismo, l'espressionismo ed altri stili sperimentali. Questo cambiò qualche anno più tardi quando il dinamismo rivoluzionario fu superato dal Realismo Socialista; d'allora in poi ogni cosa che sapesse di «moderno» e di sperimentale fu bollata come «formalismo borghese» esprimente la «putrida corruzione della decadenza borghese».
Ad evitare ogni forma di affermazione individuale, sia nel campo musicale che in quello drammatico, il «coro» fu considerato in quel tempo come la forma più alta di espressione, perché rifletteva una tendenza collettiva, opposta ad una individualistico-borghese.
Nel campo artistico ed in particolare in quello teatrale, poiché non era possibile abolire tutt'insieme, d'un colpo, i personaggi individuali del palcoscenico, bisognava sterilizzarli, renderli tipici, spersonalizzarli.
Così lo furono Brecht, Piscator, Meyer-Hold, Auden, Isherwood, Spender.
Una buona standardizzazione letteraria internazionale, ben avvilente, ben abbrutente, arrivò proprio a tempo per completare l'opera di insensibilizzazione, di livellamento artistico, di snaturalizzazione. Così in termini crudi ma reali, si è attuato il disegno comunista, dopo aver fatto il giro del globo, dopo aver lacerato e pervertito ogni cosa al suo passaggio, beninteso in chiave demagogica, pacifista, progressista e collettivista.
Ed è in questa prospettiva e solamente così che si può capire la spersonalizzazione dell'uomo e dell'arte, quale conseguenza fatale di un ordine orientato al collettivo, sotto il dominio delle forze e delle esigenze economiche.
Il resto, tutto quello che non può assorbire e standardizzare, deve scomparire.
È il sistema più semplice. Questo, a dire la verità, non produce nemmeno un vuoto, tanto non c'è niente.
Quanto alle produzioni letterarie «standardizzabili» desiderate da questi novelli Messia, i «capolavori» moderni ne rappresentano assai bene l'abbacchiante livello.
Che esiste di più abusivo, in fatto di predicante fesseria, di un romanzo pretenziosamente letterario, tipo Lawrence, Hardy, Chesterton, Sinclair Lewis?... di più artificioso, di più inutile, di più straordinariamente belante? di più cretinescamente vizioso? di più caotico per importanza dei vari William Faulkner, dei Proust, dei Mauriac, dei Richar Wright, dei Cohen e soci?...

Ciò che rimane dell'uomo...
Tutto sembra imporre con forza crescente il livellamento delle singole personalità, la fatale, totale sottomissione dell'individuo al gruppo, deificazione moderna di teorie aridamente materialistiche.
E poi, ci si chiede, cos'è rimasto dell'«uomo»?
«Solidarietà di classe e impulso sessuale». Così vi risponderà la psicologia marxista. Il resto, tutto il resto, è «metafisica borghese», o, come l'ambizione e la brama di potere. «prodotti dell'economia capitalista di mercato».
E di seguito continuerà: «Quanto all'impulso sessuale, esso è ufficialmente sanzionato dalle teorie materialistiche. La monogamia e l'istituzione della famiglia nel suo insieme sono un prodotto del sistema economico; esse alimentano l'individualismo, l'ipocrisia, un atteggiamento di evasione rispetto alla lotta di classe e devono quindi essere respinte in blocco: il matrimonio borghese non è che una forma di prostituzione sanzionata dalla società. L'unico atteggiamento corretto nei confronti dell'impulso sessuale è la morale proletaria. Questa consiste nello sposarsi, rimanere fedele al coniuge e mettere al mondo bambini proletari».
Ma come, non è questa ancora morale borghese?
Così vi risponderà la psicologia marxista: «La domanda, "compagno" mostra che tu pensi in termini meccanicistici e non dialettici. Questa è la differenza fra la cosiddetta "morale borghese" e la morale proletaria: l'istituto del matrimonio che nella società capitalistica è un aspetto della decadenza borghese, è trasformato dialetticamente, in una sana società proletaria. Hai capito, "compagno" o debbo ripetere la mia risposta in termini più concreti?»...
Non ridete! Non cadete nella superficialità.
Questa è una cosa seria, molto seria. Uno stile gremito di ripetizioni, la tecnica propria del catechismo di fare una domanda retorica e di ripeterla per intero nella risposta, l'uso di aggettivi stereotipati ed il ripudio di un atteggiamento o di un fatto mediante il semplice espediente di mettere le parole tra virgolette dando loro un tono ironico: tutti questi sono gli ingredienti essenziali di uno stile di cui il marxismo è l'incontestato maestro, e che con la noia che ispira, genuina, autentica, produce un effetto ipnotico e sfibrante.
Due ore di quel tam-tam dialettico e non sapete più se siete maschio o femmina, pronti a credere indifferentemente l'una o l'altra probabilità non appena quella respinta apparisse tra virgolette.
È questo uno dei segni del comunismo che si avvale del «pensiero di Stato», per evirare la sensibilità individuale e creare dogmi e seminare inganno.
A suscitare questa specie di seconda natura esprimentesi sotto le specie di un «dogma» e di un «pensiero di Stato», ha contribuito non poco ciò che di più spinto v'è, in fatto di scientismo sociologico e di materialismo evoluzionista, nel pensiero occidentale. Pertanto, non solo idealmente, ma anche storicamente, è dimostrabile la tesi che all'origine delle varie forme comunitarie stanno liberalismo ed individualismo.
Idealmente, nella misura in cui capitalismo e marxismo sono identici qualitativamente, una e sola essendo la visione materialistica della vita; storicamente, uniche essendo le premesse legate ad un mondo il cui centro è costituito dalla tecnologia, dalla scienza, dalla produzione, dal rendimento, dal «numero».
E finché il termine «civiltà» sarà condizionato da un particolare sistema di distribuzione delle ricchezze e dei beni piuttosto che da un altro, fintantoché il progresso umano sarà misurato col parametro fallace dei profitti e dei salari, dei numeri, della produzione e dei «budgets», non si avrà nemmeno sfiorato l'«essenziale», anche nel caso che teorie nuove venissero escogitate come forme di transazione fra marxismo e capitalismo, teorie quest'ultime, legate tra loro indissolubilmente, come gradi di uno stesso male, come stadi che preparano ciascuno quello successivo.
Per ritornare in tema d'argomento, diremo che una «educazione dei sentimenti» viene anche contemplata dal pensiero socialista.
Abbiamo già accennato alla «coscienza di classe» ed all'«istinto sessuale».
Come si può facilmente rilevare, è una educazione che scivola su un binario antitetico ma parallelo, affinché le complicazioni dell'uomo borghese -sentimentalismo, ossessione dell'eros, passionalità- vengano sdrammatizzate.

Coscienza di classe!
Livellate le classi, sono livellati anche i sessi, come si è voluto dimostrare nella nostra precedente «fase dialettica».
Viene statuita la completa pianificazione della donna rispetto al maschio, tanto che di fronte allo stato comunista, non esistono più donne e uomini, ma «compagni» e «compagne», in una massa indifferenziata, inconcludente, quasi asessuata.
È facile trarre una debita conclusione anche per ciò che riguarda l'istinto sessuale. È evidente che, dati presupposti simili, il bambino «proletario» preferisce la vita collettiva e quella familiare, eliminando non solo ciò che la famiglia rappresentava nell'«era delle genti eroiche» ma anche quei residui propri alla tradizione borghese della casa con i suoi convenevoli ed i suoi sentimentalismi.
Aver avuto l'equivoco di una educazione borghese, poter vedere parecchi aspetti di un problema piuttosto che uno solo, diviene una causa permanente di autoaccusa, per un convertito bolscevico.
Questa autocastrazione intellettuale è il sacrificio richiesto al comunista per giungere a somigliare un po' all'«uomo-massa», al compagno «Ivan Ivanovic», al proletario ideale dalle larghe spalle, dalla faccia aperta e lineamenti rozzi, con una coscienza di classe completa, ed un impulso sessuale ben controllato.
Se poi viene inserito, a mo' di didascalia, in un panorama da officine Pulitov di Leningrado o in un campo petrolifero di Baku col pugno chiuso levato al cielo, il quadro da «realismo socialista» è completo.
Questo è il punto! Questa la verità assoluta, la prospettiva ultima di una umanità che prende coscienza di se stessa attraverso la propria cretinità, attraverso quelle formule intermedie così care alla democrazia ed al socialismo, e che condurranno diritto diritto alla concezione «religiosa» dell'uomo terrestrizzato.
Questa è la nuova umanità: fine ultimo e supremo del proprio sforzo «civilizzatore», tradotta in forme messianiche, organizzata attraverso una unificazione di menti deboli in un'immensa armata rossa, in un'unica officina Pulitov, in un immenso «cartello» industriale di marca capitalista, non avendo per Dio che se stessa.
A voler semplificare la lezione impartita da questa specie di esperienza, tradotta in parola, si può dire che essa compare sempre sotto il manto goffo e grossolano degli eterni luoghi comuni: che l'umanità è una realtà innegabile e l'uomo una pura astrazione; che si possono adoperare gli uomini come numeri in operazioni d'aritmetica politica, poiché essi non si comportano come i simboli dello zero e dell'infinito, i quali sconvolgono tutte le operazioni matematiche; che l'uomo cioè è semplice addendo e numero equidistante sia dallo zero che dall'infinito; che il fine giustifica il mezzo e non soltanto entro limiti assai ristretti ma in modo globale; che l'etica è in funzione solo ed unicamente dell'utilità sociale; che l'Humanitas non è la forza di gravità che mantiene le civiltà nella loro orbita, ma è solo un sentimento piccolo-borghese.

L'uomo come essere differenziato
È tempo di parlar chiaro; di dire a noi stessi che l'uomo non può essere concepito solo come unità atomica, come un puro numero nel dominio della quantità. Società e collettività non possono essere che sinonimi. Ben venga quindi ogni concezione del mondo antisociale ed anticollettivistica, a patto che porre la disuguaglianza voglia dire trascendere la quantità per ammettere la qualità; a patto che l'emancipazione del singolo dalla società significhi libertà rispetto a se stessi e non rispetto ad un giogo esterno.
Priorità della persona e dell'uomo, quindi, nella misura in cui la libertà è diversa come diversi sono i ranghi ed i diritti: «uomo» come essere differenziato e non come atomo o massa di atomi; e siamo disposti a riconoscere questa priorità persino di fronte allo Stato, la statolatria dei moderni non avendo nulla a che vedere con la nostra concezione politica.
«Ecco lo Stato, dove tutti bevono veleno, buoni e cattivi: lo Stato, dove tutti si perdono, buoni e cattivi: lo Stato, dove il lento suicidio di tutti si chiama "vita"».
Così fu descritto da Nietzsche questo freddo mostro, questa aberrazione, questo impersonale, pesante ente burocratico e giuridico attuale, sotto le cui vesti si pasce e s'appiattisce il gregge umano in una «religiosa» adorazione escatologica, in una statolatria codificata.
In verità nulla può suonare più trito e banale di simili tentativi di esprimere a parole un sapere che non è di natura verbale né tanto meno derivante da «concezioni del mondo» diveniristico-sociali.
Ritornando all'antico tema, se per l'intellettuale bolscevico la corda delle sue intuizioni si spezza, cade di sotto, dove c'è la rete di sicurezza, tesa da una nuova ed ancor più subdola coscienza di classe: la realtà democratica in tutte le sue varie accezioni.
Si troverà allora, quando cadrà, tra una compagnia mista di persone -vecchi acrobati che avevano perduto l'equilibrio dialettico, trotzkisti, riformisti, revanscisti, simpatizzanti critici, «cripto» indipendenti appartenenti al movimento del "New Stateman", neo-repubblicani, democratici dissidenti, liberali totalitari, destrorsi conservatori- che si dimenano nella rete in varie, contorte posizioni. Tutti diabolicamente scomodi, poiché sospesi sulla terra di nessuno, ma almeno non angeli ancora completamente caduti.
D'altronde è pacifico che l'essere dediti al mito bolscevico è più in particolare a quello democratico-progressista, è un vizio assai tenace e difficile da sradicare.
Dopo i «giorni perduti» nel paese dell'Utopia, è forte la tentazione di prenderne proprio l'ultimo goccio, di alzare il calice come un certo Cristo fece nell'ultima cena, anche se quel vino era non solo annacquato e contrabbandato con un'etichetta diversa dall'originale, ma anche e soprattutto intriso di tossico.
Siatene certi: c'è sempre un'offerta di nuove etichette nel mercato nero degli ideali gestiti dal Cominform, giacché esso tratta parole d'ordine e formule ideali e dogmi come i più onesti contrabbandieri trattano alcoolici adulterati, o come la Chiesa contrabbanda le sue «sostanziali verità».
Ed il bello è che più innocente è il cliente, tanto più facilmente cade vittima del liquore ideologico spacciato sotto il marchio di fabbrica di Pace, Progresso, Democrazia, Utilità sociale, Coscienza di Classe, o quel che volete.
La scomparsa del capitalismo non ha portato la libertà ai lavoratori sovietici, né tanto meno il benessere sociale. È essenziale che il proletariato degli altri stati se ne renda pienamente conto.
È vero che essi non sono più sfruttati da capitalisti-azionisti, ma sono sfruttati lo stesso, in maniera così obliqua, sottile e subdola che non sanno nemmeno chi accusare.
Quasi tutti vivono ad un livello di miseria; ma sono i loro salari di fame che permettono i salari sproporzionati dei privilegiati: i benvisti, i docili, i maneggevoli.
Come non essere urtati dal disprezzo che chi ha autorità dimostra verso i suoi dipendenti, e dalla servilità, dall'ossequiosità di questi ultimi! S'intende; non vi sono più classi né distinzioni nell'Unione Sovietica, ma i poveri ci sono ancora e sono troppi, davvero troppi.
La povertà poi, che nulla ha di infamante o di degradante, è considerata con disgusto, come se fosse indelicata o peggio criminale: non ispira né carità, né pietà, ma soltanto disprezzo.
E quelli che si comportano con tanta superbia sono precisamente coloro che hanno ottenuto la prosperità a spese di quell'infinita miseria.
Il proletariato poi è ridiventato una nuova specie di borghesia operaia, soddisfatta e quindi conservatrice, troppo simile alla piccola borghesia dei paesi dell'Occidente.
Se ne vedono dappertutto i sintomi ed i bubboni cancrenosi.
A dispetto della «rivoluzione proletaria», i vizi ed i difetti miserando-borghesi sonnecchiano nel cuore di tutti.
Non hanno capito che ogni riforma, ogni rivoluzione dell'uomo non si compie soltanto dall'esterno, ma occorre soprattutto modificare gli animi. Oggi nell'URSS, tutti gli istinti borghesi sono invece lusingati ed incoraggiati e tornano a formarsi (se mai furono eliminati) i vecchi strati sociali e se non precisamente delle classi sociali, almeno una nuova specie di aristocrazia.
Non parliamo dell'aristocrazia del merito, del valore personale, dello spirito, del sangue, ma di quella dei ben pensanti e dei conformisti, che nella generazione seguente, diventerà, siatene certi, l'aristocrazia del denaro. URSS = USA. «Divide et impera».
Il che dimostra, fra l'altro, che le nostre anticipazioni, sono veritiere. Sebbene la promessa dittatura del proletariato non si sia realizzata, una dittatura c'è: la dittatura della burocrazia sovietica. Il proletariato non ha nemmeno più la possibilità di eleggere dei rappresentanti per difendere i suoi interessi minacciati. I voti popolari, aperti o segreti, sono una derisione, una paradossale frode. Il proletariato è preso in giro, imbavagliato, legato, e la resistenza gli è resa pressapoco impossibile.
L'operaio sovietico è legato alla sua fabbrica, ed il lavoratore rurale al suo "kolkos" o al suo "sovkos".
Non è libero di andare o di restare dove gli piace, dove forse lo chiamano o lo legano affetti o interessi. Cose troppo «borghesi».
Se non appartiene al Partito, i compagni iscritti gli passeranno davanti. Ma non tutti quelli che lo desiderano possono entrare nel Partito, e non tutti posseggono le qualità richieste: servilismo, compiacenza, sottomissione.
Se ha la fortuna di essere ammesso al partito, non ne può più uscire senza perdere il lavoro ed i vantaggi acquisiti e senza destare sospetti o rappresaglie. Pensare da sé è correre il rischio di essere considerati controrivoluzionari; ed allora chi è membro del Partito ne viene espulso, ed è maturo per la Siberia.
Si sarebbe, in via di ipotesi, potuto accettare l'abolizione della libertà personale ed intellettuale nella Russia odierna se vi fossero almeno prove che il progresso materiale e sociale delle masse è perseguito costantemente, se pur lentamente: ma non è affatto così, e al contrario è evidente che le peggiori e più deplorevoli caratteristiche della società capitalistica tornano, intatte e complete, ad affiorare.
Lo spirito piccolo-borghese che si sta sviluppando è ai nostri occhi profondamente e fondamentalmente controrivoluzionario.
Ma l'ironia, il paradosso, la vera enormità sta qui: quello che in URSS si considerava controrivoluzionario è precisamente quello spirito «rivoluzionario», quel torrente che spazzò le dighe infracidite e crollanti del vecchio mondo zarista.
Liberalismo, poi costituzionalismo, poi democrazia parlamentare, poi socialismo, poi radicalismo, infine comunismo e sovietismo: è questa la catarsi «dialettica», attraverso la quale è avvenuta la completa snaturalizzazione dell'uomo, da quando quest'ultimo ha tarpato le ali degli entusiasmi personali, ha offuscato gli orizzonti dell'intelligenza, ha abbandonato l'interpretazione della sua volontà creatrice.

Rivolta contro il mondo moderno
Occorre innanzitutto affermare a viso aperto la nostra rottura con questo mondo e con questa società.
È d'obbligo una rettificazione degli atteggiamenti ed una disintossicazione ideologica, altrimenti ogni rivoluzione sarà solo di superficie e non toccherà mai le profonde radici della crisi della società attuale.
È tempo di dire la verità. Di dire che nel movimento socialista nulla ci fu, nulla è, nulla sarà, mai, rivoluzionario.
Una volta compiuta la «rivoluzione» del 1917, tutto quell'alone in qualche modo «borghesemente eroico» è svanito ed i sentimenti più o meno generosi che animarono i primi riformatori sono divenuti ingombranti e superflui, come strumenti arrugginiti che non servono più. La vecchia società capitalistica è stata ristabilita, un nuovo e terribile dispotismo comprime e sfrutta l'uomo con tutta l'abietta e squallida mentalità del servaggio.
La «rivoluzione proletaria», dopo aver trionfato, s'addomesticò e patteggiò con l'iniquità, e lo fa tutt'ora; e coloro che il fermento rivoluzionario anima ancora, coloro che considerano come compromessi tutte quelle successive concessioni, sono disprezzati o soppressi, in ogni caso considerati «deviazionisti, revisionisti, controrivoluzionari». Ma, parliamoci chiaro, non sarebbe meglio smettere di giocare sulle parole e riconoscere che lo spirito rivoluzionario nella fede comunista non è mai esistito e gli ultimi ed inconsistenti epigoni si traducono nel mondo attuale in vane, vacue, indefinibili manifestazioni di falsa intolleranza derivanti da fiacchi atteggiamenti d'attualità per persone «à la page» ?
Essere rivoluzionari è ben di più.
Essere rivoluzionari significa riconoscere ed ammettere «qualcosa» di metastorico e di dinamico: una concezione del mondo e della vita che ci riconduce naturalmente ad un ordine superiore di legittimità con il crisma di una funzione generale ordinatrice.
NON il verificarsi quindi di una determinata situazione storica che giustifichi un tale atteggiamento rivoluzionario, bensì aderenza a principi che non possono oggettivizzarsi in una realtà storica ma che si pongono su un piano di superiore immediatezza.
NON formule storicistico-empiriche, che condizionino epoche e tempi, princìpi e sistemi, ma visione rivoluzionaria della vita che si traduce come affermazione di vita e come negazione di qualsiasi orientamento in cui si rifletta in un qualunque modo il mito moderno del progresso con le sue fisime affrancatrici e coi suoi miraggi fascinosi di civilizzazione tecnica.
Uno che vuole una rivoluzione, la vorrà sempre.
Anche se essa divenisse abominevole ed ignobile. Ma essa è abominevole ed ignobile. Se vi fossero uomini forti, si fermerebbe questo abominio e non resterebbe che la grandezza.
Il cammino rivoluzionario, se vuole essere davvero tale, deve procedere sulla stessa strada, deve adottare metodi rivoluzionari.
La rivoluzione o è totale o non è niente.
Rivoluzione: sì, noi l'accettiamo e la vogliamo, a patto che diventi totale. Essa è il nome che prende il nostro secolo. È l'esigenza «eterna» degli uomini e non limitata a singoli popoli per singole nazioni, in singoli momenti storici.
Rivoluzione è l'ondata che si rinfrange spumeggiante, violenta e totale, sull'enorme cloaca della democrazia, di tutta la democrazia, sia su quella appoggiata dalle baionette russe che su quella prostituita all'industria capitalistica americana; su tutte le democrazie che stanno sommergendo l'Europa e facendo tramontare ogni sacra speranza.
Noi dobbiamo ritrovare il senso della vita attraverso un istante rivoluzionario. La vita è più importante che il modo di acquisirla.
Una quantità di gente, che si «guadagna» la vita non vive ma muore lentamente. Sono i becchini della nostra «civiltà», gli uomini prudenti, quelli che cercano i compromessi, i fabbricanti di danaro, «la borghesia del suolo», i defecatori, gli stercofagi. Non ci sono mai stati nella storia del mondo dei becchini così affascinanti, ed il loro fascino viene in gran parte dal fatto che essi non sanno chi sono, come del resto ignorano chi «siamo noi».
Ci definiscono dei matti, degli stravaganti, dei relitti della loro società, dei pazzi innocui che non è possibile comperare col danaro o blandire coi complimenti.
Ma verrà il giorno in cui noi, gli «uomini pericolosi», saremo uccisi o fatti re, perché verrà anche il tempo in cui non basterà amare l'Europa come uno stanco uomo d'affari ama il suo sonnellino dopo i pasti.
Potremo essere chiamati ad amarla cupamente, amaramente e follemente, odiando ed eliminando coloro che l'hanno amata meno di se stessi.