ATTUALITÀ POLITICA
1 - I rapporti franco-americani dopo il viaggio di Nixon
L'aspetto forse più interessante del viaggio di Nixon in Europa è stato
l'incontro del presidente americano col generale De Gaulle.
Fin dalle elezioni del nuovo presidente si era diffusa negli ambienti
internazionali un senso di attesa per il nuovo corso di rapporti che si sarebbe
stabilito tra gli USA e l'Europa in generale, ma con particolare riferimento
alla riapertura di un dialogo con la Francia.
Durante l'amministrazione Johnson si era infatti assistito ad un progressivo
allontanamento tra Francia e Stati Uniti; il governo francese aveva condotto a
termine il processo di sganciamento economico nei confronti degli USA ed era
passato all'offensiva in campo internazionale con iniziative indubbiamente
lesive degli interessi americani. Le prese di posizione di De Gaulle sulla
questione vietnamita, la crisi della sterlina, l'atteggiamento francese di
condanna alla politica aggressiva di Israele, la visita del presidente francese
in Canada e un certo avvicinamento nei confronti della Cina hanno costituito i
punti salienti di una azione francese tendente ad impostare una nuova tematica
nei rapporti internazionali e a rompere, o per lo meno ad incrinare seriamente
l'equilibrio imperialistico di Yalta.
Gli USA dal canto loro iniziavano una pesante manovra di isolamento nei
confronti del loro ex paese satellite, richiamando i paesi della NATO ad una
ormai largamente superata solidarietà atlantica e servendosi assiduamente della
servile collaborazione dei governi fantoccio di Londra e di Roma. L'Inghilterra
in particolar modo, frustrata nella sua vocazione imperialista
dall'inarrestabile processo di disgregazione del Commonwealth, veniva man mano a
riversare le sue ambizioni sul continente, cercando sotto la spinta degli USA di
venire ad assumere la guida dell'Europa in funzione anti-gollista, appoggiata in
questo disegno dalla politica autolesionista del nostro governo, sempre pronto
ad obbedire senza discutere agli ordini della Casa Bianca.
D'altro canto la politica gollista di apertura nei confronti dei paesi dell'est
europeo riceveva un fiero colpo dall'invasione russa della Cecoslovacchia, che
veniva a costituire una ripresa della politica dei blocchi e una riprova della
complicità russo-americana per il mantenimento a tutti i costi dell'equilibrio
di Yalta; mentre il tentativo di un dialogo con Pechino subiva una battuta di
arresto dopo i noti avvenimenti di maggio magnificati dalle fonti ufficiali
cinesi come prototipo della nuova rivoluzione e additati all'esempio degli
studenti e degli operai di tutto il mondo.
La situazione europea quindi alla vigilia del viaggio del presidente americano
presentava una Francia ormai quasi del tutto isolata dal resto dell'Europa e
impossibilitata, dopo il fallimento dell'asse Parigi-Bonn, a causa della
politica ricattatoria degli USA nei confronti della Germania, a svolgere il
ruolo di nazione guida in quel processo che avrebbe dovuto portare
all'indipendenza dell'Europa; travagliata dallo spettro di una crisi economica
susseguente alle rivolte di maggio e agli sforzi per la costruzione di una
economia indipendente.
Nixon si trovava quindi di fronte ad una situazione ideale per intavolare un
nuovo discorso con De Gaulle, discorso, stando alle indiscrezioni di osservatori
internazionali di ambienti qualificati, già avviato prima dell'effettiva
elezione del presidente americano, che fu del resto salutata con un certo
entusiasmo da parte del governo francese.
Al di là dei sorrisi, dei discorsi e degli ottimistici quanto nebulosi
comunicati ufficiali, l'incontro Nixon-De Gaulle ha fatto intravedere punti di
indiscutibile interesse e assolutamente essenziali per una valutazione di quello
che sarà il prossimo futuro dell'Europa.
Innanzi tutto un atteggiamento è mutato; non più polemiche e ritorsioni, ma un
effettivo incontro sulla base di un dialogo comune. Gli USA hanno mostrato di
voler prendere in considerazione la Francia come grande potenza, considerata
però avulsa dal resto dell'Europa, che continua ad esercitare il suo ruolo di
provincia. Questa presa di posizione appare ad un attento osservatore la logica
conseguenza della politica americana in Europa; una volta isolata la Francia,
una volta allontanata la possibilità che l'esempio gollista potesse essere
seguito da altre nazioni europee con grave pregiudizio per la stabilità
dell'impero americano, appare abbastanza logico che da parte degli USA si prenda
ora atto di una realtà francese.
* * *
In questo disegno, senza alcun dubbio, la politica americana è stata favorita
dalla complessa e contraddittoria figura del Generale. De Gaulle è stato e resta
un buon nazionalista francese, la sua politica europeista non è stata mai frutto
di una reale visione politica ed ideologica del problema, ma è stata di volta in
volta determinata da una serie di atteggiamenti e di prese di posizione
contingenti alla situazione della Francia innanzi tutto e che in modo solo
accessorio riguardava la questione dell'indipendenza europea. Il nazionalismo
ottocentesco di De Gaulle non poteva certo resistere alle lusinghe del
riconoscimento della Francia come grande potenza.
La Francia viene così ad acquistare quella posizione di prestigio internazionale
che inseguiva da quando era stata esclusa dai colloqui di Yalta.
L'accettazione da parte di Nixon del piano francese dell'incontro a quattro
(appunto USA, URSS, Inghilterra e Francia) per dirimere le controversie nel
Medio Oriente, costituisce una prova lampante di questa nuova realtà
internazionale che è sorta storicamente col viaggio di Nixon in Europa.
La Francia dal canto suo, mostrandosi paga del riconquistato prestigio
internazionale, si accinge ad assumere un atteggiamento più accomodante nei
confronti della politica americana. De Gaulle rinuncia a mettere in liquidazione
la NATO; cade così la speranza di un'alleanza intereuropea, presupposto logico
ed ineliminabile in vista di una effettiva unificazione e si sancisce lo stato
egemonico degli Stati Uniti nei confronti dell'Europa. Nixon dal canto suo
promette aiuti alla Francia per fronteggiare la crisi economica. L'Europa ha
perso l'ennesima battaglia, ma l'onore della Francia è salvo. Il vecchio
nazionalismo francese getta dunque la maschera europeista.
* * *
Prima di dare l'agenzia alle stampe apprendiamo la sconfitta del generale De
Gaulle nel referendum del 27 aprile. Quanto abbiamo detto in precedenza viene
ora confermato da questo clamoroso colpo di scena. Appare chiaro che a questo
punto il processo involutivo della politica francese in senso nazionalista e
filo-occidentale viene ad essere accelerato sensibilmente. Ci sembra alquanto
prematuro fare delle supposizioni sul futuro della politica francese, ma
comunque all'analisi del voto una cosa appare certa; De Gaulle non è certo stato
sconfitto dalle sinistre, che sono state colte alla sprovvista da un risultato
del tutto inaspettato, ma dagli stessi gollisti. Il voto dei bravi borghesi, dei
benpensanti, della destra economica, degli ambienti capitalistici, di quelli
stessi insomma che, in preda alla paura, avevano espresso una fiducia
plebiscitaria a De Gaulle, costringe ora il generale al ritiro. L'ombra di
Pompidou si profila dietro la sconfitta del presidente francese; espressione
della destra economica, legata agli ambienti del grande capitale internazionale,
l'ex primo ministro ci appare come il vincitore. De Gaulle aveva allontanato
Pompidou proprio per l'opposizione di quest'ultimo alle riforme istituzionali e
sociali che il generale voleva portate avanti; i Francesi dicendo no alle
riforme hanno praticamente detto si all'ex primo ministro.
Così si chiude un capitolo che aveva visto il sorgere delle speranze di quanti
credevano che la azione del Generale potesse spezzare le catene di Yalta e
preparare la strada al sorgere di una realtà europea. Ma ancora una volta le
forze del sistema hanno avuto la meglio, la via resta così finalmente aperta
all'Europa dei formaggi.
2 - Il Movimento Studentesco un anno dopo
Iniziato come fenomeno rivendicativo delle esigenze del mondo universitario, il
Movimento Studentesco ha acquistato sempre più la caratteristica di fenomeno
politico; ancora di più ha dato alla «contestazione» spazio e dimensione
politica che fino ad allora non esistevano.
Il suo agire inizia con quello che si potrebbe definire un vero atto
«rivoluzionario», la sparizione cioè degli organismi rappresentativi, vale a
dire la cacciata della lunga mano del sistema dall'Università.
È questo fatto che fa trovare al MS adepti da ogni parte politica, facendo
ritrovare insieme, spalla a spalla, mentalità che fino a quel momento,
inquadrate nella logica del sistema, erano agli antipodi.
Stare nel MS significava finalmente poter combattere contro il sistema,
contribuire a creare quella corrente politica capace di denunciare la
oppressione sovietico-americana sull'Europa.
All'OR viene sostituita l'Assemblea di Base, da cui si trae legalità e
indicazione politica. In un primo momento l'AdB non è altro che una valvola di
sfogo degli studenti, i quali, per la prima volta, hanno almeno l'illusione di
trattare personalmente i propri problemi, poi, ottenute le proprie concessioni
l'AdB si trasforma, diviene luogo d'incontro di tutti i gruppi che via via sono
andati formandosi. Il processo di rivolta spontaneo è già terminato. Il MS
risultante di tutti questi gruppi, trova le sue prime difficoltà. Gli esponenti
più qualificati cercano, o ricercano, i loro agganci col PCI, la logica ferrea
ed asfissiante dei singoli gruppi (tutti di chiara ispirazione marx-leninista,
maoista, castrista, ecc.) inquadra ed isola in compartimenti stagni tutto il MS,
praticamente lo svuotano.
Rimane in comune fra tutti l'analisi della società secondo la logica marxiana.
In poche parole, non esiste più un momento creativo, tutto è in funzione del
dogma, ormai accettato, che porta a cercare la spinta rivoluzionaria in quella
classe proletaria che la rifiuta in modo categorico e definitivo.
È il fallimento rivoluzionario del MS.
Le sue riunioni si trasformano in palestre di speculazione intellettuale,
sull'interpretazione esatta della logica marx-leninista, il suo agire,
imbrigliato da questa logica, non trova la via rivoluzionaria, che evidentemente
non passa per le classi, le quali ogni giorno di più mostrano essere le
strutture prime del sistema, e che quindi ogni giorno di più lo difendono.
Da tutto ciò si debbono trarre le ovvie conseguenze; il MS non è più in grado di
portare avanti un discorso rivoluzionario, impantanato com'è nelle sue chimere
proletarie, al di fuori di ogni realtà e figlie di una mentalità
proletario-borghese. Non ci si può, non ci si deve aspettare dalle classi quella
spinta rivoluzionaria che in loro muore al primo aumento salariale, non si può,
non ci si deve aspettare dall'uomo integrato la capacità rivoluzionaria, che
solo l'uomo integrale, l'uomo dello spirito, può dare.
È a questo punto che chiunque creda in una possibilità di rivoluzione europea,
deve rompere gli indugi, guardare la realtà in faccia e fare la propria scelta,
scelta che trova di fronte a sé il falso dilemma dello stato democratico
borghese e della rivoluzione marx-leninista.
E i primi fermenti in questo senso hanno preso consistenza a Roma, dove le
ultime agitazioni sono state portate avanti solo in conseguenza della attività
dei gruppi, che liberi da ogni ipoteca dogmatica, e animati da spirito
rivoluzionario, intravedendo nel piano Sullo uno strumento riformatore, lo
avevano denunciato con l'evidente intenzione di radicalizzare nella lotta al
sistema tutto il mondo universitario. E nel momento particolare, il MS viene
clamorosamente a mancare, e non certo per deficienza organizzativa o per suo
esaurimento, ma a causa di una ben precisa volontà politica, dimostrante
l'indisponibilità a sinistra di una forza, ormai completamente strumentalizzata
dal PCI.
Infatti non è mistero per nessuno come il piano di riforma Sullo godesse del
benevole occhio dell'estrema sinistra parlamentare, e anzi fosse da questa
caldeggiato. Da qui l'atteggiamento del MS che ben si è guardato
dall'intervenire nelle agitazioni, facendolo solo dopo circa quaranta giorni che
la Facoltà di Legge era occupata, nel timore di essere conseguentemente
scavalcato dai nuovi fermenti che da tale facoltà si erano diffusi per tutta
l'Università. Inoltre intervenne con rivendicazioni che chiaramente indicavano
la volontà di aggirare l'ostacolo del piano Sullo, quali l'adozione del voto
unico.
Ancor di più con la venuta a Roma di Nixon, il MS si accodava e dava ossigeno
alle manifestazioni del PCI, approfittando delle agitazioni studentesche e
strumentalizzandole, tant'è che alla partenza di Nixon, tutto è terminato,
agitazioni, rivendicazioni del voto unico e, men che meno, opposizione al piano
Sullo.
POLITICA ESTERA
3 - L'ascesa della Cina
Improvvisamente all'alba del 2 marzo, l'opinione pubblica di tutto il mondo
veniva informata di gravi scontri a fuoco avvenuti durante la notte alla
frontiera russo-cinese sul fiume Ussuri. La causa di questi scontri era la
controversia da tempo esistente tra Russia e Cina per l'isola di Damanski (per i
Russi) o di Chen-Pao (per i Cinesi).
Ma perché tale controversia si è manifestata così evidente solo ora, e al punto
da dar luogo a vere e proprie battaglie?
Perché poi i Russi si sono affrettati ad informare, o meglio a cercare di
convincere, l'opinione pubbliche mondiale che la colpa degli incidenti è stata
dei Cinesi e che questi stavano per preparare «una terza guerra mondiale»?
("Tempi Nuovi")
Ad una attenta analisi della situazione non sfugge il fatto che a provocare gli
incidenti siano stati i Russi, i quali tentano così di serrare le file in un
momento di sbandamento dei PC e di uscire da una situazione assai critica come
quella cecoslovacca.
È indubbio che, dopo le ultime vicende politiche in Cecoslovacchia, alla Russia
come «stato guida» ci crede solo Gomulka, mentre il resto dei capi dei PC o ha
espresso il proprio dissenso, o ha approvato il fatto a denti stretti. In tale
situazione gli incidenti sull'Ussuri servono all'Unione Sovietica in funzione
della conferenza mondiale dei PC fissata per il 5 giugno a Mosca.
Sbandierando il «pericolo giallo» e cercando di far condannare ufficialmente
«l'eresia» cinese l'URSS tenta di riaffermarsi come «stato guida», affermando in
proposito la teoria di Breznev della «sovranità limitata» o «diritto di
intervento» «là dove gli interessi del PC al potere sono minacciati», quindi per
«rafforzare la comprensione reciproca tra i PC» ("Sovietskaia Rossia" del 2
marzo) in un momento di «gravi difficoltà intestine» ("Iszvestia" 2 marzo).
A questo proposito l'Unione Sovietica ha tentato a più riprese di accattivarsi
le simpatie dell'occidente evitando i consueti attacchi alla Francia e in
particolar modo alla Germania, contro la quale li riserva quando, sempre per
tenere uniti i suoi satelliti, deve sbandierare il «pericolo tedesco».
I politici del Cremlino si sono accorti della crisi non solo del movimento
comunista internazionale, il quale sta assumendo qua e là, sempre di più, tinte
nazionaliste, ma anche della così detta «politica dei blocchi», e tentano
quindi, con il tacito consenso degli USA, di rafforzare il blocco comunista,
sempre beninteso in funzione «antimperialista».
Rientra quindi perfettamente nella loro strategia, il fatto che i Russi diano la
massima importanza alla conferenza mondiale e cerchino tutti i modi possibili
per arrivarci padroni assoluti, con tutti i PC perfettamente allineati o quasi.
La proposta di inviare truppe del patto di Varsavia ai confini cinesi, la visita
a Mosca di Manescu, ministro degli esteri romeno, la destituzione di Dubcek sono
da inquadrarsi in questa strategia, mentre la costituzione del PC cinese in
esilio anti-maoista dovrebbe sigillare la condanna dello «scisma» cinese.
Che i Russi riescano o no nel loro intento è cosa prematura affermarla; ad ogni
modo si può sostenere fin da ora che la conferenza mondiale anche se sancirà
ufficialmente l'unione dei PC «fratelli», lascerà dietro di sé una serie di
dissidi e di polemiche da essere sempre le cause di future rotture.
Infatti il modo banale con cui l'Unione Sovietica ha presentato il «pericolo
giallo» e le caute reazioni di Pechino alle provocazioni sovietiche hanno
certamente contribuito a rafforzare le posizioni cinesi e a mettere in ridicolo
quelle sovietiche.
Alla idea di un nuovo Tamerlano lanciato con le sue orde gialle alla conquista
dell'Asia e dell'Europa non ci ha creduto nessuno.
La Romania infatti molto probabilmente non accetterà di condannare la Cina,
mentre dal canto suo la Lega dei comunisti jugoslavi, in un recente convegno ha
affermato l'assoluta autonomia dei singoli PC da Mosca.
Solo il PCI continua a mantenere una posizione ambigua, di critica sia dell'URSS
che della Cina; posizione dettata da ovvi motivi di politica interna secondo la
quale, se da una parte cerca di evitare una rottura con la Russia per non
rimanere isolato anche in campo internazionale, dall'altra si presta sempre di
più ai gruppi di pressione radicali di sinistra sostenenti il "Partito unico dei
lavoratori", cioè l'unità delle sinistre. Ne sono una prova le recenti posizioni
di Longo di condanna e di superamento della politica dei blocchi, ovviamente a
fini distensivi, i dissensi espressi dal PCI nei confronti dell'Unione Sovietica
in occasione degli avvenimenti cecoslovacchi e in ultimo le critiche di Galluzzi
e di Boffa su "l'Unità" agli incidenti di frontiera; critiche aspramente
condannate dalla "Prava".
La Cina è quindi la spina nel fianco dei dirigenti del Cremlino, i quali tentano
così di accentuarne l'isolamento e di impedirne l'ascesa sul campo politico
internazionale. Nell'esprimere i nostri dubbi in proposito, riteniamo opportuno
occuparci degli ultimi avvenimenti in Cina come dimostrazione delle nostre
affermazioni.
Il modo con cui i dirigenti di Pechino hanno respinto le provocazioni dei «nuovi
Zar», (continui riferimenti storici sulle frontiere) ha contribuito enormemente
a mettere la Cina sotto una luce diversa da quella degli anni passati, cioè di
una tigre pronta a mangiarsi tutta l'Asia, e ha mostrato invece un paese che,
superate le vicissitudini interne, si appresta ad uscire dall'isolamento in cui
è stato costretto, per affacciarsi sulla scena politica mondiale. È ovvio che
ciò debba venire a discapito non solo della Russia ma anche degli USA, in quanto
lo spazio politico ed economico risulta oggi giorno tutto occupato dalle due
superpotenze.
Ecco perché l'Unione Sovietica si è affrettata a condannare, definendolo
«Congresso dell'eresia», il IX Congresso del PCC del 1° aprile, il quale nel
sancire la fine della «rivoluzione culturale» e la definitiva vittoria di Mao
Tze Tung, mette la Cina nelle condizioni di iniziare la battaglia di scalzamento
delle posizioni che i sovietici hanno raggiunto per isolarla (trattati con
l'India, il Giappone, Formosa e in ultimo il Vietnam del nord è caduto
completamente nelle mani dell'Unione Sovietica).
A questo proposito la Cina ha delle formidabili armi per attaccare la Russia e
renderla ridicola agli occhi dell'opinione pubblica mondiale: la denuncia della
santa alleanza esistente tra USA e URSS, di cui i negoziati di Parigi sul
Vietnam ne sono la dimostrazione, l'invasione della Cecoslovacchia, la teoria di
Breznev; armi queste che contribuiscono ad incrinare lo schieramento sovietico.
Ecco perché la Cina ha recentemente espresso l'augurio che l'unificazione
europea avvenga il più presto possibile, in quanto una simile Europa, a suo
giudizio, sarebbe in grado di attirare anche alcuni paesi del blocco sovietico
(Romania, Jugoslavia), e per potere stringere con essa rapporti politici e
commerciali.
Le affermazioni cinesi vengono a proposito, e dimostrano in definitiva un
vecchio discorso che noi affermiamo da tempo; che cioè Europa e Cina hanno gli
stessi interessi e che le loro fortune esistono solo al di fuori delle «sfere di
influenza», sancite dal famigerato trattato di Yalta.
In questo quadro si inserisce la strategia dei circoli e dei gruppi politici di
sinistra radicale, che trovano in Edward Kennedy la loro nuova tromba ufficiale,
i quali volendo il riconoscimento della Cina per stringere con essa rapporti
commerciali, tentano, accettandola all'ONU, di inserirla completamente nel
complicato gioco del «sistema» politico internazionale, trasformandolo così da
bipolare a tripolare. Si vedano in proposito i tentativi di stringere rapporti
commerciali con la Cina, anche se dettati da motivi differenti, del Canada,
dell'Italia (ENI-FIAT), della Germania, del Giappone.
Questo disegno oltre che del criminoso ha del subdolo: criminoso in quanto
avvenendo in chiave distensiva non altera minimamente l'«ordine» di Yalta,
escludendo ovviamente l'Europa che rimarrebbe sotto le sfere di influenza;
subdolo, in quanto inglobando la Cina nella logica dell'ONU, si vuole spegnerne
ogni fiammata rivoluzionaria.
In sostanza le divergenze esistenti tra Nixon e Edward Kennedy non sono
divergenze di fondo, sostanziali, ma due modi di portare avanti il processo
distensivo, che dimostrano in definitiva che sia gli USA che l'URSS sono per il
mantenimento dello status quo, e che attualmente stanno attuando una politica di
rilancio dei «blocchi».
Gli accordi USA-URSS per il Vietnam, gli accordi per il Medio Oriente, il
viaggio di Nixon in Europa, i Russi in Cecoslovacchia, il rinnovo della NATO e
il rafforzamento del Patto di Varsavia, sono le prove del nostro discorso.
4 - Cecoslovacchia: un destino si compie
La cosiddetta «primavera di Praga» fece versare fiumi d'inchiostro ai nostri
rotocalchi le cui pagine invece che delle consuete foto di attori e reali,
furono occupate da articoli sul «buon» Dubcek ed il «cattivo» Novotny. Gli
elzeviri della stampa nostrana corrispondevano, però, assai poco all'effettiva
realtà dei fatti, in quanto partivano da un errore di fondo. Si diceva, infatti,
che ciò che era stato richiesto era stato ottenuto. Invece al posto di Cisar che
gli studenti, punta di diamante delle manifestazioni, indicavano nelle piazze e
nelle assemblee, era venuto Dubcek. uno dei fedeli di Mosca, anche se questo non
appariva nelle agiografie ufficiali.
Divenuto segretario del Partito Comunista, Dubcek iniziò a condurre contro
Novotny una campagna la cui durezza è paragonabile a quella condotta da Mao nei
riguardi di Liu Sciao Sci cosa che non avrebbe certo potuto fare senza il
benestare di Mosca. Il 22 marzo 1968 Novotny dette le dimissioni, e con esse
potè considerarsi concluso il dissidio all'interno del Partito Comunista.
Sorgeva una domanda: Dubcek era un nuovo Gomulka od un nuovo Nagy?
Il dissidio che esisteva, in misura più o meno grande, fra il Partito e
l'opinione Pubblica venne a cadere, perché, in apparenza, il nuovo gruppo
dirigente fece sue alcune rivendicazioni dell'opposizione intellettuale. La
situazione, però, nel frattempo era andata mutandosi; i cecoslovacchi avevano
assaporato il gusto della autonomia e intendevano andare avanti sulla strada che
avevano imboccato. La protesta sfuggì dalle mani degli «apprendisti stregoni»
che le avevano dato, troppo incautamente, il «la». Diveniva sempre più difficile
per il nuovo gruppo dirigente continuare ad incanalare e controllare i fermenti
che esso stesso aveva destato.
Nelle assemblee studentesche si chiedevano libere elezioni, in alcune fabbriche
si chiedeva lo sganciamento dei sindacati dalla pesante tutela del Partito
Comunista, forme di arte in contrasto con la noiosa ortodossia marxista, come il
jazz e la pittura astratta uscivano prepotentemente dalla semiclandestinità cui
le aveva, fino ad allora, relegate lo zdanovianesimo in ritardo dei tempi di
Novotny. Si ponevano in discussione tutte le basi del sistema che da 20 anni
vigeva in Cecoslovacchia.
L'URSS aveva taciuto su quello che avveniva in Cecoslovacchia, ma quando le cose
giunsero ad un punto tale che per Dubcek divenne impossibile controllarle, i
carri armati si assunsero il compito di «normalizzare» la situazione. Dubcek
dimostrò di essere un secondo Gomulka e volò a Mosca per perorare non già la
causa del suo popolo, bensì la propria, assicurando che se gli avessero lasciato
il posto, avrebbe potuto ancora salvare la situazione. Fu questo il vero motivo
per cui i Russi non accettarono i vari personaggi che si erano offerti di
prendere in mano la situazione, e non, come sostenne stupidamente per un certo
tempo la stampa benpensante occidentale, per il fatto che non ne aveva trovati.
L'esercito cecoslovacco, indubbiamente il migliore tra tutti quelli del Patto di
Varsavia dopo quello russo, non sparò un solo colpo di fucile e rimase
consegnato in caserma; del resto il comandante supremo è Svoboda, che, in
qualità di Capo di Stato maggiore dell'esercito, avallò, col suo ambiguo
comportamento, il colpo di stato del 1948. Gli unici che fecero qualche
tentativo di resistenza furono gli ignoti marescialli di fureria che provvidero
a distribuire ai giovani cecoslovacchi il materiale per costituire le patetiche
«stazioni radio» volanti che per qualche giorno caratterizzarono la resistenza
passiva del popolo.
Dopo il colpo di mano, che aveva trovato i capi cecoslovacchi né impreparati né
ostili, il Partito Comunista, che nelle caotiche e semiclandestine riunioni nei
giorni cruciali dell'invasione aveva mostrato il suo pavido volto rinunciatario
e servile, si divise in due fazioni: i «collaborazionisti» di Husak,
prevalentemente slovacchi, e i cripto-collaborazionisti. Con tale manovra i
sovietici ottennero che la fazione antirussa (piuttosto forte alla base)
rimanesse nel Partito coi dirigenti «buoni» in modo da poterla più agevolmente
controllare.
Dall'altra parte Husak avrebbe controllato la corrente filo-sovietica, che
sembra rappresenti, a detta di numerosi cecoslovacchi esuli, circa il 10 -15 per
cento degli iscritti al partito.
L'ultimo atto si è concluso recentemente. Spremuto fino all'ultima stilla, dopo
averne sfruttato fino all'ultimo la popolarità invero assai immeritata, la
Russia ha gettato Dubcek nella spazzatura. Più furbo, più cauto di lui, forse
anche per la sua posizione politica, Svoboda ha «preso atto» con «rammarico»
della «spontanea» decisione di Dubcek di lasciare il suo incarico, e si è
affrettato a tributare l'omaggio suo personale e quello del popolo tutto al
nuovo viceré, Husak, che ha dalla sua la compattezza e la fierezza degli
Slovacchi, popolo che forse a ragione si ritiene assai migliore di quello boemo.
La figura di Dubcek esce dall'intera vicenda quanto mai sporcata. Fino
all'ultimo egli si è prestato all'indegno gioco dei suoi padroni, senza mai
trovare un po' di fierezza, di dignità, di coerenza col mito che un popolo in
cerca disperatamente di un ideale, ne aveva fatto. Superato il momento più
difficile, il Kremlino lo ha rimpiazzato con un uomo, che, almeno, ha parlato
chiaro. Restano alcuni interrogativi che investono, almeno in parte, il futuro;
come, per esempio, se esistessero, e tuttora esistono, gruppi di opposizione
organizzati e, in caso affermativo, cosa potrebbero fare a scadenze più o meno
lunghe? È difficile poter affermare l'esistenza di gruppi organizzati di
opposizione non solo a determinate persone, ma anche al regime. C'erano e ci
sono, indubbiamente, fra gli studenti, gli intellettuali, la parte più evoluta
degli operai, elementi sensibili ad una protesta che, travalicando gli angusti
limiti di una lotta all'interno del Partito Comunista, giungesse
all'affermazione della nazione e della sua indipendenza nel campo economico,
culturale e, per i più decisi, anche politico. Ma è difficile affermare che
abbiano dato vita ad un movimento organizzato, sia pure in maniera embrionale.
La lotta, cioè, rimase sul piano del singolo, o al massimo, della categoria. Non
si venne ad avere un collegamento fra gli elementi più sensibili degli studenti,
degli operai, degli intellettuali e dei militari. Se questo collegamento fosse
esistito, avremmo assistito veramente ad un fenomeno rivoluzionario che avrebbe
presto o tardi coinvolto tutto il fatiscente sistema di Yalta.
DOCUMENTAZIONE
5 - Documento dei gruppi di opposizione studentesca ed extraparlamentare
Su iniziativa del Movimento Studentesco di Giurisprudenza di Roma è stato
convocato un convegno nazionale al quale hanno partecipato vari gruppi di
ispirazione rivoluzionaria non marxista.
Lo scopo del convegno è stato quello di stabilire una comune piattaforma
programmatica, politica ed organizzativa; piattaforma che dovrebbe servire, come
informano qualificati esponenti e delegati del convegno, a stabilire le linee
essenziali di una azione politica unitaria sfociante in uno strumento politico
di lotta al sistema democratico parlamentare che con la sua impostazione
sociale, ideologica e politica continua a creare sempre più individui alienati.
Il convegno, che ha visto la partecipazione anche di redattori di
"Corrispondenza Repubblicana", ha raggiunto il successo che si era prefissato e
si è concluso con la stesura di un documento unitario elaborato dalle tre
commissioni:
1°) Partecipazione
2°) Lotta di Popolo
3°) Europa,
nominate nel corso dei lavori.
Condividendone interamente il contenuto pubblichiamo di seguito il documento
finale stesso.
Dal 1° al 4° maggio 1969 si è tenuta, presso l'Università di Roma, la prima
Assemblea Nazionale dei Gruppi di Opposizione Studentesca ed Extraparlamentare
che operano da più anni nel mondo politico giovanile al di fuori e contro il
sistema.
All'Assemblea hanno partecipato rappresentanti dei Movimenti Studenteschi
Europei di Messina, Palermo, Firenze, Reggio Calabria; del Gruppo di intervento
Politico di Trento, delle Leghe Studentesche e Operaie di Milano e di Torino;
infine del Movimento Studentesco di Giurisprudenza di Roma.
I temi discussi sono stati:
a) Alienazione nella civiltà economica e alternative;
b) Imperialismo e alternative;
c) Tempi e metodi di lotta.
I lavori dell'Assemblea si sono conclusi con il seguente documento unitario
finale, il quale è da vedersi come piattaforma programmatica da sviluppare e da
approfondire, e in questo senso va considerata la sua voluta schematicità.
* * *
I prodotti del «sistema» sono gli uomini alienati. Il sistema va inteso come
blocco unico anche se mostrante diverse facce apparentemente antitetiche quali:
individualismo-collettivismo, capitalismo-comunismo, liberalismo-marxismo,
nazionalismo-internazionalismo, democrazia-dittatura, clericalismo-laicismo,
ecc.
L'alienazione consiste nella perdita della propria specificità e creatività.
L'alienato è colui che si è perduto nel danaro, nel lavoro, nella società, ecc.
L'alienazione è prodotta dalla unilateralità del sistema ove tutto viene
valutato per tutti con parametri economici, creando una frattura verticale negli
uomini.
Ne consegue la necessità di una rivoluzione totale.
La rivoluzione totale ha come fine la disalienazione degli uomini.
Le fasi del processo disalienante sono:
a) presa di coscienza delle strutture repressive imposte dal sistema;
b) creazione dei quadri della avanguardia rivoluzionaria;
c) partecipazione alla lotta rivoluzionaria.
L'Europa va quindi considerata come:
a) momento e centro di lotta contro gli imperialismi e gli economicismi;
b) realizzazione della «Cultura» in antitesi alla «Civiltà» dei consumi;
c) unità politica centrale;
d) denuncia degli accordi di Yalta e degli strumenti che perpetuano il
colonialismo politico, economico, culturale e militare nato a Yalta;
e) progetto nel futuro (rivoluzione permanente).
L'unificazione e la liberazione dell'Europa, inoltre, è assolutamente necessaria
per la sopravvivenza dell'Europa stessa.
L'Europa viene edificata con la lotta di popolo, iniziata dall'avanguardia
rivoluzionaria.
Il Popolo è costituito da tutti gli uomini che hanno iniziato il processo
disalienante. Il Popolo, quindi, non è definito da un qualsivoglia rapporto
economico. È al Popolo che l'avanguardia rivoluzionaria rivolge il proprio
discorso. L'avanguardia rivoluzionaria sono le persone in fase di disalienazione
avanzata.
La costruzione dell'Europa è parallela alle lotte dei popoli oppressi di tutto
il mondo in cerca della propria dimensione politica e culturale.
Essendo essenziale alla lotta di popolo lo strumento politico -il Partito- si
deve procedere alla sua costituzione.
I Gruppi di Opposizione Studentesca ed Extraparlamentare riuniti in Assemblea
Nazionale presso il Teatro Ateneo nei giorni 1, 2, 3, 4 maggio 1969
Ce n'est qu'en debut, continuons le combat
SAGGISTICA
6 - Il colonialismo militare USA
È mentalità assai diffusa negli ambienti benpensanti europei, che la differenza
sostanziale tra il dominio USA sull'Europa occidentale e quello sovietico
sull'Europa orientale, consista nell'assenza, da parte americana, della
brutalità dell'occupazione militare. Tuttavia l'aspetto militare del
colonialismo americano non è meno rilevante di quello economico, sociologico e
politico.
Esso non si impernia tanto sulla presenza delle forze armate statunitensi sul
territorio europeo, quanto piuttosto sulla politica economico-militare che gli
USA conducono nei confronti dei paesi dell'alleanza atlantica. Tale politica si
basa su due canoni fondamentali:
1) tenere costantemente in una situazione di marasma le forze armate e le
risorse belliche dei paesi «alleati»;
2) impedire il sorgere di industrie militari nazionali di capacità competitiva.
Naturalmente, l'origine di tutto ciò va ricercata nell'accordo di Yalta, che da
un lato pone come fine della politica dei blocchi la spartizione del mondo, e
dall'altro ne fornisce il mezzo concreto, cioè il patto tacito di non
aggressione reciproca fra Russia e Stati Uniti che rende da entrambe le parti
inutili forze armate veramente efficienti in territorio europeo.
È questo il motivo che appare chiaramente a chi esamini la dislocazione delle
forze militari dei due grandi, nel mondo; ci si accorgerà pertanto che le
divisioni più efficienti della Russia non sono quelle riunite nell'«Alto Comando
del Danubio», bensì quelle del V e VI Fronte (di stanza a Taschkent e a
Chabarowsk) e dell'Armata per sbarchi verticali, in chiara funzione anticinese,
e che in un prossimo futuro gli USA ridurranno ulteriormente le loro truppe
stanziate in Europa (225.000 uomini) per fare economia.
La riprova più recente, più dolorosamente fresca nella nostra memoria, l'abbiamo
avuta nello agosto del '68, con l'invasione russa a Praga; infatti, gli
americani, per evitare reazioni premature da parte dei governi occidentali,
hanno tenuto nascosta la notizia, che essi, come del resto Dubcek, già
conoscevano con notevole anticipo, impedendo perfino al sistema di avvistamento
elettronico installato in Germania Occidentale (e collegato al sistema americano
del NADGE) di «registrare» le segnalazioni radar che provenivano da Praga
invasa.
Ciò dimostra chiaramente due cose; primo, che gli americani ed i sovietici hanno
tutto l'interesse a collaborare; secondo, che entrambi debbono tenere i paesi
loro vassalli in un continuo stato di inferiorità che impedisca il sorgere delle
premesse militari per la riunificazione europea.
Strumenti di questa politica sono principalmente i due sistemi di alleanze, la
NATO ed il Patto di Varsavia, accompagnati da una tremenda guerra psicologica
che incessantemente drizza alle menti dei dirigenti europei, da un lato il
«pericolo bolscevico» e dall'altro il «pericolo del revanscimo tedesco»
(argomento assai convincente per Polonia e Cecoslovacchia).
La cosa che essi temono maggiormente, è il formarsi di una forza autonoma
europea. Per impedire questo, sono disposti a ricorrere ad ogni mezzo a loro
disposizione, di qualunque natura. A questo proposito, un esempio da meditare fu
quello del Vietnam. Il presunto «dittatore» Diem fu assassinato da John Kennedy
proprio, perché era riuscito a non aver bisogno degli USA, proprio perché era
pronto una volta liquidati i Vietcong, ad indicare agli americani la porta di
casa. L'America ha preferito assumersi una guerra tremenda, destinata a
concludersi con una vergognosa sconfitta morale e politica, pur di non creare
precedenti di indipendenza ed autogoverno! Più recentemente, quando la Francia
di De Gaulle ha avuto il coraggio di uscire dall'OTAN e di ristrutturare le sue
forze armate secondo criteri nuovi e rivoluzionari, la reazione americana è
stata naturalmente meno appariscente ma anch'essa pesante: il tentativo (fallito
miseramente) della MLF (Multi Lateral Force), le manovre economiche e politiche
miranti a far precipitare la Francia nel caos e di staccarle col ricatto la
Germania, cercando nel contempo di riagganciarla al programma di Yalta facendo
leva sul sentimento gollista della «grandeur», dimostrano ampiamente quanto
forte possa essere la reazione del nostro despota ad ogni ribellione dei
sudditi.
Questa politica di costante indebolimento della potenzialità militare dei paesi
«alleati» da parte del Governo americano, è assecondata magnificamente dalle
industrie produttrici di materiale bellico, che in USA sono all'avanguardia
tecnica e scientifica, grazie alla larghezza con cui il Pentagono commissiona le
armi. Gli USA spendono molto per la difesa; nel 1956 il 50% del bilancio, cioè
56 miliardi di dollari; nel 1967, 73,1 miliardi! Pure le enormi cifre non
basterebbero a coprire gli acquisti che le forze armate USA effettuato senza il
concorso coatto degli «alleati». Accade infatti che grazie ai trattati di
sudditanza esistenti (recentissimo il TNP), e al metodico controllo delle
industrie pesanti nazionali operato dopo la guerra dagli Stati Uniti, i paesi
europei sono costretti a comperare quasi come nuovi i «ferri vecchi» americani,
cioè quelle armi che non sono più giudicate di prima qualità. Grazie a tale
sistema, l'industria bellica USA può recuperare interamente i costi, e praticare
in tal modo prezzi di favore alle forze armate del loro paese, realizzando nel
contempo il risultato di vincolare i paesi alleati al sistema di cui fanno
parte, per via della fornitura di parti di ricambio. Non dissimile da questo
sistema è quello delle cd. «costruzioni su licenza», per cui, in cambio di
concessioni di ordine economico e politico fatte dagli stati alleati,
l'industria bellica americana concede la licenza di costruire armi o parti di
ricambio di progettazione USA alle industrie locali; non si crea così una vera
autonomia, perché si vincolano per anni e anni le industrie ad una produzione
spesso superata dalla rapida obsolescenza tecnica impedendo loro di sviluppare
progettazioni nazionali.
Questo sistema consente anche manovre di carattere finanziario, per esportare la
crisi economica che periodicamente travaglia il mercato americano e
riequilibrarlo: John Kennedy, per salvare il dollaro, riuscì negli anni 1965-66,
a imporre ai paesi alleati l'acquisto di un gran numero di armi (carri M. 60A1 e
aerei F. 104G) pagate in valuta pregiata, che rivalutò la bilancia dei pagamenti
americana.
Circa la dimensione di questo fenomeno, possiamo riferire la testimonianza del
sottosegretario alla Difesa USA, Henry J. Kuss, il quale dichiarò nel 1966, che
nel solo ultimo quadriennio le operazioni e gli ordini di armi americane avevano
superato i 9 miliardi di dollari. Tale somma corrisponde a quella che grosso
modo gli USA spesero nel 1966 per il mantenimento delle truppe nei paesi alleati
(NATO, CENTO, SEATO). Nel 1966 gli USA spesero 57 miliardi di dollari per la
difesa, e il complesso dei suoi alleati ne spese 25,3 (4,5 la Francia; 8,9 i
cinque paesi del Commonwealt; 9,4 i dieci alleati europei; 2,5 i dieci alleati
asiatici). Come si vede, le cifre parlano chiaro.
Fatte queste premesse di carattere generale, che inquadrano a grandi linee il
problema, passiamo ad esaminare un esempio concreto.
Il caso dell'Italia
Nel 1949, quando, dopo la firma del Patto Atlantico, si iniziò il PAM (programma
di aiuti militari ai paesi europei), il nostro paese era ridotto a terra, e
dallo sfacelo materiale e morale seguito alla sconfitta, e dalle condizioni
capestro del Trattato di pace. Gli aiuti militari USA, di modestissima entità e
qualità più che scadente, superarono però ben presto i rigorosi limiti stabiliti
dal trattato; e a giustificare la nuova situazione si escogitò il cavillo
giuridico di considerare «non nazionale» (in quanto sottoposto ai Comandi NATO
in Italia), tutto ciò che eccedeva l'entità massima concessaci dal trattato.
Col passare degli anni, industriali coraggiosi e militari appassionati si fecero
promotori della rinascita dell'industria bellica italiana. Mentre la
cantieristica riprendeva un timido sviluppo soprattutto dopo il periodo del
rimodernamento delle unità di vecchio tipo ancora in servizio (cioè dopo il
1962), l'industria aeronautica appariva la più sacrificata, nonostante i
progetti più arditi di nuovi aerei fossero stati da tempo presentati; essa, che
nel 1940 contava ben 200.000 operai, ora ne allinea appena 12.000. Per
giustificare la sua opposizione alla rinascita dell'industria aeronautica
italiana, lo Stato Maggiore della Difesa nel 1952 rilasciò queste sconcertanti
dichiarazioni:
«Questo non rappresenta un essenziale problema militare; riguarda il ministero
dell'Industria. A noi basta che l'America continui a inviarci gli aerei di cui
abbiamo bisogno».
Col tempo, quando la nostra industria bellica fu definitivamente ridotta a
fabbricare armi individuali e derivanti della «jeep», e i nostri migliori
tecnici e progettisti furono emigrati, arrivarono anche i conti da pagare. Non
più regali di paccottiglia senza valore, pazientemente rammendata dai nostri
soldati: ora, per avere i medesimi fondi di magazzino si doveva pagare.
Complice di questa situazione era la mentalità dei governanti e dei capi
militari italiani, agganciati irrimediabilmente all'atlantismo, i quali
trovavano giusto ripararsi sotto l'ombrello atomico americano e limitare la
forza militare italiana a compiti rappresentativi e di polizia dei confini, con
tre giorni di fuoco!
In questa mentalità, naturalmente, non c'era onestà personale di Capi di Stato
Maggiore (come i generali Liuzzi e Rossi) che tenesse. Nell'ambito
dell'atlantismo era fatale che la situazione italiana fosse quella che era.
Sembrava già tanto aver potuto riorganizzare un piccolo esercito quasi discreto
e in definitiva capace di adempiere i compiti secondari che nell'ambito
dell'alleanza gli spettavano. Si credette di potersi scrollare di dosso la
prevaricazione americana intorno agli anni '60 quando, in previsione del
necessario ricambio delle armi e dei mezzi delle forze armate, si svilupparono
progetti nazionali riuscitissimi (come il FIAT G91 che nonostante dodici anni di
vita con le sue numerose versioni è riuscito ad imporsi sul mercato europeo
destando la preoccupazione degli americani) e si presero in considerazione
commesse straniere.
Ma avevamo fatto i conti senza l'oste. Il buon John Kennedy, per salvare il
dollaro, impose al nostro governo, come del resto a molti altri, di acquistare i
suoi aerei, gli F 104G «Starfighter» della Lockhed e i carri armati «M. 60A1» di
dubbia efficienza. Fu così che abbandonammo i Mirage III che ora la Francia
vende in tutto il mondo, compresa l'Asia e l'America Latina, e i carri «AMX»
pure francesi, o i «Leopard» tedeschi, in costruzione nel 1966.
Dagli ambienti competenti si levarono vivaci proteste. Fu allora che stranamente
il PCI iniziò una campagna scandalistica contro le forze armate rivelando vere e
presunte deficienze nel nostro apparato difensivo causate da corruzioni e
involuzioni antidemocratiche. Sorsero così le questioni delle «mine d'oro», dei
«radiac», dei «corsi d'ardimento», e si avallò la lotta ai ferri corti tra il
gen. Aloia e il gen. De Lorenzo, che allora non si era ancora iscritto al
Partito Nazionale Fascista e anzi rappresentava la corrente dei militari
«buoni».
Ci furono noti giornalisti di destra che scrissero celebri quanto misteriosi
opuscoli in cui si tessevano elogi, veramente al limite del buon gusto, di certi
generali e si dava la croce addosso ad altri; si cercò di accusare di
«sovversivismo» chiunque si chiedeva il motivo di certi acquisti e poneva in
dubbio l'efficienza bellica del paese, come accadde ad una nota rivista di
aviazione e marina diffidata dal SIFAR e sottoposta a controlli e censure
veramente vessatorie solo per essersi permessa di pubblicare veritieri articoli
sulla situazione dell'Aeronautica militare.
Gli interessi della FIAT, lesi dal tacito divieto di estendere la produzione del
G 91, furono compensati da Togliattigrad, e dalla concessione di una licenza per
la costruzione di 165 F 104S (Superstarfighter) per l'Italia, versione
modificata del caccia F 104G. Analoghe licenze furono concesse alla OTO Melara
per i veicoli cingolati e per gli M. 47, all'Augusta per gli elicotteri della
Bell, ecc., ecc.
Questo è il quadro della situazione attuale. La soluzione potrebbe trovarsi
soltanto tagliando il male alle radici, e sovvertendo l'attuale sistema di
alleanze in un quadro di fattiva unità europea, che potrebbe estrinsecarsi anche
in un mercato comune di materiale bellico. Ma naturalmente questa, per ora,
resta una pia illusione.
CULTURA
7 - Il mondo moderno e il suo superamento
Noi tutti siamo testimoni di una molteplicità di eventi storici che, come
uragani a ciel sereno, s'abbattono su di noi e passano oltre. Nessuno può
uscirne indenne. La nostra esistenza si svolge in un ciclo storico apocalittico,
anche se celato dietro una pace illusoria.
Tanto è tragica questa visione che, a mala pena, riusciamo ad intravedere gli
incerti contorni di un futuro che si annuncia problematico, incerto, insicuro.
Difficilmente riusciamo ad immaginare il processo storico di questo ciclo nella
sua immediata attualità. Gli eventi si susseguono in tutta la loro
problematicità: il futuro ci riserva nel suo grembo la chiave e la risposta a
tanti interrogativi minacciosi e sospesi.
Il calice della sofferenza non solo non è vuotato ma non è ancora colmo.
Una domanda si impone col suo profondo significato. Una domanda che è forse
destinata ad arrestarsi dinanzi alla oscura cortina che si frappone alla libera
ricerca.
C'è una tal frenesia nel ricercare in noi stessi la «verità» che ricopre la
sostanza delle cose, che talvolta non siamo capaci di riconoscere i nostri
limiti, di palesare la nostra impotenza. Forse siamo noi stessi fonte di
equivoci.
«Ricercare noi stessi», «scoprire nuovi valori», «ritrovare il nostro "Io" nei
meandri dell'inconoscibile», «scoperta dell'uomo e della dignità del pensiero»,
«celebrazione della vita», ecc.. Questi i modi di dire correnti, falsi e
demagogici, frutto di aride «equazioni personali», che non ricoprono la vera
sostanza delle cose. Ammettere la non-verità di tali concezioni quale condizione
di vita, significa opporsi pericolosamente ai comuni concetti di valore: una
filosofia che osa questo si pone, tanto per parafrasare Nietzsche, «al di là del
bene e del male».
Sarebbe diverso a voler prestare fede al nostro spirito, ma nonostante tutto,
intuiamo di essere degli isolati, degli «anarchici dell'intelletto», e torbido
ed inquieto ci appare dinnanzi agli occhi un mondo che rinneghiamo, filato con
l'ordito incolore delle illusorie matematiche fallaci ed insicure, composto con
la trama sgualcita delle ipocrisie che reggono i destini dell'uomo.
L'Uomo
L'UOMO: ecco l'intoppo e la ricerca.
Un giorno Nietzsche giunse a concepire il «troppo umano».
Da lui abbiamo raccolto il sentimento acuto, analitico, freddo, medico dei
problemi della decadenza della civiltà europea.
Un sentimento completamente privo di quei mirabolante «Pathos sociale» che
anima, corrompendolo, l'uomo odierno. Quel «pathos sociale» che si catalizza
unicamente nell'aspirazione ad un benessere inteso non già come mezzo, bensì
come mèta.
A noi tutto ciò sembra piuttosto «UNA FINE». La Fine dell'Uomo.
Ed è una condizione talmente ridicola e spregevole da far nascere in noi il
desiderio gioioso del tramonto di quest'uomo.
Vi sono dei momenti in cui la nostra «compassione» per quest'esemplare animale
sterotipato e sclerotizzato si fa più intensa. Ma, intendiamoci bene: non è la
compassione della «miseria sociale», della «lotta di classe», della «società
borghese» e dei suoi malati cronici ed avvizziti, del vizio dilagante e della
degenerazione costante, della sterilità, dell'inversione, della droga,
dell'impotenza, del suicidio, insomma di tutto ciò che intorno a noi impera; ed
ancor meno compassione per le classi di schiavi che aspirano alla «dittatura del
proletariato» e che chiamano quest'ultima loro «suprema libertà».
La «nostra» compassione è di più alto genere.
Noi vediamo come l'uomo si fa meschino e si rimpicciolisce a causa di tutte
quelle tensioni edonistiche, aridamente pessimistiche, con caratteri
utilitaristici e eudemonistici: tutti modi di pensare che valutano la «realtà
delle cose» secondo il gusto del «piacere» e del «dolore».
Ecco l'intimo, profondo significato del nostro disprezzo per il «pathos
sociale», vale a dire per quegli stati concomitanti e per quegli elementi
secondari, per quei modi di pensare infermi sin dalla superficie che ognuno, che
sia consapevole della sua forza creatrice e fornito di una coscienza spirituale,
non potrà non guardare senza ironia, astio, sconforto, commiserazione.
In verità, l'UOMO fu, un tempo, CREATURA e CREATORE.
Forse è giunta l'ora che l'uomo ritorni tale. Non l'avidità del godimento e la
ricerca del piacere, non il benessere inteso come ultima ed estrema
realizzazione, bensì la Volontà di Potenza Creatrice, che esige la disciplina
del dolore, il grande patire, l'amore eroico per il pericolo e la sofferenza
interiore, nella quale soltanto si generano le grandi cose.
Non l'impersonalità di «presunte leggi universali» -siano esse religiose, morali
o politiche, siano esse fisico-antropologiche, egualiatrici e livellatrici di
tutte le individualità- bensì tensione di tutte le energie in uno sforzo di
superamento dell'umano, che permetta alle grandi volontà di emergere dal miasma
della folla, dalla massa dei mediocri e dei superflui, realizzandosi nella loro
originalità e potenza, creando le distanze ed i distacchi, formando i ranghi e
le gerarchie.
Solo così si può realizzare quella visione eroica ed aristocratica esprimentesi
in quel linguaggio simbolico differenziato, ardito e vincolato, che si
estrinsecò un giorno in una visione del mondo «sovrumana».
La ricerca e la rivoluzione
Qualcuno obietterà che nessuna ricerca reca in sé la soluzione. Bene! Eppure gli
eventi ci costringono a farlo, ci afferrano troppo profondamente per poter
abbandonarci in un nihilismo protettore. Gli eventi sono ancora troppo a noi
vicini per non richiedere un adattamento del nostro spirito nella direzione
voluta. Una risposta a tutto ciò avrebbe un'influenza decisiva, determinatrice,
e rappresenterebbe per quanti sono incerti ed insicuri una direzione obbligata.
In luogo dell'incertezza, al posto del disorientamento spirituale, questa
risposta ci darà un fondamento ed una verità laddove queste mancano.
Ed in ogni caso le illusioni termineranno.
Sorge in noi, imponendosi, la necessità di una conformità, di una «unità di
misura», alla quale orientare la nostra visuale, a cui uniformare i nostri
disegni.
Si deve risalire assai indietro nel tempo, se vogliamo sperare di ottenere il
distacco necessario per essere nel «vero».
Risalire sino a processi storici ultimati, in se stessi conclusi. Ciò perché
ricusiamo espressioni come «obiettività al reale», «aderenza al presente»: esse
rientrano tra quelle oramai così logorate da aver perso la pur minima parvenza
di sincerità e di verità. L'uso indiscriminato sembrerebbe talora assumerle
senz'altro come misura di valori.
Tuttavia considerazioni del genere che seguono, sia ben chiaro, vogliono essere
completamente aderenti all'età presente, e nel medesimo istante lontane da essa.
Di conseguenza ogni nostra ricerca deve andare oltre il puro accadimento: deve
essere orientata a ciò che è essenziale, penetrando in profondità ed in
lontananza.
Considerazioni del genere hanno valore se viste come tentativi di realizzare, in
sede umana, ciò che va col nome di RIVOLUZIONE.
RIVOLUZIONE: sotto questo nome, legato spesso ad interpretazioni arbitrarie ed
unilaterali, se non addirittura a falsificazioni magistrali, noi rileviamo una
spiritualità libera da tratti razionalistico-confessionali, contrassegnata cioè
da una «ricerca della verità» entro i confini imposti dalla ragione umana. Una
spiritualità realizzantesi come trascendenza, come ideale della chiarezza in un
ordine sovrannaturale attraverso il senso classico della misura.
Questo significa RIVOLUZIONE.
Ed ancora un Ordine vigente di là del mondo dell'essere e del divenire ed al di
là di una realtà tragica ed elementare, poiché vi è qualcosa di più forte
dell'essere, del divenire, del perire.
L'essenza del termine RIVOLUZIONE è troppo spesso divenuta un concetto astratto,
vuoto e retorico, quasi fosse una mera recrudescenza di indole umanistica e
romantica e non quel germoglio vivo e primordiale che contiene e conterrà sempre
per noi una forza evocatoria che non significa realtà storica o formazione
giuridica e temporale, bensì Ordine Cosmico, scevro da impostazioni ed
imposizioni umane indeterminate, vaghe, generiche, indefinite.
Un mondo visto dunque come Ordine Sovratemporale in cui si librano, libere e
discriminate, potenze e figure divine ed imperano tensioni metafisiche evocate
sotto forma di pura virilità, pura linea solare, puro ordine cosmico, pura
realtà eroica.
RIVOLUZIONE: in luogo della successione temporale prendono posto comunanze
sovratemporali e pertanto essenziali.
RIVOLUZIONE: in luogo dell'intrico spugnoso e melmoso dei processi storici, la
concordanza della funzione storica che in essi si manifesta.
Nessun esempio è valido; valido è solamente il flusso, la trama degli
avvenimenti, poiché il significato non è mai nell'avvenimento, ma nel moto
attraverso l'avvenimento.
Altrimenti si potrebbe isolare un istante nell'avvenimento, nello evento
storico, e dire che questo è l'avvenimento stesso ed il suo stesso significato.
Noi cerchiamo di cogliere, piuttosto, toccandoli quasi con le dita, gli
avvenimenti della nostra epoca. Essi sono così vergognosamente diffusi che
l'uomo, indebolito, non riuscirà più a sottrarsi al destino annunziato da loro e
perirà molto presto. Il nostro compito è di agevolarne la caduta, imprimendo
loro una velocità di forza centrifuga superiore.
Noi dobbiamo iniziare sempre con la violenza.
Ciò perché abbiamo bisogno di appartenere contemporaneamente a questo mondo ed
all'altro, di vivere nell'azione e nella contemplazione, dentro e fuori dai
confini della creazione.
Non l'adattamento quindi ad una realtà costituitasi indipendentemente dal nostro
volere, e neppure un progresso fatale e meccanico quale poteva essere auspicato
alla luce dell'evoluzionismo di marca darwiniana o spenceriana, bensì
l'ELEVAZIONE del nostro Essere a forme di esistenza I sempre più intense,
superiori e ricche, realizzabili per opera nostra.
Il mondo moderno
Come positivismo significa assumere il «fatto sociale» a criterio di
determinazione di ogni valore teoretico e pratico; come naturalismo significa
assoggettamento dell'uomo alle forze e alle leggi della natura, magari allo
scopo di sfruttarla per una più piena e larga attuazione dell'ideale di «vivere
comodo»; come capitalismo e comunismo sono insieme gli agenti inseparabili della
rovina delle civiltà europee, e noi stessi azionisti della moderna civiltà del
capitale di miliardi di carta e di migliaia di ore di noioso lavoro; allora noi
affermiamo che tutti questi sintomi sono il prodotto di una matrice comune
derivante da un'unica malattia fondamentale: la stanchezza di vivere, il
decadimento e lo spegnersi fatale della volontà di potenza e di creazione.
Religione, Scienza, Moralità: tutte fisime, tutte menzogne organizzate dal
gregge dei deboli e dei servi, per mascherare la propria impotenza e vincolare,
a proprio vantaggio, la libera espansione delle forze degli uomini superiori;
sono tutte espressioni di una estatica rinuncia alla vita, che per i vinti ed i
malnati è una necessità, ed ai forti si vuole imporre come una legge che li
abbassi al livello dei primi.
La morale, tanto quella cristiana del rimorso e del peccato, della pietà e
dell'amore, quanto quella dell'uguaglianza, della solidarietà, della giustizia,
predicata dalla democrazia e dal socialismo, sono il prodotto evidente della
«Rivolta degli Schiavi» contro i forti, che li dominavano.
Esse esaltano ciò che è prodotto della degenerazione; pongono come valori
assoluti -alla cui stregua misurare tutta la realtà umana- quelli che erano
soltanto mezzi per l'esplicazione della loro volontà di potenza infima.
È la negazione della vita che si nasconde sotto la predicazione dell'amore e
dell'uguaglianza.
Tutti noi sanguiniamo su segreti altari sacrificali; noi tutti bruciamo in onore
di nuovi idoli: democrazia, liberalismo, capitalismo, Potere dei Soviet, ecc..
E fra loro e con loro e su di loro un'immensa borghesia livellatrice e
pianificatrice che tutto assorbe e degrada... e gli aristocratici... e le anime
pure... e i contadini... e gli operai; borghesia: immenso putrido pantano, fuori
dal quale nulla esiste, da cui trasuda, nauseabondo, il lezzo delle camere
mortuarie.
E con la sua libidine ha avvelenato l'acqua pura, santa, purificatrice, mutato
il sacro in profano, e chiamata «gioia» i suoi sogni osceni intessuti di parole
avvelenate.
Questi sono gli oscuri miasmi che si sprigionano da questa morte, da questa
decadenza, da questa civiltà informe e poliartica, dalle sue metropoli di
acciaio e di cemento, dalle sue masse tentacolari, dalle sue industrie
standardizzate ed automatizzate, dalle sue banche e dai suoi trusts, dai suoi
music-halls puzzolenti, dai suoi sindacati impotenti, dai suoi parlamenti
corrotti, da questo mondo di algebre e di macchine incatenanti le forze della
materia.
Non importa da che parte ci troviamo, tanto questa «decadenza» ci ha tutti
afferrati e trascinati nel suo vortice, rivelandoci la nostra intima debolezza e
problematicità e ci ha trasformati a tal punto che dal processo di dissoluzione
degli ultimi decenni nessuno è uscito tale quale vi era entrato.
O solamente ben pochi.
Rivolta contro il Mondo Moderno
Certo, alla cosiddetta «Ragione» tutto ciò appare come un Passato, come qualcosa
di dato e concluso, che assorbe in sé il presente e l'avvenire, perché -a sentir
lei- tutto ciò che è e sarà è già stato e tutto si ripete nella ferrea necessità
fatale di un ciclo storico (teoria del materialismo storico).
Ben sappiamo che le nostre considerazioni non possono certo essere accolte con
favore dal mondo che questi «miti» idolatra e che da noi viene posto sotto
accusa non solo per i suoi aspetti democratico-progressisti ma anche per quel
meschino spirito conservatore che del retaggio della Tradizione nulla ha saputo
cogliere, al di fuori dell'esteriorità, del fascino immondo e degenerato degli
uomini e delle rovine.
Noi ci azzardiamo talvolta a formulare soltanto supposizioni superficiali sui
travestimenti mutevoli che sono le fisionomie storiche interpretate secondo i
nostri giudizi politici, filosofici, sociologici o di altro genere.
E non ci accorgiamo che le metamorfosi più tragiche sono quelle dello spirito,
forse perché scommettere sull'applicazione di leggi inesorabili e sconosciute ci
appare come un gioco audace, troppo audace e pericoloso.
E non vogliamo capire che vivere -per l'uomo- è andare al di là di se stesso,
volere qualcosa che è al di là dell'umano.
L'uomo è libero e può quel che vuole.
Può liberarsi dalla prigione del tempo e dai vincoli delle necessità soltanto
con una decisione che trasformi «l'eternità» in coscienza del valore
extratemporale del vivere, in un momento di parossismo, in un istante di
eternità pura, realizzando in essa il suo più intimo significato.
Una cosa tuttavia è certa: essere liberi è cosa da pochi, è un privilegio dei
forti. Ed è in nome della libertà, che si esprime in uno spirito libero, che va
condannata la morale del sacrificio umanitaristico, della religione codificata,
della democrazia filistea, del livellamento in cui si pasce ed appiattisce il
gregge umano. Libertà, per noi, vuol dire volontà di potenza, cioè elevazione
dell'uomo e suo continuo autosuperamento, nel tentativo di interpretare una
formula morale in senso super-morale. Libertà è volontà di potenza: e l'uomo
libero è colui che onora in se stesso il potente, colui che ha potenza su se
stesso, che sa tacere e soffrire, che con nobiltà esercita su di se la durezza e
la severità e rispetta ciò che è «severo» e fa rispettare ciò che è «duro».
Tutto ciò non significa «vincere» la natura. La natura in sé non ha alcun
valore, è indifferente ed assume quella forma che la volontà dell'individuo le
dà.
Valutare è Creare. Ed il Creatore sa opporre l'«Io Voglio» virile, ascetico,
guerriero, al «Tu devi» cristiano, servile e democratico. Ed il Creatore, oggi
come sempre, è colui che disgustato da tutti gli ideali e da tutti i valori
attualmente dominanti, si allontana dalla moltitudine. È l'uomo del gran
desiderio, dal gran disgusto, dalla grande sazietà: è colui che non vuol vivere
senza potere di nuovo imparare a sperare.
Il Creatore è colui che esprime se stesso nella «CREATIVITÀ».
Ma neppure egli, intendiamoci, rappresenta la mèta suprema del processo di
trasfigurazione e divinazione della vita: egli per l'insoddisfazione che lo
anima affretta la decadenza e il tramonto dell'uomo, rappresenta il solstizio
d'inverno della vita; ma non è in grado di realizzare l'annientamento della
specie umana stessa. Forse perché non ha sofferto ancora abbastanza, forse
perché non è ancora completamente disgustato di «essere uomo».
Egli vorrebbe essere la trascendenza dell'uomo, l'al di là dell'uomo; ma non è
mai dato all'uomo pensarne l'idea, o concepirne possibile la piena attuazione,
senza ridurre il Creatore al rango di uomo. L'INFINITO USA ALTRE VIE.
Volere ciò che per la vita è impossibile, è quello che dà senso alla vita stessa
dell'uomo.
Ciò che noi esprimiamo con la nostra sensibilità «religiosa» è la fede nel mondo
intravisto come KOSMOS, come ordine contrapposto al CAOS; quella spiritualità
così equilibrata ed affine tra l'uomo nobile ed il divino; la determinazione
severa e gioiosa di combattere accanto agli «dei» per ristabilire l'ordine
divino in quello naturale, contro le forze oggi imperanti delle potenze
infernali degli esseri elementari.
È una concezione religiosa che culmina in una WELTANSCHAUUNG -in una visione del
mondo veduto come ordine divino-.
Non si tratta di vincere la natura, né tanto meno di superarla, ma di spingerla
al massimo, perché la Potenza è in noi.
Basterà che noi ci leviamo e tutti quei movimenti e quegli increspamenti
delimitati dalla nostra volontà scorgeranno la vetta e tutto questo
sommovimento, tracciata la sua linea di ascesa, balzerà in avanti.
Solo così quel processo di dissoluzione in cui tutti i mali della specie umana
minano le radici più profonde dello spirito, avrà un giorno il suo termine.
Occorre operare una distruzione integrale.
Occorre adattare una linea rivoluzionaria, vale a dire un evento in cui si
uniscano il pensiero e l'azione, il programma e la dottrina; l'interesse
politico e quello spirituale.
Si deciderà allora se la vera spiritualità si trovi dalla parte del
parlamentarismo demagogico e corruttore, di una «routine» squallida fiacca e
debilitante, o dalla parte di una gioventù che ha fede, ed in nome della fede ha
saputo imporsi uno stile con disciplina rivoluzionaria, con ansia
rivoluzionaria.
RIVOLUZIONE TOTALE, perché deve essere la rivoluzione dei corpi, la
restaurazione dei valori nati dal corpo e che dal corpo irradiano il loro senso
vitale e nello stesso tempo rivoluzione dello spirito che si scopre di nuovo e
ritrova i suoi valori più elevati attraverso la Tradizione.
Rivoluzione Europea
Ma soprattutto RIVOLUZIONE EUROPEA, perché è nel suo nome che va compiuta.
Ansia di rivoluzione europea, rovesciamento violento della società democratica,
coscienza del valore sovranazionale dell'Europa, che simboleggi le credenze, i
sentimenti e le aspirazioni di tutta una comunità etnica europea di razza
bianca; unita oltre che dai vincoli del sangue e dalla convivenza sullo stesso
suolo, da una stessa concezione della vita e del mondo che si rispecchia nelle
tradizioni, nei costumi, nella lingua, in quel complesso di istituzioni e di
manifestazioni spirituali che costituisce la civiltà di una razza e di un popolo
(Volksgeist).
Solo in questi termini possiamo parlare di Rivoluzione Europea.
Solo la piena adeguazione ai severi principi di un'etica guerriera, che non
conosce ancora né la «pietas» né la «charitas» in senso cristiano, farà di noi
europei gli alti esemplari umani che, per quanto mai raggiunti né mai
raggiungibili nella realtà della vita, ognuno di noi si propone di imitare.
Le più alte facoltà dell'uomo stanno nel puro fondo, nel penetrale dello
spirito, rigorosamente separate dallo spazio e dal tempo e da quanto ha rapporto
con essi.
Per riportare un popolo alla sua civiltà primordiale tramite un mutamento
violento della storia quale può essere operato da una rivoluzione, occorre, «in
primis et ante omnia», evocare la sua tradizione interiore: il che esige una
restaurazione gerarchica, il lento, duro, irresistibile risorgere di una
tradizione continua, un risveglio della forza formatrice primordiale, il
ristabilirsi della razza dello spirito intorpiditasi durante secoli di
asservimento occidentale ed orientale, di contingenze e di mescolanze. Dal
presupposto del carattere sovratemporale dell'Europa che vogliamo edificare,
bisogna trarre la deduzione dell'esistenza di una esigenza comune di catarsi
eroica che si incarni in una visione carismatica, cioè in una concezione della
vita e del mondo che si esprime dalle profonde scaturigini della stirpe in cui
si concentrano tutti i poteri dello Stato e di fronte a cui non possono e non
debbono farsi valere i diritti individuali, relativi.
Quando noi parliamo di «eroicità» o di «catarsi eroica», intendiamo quel
particolare «ethos» che sta all'origine della fede negli Eroi, considerati come
coloro che di nascita umana, riescono a portarsi sul piano della divinità.
Tale superamento si realizza con la liberazione della condizione umana per mezzo
delle proprie assidue energie.
In ultima sintesi è evidente l'identità, in tale concezione, fra l'anima
individuale e l'anima del mondo che si esprime in termini terreni nell'esempio
vivente di un intero popolo la cui vita ascende o decade secondo le leggi
dell'ereditante in atto.
Famiglia, Stirpe, Stato, Religione, regole etiche e spirituali: tutto ci
riconduce ad un ordine
cosmico in cui l'uomo vive quale membro di una stirpe che si perpetua
nell'ordine ciclico delle generazioni. Questa concezione del mondo esige
dall'uomo non attitudini pietistiche o fatalistiche ma una risolutezza nella
grande, eterna battaglia tra le forze olimpiche dell'ordine e della luce e le
potenze inferiori.
È allora che si inizia il processo di evocazione, di formazione, di risveglio di
poteri profondi derivanti da esigenze europee.
Qualcuno troverà certamente in tutto ciò il lato utopistico, qualcuno persino
chiamerà la nostra concezione europea «un mito».
Ebbene noi crediamo nel «mito» dell'Europa, come crediamo nel «mito» del sangue.
Questo mito profondo, torbido, eppure salutare come un vaccino.
Ogni processo selettivo, differenziato, esige la formulazione di un mito
completo, assoluto, sulla base di «affinità elettive » che provochino il dominio
di un popolo e di una civiltà.
Popolo Europeo. Civiltà Europea
Tale è la concezione limite della nostra dottrina europea.
Dottrina tradizionale perché pregiudica il valore e la necessità di una «catarsi
eroica», tanto eroica da essere più forte degli elementi di disgregazione
democratica, di snaturamento collettivizzante, di deformazione borghese
occidentalista, di decadenza «diveniristica», che tutt'oggi sembrano prevalere.
Tutto dipende da noi e da questa battaglia e dalle battaglie del domani, dalle
rivoluzioni del domani.
Ciò grava su di noi e ci sollecita e ci supplica e cerca in noi la sua
soluzione.
Tutto ciò che oggi si agita, alita e si muove nel mondo, prenderà la forma di
rivoluzione europea, di coscienza europea, di civiltà europea. Finirà allora
sull'Europa vinta e spartita la lunga notte della servitù democratica,
dell'umiliazione politica e spirituale.
Non possiamo più arretrate nel processo di dissoluzione che ha investito tutte
le strutture etiche, spirituali e politiche della nostra civiltà.
È tempo che una voce si alzi affiatata ed unanime al di sopra della scena di
caos e di prostrazione in cui l'Europa giace.
L'Europa deve essere la nostra espressione dinamica della fede rivoluzionaria
fondata su concezioni etiche, virili, spirituali ed ispirata ad un sentimento di
conquista, di potenza, di missione.
Esiste oggi un vuoto politico che è permesso solo dalla posizione di
subordinazione dell'Europa ai due blocchi: sovietico ed americano. Mentre in
realtà Russia e America, lanciate verso il dominio universale, si presentano in
una posizione di concordanza.
Uniformità di disegni, uniformità di scopi.
C'è una tale convergenza ed una espressa congenialità in entrambe le concezioni
politiche, da domandarsi, esaminando la loro essenza, se i temi dominanti
nell'una come nell'altra «civiltà» non siano poi i medesimi. Russia ed America
sono due espressioni equidistanti per la realizzazione di uno stesso tipo umano
degenerato; conclusione ultima ed infelice, realizzazione estrema di processi
storici che presiedono allo sviluppo del mondo moderno e della sua demoniaca
catarsi.
Apparirà l'uomo nuovo europeo? Per quanto ci riguarda, noi pensiamo in termini
europei nella misura in cui trasformiamo il pensiero in azione (magari in azione
violenta).
Noi, Gioventù Europea Rivoluzionaria, che per lungo tempo abbiamo male pensato
ed agito, stiamo forgiando gli strumenti della nostra rinascita: ci stiamo
formando come forza «irresistibile», la sola vera forza che esista, la vera
forza di spiriti coraggiosi in corpi coraggiosi. |