Anno 1972 - N° 12
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Roma
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POLITICA INTERNA
Con le ultime elezioni
amministrative del 26 novembre il governo di Andreotti ha avuto una
sostanziale conferma della sua li¬nea centrista. Quale ne è il
significato?
Nella DC il problema del mantenimento del potere e della pura gestione
di esso (doroteismo) si accompagna ad una mancanza di formulazioni
originali, e alla presenza di un estremismo verbale, che non arriva mai
a qualificarsi su una propria strategia o su posizioni di rottura (Donat
Cattin e, in parte, Base).
La DC è in altre parole incapace a prospettare iniziative politiche atte
a risolvere i grandi problemi, e agisce solo in riguardo agli ostacoli
politici con gli strumenti del tempo, dell'equilibrio, del temperamenti
delle posizioni e del contenimento degli estremismi.
Dopo la sconfitta del disegno fanfaniano e la sua conseguente chiusura
con le forze che ne fecero fallire l'elezione a Presi¬dente della
Repubblica, è stato facile per l'ex delfino di De Gasperi ricucire
attorno alla sua linea tutte le forze del carrozzone cattolico,
riuscendo a tener legati quanti vedono favorevolmente una riedizione del
centrosinistra da Donat-Cattin a Rumor, Moro e Colombo).
La controprova, per Andreotti, era il Congresso Socialista. Il fatto che
a Genova i socialisti non abbiano, secondo il loro costume, mostrato
alcuna seria volontà politica, che non sia quella dell'acquiescenza ai
piani moderati, rivelando inoltre la natura clientelare del partito
(brogli per le elezioni dei rappresentanti provinciali), dimostra che la
battaglia deve ancora venire.
Lo stesso PCI, del resto, contrariamente a quanto affermano le destre,
non ha interesse ad inserirsi nell'area di potere. Il quadro politico
infatti, come abbiamo più volte sostenuto, si va da anni indirizzando
verso la formazione di due egemonie: una al governo (DC) e l'altra
ali'opposizione (PCI), le quali finiscono per controllare i partiti
minori.
Il PCI non avrebbe quindi senso fuori dell'opposizione, che è del resto
il suo ruolo naturale, stante la strumentazione del partito da parte
delle forze della sinistra radicale.
A nostro avviso non ha alcun valore comunque una scelta tra "centrismo"
e "neocentrosinistra", essendo tali formule due facce dello stesso
disegno moderato.
La scelta che oggi si impone è tra l'attuale regime, in mano a
oligarchie che gestiscono il potere tramite delle superfetazioni
politiche (i partiti), in funzione contraria agli interessi del nostro
popolo, essendo asservite a centrali di potere extranazionali (USA -
URSS - Vaticano), ed il rifiuto di esso, che comporta una scelta
rivoluzionaria, al disopra degli schemi politici oggi proposti.
ARGENTINA
Nella globale panoramica dei tentativi indipendentistici avutisi
nell'America Latina, l'unico movimento che si distinse nella
formulazione di una linea politica autonoma fu in origine il peronismo.
Ricordando gli avvenimenti che culminarono nell'insurrezione militare
che lo ha spodestato, Peròn -nel corso di una inter¬vista- ha affermato
che la sua caduta fu determinata dall'opposizione alle direttive
dell'ambasciata USA.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, non videro nel regime peronista solo un
nazionalismo desideroso di porsi al centro di una economia autonoma dei
paesi dell'America Latina in via di sviluppo, ma scorsero in esso un
tentativo di concorrenza nei confronti del potere monopolistico corrotto
dal dollaro. Completò l'opera il Vaticano che condannò severamente il
peronismo, scomunicando lo stesso Peròn, non certo per motivi di
carattere religioso, ma per acquiescenza servilistica al governo di
Washington.
Dopo 17 anni di esilio la notizia del rientro in patria di Juan Domingo
Peròn, che ha suscitato in Italia l'entusiasmo delle destre, è da
considerare in un'ampia logica nella quale può trovare spazio l'ipotesi
di un graduale ritorno al potere del movimento peronista. Peròn dal
canto suo spera che le prossime elezioni politiche che si terranno nel
paese daranno al movimento peronista (il giustizialismo) l'80% dei voti.
Questa dimensione resta però vaga e alquanto infondata per i due
seguenti motivi.
1) La popolazione argentina, oltre a non avere ancora determinato le
proprie istanze di rinnovamento, ha assorbito solo fram¬mentariamente la
dottrina peronista, che, a nostro avviso, non può essere acquisita come
base di una rivoluzione nel popolo argentino.
2) I pesanti conflitti avutisi all'interno del movimento giustizialista
hanno portato ad una spaccatura ove si sono innalzate contraddizioni
entro le quali si è verificata una netta separazione tra "vecchio
peronismo" e "neoperonismo".
L'ala moderata dei giustizialisti, facente capo alla GGT (il sindacato
argentino) che è da ritenersi l'organizzazione più pos¬sente del vecchio
peronismo, scivolata prima ancora della notizia del ritorno di Peròn in
Argentina su posizioni di compromesso con l'oligarchia locale, ha
appoggiato fermamente le tesi programmate da Juan Peròn, quali sono
state la "pacificazione nazionale" e la mascherata integrazione o "unità
sociale"; mentre le tesi proclamate dai vari movimenti del neoperonismo,
che, nettamen¬te in minoranza sono stati esclusi dall'unificazione delle
organizzazioni giustizialiste (il nuovo FGL) e prossimi ad un'uscita in
massa dal movimento, hanno respinto le tesi di Peròn, propugnando
un'alternativa che non sia espressione servilistica nei confronti della
classe dirigente attualmente al potere.
In ultima analisi, vista una prossima capitolazione dell'economia
argentina, Lanusse sta tentando il tutto per tutto per integrare, dietro
la figura di Peròn, quelle masse popolari che sono, tramite i sindacati,
alimento indispensabile per il mantenimento del regime oligarchico, e
Peròn di questa manovra è certamente a conoscenza.
Lo stesso incontro di Peròn a Roma con mons. Casaroli, è un sintomo del
mutamento delle posizioni d'urto che si erano venute a creare quando
l'ex dittatore fu cacciato dall'Argentina. È oggi evidente che Peròn,
per il suo ritorno in Argentina, ha dovuto subire dei compromessi con le
forze che precedentemente aveva combattuto.
Infine tale atteggiamento non ci convince affatto, sicuri come siamo,
nel futuro scontro che si profila in Argentina, tra le forze
rivoluzionarie e quelle conservatrici, di non vedere in Peròn un
portabandiera delle prime.
MEDIORIENTE
La possibilità di una composizione pacifica della questione vietnamita,
conseguente al viaggio di Nixon in Cina prima e a Mosca poi, ha
scatenato in Medioriente una serie di reazioni a catena di cui non è
ancora possibile cogliere la portata.
Se gli USA hanno capitolato nel Vietnam, i Russi -come contropartita-
hanno ammorbidito la loro politica nei confronti dei paesi arabi (si
veda il ritiro delle forze sovietiche dall'Egitto).
Da allora abbiamo assistito al tentativo della destra -espressione dei
militari- di giungere a posizioni di potere in Egitto, tentativo che,
qualora riesca, comprometterebbe ancor più la possibilità di un'azione
politica rivoluzionaria nel mondo Arabo, e ad un rafforzamento militare
della Siria, succeduta all'Egitto nella considerazione di Mosca, che ha
notevolmente infastidito Israele. La reazione dei sionisti che hanno
operato una serie di aggressioni provocatrici contro la Siria, ha
scoperto il bluff dei Russi, che non hanno reagito in maniera decisa,
disposti come sono ad impegnarsi con i paesi arabi senza mai superare il
limite di rottura.
C'è da notare inoltre il tentativo di insabbiare l'attività guerrigliera
e giungere ad una soluzione di compromesso, e in par¬ticolare la non
disponibilità dell'Egitto a riaprire il fronte del canale di Suez,
riprendendo la guerra di posizione (l'atteggiamento di Sadat al riguardo
denuncia la miopia piccolo-nazionalista del premier egiziano e
l'impossibilità di realizzare, almeno per ora, una strategia comune a
tutti i paesi arabi), e le voci fatte circolare ad arte di un viaggio di
Nixon al Cairo e a Tel Aviv e di un piano di pace di Kissinger, voci che
nelle intenzioni degli occidentalisti hanno lo scopo di saggiare il
terreno in vista di una ripresa distensiva, probabilmente concordata col
viaggio a Mosca del presidente USA.
A nostro avviso comunque permangono dei fattori positivi e delle forze
che operano fuori dei giochi di potere russo-americani; ci riferiamo:
1) alle azioni dei feddayn lungo il confine Siria-Libano-Israele, ed ai
colpi di mano di Settembre Nero, che valutiamo positi¬vamente in quanto,
mantenendo incandescente la situazione mediorientale, hanno infranto le
speranze degli americani di operare l'aggancio diplomatico in grande
stile con l'Egitto.
Per quanto riguarda le forze della guerriglia è da notare ancora una
volta l'azione moderata di Arafat che ha concluso col Libano un trattato
di impegno a non promuovere azioni contro Israele partendo dal
territorio libanese, squalificandosi di fronte alle organizzazioni
guerrigliere rivoluzionarie, che hanno rifiutato il trattato.
2) al tentativo del presidente libico Khaddafi. che -come ha detto radio
Tripoli- non sarà l'ultimo, di promuovere un colpo di stato in
Giordania, per rovesciare il fantoccio Hussein.
Al centro di tutta la situazione mediorientale resta,come abbiamo detto
più volte, il petrolio. Gli USA sono disposti a chiudere in Vietnam,
anche a discapito degli interessi petroliferi nel sudest asiatico, che
danneggiano in modo diretto i vari Rockfeller e Connally, propietario
della Standard Oil il primo e interessato alle compagnie petrolifere
texane il secondo (i due sono stati del resto esclusi dalla segreteria
di Stato dell'amministrazione nixoniana), ma se gli americani hanno
ceduto in Vietnam è chiaro che hanno trovato un contraltare in
Medioriente, ed i mesi a venire potranno darci un quadro più chiaro
della situazione. Per noi la presenza del petrolio rende possibile,
nonostante le avversità del terreno, la guerra rivoluzionaria. Per le
organizzazioni palestinesi è questo il memento di insistere fino in
fondo, fino al fallimento della strategia di Nixon e di Dayan.
A nostro avviso non è positivo il fatto che il conflitto vietnamita si
concluda pacificamente su posizioni di compromesso: esso deve invece
continuare fino alla sconfitta totale degli USA e alla cacciata del
fantoccio Thieu; in caso contrario i primi a subire le conseguenze di
una distensione in Asia, saranno proprio i popoli arabi.
GERMANIA
Con la vittoria di Brandt la Ostpolitik, cavallo di battaglia elettorale
dei socialdemocratici-liberali è andata in porto. La politica dei
democristiani di Barzel puntava sulla denuncia della inflazione, che ha
portato ad un aumento del costo della vita del 5%, causata dalla
politica della piena occupazione voluta dalla coalizione di governo. La
tesi dell'opposizione era che un certo tasso di disoccupazione sia più
facile a sopportarsi che non i costi del pieno impiego. Nei riguardi
della Ostpolitik i rappresentanti del CDU-CSD hanno duramente osteggiato
il discorso dell'apertura ad est, accusando Brandt di fare il gioco di
Mosca. Ma quale è il reale significato e quali le conseguenze della
distensione tra le due Germanie?
Il popolo tedesco con il voto alla Ostpolitik ha riconosciuto l'attuale
divisione della Germania; questa scelta può sorprende¬re soltanto chi
vedeva nel popolo della Germania Federale il cuore di un'Europa libera.
I tedeschi occidentalizzati, come tutti i popoli soggetti al
colonialismo yankee, svitilizzati dal positivismo mercantile, da un
eccessivo benessere, hanno dimenticato la reale situazione, ed hanno
accettato quello che ai loro occhi appare il minore dei mali.
I tedeschi orientali sono sottoposti ad un regime duro, forse durissimo,
ma non sono certo alienati dal letale consumismo ti¬pico dei cosiddetti
"paesi liberi".
Le nazioni occidentali asservite agli USA, non nascondono la bramosia di
aprire, con la scusa della distensione, le porte dell'occidentalismo
verso i paesi dell'est.
A tale scopo si veda l'art. 7 del Trattato Fondamentale, siglato l'8
novembre a Bonn dopo i negoziati Bahrt-Kohl: «La Repubblica federale di
Germania e la Repubblica democratica tedesca dichiarano di essere
disposte a risolvere le questioni d'ordine pratico e umanitario nel
corso delle normalizzazioni delle loro relazioni. Esse concluderanno
accordi, sulla base di questo Trattato e con reciproco vantaggio, per
sviluppare e promuovere la cooperazione nei campi dell'economia, della
scienza, della tecnologia, dei trasporti, dei rapporti giuridici, delle
poste e telecomunicazioni, della salute pubblica, della cultura, dello
sport, della protezione dell'ambiente e altri», e il terzo tema
dell'ordine del giorno proposto dalle nazioni occidentali alla
Conferenza di Helsinki: «Lo sviluppo di più liberi e ampi rapporti tra
le persone, di una più vasta circolazione di libere idee al di
informazioni, degli scambi culturali, perchè la distensione non riposi
solo su una dimensione passiva di status quo e di contro assicurazioni
tra gli Stati ovvero su uno spirito mercantilistico, ma anche perchè si
schiudano effettivamente le finestre sicché nel confronto delle idee,
nella reciproca conoscenza la distensione consegua un suo fondamento
nell'animo e nell'intelletto dei popoli», nonché le significative parole
che ebbe a dire il ministro per il Commercio con l'estero Zagari nella
sua relazione di apertura del Convegno nazionale Commercio Estero del
3/4 giugno '71 a Roma: «... con la Ostpolitik è stato aperto
all'industria tedesca un orizzonte vastissimo... i mercati orientali
hanno raggiunto livelli di reddito sufficientemente elevati per aprire
le porte del consumo di massa ...».
Allorché i popoli dell'est ed in particolare la Germania orientale,
deviati da ogni prospettiva di indipendenza dai "blocchi" ad opera dei
rispettivi regimi, saranno costretti a confrontare i diversi livelli di
vita esistenti, a subire l'assillante pub¬blicità, conseguenza
inevitabile del "consumo di massa", a subire la circolazione delle
"libere idee" e della "cultura" di tipo occidentale (cioè americanista),
a "risolvere le questioni di ordine pratico ed umanitario nel corso
della normalizzazione delle relazioni tra i paesi dell'Ovest e
dell'Est", inevitabilmente saranno occidentalizzati.
Da questa analisi risulta evidente come l'Ostpolitik rappresenti il
cavallo di Troia dell'occidentalismo, nonché alla luce della dialettica
europea un ulteriore passo in avanti della volontà di abbruttimento dei
popoli a loro assoggettati da parte dei padroni del mondo (USA - URSS). |