Italia - Repubblica - Socializzazione

Controcorrente

Anno 1972 - N° 12

 

Via Pasquale Villari 27 - 00184 Roma

1 pagina con dimensioni: cm. 22 X 33

 

 

POLITICA INTERNA

 

Con le ultime elezioni amministrative del 26 novembre il governo di Andreotti ha avuto una sostanziale conferma della sua li¬nea centrista. Quale ne è il significato?
Nella DC il problema del mantenimento del potere e della pura gestione di esso (doroteismo) si accompagna ad una mancanza di formulazioni originali, e alla presenza di un estremismo verbale, che non arriva mai a qualificarsi su una propria strategia o su posizioni di rottura (Donat Cattin e, in parte, Base).
La DC è in altre parole incapace a prospettare iniziative politiche atte a risolvere i grandi problemi, e agisce solo in riguardo agli ostacoli politici con gli strumenti del tempo, dell'equilibrio, del temperamenti delle posizioni e del contenimento degli estremismi.
Dopo la sconfitta del disegno fanfaniano e la sua conseguente chiusura con le forze che ne fecero fallire l'elezione a Presi¬dente della Repubblica, è stato facile per l'ex delfino di De Gasperi ricucire attorno alla sua linea tutte le forze del carrozzone cattolico, riuscendo a tener legati quanti vedono favorevolmente una riedizione del centrosinistra da Donat-Cattin a Rumor, Moro e Colombo).
La controprova, per Andreotti, era il Congresso Socialista. Il fatto che a Genova i socialisti non abbiano, secondo il loro costume, mostrato alcuna seria volontà politica, che non sia quella dell'acquiescenza ai piani moderati, rivelando inoltre la natura clientelare del partito (brogli per le elezioni dei rappresentanti provinciali), dimostra che la battaglia deve ancora venire.
Lo stesso PCI, del resto, contrariamente a quanto affermano le destre, non ha interesse ad inserirsi nell'area di potere. Il quadro politico infatti, come abbiamo più volte sostenuto, si va da anni indirizzando verso la formazione di due egemonie: una al governo (DC) e l'altra ali'opposizione (PCI), le quali finiscono per controllare i partiti minori.
Il PCI non avrebbe quindi senso fuori dell'opposizione, che è del resto il suo ruolo naturale, stante la strumentazione del partito da parte delle forze della sinistra radicale.
A nostro avviso non ha alcun valore comunque una scelta tra "centrismo" e "neocentrosinistra", essendo tali formule due facce dello stesso disegno moderato.
La scelta che oggi si impone è tra l'attuale regime, in mano a oligarchie che gestiscono il potere tramite delle superfetazioni politiche (i partiti), in funzione contraria agli interessi del nostro popolo, essendo asservite a centrali di potere extranazionali (USA - URSS - Vaticano), ed il rifiuto di esso, che comporta una scelta rivoluzionaria, al disopra degli schemi politici oggi proposti.
 


ARGENTINA


Nella globale panoramica dei tentativi indipendentistici avutisi nell'America Latina, l'unico movimento che si distinse nella formulazione di una linea politica autonoma fu in origine il peronismo.
Ricordando gli avvenimenti che culminarono nell'insurrezione militare che lo ha spodestato, Peròn -nel corso di una inter¬vista- ha affermato che la sua caduta fu determinata dall'opposizione alle direttive dell'ambasciata USA.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, non videro nel regime peronista solo un nazionalismo desideroso di porsi al centro di una economia autonoma dei paesi dell'America Latina in via di sviluppo, ma scorsero in esso un tentativo di concorrenza nei confronti del potere monopolistico corrotto dal dollaro. Completò l'opera il Vaticano che condannò severamente il peronismo, scomunicando lo stesso Peròn, non certo per motivi di carattere religioso, ma per acquiescenza servilistica al governo di Washington.
Dopo 17 anni di esilio la notizia del rientro in patria di Juan Domingo Peròn, che ha suscitato in Italia l'entusiasmo delle destre, è da considerare in un'ampia logica nella quale può trovare spazio l'ipotesi di un graduale ritorno al potere del movimento peronista. Peròn dal canto suo spera che le prossime elezioni politiche che si terranno nel paese daranno al movimento peronista (il giustizialismo) l'80% dei voti. Questa dimensione resta però vaga e alquanto infondata per i due seguenti motivi.
1) La popolazione argentina, oltre a non avere ancora determinato le proprie istanze di rinnovamento, ha assorbito solo fram¬mentariamente la dottrina peronista, che, a nostro avviso, non può essere acquisita come base di una rivoluzione nel popolo argentino.
2) I pesanti conflitti avutisi all'interno del movimento giustizialista hanno portato ad una spaccatura ove si sono innalzate contraddizioni entro le quali si è verificata una netta separazione tra "vecchio peronismo" e "neoperonismo".
L'ala moderata dei giustizialisti, facente capo alla GGT (il sindacato argentino) che è da ritenersi l'organizzazione più pos¬sente del vecchio peronismo, scivolata prima ancora della notizia del ritorno di Peròn in Argentina su posizioni di compromesso con l'oligarchia locale, ha appoggiato fermamente le tesi programmate da Juan Peròn, quali sono state la "pacificazione nazionale" e la mascherata integrazione o "unità sociale"; mentre le tesi proclamate dai vari movimenti del neoperonismo, che, nettamen¬te in minoranza sono stati esclusi dall'unificazione delle organizzazioni giustizialiste (il nuovo FGL) e prossimi ad un'uscita in massa dal movimento, hanno respinto le tesi di Peròn, propugnando un'alternativa che non sia espressione servilistica nei confronti della classe dirigente attualmente al potere.
In ultima analisi, vista una prossima capitolazione dell'economia argentina, Lanusse sta tentando il tutto per tutto per integrare, dietro la figura di Peròn, quelle masse popolari che sono, tramite i sindacati, alimento indispensabile per il mantenimento del regime oligarchico, e Peròn di questa manovra è certamente a conoscenza.
Lo stesso incontro di Peròn a Roma con mons. Casaroli, è un sintomo del mutamento delle posizioni d'urto che si erano venute a creare quando l'ex dittatore fu cacciato dall'Argentina. È oggi evidente che Peròn, per il suo ritorno in Argentina, ha dovuto subire dei compromessi con le forze che precedentemente aveva combattuto.
Infine tale atteggiamento non ci convince affatto, sicuri come siamo, nel futuro scontro che si profila in Argentina, tra le forze rivoluzionarie e quelle conservatrici, di non vedere in Peròn un portabandiera delle prime.
 


MEDIORIENTE


La possibilità di una composizione pacifica della questione vietnamita, conseguente al viaggio di Nixon in Cina prima e a Mosca poi, ha scatenato in Medioriente una serie di reazioni a catena di cui non è ancora possibile cogliere la portata.
Se gli USA hanno capitolato nel Vietnam, i Russi -come contropartita- hanno ammorbidito la loro politica nei confronti dei paesi arabi (si veda il ritiro delle forze sovietiche dall'Egitto).
Da allora abbiamo assistito al tentativo della destra -espressione dei militari- di giungere a posizioni di potere in Egitto, tentativo che, qualora riesca, comprometterebbe ancor più la possibilità di un'azione politica rivoluzionaria nel mondo Arabo, e ad un rafforzamento militare della Siria, succeduta all'Egitto nella considerazione di Mosca, che ha notevolmente infastidito Israele. La reazione dei sionisti che hanno operato una serie di aggressioni provocatrici contro la Siria, ha scoperto il bluff dei Russi, che non hanno reagito in maniera decisa, disposti come sono ad impegnarsi con i paesi arabi senza mai superare il limite di rottura.
C'è da notare inoltre il tentativo di insabbiare l'attività guerrigliera e giungere ad una soluzione di compromesso, e in par¬ticolare la non disponibilità dell'Egitto a riaprire il fronte del canale di Suez, riprendendo la guerra di posizione (l'atteggiamento di Sadat al riguardo denuncia la miopia piccolo-nazionalista del premier egiziano e l'impossibilità di realizzare, almeno per ora, una strategia comune a tutti i paesi arabi), e le voci fatte circolare ad arte di un viaggio di Nixon al Cairo e a Tel Aviv e di un piano di pace di Kissinger, voci che nelle intenzioni degli occidentalisti hanno lo scopo di saggiare il terreno in vista di una ripresa distensiva, probabilmente concordata col viaggio a Mosca del presidente USA.
A nostro avviso comunque permangono dei fattori positivi e delle forze che operano fuori dei giochi di potere russo-americani; ci riferiamo:
1) alle azioni dei feddayn lungo il confine Siria-Libano-Israele, ed ai colpi di mano di Settembre Nero, che valutiamo positi¬vamente in quanto, mantenendo incandescente la situazione mediorientale, hanno infranto le speranze degli americani di operare l'aggancio diplomatico in grande stile con l'Egitto.
Per quanto riguarda le forze della guerriglia è da notare ancora una volta l'azione moderata di Arafat che ha concluso col Libano un trattato di impegno a non promuovere azioni contro Israele partendo dal territorio libanese, squalificandosi di fronte alle organizzazioni guerrigliere rivoluzionarie, che hanno rifiutato il trattato.
2) al tentativo del presidente libico Khaddafi. che -come ha detto radio Tripoli- non sarà l'ultimo, di promuovere un colpo di stato in Giordania, per rovesciare il fantoccio Hussein.
Al centro di tutta la situazione mediorientale resta,come abbiamo detto più volte, il petrolio. Gli USA sono disposti a chiudere in Vietnam, anche a discapito degli interessi petroliferi nel sudest asiatico, che danneggiano in modo diretto i vari Rockfeller e Connally, propietario della Standard Oil il primo e interessato alle compagnie petrolifere texane il secondo (i due sono stati del resto esclusi dalla segreteria di Stato dell'amministrazione nixoniana), ma se gli americani hanno ceduto in Vietnam è chiaro che hanno trovato un contraltare in Medioriente, ed i mesi a venire potranno darci un quadro più chiaro della situazione. Per noi la presenza del petrolio rende possibile, nonostante le avversità del terreno, la guerra rivoluzionaria. Per le organizzazioni palestinesi è questo il memento di insistere fino in fondo, fino al fallimento della strategia di Nixon e di Dayan.
A nostro avviso non è positivo il fatto che il conflitto vietnamita si concluda pacificamente su posizioni di compromesso: esso deve invece continuare fino alla sconfitta totale degli USA e alla cacciata del fantoccio Thieu; in caso contrario i primi a subire le conseguenze di una distensione in Asia, saranno proprio i popoli arabi.
 


GERMANIA


Con la vittoria di Brandt la Ostpolitik, cavallo di battaglia elettorale dei socialdemocratici-liberali è andata in porto. La politica dei democristiani di Barzel puntava sulla denuncia della inflazione, che ha portato ad un aumento del costo della vita del 5%, causata dalla politica della piena occupazione voluta dalla coalizione di governo. La tesi dell'opposizione era che un certo tasso di disoccupazione sia più facile a sopportarsi che non i costi del pieno impiego. Nei riguardi della Ostpolitik i rappresentanti del CDU-CSD hanno duramente osteggiato il discorso dell'apertura ad est, accusando Brandt di fare il gioco di Mosca. Ma quale è il reale significato e quali le conseguenze della distensione tra le due Germanie?
Il popolo tedesco con il voto alla Ostpolitik ha riconosciuto l'attuale divisione della Germania; questa scelta può sorprende¬re soltanto chi vedeva nel popolo della Germania Federale il cuore di un'Europa libera. I tedeschi occidentalizzati, come tutti i popoli soggetti al colonialismo yankee, svitilizzati dal positivismo mercantile, da un eccessivo benessere, hanno dimenticato la reale situazione, ed hanno accettato quello che ai loro occhi appare il minore dei mali.
I tedeschi orientali sono sottoposti ad un regime duro, forse durissimo, ma non sono certo alienati dal letale consumismo ti¬pico dei cosiddetti "paesi liberi".
Le nazioni occidentali asservite agli USA, non nascondono la bramosia di aprire, con la scusa della distensione, le porte dell'occidentalismo verso i paesi dell'est.
A tale scopo si veda l'art. 7 del Trattato Fondamentale, siglato l'8 novembre a Bonn dopo i negoziati Bahrt-Kohl: «La Repubblica federale di Germania e la Repubblica democratica tedesca dichiarano di essere disposte a risolvere le questioni d'ordine pratico e umanitario nel corso delle normalizzazioni delle loro relazioni. Esse concluderanno accordi, sulla base di questo Trattato e con reciproco vantaggio, per sviluppare e promuovere la cooperazione nei campi dell'economia, della scienza, della tecnologia, dei trasporti, dei rapporti giuridici, delle poste e telecomunicazioni, della salute pubblica, della cultura, dello sport, della protezione dell'ambiente e altri», e il terzo tema dell'ordine del giorno proposto dalle nazioni occidentali alla Conferenza di Helsinki: «Lo sviluppo di più liberi e ampi rapporti tra le persone, di una più vasta circolazione di libere idee al di informazioni, degli scambi culturali, perchè la distensione non riposi solo su una dimensione passiva di status quo e di contro assicurazioni tra gli Stati ovvero su uno spirito mercantilistico, ma anche perchè si schiudano effettivamente le finestre sicché nel confronto delle idee, nella reciproca conoscenza la distensione consegua un suo fondamento nell'animo e nell'intelletto dei popoli», nonché le significative parole che ebbe a dire il ministro per il Commercio con l'estero Zagari nella sua relazione di apertura del Convegno nazionale Commercio Estero del 3/4 giugno '71 a Roma: «... con la Ostpolitik è stato aperto all'industria tedesca un orizzonte vastissimo... i mercati orientali hanno raggiunto livelli di reddito sufficientemente elevati per aprire le porte del consumo di massa ...».
Allorché i popoli dell'est ed in particolare la Germania orientale, deviati da ogni prospettiva di indipendenza dai "blocchi" ad opera dei rispettivi regimi, saranno costretti a confrontare i diversi livelli di vita esistenti, a subire l'assillante pub¬blicità, conseguenza inevitabile del "consumo di massa", a subire la circolazione delle "libere idee" e della "cultura" di tipo occidentale (cioè americanista), a "risolvere le questioni di ordine pratico ed umanitario nel corso della normalizzazione delle relazioni tra i paesi dell'Ovest e dell'Est", inevitabilmente saranno occidentalizzati.
Da questa analisi risulta evidente come l'Ostpolitik rappresenti il cavallo di Troia dell'occidentalismo, nonché alla luce della dialettica europea un ulteriore passo in avanti della volontà di abbruttimento dei popoli a loro assoggettati da parte dei padroni del mondo (USA - URSS).

  Condividi