Anno 1973 - N° 5
Via Pasquale Villari 27 - 00184
Roma
Stampato fronte
e retro - dimensioni: 22 X 33 cm. |
IL
REGIME DELL'IMMOBILISMO
La sostituzione del governo Andreotti
con un centrismo a sinistra ha forse indotto qualche anima candida a
credere nella possibilità che si affrontino ora seriamente i problemi
sociali e politici del paese.
Nulla di più falso. Il tramonto della linea centrista non significa
affatto una sconfitta delle forze moderate che da quasi trent'anni hanno
in mano le leve del comando, senza aver risolto un problema che non sia
quello della gestione pura e semplice del potere.
Tali forze hanno bisogno di una situazione di stasi, da cui sorga il
malcontento popolare, amministrato poi dai partiti, e dunque incanalato
verso false questioni, per bloccare ogni possibilità di rinnovamento.
All'origine delle vicende che vanno dalla crisi del centro sinistra al
suo recupero, non c'è dunque che l'equilibrio di impotenze politiche tra
i clericali dello stampo dei Rumor e dei Fanfani e i loro (ben poco)
oppositori, a destra e a sinistra, dentro e fuori il partito.
La DC, incapace a proporre iniziative che permettano di affrontare le
grosse questioni, con una politica di temperamento delle posizioni, ha
spesso mutato le sue formule di governo. Quei mutamenti non hanno un
reale valore,essendo sfaccettature dello tesso disegno moderato.
Su tale gioco di formule i cattolici si sono costantemente tirati dietro
la sinistra, sempre più radicaleggiante e socialdemocratizzata negata da
sempre ad ogni prospettiva rivoluzionaria, e la destra, chiusa nella sua
miopia tardoborghese, pronta a servire le manovre papaline e americane.
E così,esauritosi il colpo gobbo andreottiano, Amintore Fanfani, risorto
sulle proprie ceneri (presidenziali), compie il gran riappattumamento
con i dorotei, ed ecco il segretario del PCI che annuncia la
"opposizione morbida" del suo partito, mentre Lama strizza l'occhio
proprio a Rumor,il cui ultimo centrosinistra era caduto tra il gaudio
dei sindacati.
DOSSIER CILE
In una delle sue prime dichiarazioni quale nuovo presidente della
Repubblica cilena, Salvador Allende proclamava che il suo governo si
prefiggeva due obiettivi fondamentali: cancellare per sempre il
latifondo, alfine di spezzare l'egemonia economica della borghesia
locale, che trova la sua espressione nei grossi proprietari terrieri;
nazionalizzare le risorse naturali, per stroncarne lo sfruttamento da
parte delle grandi imprese straniere, sostenute dal capitale USA.
La chiave moderata in cui tale disegno fu messo in atto portava Allende
a ricorrere ai militari. Era la prova del mite riformista dell'uomo: un
moderato che si è illuso di vincere il capitalismo umanizzandolo. La sua
fine dimostra che il colonialismo americano può essere sconfitto solo da
una politica di autonomia basata su una volontà rivoluzionaria senza
mezze misure.
La soluzione militarista, intermedia e provvisoria nei suoi intenti, è
stata dunque per Allende un'autocondanna.
Nel dicembre '72 l'opposizione -Partito nazionale e Democrazia
cristiana- sferrò un duro attacco al governo di Unidad Popular con lo
scopo di creare il caos economico e far cadere il governo. Il tentativo
era però sostenuto anche dalla ITT (International Telephon & Telegraph)
che già aveva tentato un complotto nel marzo '72, da compagnie USA quali
la Anaconda Copper, la Cerro Mining, la Kennecott, e da due gruppi
bancari statunitensi che operano nell'America Latina.
Non era che lo sbocco del boicottaggio economico e finanziario operato
dagli Stati Uniti attraverso la Banca Mondiale, il Fondo Monetario
Internazionale, le Agenzie di Credito e di Sviluppo e consimili istituti
di rapina internazionale.
Da qui il ricatto di Washington per il debito di indennizzo alle
suddette compagnie, il blocco della ricerca tecnologica mediante
allettanti impieghi all'estero (senza alterna-tiva) offerti ai quadri
cileni, e sopratutto la paralisi dell'esportazione del rame (80% della
esportazione totale cilena!), dimezzato nel prezzo dopo le misure
protezionistiche annunciate da Nixon la notte del ferragosto '71.
Ne derivò il crollo dell'economia cilena anche per il blocco delle
comunicazioni (vitali in un paese lungo 4.192 Km. e pressoché privo di
strade ferrate) operato dall'opposizione di destra. D'altra parte le
occupazione delle fabbriche e delle terre (tomas) attuate da elementi
del MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria) hanno finito col fare
il gioco della destra. Infatti i contadini delle "tomas", privi di una
coscienza rivoluzionaria, inseguivano solo un sogno borghese aspirando a
divenire piccoli proprietari. Fallito il sogno la produzione era calata
di colpo: tutto ciò riprova la mancanza in qualunque strategia classista
di una vera forza rivoluzionaria.
Il Partito Comunista ortodosso del resto si è limitato a svolgere
un'azione moderatrice, senza prendere alcuna iniziativa. È palese in
tale atteggiamento la volontà di non dispiacere a Mosca, evitando
contemporaneamente di perdere la faccia di fronte alle masse.
L'11 settembre i militari compivano il colpo di Stato. Appare evidente
dietro di loro la "longa manus" della CIA.
Che la "Central Intelligence Agency" sia tradizionalmente implicata in
tutti i sommovimenti politici, e in quelli dell'America Latina in
particolare, è un fatto scontato. Lo stesso Juan Peròn (che di CIA se ne
intende!) ha affermato circa l'ipotesi di un intervento diretto
dell'organizzazione: «Non posso dimostrarlo, ma lo credo fermamente,
perchè conosco tutti i retroscena. Non credo che possa essere andata in
alcun altro modo». Sembra inoltre che due esponenti del MIR, Miquel
Enriquez e Oscar Villalobos, già prima della morte di Allende avessero
denunciato la partecipazione di ufficiali ameri-cani alla preparazione
di un colpo di Stato.
Se la destra ha manifestato subito la propria simpatia alle marionette
del Dipartimento di Stato, la DC cilena non è stata da meno. Istigata
contro Allende dai partiti omologhi europei, dagli USA e dal Vaticano
(di recente Eduardo Frei ex-presidente cileno, si era consultato con
Papapaolo) appoggia oggi i militari, mentre per bocca del presidente
Alwyn sostiene di essere «su posizioni di sinistra avanzata e di
battersi per le riforme» (come se ciò fosse il non plus ultra della
validità politica), giustificando poi il "putsch" come difesa da un
presunto complotto dello stesso Allende: evidentemente l'arte dei
gesuiti è ben viva nei democristi di qualunque paese.
In Italia la vicenda cilena ha comunque scatenato un putiferio: i
destristi nazionali, alfieri dell'occidentalismo e degli USA, tripudiano
per il nuovo regime, mentre i loro cugini patriottardi d'oltreoceano
fanno i lanzichenecchi a favore dei militari. Infatti l'organizzazione
anticomunista (ma serva degli USA) "Patria y Libertad" si è
volontariamente sciolta per cooperare con l'esercito.
Dall'altra parte i radicali col botto, gli amanti della democrazia, i
difensori della libertà (quella di essere schiavi), stanno facendo a
gara nello strapparsi i capelli e piangere sull'eroe caduto, per
nascondere il proprio stato di servizio al soldo degli stessi padroni
dei generali cileni.
IL COLERA CLERICALE
L'infezione colerica che ha colpito alcune regioni italiane oltre ad
evidenziare le carenze igienico-sanitarie nelle quali il nostro paese
versa, ha dimostrato ancora una volta l'impotenza del regime.
Sotto la sferza del consumismo si sono costruite, da trent'anni a questa
parte, con la complicità dei governi e dei partiti, industrie e
metropoli balorde, senza sviluppare di pari passo i servizi secondari,
spesso costituiti (come per le famigerate fogne di Napoli) da opere di
inizio secolo.
Negato ad una azione di rinnovamento sostanziale della nostra società,
il regime si è costantemente accontentato di agire di riflesso seguendo
le direttive dei protettori ameri-cani, e limitandosi alla ordinaria
amministrazione. Il tutto con la benedizione pontificia e nel solito
stile dei mattatori della politica italiana: i democristiani.
Ora però esso si rivela incapace di assolvere anche alle sue più
elementari funzioni, come quella di tutelare la salute dei cittadini.
Ma il progresso (delle potenze colonialiste sulle nostre spalle) non
ammette deroghe: il capitale sollecita a produrre di più, il
sindacalismo incita a guadagnare di più, e il consumismo infine impone
di sperperare tutto.
Se il colera ha dunque risvegliato per un momento l'attenzione sulla
pessima amministrazione dello Stato, specie nel Sud, è bastato dare
tutta la colpa ai mitili e ai loro coltivatori, con l'aggiunta di
qualche iniezione, per fugare la paura della catastrofe, e con essa le
accuse alla classe dirigente, che può continuare indisturbata ad usare i
sistemi di sempre.
DOVE VAI ZIO SAM?
Se i colloqui Nixon-Breznev avevano sancito il passaggio dalla fase
della distensione a quella della cooperazione, con la nomina di
Kissinger a Segretario di Stato si cerca ora di dare un volto più pulito
alla politica di Nixon, dopo i fatti del Vietnam.
Kissinger è risultato estraneo all'affare Watergate e Nixon, che in un
primo tempo sembrava dovesse uscirne disfatto, sta riprendendo la
situazione in mano. Essendo pressochè impossibile una sua deposizione,
finirà col trovarsi addirittura rafforzato, vista la reazione
dell'opinione pubblica ormai disincantata e gli attacchi inconsistenti
dei suoi avversari, che hanno sulla coscienza delitti ben più pesanti di
un affare di intercettazioni, "effettuate sistematicamente da tutti i
presidenti da Truman a Johnson" come ha affermato lo stesso presidente
in un discorso del 15 agosto al paese.
Assolto dall'accusa di banditismo politico perchè il fatto non
costituisce reato, e rientra anzi nei normali metodi yankee, Nixon può
dunque tranquillamente continuare la sua linea politica, i cui obiettivi
vanno sempre più avvicinandosi alla realizzazione.
Una volta assicurato il predominio dei mercati occidentali gli USA vanno
ora invadendo i mercati dell'Est e del Terzo Mondo. Con la scusa di
scrollarsi di dosso l'etichetta di protettori del mondo libero, essi
stanno operando una ridistribuzione dei ruoli diplomatici ed economici,
mirando in realtà a trarre un profitto ancora maggiore dalla nuova
situazione, per assumere definitivamente il ruolo di arbitri della
politica internazionale.
La politica colonialista USA è imperniata su due fronti: distensione ed
allargamento delle aree di ingerenza economica, e controllo mediante la
CIA dei vari regimi fantoccio.
I maggiori successi del suaccennato passaggio dalla distensione alla
cooperazione sono stati colti proprio con la Russia, dopo che questa
aveva favorito la ostpolitik della maggior potenza economica dell'Europa
occidentale, che oltre ad essere largamente in mano al capitale USA,
deve quella potenza ai pesanti compromessi subiti alla fine della guerra
(divisione compresa), obbligata a restare succube della volontà
americana. Dall'ostpolitik tedesca agli scambi commerciali diretti con
l'URSS il passo è stato breve,e gli USA hanno ottenuto un secondo
successo: l'entrata della mentalità consumistica oltrecortina.
Per quanto riguarda i rapporti con la Cina, c'è da sottolineare
l'inversione di rotta di Pekino. Rotti i ponti con la Russia e temendone
la potenza,alla Cina non restava che aprire agli USA; da qui la politica
del ping-pong, che aveva però bisogno di giustificazioni politiche ed
ideologiche oltrechè economiche. La caduta di Lin Piao, esponente della
sinistra della rivoluzione culturale, a favore di Ciu En Lai ha favorito
tali giustificazioni. Ciu, pragmatista e tecnocrate ha dato il via alla
industrializzazione, costringendo la Cina a non poter fare a meno
dell'aiuto americano. A rifinire i particolari ci penserà "mister Kiss"
con la prossima visita a Pekino.
Importante la funzione della questione vietnamita nel gioco diplomatico
USA, Cina ed URSS. Il trattato di tregua rappresenta una vittoria
diplomatica degli USA, e viene ora usato come arma di ricatto, in quanto
la Cina non gradirebbe certo una Indocina egemonizzata dalla forza e dal
prestigio del principe Sihanouk. In Cambogia comunque parallelamente
alla auspicabile vittoria dei rivoluzionari, si va profilando una meno
auspicabile soluzione d'accordo delle grandi potenze con Sihanouk.
Nello scacchiere asiatico si va inserendo sempre con maggior peso il
Giappone. Ma anche qui il gigante economico non ha una volontà politica
autonoma (basti pensare alla contrattazione tra Cina ed USA ai suoi
danni). Per il Giappone vale dunque lo stesso discorso circa la
Germania, anche dal punto di vista della funzione di punta avanzata nei
rispettivi continenti del colonialismo del dollaro. La politica
nipponica di equidistanza dalle tre potenze, che del resto ammette dei
rapporti privilegiati con gli USA, è solo uno slogan.
Il secondo aspetto della politica USA, molto più subdolo e pericoloso, è
rappresentato dalle attività, dalle trame più o meno oscure della CIA.
Clamorose le organizzazioni di golpe da parte dei militari e fazioni a
loro fedeli, contro qualunque governo dai propositi autonomistici e anti
USA, pur se in chiave moderata (ultimo esempio quello cileno), che
permettono il controllo da parte americana di interi continenti, come il
Sud America dove ormai tutto giace sotto il tallone di Washington. Anche
nel Terzo Mondo pochi sono i paesi che hanno veramente rotto con gli
USA, e dal congresso dei Non Allineati di Algeri non è certo uscita una
decisa ed unitaria volontà di lotta ai blocchi colonialisti.
Sotto l'aspetto pacifista e protettivo, sostenuto dalla politica della
distensione, la volontà USA è sempre la stessa: mantenere un controllo
politico ed economico soffocante ovunque sia possibile, in perfetto
accordo con l'URSS. Anche se il supporto consumistico yankee, che è
riuscito a cloroformizzare la coscienza dei popoli soggetti, appare più
sottilmente pericoloso della brutale "sovranità limitata".
MODERATI E TRADITORI
Il 1° settembre, data prevista per l'unificazione tra la Libia e
l'Egitto, è trascorsa senza che cambiamenti di sorta si siano verificati
sulla carta geografica africana. Egitto e Libia restano entità statali
autonome, mentre nessuna scadenza precisa è stata concordata, e il
referendum che doveva tenersi il primo settembre è stato rinviato a data
da destinarsi.
Le posizioni del Cairo e di Tripoli sono distanti tra loro. La prova è
nei recenti avvenimenti: le "dimissioni" di Keddafi, la marcia degli
unionisti libici contrastata da Sadat, l'assenza di personalità egiziane
in occasione del quarto anniversario della rivoluzione libica a Tripoli.
A nostro avviso il fallimento della unificazione deve ravvisarsi nelle
opposte linee politiche perseguite da Sadat e Keddafi.
L'Egitto, nonostante la recente propaganda antiamericana che del resto
lascia il tempo che trova, mira a gettare le basi per un futuro appoggio
da parte di stati finanziariamente forti quali l'Arabia Saudita e il
Kuwait, che nelle intenzioni di Sadat dovrebbero sostituire la Libia. È
da vedersi in questo senso la politica di liberalizzazione economica in
atto in Egitto.
Ma l'intesa tra il Cairo e Riad vede Sadat allineato sulle posizioni
moderate di re Feisal e non viceversa, come dimostrano la mediazione
dell'Arabia Saudita tra Egitto e Siria da una parte e la Giordania
dall'altra, e l'implicita accettazione di Sadat della politica
petrolifera saudita, contraria ai piani di contenimento della
produzione, ciò che potrebbe danneggiare gli USA.
Una serie di posizioni dunque diametralmente opposte a quelle di
Keddafi: la nazionalizzazione al 51% di tutte le compagnie petrolifere
operanti in Libia, e il ruolo assunto sia in seno all'OPEC
(l'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), sia alla
conferenza di Algeri dei paesi non al lineati, hanno immediatamente
scatenato contro la Libia reazioni ostili da parte dei paesi
occidentalisti.
Le tesi di Keddafi (stante il presupposto ideologico che le anima) sono
le uniche valide per scardinare l'impasse dei la situazione attuale, che
trova nel disegno moderato e anti arabo perseguito dalle grandi potenze
la ragion d'essere.
USA e URSS sono d'accordo nel non permettere sviluppi pericolosi di una
situazione già di per sé esplosiva, e non intendono giungere ad un
accordo di pace. Accordo che sarebbe del resto difficilissimo, data la
volontà espansionista dei sionisti, evidenziata ancora una volta dal
recente piano di Dayan approvato dal partito laburista israeliano, che
prevede una ulteriore colonizzazione dei territori rapinati da Israele
con l'aggressione del '67.
In definitiva o i Paesi arabi sapranno riconoscersi in una volontà
rivoluzionaria unitaria, rigettando il pragmatismo machiavellico di
Sadat e il moderatismo dei traditori della causa araba, come Feisal
d'Arabia e Hussein di Giordania, oppure dovranno accontentarsi di
vivacchiare tra frasi roboanti e promesse velleitarie, in una realtà che
li vede oppressi. |