Italia - Repubblica - Socializzazione

Controcorrente

ANNO I - N° 3/4 - Marzo 1974

 

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dimensioni: cm. 11 X 17 * pagine n° 20

 

 

REFERENDUM E MANOVRE NEOGUELFE

Il referendum che si è appena svolto rientra, a nostro avviso, nella logica del regime.
Infatti il popolo italiano è stato chiamato a scegliere nell'ambito di una contrapposizione estranea agli autentici interessi nazionali: da una parte il mondo laicista, che nelle sue componenti estreme è il fautore di una società totalmente permissiva e lassista, sul modello di quelle anglosassoni e nordiche; dall'altra il più gretto e anacronistico conservatorismo sanfedista.
Noi, pur essendo per principio contrari ai giochi elettorali, abbiamo invitato a votare «NO», poichè il referendum rappresentava il paravento dietro al quale si nascondeva il tentativo del Vaticano e di Fanfani di ottenere una vittoria prestigiosa che avrebbe dato modo di realizzare da posizioni di forza il "compromesso storico" col PCI, e di dare un nuovo volto alla DC, che in vista di quell'obiettivo avrebbe dovuto essere lo strumento monolitico della volontà di segreteria.
In definitiva si trattava di ripetere l'esperienza di centrosinistra degli anni '60, col PCI ammorbidito e socialdemocratizzato, come già i socialisti, nell'intento di dare nuova linfa al regime democristiano (cioè al braccio secolare della Chiesa) che dopo trent'anni di potere mostra i segni di una crisi non più ricucibile con i normali mezzi.
In tale quadro la vittoria del «SI» oltre a ridurre la forza contrattuale del PCI, avrebbe colpito duramente i cosiddetti partiti laici (PSI, PSDI, PRI, PLI) e le forze ideologiche (massoneria) ed economiche (confindustria, Fiat) che li indirizzano e sostengono e che, ad esempio, hanno ostacolato aspramente la manovra fanfaniana di assumere il controllo della stampa. Dietro queste forze anti-integraliste sì possono forse scorgere anche gli interessi americani, contrari all'embrassons-nous tra Chiesa e partito comunista.
Il tentativo ha subìto una battuta d'arresto con la clamorosa sconfitta elettorale. Il piano strategico resta però in piedi. Ed ecco puntualmente riprendere il gioco infame delle bombe e degli attentati: la strategia della tensione questa volta scatenata per indurre il PCI ad accettare ugualmente le condizioni della DC, sotto il ricatto dell'avvento di un governo "forte" e la minaccia, ovviamente ingigantita, del golpe militare. Gli squalificati esponenti della destra nazionale sono così utilizzati due volte, come complemento ai piani neoguelfi: prima alleati elettorali e poi capri espiatori della violenza di regime.
Siamo ormai alla stretta finale di tutta l'operazione. Resta solo da attendere il momento favorevole. Probabilmente quando la fase più acuta della crisi economica interna (svalutazione monetaria e difficoltà di rifornimento di materie prime sui mercati esteri) coinciderà con la crisi istituzionale americana ("impeachment" di Nixon), si potrà varare il "compromesso storico".
L'incontro tra Chiesa e partito comunista (propiziato già nella visita di Gromiko a Papapaolo) avverrebbe nel segno di una riaffermazione dell'egemonia vaticana in Italia, in chiave moderata e con la necessaria collaborazione di governo del PCI. Corollario di questo disegno è la neutralità militare e politica dell'Italia che, svincolata dalla logica dei blocchi, diverrebbe però una sorta di nuovo Stato Pontificio.
La Chiesa di papa Montini ha bisogno -come già nei secoli d'oro del papato- di un supporto temporale per poter attuare quella volontà di espansione politico-religiosa su scala mondiale, che traspare ormai da molti sintomi.


GRAN BRETAGNA: IL BRACCIO EUROPEO DEGLI AMERICANI

Avevamo parlato nello scorso numero circa la impossibilità della creazione dell'Europa unita, essendo i suoi governanti sempre più incapaci di impostare un discorso costruttivo ed autonomo, e non ci ripeteremo. Vogliamo invece soffermarci sull'atteggiamento inglese.
La recente dichiarazione del ministro degli Esteri inglese Callaghan, di netta critica al MEC, ha smascherato la costante funzione antieuropea dell'Inghilterra: «La Gran Bretagna intende far parte di una alleanza atlantica in piena efficienza e di conseguenza trova un motivo di inquietudine nei disaccordi tra la Comunità e gli Stati Uniti. La CEE deve sforzarsi di lavorare in armonia con la America».
Il discorso del capo del Foreign Office non ci stupisce. Quando si trattò di votare l'ingresso inglese nella CEE solo la Francia gollista si oppose fermamente, attirandosi la collera dei tromboni delle democrazie europee, che vedevano nella azione autonomistica del generale, con la scusa del totalitarismo, un pericolo per l'Europa. De Gaulle considerava giustamente l'ingresso inglese nella Comunità un rafforzamento della strategia d'attacco degli USA e del loro colonialismo mercantilista. Tutto ciò intorno agli anni '67-'68, proprio quando egli iniziava la sua battaglia contro il potere del dollaro, attraverso il mercato dell'oro.
Scomparso il generale, il suo successore Pompidou, direttore della banca ebraica Rothschild, ammorbidì la politica estera francese, pur restando su una certa linea di svincolamento dagli USA. Fu lo stesso Pompidou ad accettare l'ingresso del Regno Unito nel MEC, e da allora iniziò l'azione disgregatrice inglese nei confronti del già logoro edificio della CEE. Il tentativo della diplomazia d'oltremanica, ad esempio, di impostare una comune politica con i francesi verso i popoli arabi rappresentò in tal senso una manovra diversiva atta ad insabbiare quell'avvicinamento.
D'altra parte il governo di Londra dispone rispetto alla CEE della alternativa economica rappresentata dal petrolio del Mare del Nord. Lo sfruttamento dei nuovi enormi giacimenti garantirà all'Inghilterra un ruolo di punta, aldifuori della CEE, sui mercati esteri, e comunque in caso di intervento dei monopoli petroliferi USA, l'autosufficienza britannica in campo energetico.
Un motivo di distacco verso l'Europa, in aggiunta ai tradizionali sentimenti isolazionistici, con il conseguente ruolo antieuropeo e filoamericano che nessuno meglio dell'Inghilterra può svolgere: l'aumento della ingerenza yankee sull'Europa è direttamente proporzionale al peso dell'influenza britannica sulla CEE, essendo molto stretta la parentela ideologica, politica ed economica tra Londra e Washington.
Del resto sono stati gli inglesi a favorire la nascita e lo sviluppo dello stato di Israele, espressione della volontà americana e sionista (dichiarazione Balfour), e a passare la mano agli USA, quando questi ultimi poterono, alla fine del secondo conflitto mondiale, attuare in proprio una politica colonialista nel Mediterraneo. Così la sortita antieuropea dell'Inghilterra che, in piena polemica tra Nixon e la CEE, torna a tutto vantaggio del primo.

 


LA LIBIA DI GHEDDAFI

Le notizie da Tripoli di un ridimensionamento del premier libico Gheddafi e della assunzione di alcuni poteri da parte di Abdel Salem Jallud, sono giunte improvvise. Al momento in cui scriviamo non è possibile stabilire con chiarezza quanto è successo in Libia.
Ove si trattasse di un definitivo defenestramento di Gheddafi si avrebbe una ulteriore vittoria della linea moderata e rinunciataria ormai imperante nel Vicino Oriente. Ma sarebbe sopratutto la vittoria del bipolarismo russo e americano, che vedrebbe finalmente sparire di scena il suo più irriducibile contestatore. A questo proposito un giornale del Kuwait, paese notoriamente moderato, è giunto ad affermare: «Stati Uniti ed Unione Sovietica hanno collaborato per mettere fuori dalla scena il colonnello Gheddafi affinchè egli non sia di esempio a coloro che si oppongono alle intenzioni di pace nel Vicino Oriente».
I fatti libici non sono la prova che il "realismo" di Sadat, come certa stampa cerca di contrabbandare, sia l'unica linea possibile in seno al mondo arabo; è vero invece che il presidente egiziano è il più fedele interprete della impostazione moderata della politica araba, voluta da Mosca e Washington. Il colloquio svoltosi a Parigi all'indomani della crisi libica, tra Jallud e il presidente sovietico Podgornj, è indicativo del mutamento di rotta. Non a caso la stampa internazionale di tutte le tinte, asservita agli interessi russo-americani, non nasconde la soddisfazione per gli avvenimenti di Libia. Espressioni come «anche Tripoli rientra nel sistema internazionale» ne costituiscono il leit-motiv.
Per quanto riguarda le cause della crisi è da considerare che gli insuccessi a livello internazionale si sono sicuramente ripercossi sulla situazione interna, a vantaggio dell'ala più moderata del Consiglio della Rivoluzione, facente capo a Jallud, il quale già in passato aveva costretto Gheddafi a rivedere certe sue posizioni.
Se, ripetiamo, l'ipotesi giusta è quella di un effettivo ridimensionamento del ruolo di Gheddafi, egli stesso non sarebbe esente da critiche. Non si portano avanti rischiose posizioni rivoluzionarie senza cautelarsi dall'opposizione interna. La prassi del tutto indolore con cui si è svolta la crisi, indicherebbe in tale senso un limite dell'uomo.
L'ipotesi alternativa è che il leader libico vista la sconfitta dei suoi tentativi pan-arabi e la affermazione di Sadat e delle classi politiche moderate in seno al mondo arabo, il tutto ampiamente controllato da Gromiko e Kissinger, abbia deciso una ritirata strategica, nella attuale situazione sfavorevole, lasciando una certa libertà di manovra a Jallud, e riservandosi di riprendere il discorso, mantenendo per il presente il controllo delle Forze Armate.
Gheddafi resta un capo carismatico, come dimostra, ultimo in ordine di tempo, il vertice di Lahore, che lo ha visto, unico tra i leaders arabi, ricevere il plauso incondizionato delle folle islamiche. Non va dimenticato poi che il colonnello libico ha già visto due tentativi di emarginazione nei suoi confronti, risultando vincente. Sono inoltre indicativi i precedenti propositi di ritiro usati come minaccia.
Ciò posto, diamo un quadro ed una valutazione della Libia di Gheddafi.
Quando il 1° settembre del '69, Idris el Senussi, ormai ottantenne re della Libia, eterno amico dell'Inghilterra e nemico dell'Italia, fu detronizzato da un consiglio rivoluzionario con a capo il colonnello Muammar el Gheddafi, che in breve ebbe ragione dell'imbelle governo regio, si pensò in un primo momento ad una semplice "congiura di palazzo", un passaggio di consegne che, in un modo o nell'altro, gli angloamericani sarebbero riusciti a riportare sui binari voluti. La Libia per le proprie risorse petrolifere e per le basi installate dall'Inghilterra e dagli USA non doveva assolutamente sfuggire al controllo. Nel giro di poco tempo invece la "congiura di palazzo" originò una serie di prese di posizione anticolonialiste ed antisioniste, passata alla storia come Rivoluzione Libica.
Il 26 ottobre '69 il colonnello Gheddafi proclamava l'adesione alla causa araba e intimava agli americani e agli inglesi lo sgombro delle basi militari di Wheelus e di Tobruk, annunciando inoltre l'imminente nazionalizzazione delle banche. La stampa mondiale (controllata dai sionisti) reagì subito, dipingendo il premier libico come un visionario ed un illuso; la destra italiana, non potendo affibbiargli la taccia di comunista servo di Mosca (classico espediente per deviare i beoti) coniò degli epiteti volgari, tipo «predone del deserto», e non trovò di meglio che organizzare manifestazioni assieme alle comunità israelitiche, rispolverando i logori temi del nazionalismo, con lo spunto della espulsione di diversi italiani dalla Libia. Ma è ben ipocrita atteggiarsi a nazionalisti per questi fatti e poi appoggiare la presenza della basi NATO nel nostro paese.
La Libia di Gheddafi è da annoverare nell'esiguo numero di nazioni capaci, anche solo in prospettiva, di incrinare l'ormai trentennale assetto stabilito a Yalta. Una valutazione positiva dell'opera di Gheddafi balza inoltre evidente da un esame oggettivo della situazione attuale rispetto al passato.
Paese interamente dipendente dalla produzione petrolifera, la Libia è per buona parte costituita da deserti; la popolazione di circa due milioni di abitanti, tra i quali la manodopera specializzata è quasi inesistente; le infrastrutture basate ancora oggi sulle opere attuate dall'Italia durante la sua dominazione. Senza contare la sfavorevole posizione geografica, che la vede lontana dai punti nevralgici arabi, e la mancanza di riferimenti storici, a differenza della Siria e dell'Egitto, su cui impostare una rinascita nazionale. Nonostante ciò la Libia di Gheddafi è entrata prepotentemente nelle grandi linee della politica mediterranea e vicnorientale ed aspira, unico esempio dopo il tramonto di Nasser, alla leadership del mondo arabo.
Il punto di forza della politica di Gheddafi può riassumersi nella ben nota "terza teoria internazionale": una serie di posizioni ideologiche, politiche ed economiche, condensate in enunciazioni di principio dal '72 in poi.
Dal punto di vista ideologico la leva su cui Gheddafi imposta il suo discorso è l'Islam, il rilancio della dottrina coranica, come ripresa delle antiche tradizioni, aggiornate in norme di vita e di comportamento per il mondo moderno. Un discorso che non poteva rimanere inascoltato tra i popoli arabi, i quali hanno nell'islamismo l'unico elemento storico e culturale di unione, di fronte ai molteplici fattori di differenziamento, sostanzialmente riconducibili alle gelosie piccolo-nazionalistiche, delle quali si avvalsero già gli inglesi.
Nel campo economico la "terza teoria" propone un suo tipo di socialismo. «Socialismo non e affatto comunismo (...) non abbiamo alcuna obiezione a che uno opti per il comunismo nel suo paese. Se noi giudicassimo ad un dato momento di dover applicare il comunismo come mezzo per risolvere un problema economico non esiteremmo a farlo. L'Islam non costituisce un ostacolo sulla via della nazionalizzazione, o della limitazione della proprietà».
Come si vede vi è un pragmatismo, mirante a fare dell'economia l'oggetto della politica, che ha le sue radici nel substrato ideologico anzidetto. Infatti il socialismo di Gheddafi, lungi dal riallacciarsi al determinismo economico, prospetta una fusione dell'elemento sociale con quello nazionale, alla luce della dimensione religiosa della vita e dei rapporti umani propria del Corano.
Il discorso si fa interessante sopratutto nel campo della politica internazionale. Qui la "terza teoria" sostiene delle posizioni veramente rivoluzionarie. La linea di Gheddafi non cerca alleanze negli schemi della NATO o del Patto di Varsavia, ma mira a stabilire un rapporto tra i paesi del cosiddetto Terzo Mondo e gli stati europei, aldifuori della influenza russo-americana. Al vertice di Algeri dei paesi non allineati egli dichiarava, in polemica con l'ormai riformista Castro, alleato dei sovietici: «Fra di noi vi sono paesi che mantengono alleanze militari ed economiche con i paesi imperialisti». O ancora l'intervista al francese "Le Monde" dell'ottobre '73, in pieno conflitto arabo-israeliano, definito, e oggi constatiamo interamente la veridicità della affermazione, «una guerra d'operetta».
«Un vero scandalo, una odiosa commedia, un tradimento (...) L'essenziale non è riprendere ad Israele i territori occupati nel '67, ma liberare i palestinesi, tutti i palestinesi dal giogo sionista. Parteciperò ad una guerra soltanto se il suo obiettivo sarà di scacciare gli usurpatori, di mandare a casa loro questi ebrei d'Europa che sono venuti dopo il '48 a colonizzare una terra araba (...) Il cessate il fuoco imposto dagli americani e dai russi? Mai! Gli arabi non dovranno accettare la tutela delle grandi potenze o quella del Consiglio di Sicurezza».
Il rapporto tra Israele e gli arabi non è più tra il paese aggressore e i popoli depredati, col solito corollario di piagnistei. Non una questione di diritto tale da non infastidire le Nazioni Unite. Il problema viene rivisto in termini di scelta di civiltà: uno scontro tra il mondo islamico ed un corpo ad esso estraneo, che può concludersi non attraverso la pace degli americani ma con la cancellazione di Israele e del colonialismo sionista.
A questo punto è d'obbligo fare alcune precisazioni. Dai pozzi libici si estraggono circa 900 milioni di barili di greggio l'anno, e il 90% della produzione è gestito da società e consorzi americani (Oasis, Oxydental, Exxon, Mobil, Amoseas, Amoco e Ageco, quest'ultima in compartecipazione con una compagnia libica). Aldifuori di essi l'AGIP ed una compagnia francese, la Aquitanie, sono presenti con modeste percentuali di partecipazione.
Tale realtà, appena incrinata dalla nazionalizzazione al 51% di tre compagnie statunitensi avvenuta nel febbraio del '74, vede la Libia esposta al ricatto USA, che in pratica controllano la principale risorsa del paese. Si aggiunga la situazione internazionale, imperniata sulla distensione e resa possibile dalla mancanza di nazioni che cerchino di rompere l'equilibrio (come furono la Francia di De Gaulle, Cuba e la Cina). Di conseguenza il presidente per rompere l'isolamento è stato suo malgrado costretto a assumere atteggiamenti contraddittori: si ricordi l'appoggio offerto al sudanese Nymeiri, ripagato con l'atteggiamento antilibico del governo di Karthoum. O il fallimento della unione con l'Egitto di Sadat, avviato all'incontro con gli USA, e della Repubblica Araba Islamica insieme alla Tunisia, supercontrollata da Washington.
Ma anche se i presupposti ideologici non si sono realizzati a livello politico, la volontà pan-araba e di socialismo nazionale di Muammar el Gheddafi rimane l'unico presupposto valido per un'azione politica che non voglia essere espressione degli interessi di Mosca e di Washington, ma di quelli arabi.

 


LE FORZE ARMATE SUPPORTO DEL SISTEMA (prima parte)

 

PREMESSA
Per comprendere lo stato di crisi delle FF.AA. si impone, a nostro avviso, una più completa interpretazione della nuova realtà politica venuta a determinarsi in seguito alla rottura ideologica e politica tra Russia e Cina, alla distensione, nonché ai nuovi fermenti in atto nel Sud America, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente.
Quelli inerenti alle FF.AA. sono quindi problemi essenzialmente politici. Gli aspetti tecnici connessi ad ogni singolo problema sono da ritenere secondari e subordinati ai primi. È la politica che, in effetti, arma e disarma, rinvigorisce e deprime le FF.AA. e ne realizza l'efficienza morale e tecnica.
Contrariamente a quanto si sostiene negli ambienti di destra e in quelli di sinistra, noi riteniamo che gli URSS e gli USA, superata la fase di espansione aggressiva, si dibattono oggi in una sempre più difficile opera di consolidamento dello status di Yalta. Ovviamente ciò esplica influenza determinante nei rispettivi eserciti ed in quelli satelliti.
L'intervento russo in Cecoslovacchia, concordato con gli USA e l'imposizione al "mondo libero" del Trattato di non proliferazione atomica, ne sono la riprova.
Pertanto, la FF.AA. italiane, male armate e poco addestrate, vengono tenute in vita solo quale supporto del sistema instaurato dai vincitori dell'ultimo conflitto mondiale.
E non potrebbe essere diversamente.
Ove le azioni diplomatiche e le pressioni sul governo non siano sufficienti a controllare la situazione, o nella prospettiva di tendenze autonomiste dei paesi assoggettati, la CIA architetta il colpo di forza. Ed ecco così al potere i generali e i colonnelli.
Con vantaggio di chi? Non certamente del popolo italiano, né dei popoli che aspirano a sganciarsi dalla influenza delle due Superpotenze.
Non è lecito nutrire dubbi al riguardo. L'esempio greco fu chiarissimo e non meno chiaro fu l'atteggiamento del Pentagono in occasione del putsch di Algeri, o di quello di Santiago.
È evidente quindi che disperdere ed immiserire le nostre forze in azioni anticomuniste, vuol dire porsi al servizio del nemico il quale, è bene ripeterlo, è uno solo: la Russiamerica e i rispettivi emissari.
Lasciarsi vincolare solo dal compromesso anticomunista è esiziale.
La rivoluzione o è totale o non è.
E un vero rivoluzionario è come un caposaldo nel deserto: deve saper combattere contro tutti, su 360 gradi.

RIFLESSI DEL COLONIALISMO RUSSO-AMERICANO SULLE FORZE ARMATE
L'editoriale americano del dicembre '73 del "Washington Post" affermava: «L'Europa resterà fondamentalmente vulnerabile perché non ha quella combinazione di unità politica e di potenza nucleare, necessaria per la sua difesa, cioè per la sua indipendenza politica». Se la mancanza di unità politica rappresenta la causa prima della debolezza dell'Europa, la sua carenza nucleare ne è una conseguenza che viene gonfiata dagli americani con la propaganda per aumentare il prezzo economico e politico richiesto per la "protezione" dell'Europa occidentale. Non a caso la mentalità benpensante del cosiddetto mondo libero tende ad affermare che le nazioni europee sono debitrici degli Stati Uniti per la loro difesa e sicurezza. La stessa assai diffusa mentalità suole differenziare il dominio USA sull'Europa occidentale da quello sovietico sulla Europa orientale in base all'assenza, da parte americana, della brutalità dell'occupazione. In verità il colonialismo americano non è meno rilevante di quello sovietico. Da esso si differenzia per il metodo più sottile di imposizione raggiunto con la abile manipolazione della informazione (mass-media e altri canali di informazione), e tramite la subordinazione economica e politica dei paesi europei, senza dover ricorrere ad un intervento militare diretto. Quanto a coloro che si ostinano a ribadire che lo scopo fondamentale dell'Unione Sovietica sia quello di allontanare i soldati americani dall'Europa dell'ovest, per mettere in atto un proprio piano espansionistico, ricorderemo che già in un discorso pronunciato a Tbilisi nel maggio '71 lo stesso Breznev annunciò la disponibilità dell'Unione Sovietica per discutere una reciproca collaborazione con la amministrazione americana, e che il sostanziale avallo della presenza americana in Europa risulta evidente da un esame della politica sovietica degli ultimi anni, tutta basata sulla ricerca di una cooperazione con il partner d'oltreoceano.
L'invasione russa a Praga dell'agosto '68 è la riprova del patto tacito di non aggressione tra USA e URSS, nonché della funzione inutile delle FF.AA. europee. Infatti gli americani per eludere le reazioni da parte dei governi occidentali celarono la notizia, di cui essi stessi, come del resto Dubcek, erano a conoscenza in anticipo.
In questo contesto la NATO e il Patto di Varsavia sono i due sistemi di alleanza con cui siffatta politica viene messa in pratica. Essi temono sopratutto il nascere di una qualche forza autonoma europea, ed hanno la funzione di neutralizzare qualsiasi tentativo in tale direzione.
Basti pensare alla politica di De Gaulle, che prevedeva lo sganciamento dalla NATO e la ricerca di contatti in chiave antiamericana con la Germania, la Romania e la Cina, la quale subì dei pesanti tentativi di boicottaggio: da una parte, facendo perno sul limite nazionalista del Generale e sul suo sentimento della "grandeur", si escogitò la cosiddetta "Multi Lateral Force", in pratica l'offerta di un ruolo privilegiato alla Francia in Europa (senza però uscire dal contesto atlantico); dall'altra, manovre economiche e politiche, non esclusa l'intimidazione tramite gli attentati misteriosi di quel periodo. Lo stesso "maggio francese" fu sfruttato allo scopo.
La politica di indebolimento della potenzialità militare dei paesi alleati da parte americana, oltre che attraverso la NATO ed il Trattato di non proliferazione atomica, è ottenuta anche con l'espediente di far acquistare agli europei le armi USA superate e vecchie, come nuove. L'industria bellica americana può in tal modo recuperare interamente i costi di produzione, e vincolare i paesi alleati tramite la fornitura dei pezzi di ricambio. Non differisce da tale logica ricattatoria il regime delle "costruzioni su licenza" per cui il permesso di costruire armi e pezzi di ricambio di progettazione USA, viene scambiato con pesanti concessioni di ordine politico-economico. Tale regime ha mostrato più volte la capacità di rendersi strumento dell'esecuzione delle decisioni del Tesoro americano, e non solamente in occasione delle misure protezionistiche annunciate da Nixon la notte del ferragosto '71. John Kennedy, ad esempio, per sostenere la traballante bilancia dei pagamenti americana, impose l'acquisto di un gran numero di carri M60A1 e aerei F104G, ormai sorpassati, ai suoi alleati della NATO e tra questi l'Italia.


segue al prossimo numero:
—  Il caso dell'Italia
—  Guerra rivoluzionaria