ANNO I - N° 3/4 -
Marzo 1974
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REFERENDUM E MANOVRE
NEOGUELFE
Il referendum che si è appena svolto rientra, a
nostro avviso, nella logica del regime.
Infatti il popolo italiano è stato chiamato a scegliere nell'ambito di
una contrapposizione estranea agli autentici interessi nazionali: da una
parte il mondo laicista, che nelle sue componenti estreme è il fautore
di una società totalmente permissiva e lassista, sul modello di quelle
anglosassoni e nordiche; dall'altra il più gretto e anacronistico
conservatorismo sanfedista.
Noi, pur essendo per principio contrari ai giochi elettorali, abbiamo
invitato a votare «NO», poichè il referendum rappresentava il paravento
dietro al quale si nascondeva il tentativo del Vaticano e di Fanfani di
ottenere una vittoria prestigiosa che avrebbe dato modo di realizzare da
posizioni di forza il "compromesso storico" col PCI, e di dare un nuovo
volto alla DC, che in vista di quell'obiettivo avrebbe dovuto essere lo
strumento monolitico della volontà di segreteria.
In definitiva si trattava di ripetere l'esperienza di centrosinistra
degli anni '60, col PCI ammorbidito e socialdemocratizzato, come già i
socialisti, nell'intento di dare nuova linfa al regime democristiano
(cioè al braccio secolare della Chiesa) che dopo trent'anni di potere
mostra i segni di una crisi non più ricucibile con i normali mezzi.
In tale quadro la vittoria del «SI» oltre a ridurre la forza
contrattuale del PCI, avrebbe colpito duramente i cosiddetti partiti
laici (PSI, PSDI, PRI, PLI) e le forze ideologiche (massoneria) ed
economiche (confindustria, Fiat) che li indirizzano e sostengono e che,
ad esempio, hanno ostacolato aspramente la manovra fanfaniana di
assumere il controllo della stampa. Dietro queste forze
anti-integraliste sì possono forse scorgere anche gli interessi
americani, contrari all'embrassons-nous tra Chiesa e partito comunista.
Il tentativo ha subìto una battuta d'arresto con la clamorosa sconfitta
elettorale. Il piano strategico resta però in piedi. Ed ecco
puntualmente riprendere il gioco infame delle bombe e degli attentati:
la strategia della tensione questa volta scatenata per indurre il PCI ad
accettare ugualmente le condizioni della DC, sotto il ricatto
dell'avvento di un governo "forte" e la minaccia, ovviamente
ingigantita, del golpe militare. Gli squalificati esponenti della destra
nazionale sono così utilizzati due volte, come complemento ai piani
neoguelfi: prima alleati elettorali e poi capri espiatori della violenza
di regime.
Siamo ormai alla stretta finale di tutta l'operazione. Resta solo da
attendere il momento favorevole. Probabilmente quando la fase più acuta
della crisi economica interna (svalutazione monetaria e difficoltà di
rifornimento di materie prime sui mercati esteri) coinciderà con la
crisi istituzionale americana ("impeachment" di Nixon), si potrà varare
il "compromesso storico".
L'incontro tra Chiesa e partito comunista (propiziato già nella visita
di Gromiko a Papapaolo) avverrebbe nel segno di una riaffermazione
dell'egemonia vaticana in Italia, in chiave moderata e con la necessaria
collaborazione di governo del PCI. Corollario di questo disegno è la
neutralità militare e politica dell'Italia che, svincolata dalla logica
dei blocchi, diverrebbe però una sorta di nuovo Stato Pontificio.
La Chiesa di papa Montini ha bisogno -come già nei secoli d'oro del
papato- di un supporto temporale per poter attuare quella volontà di
espansione politico-religiosa su scala mondiale, che traspare ormai da
molti sintomi.
GRAN BRETAGNA: IL BRACCIO EUROPEO DEGLI
AMERICANI
Avevamo parlato nello scorso numero circa la
impossibilità della creazione dell'Europa unita, essendo i suoi
governanti sempre più incapaci di impostare un discorso costruttivo ed
autonomo, e non ci ripeteremo. Vogliamo invece soffermarci
sull'atteggiamento inglese.
La recente dichiarazione del ministro degli Esteri inglese Callaghan, di
netta critica al MEC, ha smascherato la costante funzione antieuropea
dell'Inghilterra: «La Gran Bretagna intende far parte di una alleanza
atlantica in piena efficienza e di conseguenza trova un motivo di
inquietudine nei disaccordi tra la Comunità e gli Stati Uniti. La CEE
deve sforzarsi di lavorare in armonia con la America».
Il discorso del capo del Foreign Office non ci stupisce. Quando si
trattò di votare l'ingresso inglese nella CEE solo la Francia gollista
si oppose fermamente, attirandosi la collera dei tromboni delle
democrazie europee, che vedevano nella azione autonomistica del
generale, con la scusa del totalitarismo, un pericolo per l'Europa. De
Gaulle considerava giustamente l'ingresso inglese nella Comunità un
rafforzamento della strategia d'attacco degli USA e del loro
colonialismo mercantilista. Tutto ciò intorno agli anni '67-'68, proprio
quando egli iniziava la sua battaglia contro il potere del dollaro,
attraverso il mercato dell'oro.
Scomparso il generale, il suo successore Pompidou, direttore della banca
ebraica Rothschild, ammorbidì la politica estera francese, pur restando
su una certa linea di svincolamento dagli USA. Fu lo stesso Pompidou ad
accettare l'ingresso del Regno Unito nel MEC, e da allora iniziò
l'azione disgregatrice inglese nei confronti del già logoro edificio
della CEE. Il tentativo della diplomazia d'oltremanica, ad esempio, di
impostare una comune politica con i francesi verso i popoli arabi
rappresentò in tal senso una manovra diversiva atta ad insabbiare
quell'avvicinamento.
D'altra parte il governo di Londra dispone rispetto alla CEE della
alternativa economica rappresentata dal petrolio del Mare del Nord. Lo
sfruttamento dei nuovi enormi giacimenti garantirà all'Inghilterra un
ruolo di punta, aldifuori della CEE, sui mercati esteri, e comunque in
caso di intervento dei monopoli petroliferi USA, l'autosufficienza
britannica in campo energetico.
Un motivo di distacco verso l'Europa, in aggiunta ai tradizionali
sentimenti isolazionistici, con il conseguente ruolo antieuropeo e
filoamericano che nessuno meglio dell'Inghilterra può svolgere:
l'aumento della ingerenza yankee sull'Europa è direttamente
proporzionale al peso dell'influenza britannica sulla CEE, essendo molto
stretta la parentela ideologica, politica ed economica tra Londra e
Washington.
Del resto sono stati gli inglesi a favorire la nascita e lo sviluppo
dello stato di Israele, espressione della volontà americana e sionista
(dichiarazione Balfour), e a passare la mano agli USA, quando questi
ultimi poterono, alla fine del secondo conflitto mondiale, attuare in
proprio una politica colonialista nel Mediterraneo. Così la sortita
antieuropea dell'Inghilterra che, in piena polemica tra Nixon e la CEE,
torna a tutto vantaggio del primo.
LA LIBIA DI GHEDDAFI
Le notizie da Tripoli di un ridimensionamento del
premier libico Gheddafi e della assunzione di alcuni poteri da parte di
Abdel Salem Jallud, sono giunte improvvise. Al momento in cui scriviamo
non è possibile stabilire con chiarezza quanto è successo in Libia.
Ove si trattasse di un definitivo defenestramento di Gheddafi si avrebbe
una ulteriore vittoria della linea moderata e rinunciataria ormai
imperante nel Vicino Oriente. Ma sarebbe sopratutto la vittoria del
bipolarismo russo e americano, che vedrebbe finalmente sparire di scena
il suo più irriducibile contestatore. A questo proposito un giornale del
Kuwait, paese notoriamente moderato, è giunto ad affermare: «Stati Uniti
ed Unione Sovietica hanno collaborato per mettere fuori dalla scena il
colonnello Gheddafi affinchè egli non sia di esempio a coloro che si
oppongono alle intenzioni di pace nel Vicino Oriente».
I fatti libici non sono la prova che il "realismo" di Sadat, come certa
stampa cerca di contrabbandare, sia l'unica linea possibile in seno al
mondo arabo; è vero invece che il presidente egiziano è il più fedele
interprete della impostazione moderata della politica araba, voluta da
Mosca e Washington. Il colloquio svoltosi a Parigi all'indomani della
crisi libica, tra Jallud e il presidente sovietico Podgornj, è
indicativo del mutamento di rotta. Non a caso la stampa internazionale
di tutte le tinte, asservita agli interessi russo-americani, non
nasconde la soddisfazione per gli avvenimenti di Libia. Espressioni come
«anche Tripoli rientra nel sistema internazionale» ne costituiscono il
leit-motiv.
Per quanto riguarda le cause della crisi è da considerare che gli
insuccessi a livello internazionale si sono sicuramente ripercossi sulla
situazione interna, a vantaggio dell'ala più moderata del Consiglio
della Rivoluzione, facente capo a Jallud, il quale già in passato aveva
costretto Gheddafi a rivedere certe sue posizioni.
Se, ripetiamo, l'ipotesi giusta è quella di un effettivo
ridimensionamento del ruolo di Gheddafi, egli stesso non sarebbe esente
da critiche. Non si portano avanti rischiose posizioni rivoluzionarie
senza cautelarsi dall'opposizione interna. La prassi del tutto indolore
con cui si è svolta la crisi, indicherebbe in tale senso un limite
dell'uomo.
L'ipotesi alternativa è che il leader libico vista la sconfitta dei suoi
tentativi pan-arabi e la affermazione di Sadat e delle classi politiche
moderate in seno al mondo arabo, il tutto ampiamente controllato da
Gromiko e Kissinger, abbia deciso una ritirata strategica, nella attuale
situazione sfavorevole, lasciando una certa libertà di manovra a Jallud,
e riservandosi di riprendere il discorso, mantenendo per il presente il
controllo delle Forze Armate.
Gheddafi resta un capo carismatico, come dimostra, ultimo in ordine di
tempo, il vertice di Lahore, che lo ha visto, unico tra i leaders arabi,
ricevere il plauso incondizionato delle folle islamiche. Non va
dimenticato poi che il colonnello libico ha già visto due tentativi di
emarginazione nei suoi confronti, risultando vincente. Sono inoltre
indicativi i precedenti propositi di ritiro usati come minaccia.
Ciò posto, diamo un quadro ed una valutazione della Libia di Gheddafi.
Quando il 1° settembre del '69, Idris el Senussi, ormai ottantenne re
della Libia, eterno amico dell'Inghilterra e nemico dell'Italia, fu
detronizzato da un consiglio rivoluzionario con a capo il colonnello
Muammar el Gheddafi, che in breve ebbe ragione dell'imbelle governo
regio, si pensò in un primo momento ad una semplice "congiura di
palazzo", un passaggio di consegne che, in un modo o nell'altro, gli
angloamericani sarebbero riusciti a riportare sui binari voluti. La
Libia per le proprie risorse petrolifere e per le basi installate
dall'Inghilterra e dagli USA non doveva assolutamente sfuggire al
controllo. Nel giro di poco tempo invece la "congiura di palazzo"
originò una serie di prese di posizione anticolonialiste ed
antisioniste, passata alla storia come Rivoluzione Libica.
Il 26 ottobre '69 il colonnello Gheddafi proclamava l'adesione alla
causa araba e intimava agli americani e agli inglesi lo sgombro delle
basi militari di Wheelus e di Tobruk, annunciando inoltre l'imminente
nazionalizzazione delle banche. La stampa mondiale (controllata dai
sionisti) reagì subito, dipingendo il premier libico come un visionario
ed un illuso; la destra italiana, non potendo affibbiargli la taccia di
comunista servo di Mosca (classico espediente per deviare i beoti) coniò
degli epiteti volgari, tipo «predone del deserto», e non trovò di meglio
che organizzare manifestazioni assieme alle comunità israelitiche,
rispolverando i logori temi del nazionalismo, con lo spunto della
espulsione di diversi italiani dalla Libia. Ma è ben ipocrita
atteggiarsi a nazionalisti per questi fatti e poi appoggiare la presenza
della basi NATO nel nostro paese.
La Libia di Gheddafi è da annoverare nell'esiguo numero di nazioni
capaci, anche solo in prospettiva, di incrinare l'ormai trentennale
assetto stabilito a Yalta. Una valutazione positiva dell'opera di
Gheddafi balza inoltre evidente da un esame oggettivo della situazione
attuale rispetto al passato.
Paese interamente dipendente dalla produzione petrolifera, la Libia è
per buona parte costituita da deserti; la popolazione di circa due
milioni di abitanti, tra i quali la manodopera specializzata è quasi
inesistente; le infrastrutture basate ancora oggi sulle opere attuate
dall'Italia durante la sua dominazione. Senza contare la sfavorevole
posizione geografica, che la vede lontana dai punti nevralgici arabi, e
la mancanza di riferimenti storici, a differenza della Siria e
dell'Egitto, su cui impostare una rinascita nazionale. Nonostante ciò la
Libia di Gheddafi è entrata prepotentemente nelle grandi linee della
politica mediterranea e vicnorientale ed aspira, unico esempio dopo il
tramonto di Nasser, alla leadership del mondo arabo.
Il punto di forza della politica di Gheddafi può riassumersi nella ben
nota "terza teoria internazionale": una serie di posizioni ideologiche,
politiche ed economiche, condensate in enunciazioni di principio dal '72
in poi.
Dal punto di vista ideologico la leva su cui Gheddafi imposta il suo
discorso è l'Islam, il rilancio della dottrina coranica, come ripresa
delle antiche tradizioni, aggiornate in norme di vita e di comportamento
per il mondo moderno. Un discorso che non poteva rimanere inascoltato
tra i popoli arabi, i quali hanno nell'islamismo l'unico elemento
storico e culturale di unione, di fronte ai molteplici fattori di
differenziamento, sostanzialmente riconducibili alle gelosie
piccolo-nazionalistiche, delle quali si avvalsero già gli inglesi.
Nel campo economico la "terza teoria" propone un suo tipo di socialismo.
«Socialismo non e affatto comunismo (...) non abbiamo alcuna obiezione a
che uno opti per il comunismo nel suo paese. Se noi giudicassimo ad un
dato momento di dover applicare il comunismo come mezzo per risolvere un
problema economico non esiteremmo a farlo. L'Islam non costituisce un
ostacolo sulla via della nazionalizzazione, o della limitazione della
proprietà».
Come si vede vi è un pragmatismo, mirante a fare dell'economia l'oggetto
della politica, che ha le sue radici nel substrato ideologico anzidetto.
Infatti il socialismo di Gheddafi, lungi dal riallacciarsi al
determinismo economico, prospetta una fusione dell'elemento sociale con
quello nazionale, alla luce della dimensione religiosa della vita e dei
rapporti umani propria del Corano.
Il discorso si fa interessante sopratutto nel campo della politica
internazionale. Qui la "terza teoria" sostiene delle posizioni veramente
rivoluzionarie. La linea di Gheddafi non cerca alleanze negli schemi
della NATO o del Patto di Varsavia, ma mira a stabilire un rapporto tra
i paesi del cosiddetto Terzo Mondo e gli stati europei, aldifuori della
influenza russo-americana. Al vertice di Algeri dei paesi non allineati
egli dichiarava, in polemica con l'ormai riformista Castro, alleato dei
sovietici: «Fra di noi vi sono paesi che mantengono alleanze militari ed
economiche con i paesi imperialisti». O ancora l'intervista al francese
"Le Monde" dell'ottobre '73, in pieno conflitto arabo-israeliano,
definito, e oggi constatiamo interamente la veridicità della
affermazione, «una guerra d'operetta».
«Un vero scandalo, una odiosa commedia, un tradimento (...) L'essenziale
non è riprendere ad Israele i territori occupati nel '67, ma liberare i
palestinesi, tutti i palestinesi dal giogo sionista. Parteciperò ad una
guerra soltanto se il suo obiettivo sarà di scacciare gli usurpatori, di
mandare a casa loro questi ebrei d'Europa che sono venuti dopo il '48 a
colonizzare una terra araba (...) Il cessate il fuoco imposto dagli
americani e dai russi? Mai! Gli arabi non dovranno accettare la tutela
delle grandi potenze o quella del Consiglio di Sicurezza».
Il rapporto tra Israele e gli arabi non è più tra il paese aggressore e
i popoli depredati, col solito corollario di piagnistei. Non una
questione di diritto tale da non infastidire le Nazioni Unite. Il
problema viene rivisto in termini di scelta di civiltà: uno scontro tra
il mondo islamico ed un corpo ad esso estraneo, che può concludersi non
attraverso la pace degli americani ma con la cancellazione di Israele e
del colonialismo sionista.
A questo punto è d'obbligo fare alcune precisazioni. Dai pozzi libici si
estraggono circa 900 milioni di barili di greggio l'anno, e il 90% della
produzione è gestito da società e consorzi americani (Oasis, Oxydental,
Exxon, Mobil, Amoseas, Amoco e Ageco, quest'ultima in compartecipazione
con una compagnia libica). Aldifuori di essi l'AGIP ed una compagnia
francese, la Aquitanie, sono presenti con modeste percentuali di
partecipazione.
Tale realtà, appena incrinata dalla nazionalizzazione al 51% di tre
compagnie statunitensi avvenuta nel febbraio del '74, vede la Libia
esposta al ricatto USA, che in pratica controllano la principale risorsa
del paese. Si aggiunga la situazione internazionale, imperniata sulla
distensione e resa possibile dalla mancanza di nazioni che cerchino di
rompere l'equilibrio (come furono la Francia di De Gaulle, Cuba e la
Cina). Di conseguenza il presidente per rompere l'isolamento è stato suo
malgrado costretto a assumere atteggiamenti contraddittori: si ricordi
l'appoggio offerto al sudanese Nymeiri, ripagato con l'atteggiamento
antilibico del governo di Karthoum. O il fallimento della unione con
l'Egitto di Sadat, avviato all'incontro con gli USA, e della Repubblica
Araba Islamica insieme alla Tunisia, supercontrollata da Washington.
Ma anche se i presupposti ideologici non si sono realizzati a livello
politico, la volontà pan-araba e di socialismo nazionale di Muammar el
Gheddafi rimane l'unico presupposto valido per un'azione politica che
non voglia essere espressione degli interessi di Mosca e di Washington,
ma di quelli arabi.
LE FORZE ARMATE SUPPORTO DEL SISTEMA
(prima parte)
PREMESSA
Per comprendere lo stato di crisi delle FF.AA. si impone, a nostro
avviso, una più completa interpretazione della nuova realtà politica
venuta a determinarsi in seguito alla rottura ideologica e politica tra
Russia e Cina, alla distensione, nonché ai nuovi fermenti in atto nel
Sud America, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente.
Quelli inerenti alle FF.AA. sono quindi problemi essenzialmente
politici. Gli aspetti tecnici connessi ad ogni singolo problema sono da
ritenere secondari e subordinati ai primi. È la politica che, in
effetti, arma e disarma, rinvigorisce e deprime le FF.AA. e ne realizza
l'efficienza morale e tecnica.
Contrariamente a quanto si sostiene negli ambienti di destra e in quelli
di sinistra, noi riteniamo che gli URSS e gli USA, superata la fase di
espansione aggressiva, si dibattono oggi in una sempre più difficile
opera di consolidamento dello status di Yalta. Ovviamente ciò esplica
influenza determinante nei rispettivi eserciti ed in quelli satelliti.
L'intervento russo in Cecoslovacchia, concordato con gli USA e
l'imposizione al "mondo libero" del Trattato di non proliferazione
atomica, ne sono la riprova.
Pertanto, la FF.AA. italiane, male armate e poco addestrate, vengono
tenute in vita solo quale supporto del sistema instaurato dai vincitori
dell'ultimo conflitto mondiale.
E non potrebbe essere diversamente.
Ove le azioni diplomatiche e le pressioni sul governo non siano
sufficienti a controllare la situazione, o nella prospettiva di tendenze
autonomiste dei paesi assoggettati, la CIA architetta il colpo di forza.
Ed ecco così al potere i generali e i colonnelli.
Con vantaggio di chi? Non certamente del popolo italiano, né dei popoli
che aspirano a sganciarsi dalla influenza delle due Superpotenze.
Non è lecito nutrire dubbi al riguardo. L'esempio greco fu chiarissimo e
non meno chiaro fu l'atteggiamento del Pentagono in occasione del putsch
di Algeri, o di quello di Santiago.
È evidente quindi che disperdere ed immiserire le nostre forze in azioni
anticomuniste, vuol dire porsi al servizio del nemico il quale, è bene
ripeterlo, è uno solo: la Russiamerica e i rispettivi emissari.
Lasciarsi vincolare solo dal compromesso anticomunista è esiziale.
La rivoluzione o è totale o non è.
E un vero rivoluzionario è come un caposaldo nel deserto: deve saper
combattere contro tutti, su 360 gradi.
RIFLESSI DEL COLONIALISMO RUSSO-AMERICANO SULLE FORZE ARMATE
L'editoriale americano del dicembre '73 del "Washington Post" affermava:
«L'Europa resterà fondamentalmente vulnerabile perché non ha quella
combinazione di unità politica e di potenza nucleare, necessaria per la
sua difesa, cioè per la sua indipendenza politica». Se la mancanza di
unità politica rappresenta la causa prima della debolezza dell'Europa,
la sua carenza nucleare ne è una conseguenza che viene gonfiata dagli
americani con la propaganda per aumentare il prezzo economico e politico
richiesto per la "protezione" dell'Europa occidentale. Non a caso la
mentalità benpensante del cosiddetto mondo libero tende ad affermare che
le nazioni europee sono debitrici degli Stati Uniti per la loro difesa e
sicurezza. La stessa assai diffusa mentalità suole differenziare il
dominio USA sull'Europa occidentale da quello sovietico sulla Europa
orientale in base all'assenza, da parte americana, della brutalità
dell'occupazione. In verità il colonialismo americano non è meno
rilevante di quello sovietico. Da esso si differenzia per il metodo più
sottile di imposizione raggiunto con la abile manipolazione della
informazione (mass-media e altri canali di informazione), e tramite la
subordinazione economica e politica dei paesi europei, senza dover
ricorrere ad un intervento militare diretto. Quanto a coloro che si
ostinano a ribadire che lo scopo fondamentale dell'Unione Sovietica sia
quello di allontanare i soldati americani dall'Europa dell'ovest, per
mettere in atto un proprio piano espansionistico, ricorderemo che già in
un discorso pronunciato a Tbilisi nel maggio '71 lo stesso Breznev
annunciò la disponibilità dell'Unione Sovietica per discutere una
reciproca collaborazione con la amministrazione americana, e che il
sostanziale avallo della presenza americana in Europa risulta evidente
da un esame della politica sovietica degli ultimi anni, tutta basata
sulla ricerca di una cooperazione con il partner d'oltreoceano.
L'invasione russa a Praga dell'agosto '68 è la riprova del patto tacito
di non aggressione tra USA e URSS, nonché della funzione inutile delle
FF.AA. europee. Infatti gli americani per eludere le reazioni da parte
dei governi occidentali celarono la notizia, di cui essi stessi, come
del resto Dubcek, erano a conoscenza in anticipo.
In questo contesto la NATO e il Patto di Varsavia sono i due sistemi di
alleanza con cui siffatta politica viene messa in pratica. Essi temono
sopratutto il nascere di una qualche forza autonoma europea, ed hanno la
funzione di neutralizzare qualsiasi tentativo in tale direzione.
Basti pensare alla politica di De Gaulle, che prevedeva lo sganciamento
dalla NATO e la ricerca di contatti in chiave antiamericana con la
Germania, la Romania e la Cina, la quale subì dei pesanti tentativi di
boicottaggio: da una parte, facendo perno sul limite nazionalista del
Generale e sul suo sentimento della "grandeur", si escogitò la
cosiddetta "Multi Lateral Force", in pratica l'offerta di un ruolo
privilegiato alla Francia in Europa (senza però uscire dal contesto
atlantico); dall'altra, manovre economiche e politiche, non esclusa
l'intimidazione tramite gli attentati misteriosi di quel periodo. Lo
stesso "maggio francese" fu sfruttato allo scopo.
La politica di indebolimento della potenzialità militare dei paesi
alleati da parte americana, oltre che attraverso la NATO ed il Trattato
di non proliferazione atomica, è ottenuta anche con l'espediente di far
acquistare agli europei le armi USA superate e vecchie, come nuove.
L'industria bellica americana può in tal modo recuperare interamente i
costi di produzione, e vincolare i paesi alleati tramite la fornitura
dei pezzi di ricambio. Non differisce da tale logica ricattatoria il
regime delle "costruzioni su licenza" per cui il permesso di costruire
armi e pezzi di ricambio di progettazione USA, viene scambiato con
pesanti concessioni di ordine politico-economico. Tale regime ha
mostrato più volte la capacità di rendersi strumento dell'esecuzione
delle decisioni del Tesoro americano, e non solamente in occasione delle
misure protezionistiche annunciate da Nixon la notte del ferragosto '71.
John Kennedy, ad esempio, per sostenere la traballante bilancia dei
pagamenti americana, impose l'acquisto di un gran numero di carri M60A1
e aerei F104G, ormai sorpassati, ai suoi alleati della NATO e tra questi
l'Italia.
segue al prossimo numero:
— Il caso dell'Italia
— Guerra rivoluzionaria
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