ANNO I - n. 10 -
Ottobre 1974
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MANOVRE MODERATE
Dopo la sconfitta del referendum è apparso chiaro
alle correnti moderate che il gioco della gestione del malcontento per
fini di potere, cioè il riassorbimento delle varie forme di protesta in
termini elettoralistici non era più possibile in quanto nella
prospettiva di una forte crisi economica, si concretizzava uno
spostamento a sinistra di quello che è sempre stato l'elettorato
tradizionale DC: il ceto medio impiegatizio. In questo quadro si rendeva
necessario recuperare i famosi voti dati in prestito nel maggio '71 alla
destra, il cui elettorato già appariva ampiamente ricattabile e
manifestava sintomi di dissensi interni.
Il mezzo per condurre in porto l'operazione lo hanno fornito le solite
bombe misteriose, esplose al momento giusto, con la conseguente crociata
antifascista nell'isterico clima di caccia alle streghe che si è venuto
a creare. D'altronde l'antifascismo ha sempre rappresentato l'alibi
attraverso il quale mascherare l'inefficienza e l'immobilismo dei
governi susseguitisi nel dopoguerra.
IL RUOLO DEL MSI
In questo contesto è stata possibile l'utilizzazione
del MSI-DN come valvola di sfogo. Sfruttato ad uso e consumo della DC
che lo aveva pompato fino alle elezioni del '71 in funzione di
spauracchio e di ricatto delle sinistre, il MSI è stato oggi buttato a
mare dai suoi stessi padroni e deve restituire ciò che a livello
elettorale aveva avuto in prestito. Il ridimensionamento e il ridicolo
in cui Almirante e soci sono stati gettati con i fatti terroristici e la
questione del superteste fasullo hanno rappresentato il mezzo per
completare la manovra. È indubbio che l'ambiente folkloristico ed
equivoco che costituisce la destra italiana abbia offerto lo spunto al
regime per imbastire la montatura delle trame nere così come, quando
tornò comodo, furono usati Valpreda e compagni. Le speranze di tale
ambiente sono oggi accentrate su un appoggio americano per un forte
fronte anticomunista e su una crisi della distensione. Tale disegno è
destinato a fallire perché gli USA hanno scelto la via del
radical-progressismo, ed è in malafede perché serve soltanto ad
esasperare la falsa antitesi antifascismo-anticomunismo con la quale il
regime è riuscito a sviare ogni anelito rivoluzionario.
I COMUNISTI
Dopo gli ultimi avvenimenti del Mediterraneo,
complesso e contraddittorio viene a porsi il ruolo del PCI. Ormai
irreversibile la politica di Berlinguer di avvicinamento alla DC, a meno
di una fine della distensione in campo mondiale, passata dalla strategia
del compromesso a quella più annacquata delle «convergenze parallele»,
il PCI postula l'accordo con i cattolici, prosternandosi nei confronti
della NATO e offrendosi come unica alternativa per uscire dalla crisi
economica, stilando, per la prima volta nella sua storia, un programma
di governo.
Berlinguer punta però sopratutto alle posizioni di potere in seno alle
regioni ed alla amministrazione locale, perché sa che la strategia di
fondo non è realizzabile in tempi brevi in quanto gli USA, pur mirando
ad un assestamento dei paesi sotto la propria influenza in una
prospettiva radical-progressista (vedasi la fine delle dittature in
Grecia e in Portogallo, nonché il nuovo corso in Francia e Germania),
non sono favorevoli, per ragioni internazionali, ad un inserimento del
PCI nell'orbita governativa. Se ne sono avute le prime avvisaglie, con i
tentativi di spaccamento dell'unità sindacale, con la riapertura del
caso delle Brigate Rosse, e con i fatti di S. Basilio a Roma, giunti
subito dopo che il ministro di polizia Taviani, aveva annunciato che il
pericolo è solo a destra e che invece a sinistra non si muove foglia,
come probabilmente gli aveva assicurato il PCI che ha subito condannato
l'agitazione «spontanea». Anche questi tentativi di rilancio degli
opposti estremismi stanno ad indicare come l'ambiente moderato sia
pronto a reagire contro ogni eventualità di apertura ai comunisti.
I SOCIALISTI
Un sicuro alleato e complice della DC relativamente
alla utilizzazione della violenza di regime, si è rivelato il partito
socialista. Nell'attuale clima esso ha trovato l'ambiente adatto per
manovrare e rafforzare le proprie posizioni di potere. Rientrato al
governo dalla porta di servizio dopo essere stato ricattato e incanalato
in una strategia moderata, consona alle direttive USA, il PSI mira oggi
a non farsi scavalcare da un accordo diretto tra cattolici e comunisti.
Ingraziatosi il mondo imprenditoriale con critiche alla politica
economica per l'allentamento della stretta creditizia e con la proposta
di misure anti-deflazionistiche, introdottosi in vari centri di potere
(magistratura, organi di polizia), grazie a circa tre lustri di
condominio governativo con la DC, il PSI ha concordato sul gioco della
strategia della tensione, stante la possibilità di rafforzare i
privilegi fin qui acquisiti.
Quando però la sua influenza rischiava di farsi troppo pericolosa,
puntuale è giunta la crisi di governo. Essa deve servire a che niente si
muova dagli schemi della egemonia cattolica. Dopo aver preso ordini da
Washington, attraverso Tanassi le forze moderate stanno ricattando i
socialisti, imponendo il ritorno sui binari ortodossi del centrismo a
sinistra, o l'alternativa di un centrismo a destra senza PSI.
AFFARI ESTERI: OCCIDENTE
DA NIXON A FORD
Il sistema occidentale ha conosciuto negli ultimi mesi un
rimaneggiamento dei suoi vertici politici, sia nella nazione guida, sia
nelle province europee dell'impero, del tutto eccezionale.
La crisi del presidente Nixon ha mostrato -e solo in parte- cosa sia
realmente la democrazia dei paesi occidentali, esaltata nelle parole da
tutti i suoi leaders, ed usata come paravento per manovre e ricatti
dall'alta finanza e dalle sue diramazioni poliziesche, l'una e le altre
sempre più invisibili e sempre più onnipotenti. Per inciso, questo
dovrebbe far riflettere sulla «origine popolare» dei regimi importati in
Europa dopo la guerra dagli americani, compreso quello italiano sorto
dalla collaborazione tra i servizi segreti alleati e la mafia, che li
appoggiò, com'è noto, fin dallo sbarco in Sicilia.
Anche se la mentalità puritana yankee è paga dell'essersi liberata di
Tricky Dicky, dell'imbroglione Dick Nixon, e i giornalisti battono la
grancassa della libertà e della forza del popolo americano che ha saputo
schiacciare il vampiro, la realtà è necessariamente diversa. Che un
affare di intercettazioni telefoniche -sistematicamente effettuate da
tutti i presidenti da Truman a Jonshon- abbia potuto determinare la
caduta di Nixon, è affermazione quanto meno ingenua. Sui veri motivi,
però, non esiste documentazione, e il discorso non può che procedere per
via deduttiva.
Un ruolo da non trascurare è quello che potrebbero avere svolto i
circoli ebraici americani.
FALCHI E COLOMBE
All'epoca dell'annuncio della NEP di Nixon (le misure protezionistiche
del ferragosto '71) si determinò nel fronte sionista una spaccatura,
evidenziata allora dall'allontanamento di Bar Lev in Israele.
L'ispirazione della manovra nixoniana non poteva non essere giudaica,
stante la presenza di ebrei nei punti focali dell'economia americana con
Henry Kissinger -ebreo anch'egli- come trait-d'union verso la Casa
Bianca, e la manovra stessa, imperniata nello scacchiere vicinorientale
sul controllo dei prezzi del petrolio a discapito dell'Europa, rischiava
di essere intaccata dall'atteggiamento estremista di Israele. Il
sionismo internazionale antepose la difesa dei propri interessi su scala
mondiale all'appoggio ad una leadership di Tel Aviv, necessariamente
piccolo nazionalista e supercolonialista, riservandosi di riprendere i
vecchi schemi con l'evolvere della situazione. La spaccatura tra
«falchi» e «colombe» fu ricucita con concessioni ad Israele per lo
sviluppo di una industria bellica pesante autonoma, cioè piantata in
territorio israeliano.
Poi cominciò la lunga agonia del Watergate che potrebbe essere stato, in
questo contesto, lo strumento ebraico contro Nixon.
Il passaggio di Kissinger da «consigliori» del presidente a Segretario
di Stato rappresentò infatti l'ascesa di un filosionista moderato,
teorizzatore dell'arte del compromesso come base della politica di
conservazione dei privilegi USA, e «mister Kiss» tenne a precisare
durante il conflitto del Kippur che l'America difendeva Israele, ma non
le sue conquiste.
La crisi d'ottobre comunque riaprì la frattura. Costretto da Washington
a trattare la pace con gli arabi oltre Suez e dopo aver visto crollare
il mito dell'invincibilità della stella di Davide, Israele doveva
nuovamente cedere alle «colombe» d'oltreoceano. Ad acuire il contrasto
venne il comportamento dell'ebreo austriaco Kreisky che accettò, dietro
sollecitazione palestinese, di chiudere il traffico di emigranti ebrei
in Austria, suscitando le ire di Golda Meir. La risposta a questa
situazione è stata prima la caduta di Nixon e poi il ridimensionamento
diplomatico di Kissinger nel Mediterraneo.
L'ipotesi di una prospettiva di ripresa democratica alle prossime
elezioni americane non è a questo punto per nulla peregrina, né convince
la dichiarata non disponibilità dell'ultimo uomo del clan Kennedy. Una
revanche della Tammany Hall costituirebbe il preludio di una nuova
strategia d'attacco sui mercati esteri, sostenuta da una massiccia
esportazione ideologica e, se necessario, dalle armi, come puntualmente
si è verificato a Washington da Wilson in poi.
In tale quadro sarebbe disponibile per i duri del sionismo
internazionale una ben diversa possibilità di manovra, mentre per il
presente Ford appare molto più ricattabile dell'avvocato californiano
suo predecessore, non fosse altro per il peso elettorale, anche in
termini di appoggio finanziario, dei sei milioni di ebrei d'America.
Per quanto riguarda l'Europa ed il Mediterraneo in particolare i
mutamenti al vertice sono il riflesso della crisi americana, nel senso
che superato il momento di debolezza interna, gli USA intendono
reimpostare il discorso.
I cambi di guardia avvenuti seguono infatti la ristrutturazione della
Carta Atlantica -ultima iniziativa dell'ex presidente- che ha sancito la
fine delle spinte -purtroppo meglio sarebbe dire velleità- autonomiste
del vecchio continente. Inoltre il declino dei regimi conservatori e
militari ha eliminato quanto agli USA un intralcio sulla strada del
dialogo, ovviamente non paritario ma dall'alto in basso, con i partners
«progressisti» d'Europa, e quanto ai paesi dell'Est un dovere di
polemica, ormai inutile nel clima di conquista da parte americana dei
mercati orientali, conquista riguardo la quale Breznev ha precisato di
non essersi impegnato con l'uomo politico Nixon, ma con il
rappresentante degli Stati Uniti d'America.
NUOVO CORSO EUROPEO
La supina accettazione della Carta kissingeriana in Europa è stata resa
possibile dalla situazione francese post-elettorale. L'ascesa della
casta tecnocratica facente capo a Giscard D'Estaing ha messo termine al
post-gollismo di Pompidou, col relativo passaggio dalla fase della
rivalità a quella della cooperazione tra Francia e Stati Uniti. Gli
uomini insediatisi a Palazzo Matignon sono il prodotto del moderatismo
riformista transalpino, che durante tutta la Quinta Repubblica non era
mai arrivato a svolgere un ruolo così considerevole. Sul comune terreno
del mercantilismo atlantista essi hanno impostato il dialogo con il
nuovo cancelliere tedesco Helmuth Schmidt. Filoamericano per estrazione
politica e noto corifeo del moderatismo, l'uomo del club anseatico ha
contribuito allo smussamento delle posizioni dell'Europa dei Nove
sgradite agli USA. Né intende cambiare una virgola sulla ostpolitik,
creatura politica e leit-motiv elettorale di un'altra vittima illustre
degli scandali misteriosi di questi ultimi tempi: Willy Brandt. La
politica verso l'Est, non va dimenticato, è anzitutto l'implicito avallo
da parte tedesca della divisione in due della Germania, col che gli USA
e l'URSS intendono chiudere ogni possibilità di unione del cuore
dell'Europa; poi un cavallo di Troia dell'occidentalismo, che batte
proprio sul tasto del consumo di massa e del benessere per aprirsi la
via nel blocco sovietico, via commerciale e via ideologica, la stessa
che ha consentito all'americanismo di mettere radici e svilupparsi
nell'occidente europeo.
IL PORTOGALLO
Se è stato possibile dar vita a un asse Parigi-Bonn in versione
filoamericana con le elezioni e col controllo diplomatico, non sono
mancati nella restante Europa i colpi di forza. Ci riferiamo al
Portogallo dove ugualmente il golpe portato a termine da un gruppo di
militari presieduto da Antonio de Spinola, eccettuato il problema
dell'oltremare sotto il controllo dei residui del mercantilismo
portoghese, non ha determinato sostanziali cambiamenti di rotta
nell'indirizzo politico internazionale del paese lusitano.
L'abbattimento dell'Estado Novo salazariano e il tramonto del
conservatorismo paternalistico di Caetano sono rientrati, aldilà della
sterile euforia per le libertà da farsa che un regime controllato dagli
USA può offrire, nella strategia d'attacco della nuova borghesia
imprenditoriale, che ha trovato i naturali alleati nei militari da tempo
in agitazione per i propri interessi di casta, bramosa di entrare nei
circuiti economici europei, uscendo finalmente dall'isolamento.
La successiva uscita di scena di Spinola e l'ascesa del generale Costa
Gomez sembrano segnare un ulteriore passo in avanti in senso
radical-progressista, vale a dire l'allontanamento delle residue forze
conservatrici ancora legate alla dittatura.
L'indipendenza concessa alle ex-colonie non esula comunque dai canoni
delle libertà distensive, come tali solo apparenti. Il libro del
generale de Spinola "Portugal e o futuro" che ebbe larga eco nelle Forze
Armate è la testimonianza di una crisi dovuta al logoramento economico e
militare in Africa, e la questione portoghese nel continente nero
avrebbe potuto alla lunga dar vita a fenomeni di rivolta più ampi, sui
quali poteva far presa una azione araba o addirittura cinese. Meglio
dunque per gli USA accelerare un processo già spontaneo. Il
catalizzatore, per l'occasione, è stata la CIA che, lavorando sulla
scontento dei militari, sta gestendo il più asetticamente possibile
un'operazione che poteva sfuggire al controllo. Del resto le giovani
nazioni africane rientrano nei giochi di influenza degli USA, che se ne
servono a livello di maggioranza al Palazzo di Vetro, anche se nel
Mozambico un'azione in questo senso non sembra destinata al successo,
essendosi da tempo schierato il Frelimo (Fronte di Liberazione del
Mozambico) con i paesi non allineati. Le vie del Dipartimento di Stato
restano comunque infinite e, come affermavamo sopra, un Portogallo
rivestito di panni democratici, compresi i vecchi arnesi
socialcomunisti, è un alleato meno scabroso per gli USA rispetto al
passato regime.
LA CRISI DI CIPRO
L'altro punto caldo del Mediterraneo è la Grecia. Qui gli sviluppi
dell'intervento americano sono sfuggiti di mano, in pieno Watergate,
agli stessi ideatori.
La Grecia di Ghizikis aveva tentato di intensificare, sotto suggerimento
USA, la propria influenza su Cipro, tramite appoggi all'organizzazione
filo-ellenica Eokab, riproponendo gli atteggiamenti antiturchi degli
anni '60. Si voleva sfruttare il momento politico critico attraversato
dalla Turchia, all'interno per le precarie posizioni del premier Bulent
Ecevit, e all'esterno per le difficoltà dei rapporti con l'America sulla
questione delle navi USA non gradite nei porti turchi. Inoltre durante
l'ultimo conflitto arabo-israeliano i turchi, pur offrendo le loro basi
per il ponte aereo su Tel Aviv, le negarono nell'eventualità
dell'intervento diretto a fianco di Israele. Un analogo atteggiamento,
pur se più deciso, dei colonnelli di Papadopulos era costato a
quest'ultimo la destituzione.
Per la Grecia si prospettava inoltre, dietro l'iniziativa per Cipro, la
possibilità di manovrare a proprio vantaggio la contesa relativa al
petrolio dell'Egeo, proprio in un periodo di difficoltà economiche per
la Turchia, causa il divieto americano sulla coltivazione di oppio, una
delle fondamentali risorse del paese, impiegato farmaceuticamente e
soprattutto smerciato come droga. Si giunse così al «putsch» di Sampson
sotto la bandiera della «enosis», la riunificazione all'Eliade, e alla
destituzione dell'arcivescovo Makarios. I piani USA rischiavano però di
fallire. Per l'irrigidimento dei sovietici, preoccupati dagli sviluppi
del Watergate che potevano mettere in discussione gli accordi
Nixon-Breznev, e intenti a non perdere terreno nel Mediterraneo. Per la
sempre forte presenza inglese nell'isola garante dell'equilibrio
rappresentato da Makarios e per nulla intenzionata a farsi
ridimensionare senza contropartita. Infine per l'occasione presentatasi
ad Ecevit di giocare la carta dell'intervento militare.
A questo punto è accaduto l'imprevedibile voltafaccia nei confronti
della Grecia. Abbandonati al loro destino i seguaci di Sampson e
indebolita la posizione della Grecia col «golpe telefonico» di Kissinger
che ha portato all'abbattimento dei generali e al ritorno di Caramanlis
-ed è bene notare che il cambio di guardia è partito dalla Terza Armata
greca di stanza a Larissa, notoriamente la più filoamericana- gli Stati
Uniti, riconciliatisi con i turchi, intendevano estendere la loro
influenza su Cipro, non più attraverso la Grecia, ma tramite la Turchia.
Non è stato loro possibile però evitare la reazione greca. Posto di
fronte alla perdita di Cipro e vistosi minacciato direttamente dai
turchi, passati ad un'ulteriore offensiva in piena conferenza di Ginevra
il 14 agosto, il governo di Atene trovava la forza sotto la spinta
popolare antiamericana e quella meno irrazionale dei trusts interessati
alla sorte dei giacimenti la largo di Thasos, di contestare l'ingerenza
yankee, puntando nel contempo a svolgere un proprio ruolo europeo. Né
Costantino Caramanlis, né George Mavros, né Evanghelos Averoff, uomini
chiave del governo greco, sono però antiamericani per scelta ideologica
e la Grecia fuori della NATO senza una precisa volontà rivoluzionaria ha
ben poche possibilità di manovra. Appare evidente la prospettiva di un
rientro negli schemi atlantici, del resto abbandonati solo militarmente,
attraverso la porta di servizio del Consiglio d'Europa.
La Comunità infatti -dopo la nuova Carta Atlantica più che mai- non è
che una propaggine degli Stati Uniti.
La crisi cipriota è l'ennesima dimostrazione della determinazione
americana di fare e disfare gli affari interni degli «alleati». Essa
dimostra anche che la posizione di dominio sull'Europa, perpetuatasi per
l'asservimento delle classi dirigenti continentali agli USA, può venirsi
a trovare in situazioni precarie, ma gli equilibri del potere yankee
potranno essere frantumati solo da una volontà politica unita alla
determinazione ideologica anticolonialista e rivoluzionaria.
LIBIA
GHEDDAFI CONTROCORRENTE
La presenza del leader libico Gheddafi nella tribuna d'onore durante la
parata militare del primo settembre, quinto anniversario della
Rivoluzione, ha colto di sorpresa molti osservatori. Sorpresa è stata
anche la stampa italiana, che ha dovuto ammettere «obtorto collo» la
inesistenza dell'isolamento interno del premier libico e il
consolidamento del suo prestigio. Alla nostra stampa piaceva infatti
credere e far credere all'isolamento del premier libico e al suo
progressivo allontanamento dalla vita pubblica, intendendo colpire
attraverso il «giallo Gheddafi» non tanto la persona quanto l'intera
Rivoluzione Libica.
L'uomo non piace alla stampa radicale per la ben nota sua
spregiudicatezza, la sua gelosa indipendenza di giudizio, il suo
estremismo e i suoi «colpi di testa». E piace ancora meno a quella di
destra per il suo nazionalismo, la sua lotta al colonialismo e la sua
intransigenza antisionista.
Comunque lo si veda, Muammar el Gheddafi risulta decisamente un
individuo «controcorrente». «Le masse sono stanche degli insegnamenti
della destra e della sinistra (...) Non ci deve essere posto, nella
nostra società, per gli iscritti a nessun partito».
La tesi dell'emarginazione di Gheddafi tuttavia non era priva di qualche
fondamento: i falliti tentativi di unione con l'Egitto e la Tunisia,
l'improvviso e drammatico deteriorarsi dei rapporti con Sadat e l'ancor
più improvvisa e sorprendente riconciliazione propiziata da Jallud. Tali
vicende, interpretate in chiave radicalpiccoloborghese, pregiudicavamo
irrimediabilmente la posizione del Capo dello Stato libico. A nostro
avviso, benché non risultino ancora compiutamente precisati i ruoli
assegnati a Gheddafi e Jallud, nel Consiglio del Comando Rivoluzionario
non dovrebbero essersi verificati né aspri contrasti né lotte di potere.
ASSESTAMENTO
Ad una analisi corretta e depurata dal ciarpame cronachistico, c'è
semplicemente da registrare l'avvenuto assestamento del potere in un
paese la cui classe dirigente, dopo un lustro di gestione della cosa
pubblica, ha ritenuto opportuno stabilire una più acconcia ripartizione
dei compiti e delle responsabilità in funzione anche dell'emergere di
certe qualità e dell'avvenuta maturazione negli esponenti più
rappresentativi. Non ci riferiamo a dati di natura puramente tattica
(invio di note verbali alle ambasciate, firma di trattati, discorsi, e
così via) ma a campi motivazionali più profondi, alle linee strategiche
fondamentali, alle costanti dell'azione politica a lungo termine.
Il binomio Gheddafi-Jallud non può dar luogo a divergenze e dualismi,
perché le rispettive personalità dei protagonisti si integrano a vicenda
e perché tutta l'azione politico-diplomatica viene ricondotta all'unità
dai Consiglio del Comando Rivoluzionario nel quale s'incentra e dal
quale promana il potere. Un tale organo collegiale non può prescindere
da un capo, nel quale tutti i componenti si riconoscano, si ritrovino e
si innalzino. Da esso per energia e chiarezza di idee emerge
indubbiamente il colonnello Gheddafi. Nella sua figura le genti arabe,
intente a realizzare -in stato di guerra quasi permanente- la
trasformazione delle proprie strutture economiche e sociali medievali in
strutture moderne, dopo la scomparsa di Nasser, vedono una guida sicura
e coraggiosa.
Egli volle affermarsi subito come protagonista principale della
rivoluzione interna al suo paese, conquistando ad essa i libici, ma
seppe ben presto assurgere, mediante decisioni politiche intransigenti e
coerenti, al ruolo di simbolo anche degli altri popoli arabi. Infatti,
quali che siano le vicende dell'uomo, è da ritenersi per certo che
chiunque intenda prendere iniziative politico-militari nel Mediterraneo
e nel vicino oriente, se non con Gheddafi, sarà costretto a fare i conti
con il «gheddafismo».
IL COR
Abbiamo rilevato in un precedente articolo che il punto di forza della
linea politica di Gheddafi risiede nella «terza teoria», e che il fulcro
della sua ideologia poggia sulla dottrina coranica. «Noi non siamo né
per il comunismo né per il capitalismo (...) Soltanto il pensiero che
emerge dal libro di Allah, che è la sola vera espressione di arabismo,
Islam, umanità, socialismo e progresso, dovrà prevalere». Tali
atteggiamenti e fatti si sono resi possibili per la presenza di un
centro politico (il CCR), i cui dati caratteristici vanno messi nella
giusta evidenza. Le imprese golpistiche ed i sommovimenti militari,
fatalmente attuati per conto di terzi, non ci hanno mai visto
consenzienti, trattandosi di tecniche non rivoluzionarie ma
conservatrici. In Libia però non ci si trova dinanzi a soldati di
mestiere. Il Consiglio del Comando Rivoluzionario è composto da una
élite politica che solo accidentalmente indossa l'uniforme e che,
nell'atto stesso di promuovere e capeggiare la inevitabile insurrezione
armata, era già preparata a condurre una vera e propria rivoluzione,
agendo dunque in vista di propri scopi, non al servizio e come strumento
della volontà altrui.
Sul piano delle scelte politiche poi noi siamo da sempre attestati sulle
posizioni della «terza teoria»: una rivoluzione che faccia giustizia
degli infami patti di Yalta, che miri all'autonomia degli stati europei
e mediterranei dalla egemonia degli USA e dell'URSS e che sappia
affermare nel mondo -contro il materialismo consumatista e l'edonismo
piccolo borghese- una concezione di vita permeata da una più intensa
spiritualità e da una più alta religiosità.
Seguendo sopratutto il proprio istinto politico più che un sistema di
pensiero ben definito, Gheddafi, fin dalla sua prima esperienza
politica, comprese l'impossibilità di organizzare e di trascinare il suo
popolo verso l'indipendenza politica economica e militare, senza agitare
un'idea fascinosa e travolgente: l'unione panaraba fondata sull'eredità
spirituale e religiosa del Corano, vale a dire la mitizzazione
dell'aspirazione più profonda dell'animo arabo.
Il merito fondamentale di Gheddafi consiste nell'aver estremizzato ed
esaltato la lotta per l'emancipazione araba al punto di suscitare un
vero e proprio conflitto di portata mondiale fra due concezioni
irrimediabilmente antitetiche dell'uomo e dei problemi internazionali.
Egoistica, illuministica, antieroica e pacifista la prima; spirituale,
proletaria, guerriera e religiosa la seconda.
In tale seconda concezione noi ci riconosciamo fratelli con quanti la
sappiano affermare e vivere, quale che sia il loro credo o il colore
della loro pelle. Nel concetto di rivoluzione dei giovani libici sono
compresenti volontà rinnovatrici ed esaltazione degli impulsi vivi del
passato. Una rivoluzione cioè che sappia risolvere la cosiddetta «crisi
del mondo moderno», di cui si vanno occupando i pensatori di ogni paese,
trasferendo nei le azioni di ciascuno quella concezione dei rapporti
interumani a tutti i livelli. Lasciamo al biografo la descrizione degli
errori e delle debolezze degli uomini.
La nostra attenzione politica, e quindi storica e morale, non perderà di
vista i portatori di una rivoluzione nazionale e sociale che agitano nel
mondo -e non senza efficacia- il primato delle antiche tradizioni del
proprio popolo, quale simbolo di speranza, di giustizia e di dignità per
tutti.
GRECIA
RITORNO ALLA NORMALITÀ
Dal '67 ad oggi la Grecia ha visto alternarsi quattro regimi politici
alla sua guida, tutti sostenuti e controllati dagli americani.
Pupilla mediterranea della Gran Bretagna che l'aveva aiutata a soffocare
il tentativo insurrezionale del comunista Markos, la Grecia era passata
col crollo della potenza inglese sotto il controllo degli Stati Uniti,
come l'intero bacino del Mediterraneo. Sventata la minaccia comunista la
monarchia greca si consolidò col lungo governo conservatore e
autoritario di Costantino Caramanlis, venendo però a subire l'attacco di
nuovi gruppi contrari al sistema monarchico. Si trattava dei circoli
radicali, culturalmente e politicamente legati agli USA, che avevano in
Andrea Papandreu, frutto di Harvard e di Berkley, trovato il loro capo.
Le condizioni di sottosviluppo del paese, il suo ritardato progresso
industriale e l'agricoltura basata su criteri ottocenteschi,
alimentarono all'interno i motivi di critica radicale. Quando i
Papandreu giunsero a mettere in difficoltà la monarchia, essa non reagì
cercando di socialdemocratizzare il radicalismo, di trovare cioè una
formula di compromesso analoga a quella delle monarchie scandinave, ma
pensò di poter reggere il confronto irrigidendosi e contando
sull'adesione popolare. L'avvento della distensione kennediana, attorno
al 1960, fornì però, una più ampia prospettiva politica ai gruppi
radicali, consentendo loro l'attacco diretto al regime monarchico sulle
piazze e la sfida ad un gruppo di potere come quello militare (affare
dell'Aspida).
La vittoria sui comunisti di Markos aveva fatto credere alla monarchia
greca che nessun avversario avrebbe più. potuto contestare la
legittimità del trono e la garanzia delle libertà democratiche che esso
rappresentava, senza esporsi all'accusa di essere comunista, o comunque
di farne il gioco. Invece i Papandreu, forti dell'appoggio kennediano,
concepirono ed attuarono una strategia di utilizzazione dei comunisti, e
di contestazione democratica e di sinistra, cioè radicale, del sistema
monarchico.
Se si fosse giunti alle elezioni del maggio '67 le destre quasi
sicuramente sarebbero state sconfitte e il governo affidato a Giorgio
Papandreu, strettamente legato, tramite il figlio Andrea, ai radicali
americani. Il colpo di stato dei colonnelli liquidò definitivamente il
problema, dopo i tentativi di Costantino che, per indebolire Papandreu,
era arrivato a comperare a suon di dollari eminenti personaggi del suo
partito. Nell'aprile '67 la mancata fiducia al governo Cannellopulos fu
il segnale che mise in azione i militari. Il loro «golpe» fu attuato
nella prospettiva di restaurare il potere minacciato dai radicali, sotto
la scusa del pericolo rappresentato dai comunisti (strumentalizzati
invece dalle altre forze di sinistra).
Il «putsch» di Atene non fu all'inizio gradito alta Casa Bianca, che
aspettava il ritorno della legalità democratica, e puntava, più che su
Papadopulos, sui generali del re. Ma il fallimento del contro-colpo di
Costantino e la qualificazione nettamente moderata dei colonnelli
indusse gli USA ad estendere la loro protezione sul nuovo regime greco,
facendone un puntello della potenza americana nel Mediterraneo. Nella
campagna elettorale del '72 Nixon dichiarò: «Aiutare militarmente la
Grecia e la Turchia e garantire le condizioni per la continuità della
nostra alleanza è assolutamente indispensabile, è la condizione della
nostra presenza nel Mediterraneo e della possibilità di far giungere gli
aiuti ad Israele nella regione vicinorientale ».
Le riserve iniziali di parte americana ripresero corpo col colpo di
testa di Papadopulos, che rifiutò durante la crisi del kippur le basi
greche agli americani per l'aiuto ad Israele, cercando inoltre rapporti
con la Cina, con la Romania e con la Libia. Il pericolo di nuovi De
Gaulle che potessero turbare il già precario equilibrio mondiale era a
questo punto troppo forte per gli USA, e l'ex uomo della CIA si è
trovato destituito da un nuovo «golpe», dopo le violente e inopinate
manifestazioni di Atene, attuato da militari fedelissimi alla Nato.
I giri di valzer non erano però ancora finiti. Il nuovo governo di
Ghizikis si è rivelato infatti un ponte verso il ritorno di un regime
borghese e moderato. La vecchia determinazione USA si è così risolta
proprio alla vigilia della fine di Nixon e della crisi cipriota, e
prelude forse ad un processo di assestamento, con una ridistribuzione
dei ruoli tra gli alleati mediterranei dell'America, e delle influenze
tra l'America stessa e l'URSS, che proprio nel Mediterraneo orientale,
dopo il congelamento del conflitto vietnamita, hanno i loro punti
d'attrito.
Ci preme comunque sottolineare alcuni insegnamenti derivanti dagli
avvenimenti greci del 1967.
Il «putsch» dei colonnelli sollevò entusiasmi e speranze negli ambienti
della destra italiana, specie in certe sue frange sedicenti
rivoluzionarie, che guardarono al «golpe» militare come al metodo ideale
di risoluzione della presente congiuntura storica.
La storia dei movimenti rivoluzionari dimostra però che è il partito
politico e solo esso a fissare strategia e tattica, a decidere e a
promuovere ogni iniziativa. Il partito, il movimento rivoluzionario, il
centro dell'azione politica. Ogni dottrina tendente a proporre altri
centri ha carattere riformistico o deviazionistico, sia essa di
sinistra, e proponga pertanto il sindacato in luogo del partito, sia
essa dì sinistra, e proponga pertanto il sindacato in luogo del partito,
sia essa di destra, e proponga analogamente l'organismo militare.
La lunga polemica di Lenin contro il sindacalismo aziendalista e
l'azione di Hitler per distinguere prima il suo movimento dalle
innumerevoli organizzazioni militari di destra, e per subordinare poi al
partito lo Stato Maggiore tedesco, sono al riguardo esemplari.
Sindacalisti sono, a sinistra, i capi della IIª Internazionale che nel
'14 votano i crediti di guerra, e militari sono, a destra, i
venticinqueluglisti in Italia e i ventiluglisti in Germania.
L'organismo militare può ritenersi valido solo se usato dal movimento
rivoluzionario, così come lo è il sindacato se funge da «cinghia di
trasmissione» del partito secondo la nota affermazione di Lenin. Mentre
però per il sindacato la condizione può realizzarsi abbastanza spesso,
ciò avviene rarissimamente per l'organismo militare, in quanto su di
esso agiscono due classiche componenti controrivoluzionarie: il
legalismo e il conservatorismo. In Italia un terzo elemento, cioè
l'origine badogliana dell'esercito e la riduzione dei militari ad
impiegati dello Stato, impedisce di pensare ad un ruolo rivoluzionario
delle FF.AA.
Si aggiunga la strumentalizzazione per manovre di vertice e ricatti
politici delle misteriose e fasulle vicende golpiste accadute in Italia.
Quella della crisi governativa del luglio '64 (il caso SIFAR-De Lorenzo)
-che avrebbe avuto la copertura del sen. Segni allora Presidente della
Repubblica e di personalità ben più potenti del generale con la
caramella- usata prima dai notabili dorotei come ricatto verso i
socialisti per imprimere al centrosinistra quel carattere moderato che
di fatto assunse, e poi dai radicali e dal PSI stesso per
controricattare la DC in cambio dell'insabbiamento della questione,
riaperta addirittura tre anni dopo dal settimanale "l'Espresso", noto
amplificatore della sinistra democratica illuminata e giacobina, cioè
radicale. Quella -molto più ridicola- del dicembre 10 (le adunanze
velleitarie di ambienti destristi squalificati) di cui erano certamente
a conoscenza in anticipo le autorità di polizia, sfruttata per dipingere
ogni allontanamento dalla palude del moderatismo come un salto nel buio,
gestito da forsennati estremisti. Insomma il solito ricatto della paura.
Anche sul piano più strettamente politico il «golpe» greco offrì nuova
validità alle tentazioni deviazionistiche di destra, rispetto alle quali
ribadiamo che:
* i regimi conservatori borghesi non hanno nessuna reale affinità
ideologica e politica con i movimenti rivoluzionari, per cui credere in
essi è un errore di ottica politica, dovuto a confusione ideologica e
qualunquismo dottrinale.
* la loro maggiore caratteristica è quella di svilupparsi su un piano
nazionalistico e settoriale incapace di poter influire sulla vita
politica internazionale, anzi da questa influenzati e determinati, per
cui essi precludono un discorso politico svolto in termini di civiltà
(vedi l'isolamento franchista nell'ultimo conflitto mondiale).
* il loro maggior pericolo consiste nella contrapposizione alla sinistra
radicale e comunista, comune ai movimenti rivoluzionari, per cui si
accreditano parentele che non esistono e che portano in realtà allo
snervamento delle classi dirigenti e alla distorsione delle tesi
rivoluzionarie. |