Italia - Repubblica - Socializzazione

Controcorrente

ANNO II * n. 5/6 * Maggio/Giugno 1975

 

quindicinale iscritto al numero 15326 del registro stampa presso il Tribunale di Roma il 2 gennaio 1974 - direttore responsabile Romolo Giuliana - spedizione in abbonamento postale gruppo II - pubblicità inferiore al 70% - stampato in proprio - editrice SMIARCA srl - in caso di mancato recapito restituire al mittente: via P. Villari 27 - 00184 Roma

dimensioni: cm. 16,5 X 22 * pagine n° 16

 

Sommario:

 

 


* Hanno vinto?


* Una «rivoluzione» telecomandata


* Tre note sul vicinoriente


* Saggistica: Indocina (1ª parte)

 


 

INTERNI

HANNO VINTO?
OVVERO COME TI RADICALIZZO IL COMUNISTA

Le elezioni regionali di giugno, contrariamente al clamore suscitato, non hanno portato ad una "vittoria" delle sinistre capace di smuovere l'egemonia cattolica. Esse anzi hanno confermato la tendenza alla accentuazione della penetrazione delle forze radicali all'interno del paese, sulla scia di analoghi avvenimenti internazionali che possiamo in ultima analisi far risalire alla decisione delle centrali d'oltre oceano di rilanciare la «nuova frontiera» di memoria kennediana, in vista di una affermazione democratica alle presidenziali del '76 (vedi l'articolo sul Portogallo).
Tornando a noi dunque, risultato più radicale che comunista. Questo dovrebbe far riflettere le molte cassandre stonate che preconizzano la comunistizzazione d'Italia. Il PCI, infatti, se può ritenersi soddisfatto di essere uscito dalla quarantena in cui lo aveva relegato il centrosinistra con la cattura dei socialisti alla logica del potere democristiano, ha conseguito questa affermazione (che, considerato l'assorbimento dei voti dei gruppuscoli, del vecchio PSIUP, e quelli dei tiepidi pronti a cambiare sponda in qualunque momento, non è né eclatante né eccezionale) grazie alla strategia e alla penetrazione radicale. Essa opera sugli uomini delle Botteghe Oscure già dagli anni '60, gli anni della espansione radical-progressista, che aveva allora in Italia il suo leit-motiv nel «grande partito di democrazia laica» agitato da quell'Ugo La Malfa che ancora oggi imposta sulla frenesia atlantista il congresso del suo partito (alla faccia di Mazzini). L'operazione tendeva, secondo i suoi mentori, a scalzare la DC dalle proprie posizioni di strapotere e realizzare le riforme di struttura che il centrosinistra (il quale andava perdendo sempre più l'ideologizzazione radicale, ripiegandosi in senso moderato, e siamo all'epoca della scissione socialista) mostrava di non voler mai attuare.

RIFORME: UN'ARMA IN MANO AL REGIME
È bene a questo punto riaffermare che le riforme (revisione del Concordato, divorzio, regioni, ristrutturazione economica e sociale, ecc.) -realizzate lentamente e balordamente- anche se ispirate a criteri più fattivi ed efficaci, non avrebbero intaccato come non hanno intaccato le radici su cui il regime poggia. Non avrebbero portato, come non hanno portato. ad un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, ma tuttalpiù ad una nuova sferzata di consumismo e di borghesizzazione del proletario (ammesso che ancora esista) oltre a ulteriori sacche di disoccupazione e sottoccupazione. Si aggiunga che, sventolando la bandiera della giustizia sociale -anche se il vessillo è blasfemo in mano ai neocapitalisti, la gente ci crede- il regime acquista maggior rispettabilità, anestetizzando sempre più profondamente la coscienza delle classi, sistematicamente escluse dalla gestione della cosa pubblica e dalle decisioni politiche, dietro il paravento della democrazia dei partiti, e quindi per colpa di Fanfani & soci ma con la complicità determinante di Berlinguer & compagni.

L'ASSE CATTOLICI-COMUNISTI
Possiamo anzi affermare che il vero cardine dell'attuale regime è l'asse cattolici-comunisti. Esso inizia con le gesta di un agente sovietico chiamato Palmiro Togliatti, che torna in Italia dopo esserne fuggito anni prima ed usa il pugno di ferro contro i fascisti sconfitti (le leggi trucibalde di "Ercoli" ministro ne danno una idea), ed il guanto di velluto con i preti che rialzano la cresta (la svolta moderata di Salerno e la tacita approvazione dell'art. 7 della Costituzione sul Concordato). Ma Stalin decide di lasciare l'occidente europeo agli americani, e da Yalta telefona ai generali dell'Armata Rossa di fermarsi ed aspettare gli americani -dall'altra parte- prima di lanciarsi contro Berlino. I comunisti si trovano relegati ad un ruolo di appoggio al regime, fuori del governo, ed è la loro maledizione politica.

RADICALI E BOTTEGHE OSCURE
Abbiamo schematizzato in un numero precedente le vicende successive, ed il ruolo di Ingrao (dialogo coi cattolici) e di Amendola (unità delle sinistre). Arrivando al presente è molto probabile che una nuova ascesa radicale segni la vittoria del "radicale" Amendola, cioè la ripresa dei vecchio progetto lamalfiano.
Va però considerato che buona parte del vertice del partito mostra di non gradire il gioco radicale, al punto d'avere tentato fino all'ultimo di evitare il referendum, forse per paura di una affermazione cattolica, certo per non offrire una vittoria alla sinistra laica. Ma socialisti e radicali sono consapevoli della portata storica della unità della sinistra in Italia, anche se una forte presenza elettorale del PCI non è certo un elemento a favore dell'ammorbidimento delle posizioni politiche ed ideologiche di quest'ultimo verso la "nuova sinistra" laica e progressista. Anche se, dunque, il lavoro in comune con i comunisti non può sfociare nell'unità a breve scadenza resta la funzione (assolta egregiamente dalla stampa mondadoriana ed agnelliana) di spingere il PCI su posizioni sempre più radicaleggianti. A tale funzione lavora a pieno ritmo il PSI, vero portavoce della volontà radicale e sionista in Italia, che va sempre più ponendosi come gruppo di potere economico e politico, contraltare alla DC.


PORTOGALLO

UNA "RIVOLUZIONE" TELECOMANDATA
Dopo l'esaurimento del vecchio regime salazariano, l'ascesa dei militari portoghesi rappresenta l'adeguamento al nuovo corso radical-progressista della leadership statunitense
Per poter comprendere le recenti fasi della politica portoghese occorre inquadrare il ruolo delle forze che si contendono l'egemonia politica in seno al nuovo regime. Altrettanta importanza riveste la cornice internazionale, in cui rientrano le contrapposizioni interne al Portogallo, cornice che vede la sempre più netta affermazione della strategia radicale, ispirata in America dal composito mondo del partito della "nuova frontiera", punto di incontro degli interessi sionisti e mafiosi, di quelli dell'alta finanza monopolistica, del capitalismo illuminato, dei tecnocrati harvardiani, con relativa appendice culturale e propagandistica negli intellettuali "liberata", nei santoni della «new left», e nelle grandi centrali di informazione e manipolazione della opinione pubblici.

RITORNO ALLA «NUOVA FRONTIERA»?
Frutto della strategia radicale è senza dubbio il momento di incertezza della leadership americana sull'occidente. dopo il susseguirsi di scandali riguardanti la CIA, dopo il precedente eclatante del Watergate nixoniano, l'impasse della politica kissingeriana del passo dopo passo, e il ridimensionamento nel sudest asiatico.
Proprio in questo contesto avvennero improvvise la «rivoluzione dei garofani», la successiva uscita di scena del generale Spinola, suo iniziale protagonista, e la conseguente ascesa delle forze che ora si scontrano nel paese lusitano, vale a dire il partito socialista di Soares, il partito comunista di Cunhal, e il MFA (Movimento delle Forze Armate). Con il controllo sull'esecutivo e sulla presidenza americana da parte delle forze radicali e sioniste è iniziata una fase di mutamenti al vertice più o meno indolori nei paesi affiliati alla NATO: l'asse tecnocratico Giscard-Schmidt tra Parigi e Bonn con la liquidazione dell'eredità gollista in Europa, la nuova democrazia greca con le sue due facce, radical-progressista e moderata, riassumibili in Papandreu e Caramanlis; l'ascesa della sinistra laica in Italia. Il Portogallo, dopo mezzo secolo di dittatura salazariana e caetaniana e di politica coloniale in Africa (assai fastidiosa per le multinazionali) non è sfuggito all'attacco delle forze radicali, le quali dall'epoca del trinomio Kennedy-Papagiovanni-Kruscev cominciarono ad insinuarsi nei gangli del potere con l'intento oggi riuscito di estromettere le correnti di stampo borghese e conservatore espresse dal vecchio capitalismo e dalla Chiesa, al fine di impiantare un sistema basato sul neocapitalismo illuminato, quale si è pienamente realizzato oltre oceano. La strategia radicale prevedeva anzitutto l'attacco e la penetrazione verso l'esercito, struttura portante del vecchio regime, tramite la utilizzazione dei comunisti, come già -ma in tutt'altra situazione- era avvenuto in Grecia con Markos. Si è così favorita l'infiltrazione di elementi estremisti tra la truppa (come sta ora accadendo in Italia) e l'imbonimento in senso pacifista dei quadri. A tale proposito certa stampa ha pubblicato un presunto piano sovietico su scala internazionale, che definisce le fasi della conquista del potere da parte dei vari PC. L'affare sembra piuttosto un espediente dei radicali per logorare sul piano propagandistico le posizioni comuniste.
La lenta opera di penetrazione radicale ha sortito clamorosamente i suoi effetti col capovolgimento del vecchio regime, logorato da cinquant'anni di potere e ormai esauritosi storicamente. Mentre il vertice del MFA dava il suo appoggio al PCP, certo della scarsa forza elettorale dei partiti e di una grossa percentuale di schede bianche, la base delle forze armate decretava il successo dei socialisti di Soares, sfilando con i garofani nei fucili.

LE TRE CORRENTI DEI MILITARI
La posizione ideologica dei militari non è tra le più chiare, e sono note le divergenze in seno al MFA. Da una parte i «terzomondisti» che in qualche modo si rifanno alle esperienze afroasiatiche e latinoamericane, probabilmente senza intuirne il limite piccolo-nazionalista, di miopia politica e di incapacità rivoluzionaria, dall'altra parte gli «europeisti» che puntano direttamente su un Portogallo occidentalizzato, aggregato alle strutture colonialistiche americane, e si muovono quindi nell'area moderata, infine gli ortodossi di sinistra, i quali si ispirano al modello dei paesi dell'est, modello improponibile anche per il Cremlino, alle soglie di Gibilterra e delle Azzorre, data la esigenza primaria affermata da Breznev di continuare la distensione, cioè la politica dei blocchi.
Le contrapposizioni spesso pesanti tra queste correnti non hanno comunque portato ad una rottura netta, che segnerebbe probabilmente lo sgretolarsi dell'intero potere militare, salvo una improbabile notte dei lunghi coltelli in salsa latina. Sembra quindi che il MFA punti per il momento a mantenere la situazione cristallizzata per un periodo di tre-cinque anni, come sancito col patto dell'11 aprile, obbligando i partiti ad un ruolo subordinato ed all'accettazione preventiva del progetto costituzionale ancora non realizzato. Il ridimensionamento dei partiti si basa sul presupposto, non certo marxista, che la rivoluzione non è pienamente sentita dal popolo, il quale non è ancora maturo per gestirla, e quindi essa va portata avanti da chi ne ha compreso la portata, cioè dal vertice del MFA.

CUNHAL E SOARES
Il partito comunista di Alvaro Cunhal è l'unico che sia riuscito a porsi in posizione privilegiata con il MFA, per l'influenza sui sindacati e per la propria chiarezza ideologica. Essa va ricercata nello stalinismo, da cui l'antagonismo con i socialisti, interpreti tramite il leader Soares di un sottile gioco ispirato dalle centrali radicali americane di cui parlavamo. Come tutti i partiti socialisti europei, ricettacolo di sionisti e faccendieri di interessi radicali, anche il partito socialista portoghese assolve al ruolo di braccio occulto della nuova sinistra americana. Probabilmente Soares intende strumentalizzare i comunisti in chiave estremistica, per poi potersi presentare come il solo garante del progresso e del benessere economico. La nazionalizzazione delle compagnie di assicurazioni e delle banche, il tentativo di eliminazione del latifondismo, la proibizione al partito cattolico di presentarsi alle elezioni, la tacitazione del giornale "Repubblica" definito da Cunhal un ostacolo alla rivoluzione, il rifiuto opposto agli USA circa la utilizzazione delle Azzorre come basi in caso di conflitto vicinorientale, ci indicano un braccio di ferro, oltre che tra comunisti e socialisti, tra essi e le strutture ancora in piedi del vecchio regime. Il risultato del braccio di ferro riguarda il futuro prossimo portoghese.


MONDO ARABO

TRE NOTE SUL VICINORIENTE


1) l'accordo CEE-Israele
L'11 maggio a Bruxelles è stato firmato un nuovo accordo tra i Nove e Israele, in sostituzione di quello del '70. Pur essendo di natura commerciale, esso comprende disposizioni destinate a dare impulso alla cooperazione economica e tecnica, ed ha implicazioni politiche a vantaggio dei sionisti, permettendo loro tra l'altro di superare il raffreddamento dei rapporti con l'Europa seguito alla guerra del kippur, proprio in un momento di disaccordo tra falchi e colombe nel fronte sionista internazionale che poteva isolare Tel Aviv. Risulta quindi evidente l'influenza sionista sui paesi europei, disposti ad autodanneggiarsi pur di sostenere economicamente Israele. Il ministro degli Esteri Allon, firmatario per la parte israeliana, non ha nascosto la propria soddisfazione, aggiungendo che il suo paese continua ad aspirare all'associazione completa con la Comunità.
Parlavamo di autodanneggiamento. L'accordo prevede una graduale riduzione delle tariffe doganali europee per i prodotti israeliani (ottenuti, è bene non dimenticarlo, dalla terra araba) fino alla totale abolizione dei dazi per il 1° luglio !977, mentre da parte israeliana l'eliminazione delle barriere doganali sarà scaglionata in due tappe con tempi molto più lunghi, fino al gennaio 1985. Per il settore agricolo il paese più colpito e proprio l'Italia, costretta a schiacciare sotto le ruote dei camion i propri agrumi invenduti per comprare quelli israeliani. Lo stato ebraico può invece disporre di un mercato di 250 milioni di abitanti che già nel 1971 aveva fornito ad Israele il 54% delle importazioni ed assorbito il 39% delle esportazioni. Lo stesso mercato di 250 milioni di abitanti che, quando si trattava di acquistare il petrolio dagli arabi senza la mediazione americana e senza il super profitto delle «sette sorelle» ebraiche, si è prontamente tirato indietro, in nome della fedeltà atlantica, cioè dell'asservimento a chi ci rapina. C'è da augurarsi che questo nuovo smacco ai paesi arabi e all'Europa, illumini quanti si illudono di combattere il sionismo prescindendo da un discorso ideologico globale, senza vedere cioè in esso una forza che trascende i limiti geografici dello stato d'Israele, senza capire che la lotta va impostata ben al di la di qualche rivendicazione territoriale.

2) gli scontri in Libano
La situazione libanese e indicativa del la volontà sionista di eliminazione della guerriglia palestinese. La politica del passo dopo passo continua. I palestinesi si vedono opposti gli uomini della Falange Libanese del cristiano maronita Pierre Gemayel, che la fondo nel 1936 all'insegna del trinomio «Dio, Patria, Famiglia» comune a vari movimenti di retroguardie nazionalistica, specie nell'America Latina. Se la falange spagnola, estromessi gli elementi rivoluzionari che la fondarono, è approdata attraverso un lungo processo di involuzione alla condizione di campo di manovra di preti e moderati, la falange libanese, nata conservatrice, è attualmente una organizzazione inquadrata dalla CIA.
Il Libano che ha tra i paesi arabi una cultura e una struttura sociale che bene si adatta allo stile di vita occidentale, da anni vissuto sotto l'ala protettrice americana, è però forse il solo paese confinante con Israele che abbia mantenuto dopo la guerra dei '67 alcune posizioni strategiche favorevoli in caso di conflitto, il che unito alla presenza di centinaia di migliaia di profughi palestinesi, è per gli israeliani un serio problema. Attraverso bombardamenti sulla popolazione inerme e intimidazioni terroristiche gli israeliani hanno costantemente tenuto sotto pressione l'opinione pubblica libanese e influenzato l'opinione dei molti governi succedutisi in Libano, in senso antipalestinese. In un clima di questo genere è evidentemente balenata nella mente dei banditi di Tel Aviv l'idea di infliggere un colpo mortale alla rivoluzione palestinese, cercando di ripetere quel che avvenne nel famigerato settembre nero del 1970 nella Giordania di Hussein.
La prospettiva che in una ipotetica conferenza i palestinesi (la presenza dei quali a Ginevra sembra garantita dalla Russia dopo i colloqui di Arafat al Cremlino) partecipassero umiliati da un intervento militare dell'esercito libanese era una prospettiva molto fascinosa per gli israeliani. Non se la sono lasciata sfuggire. Attraverso la CIA la funzione di accendere la miccia è stata affidata alla falange di Gemayel. Quest'ultimo fin dal febbraio scorso si fece promotore di una violenta crociata antipalestinese recepita e condivisa specie negli ambienti della destra cristiana. Gli scontri cruenti hanno provocato centinaia di morti e la pronta reazione della guerriglia, senza dare i risultati sperati dai manovratori sionisti.
La situazione permane instabile nonostante i compromessi e le mediazioni di parte araba. Il tentativo sionista di liquidare per sempre la rivoluzione palestinese non è certo l'ultimo, e si ripeterà alla prossima occasione favorevole, sfruttando anche il limite moderato di Arafat che sembra deciso a portare l'OLP su posizioni vicine a Sadat, l'unica preoccupazione del quale è di far uscire l'Egitto dalla lotta araba contro Israele.

3) gli incontri Ford-Sadat a Salisburgo
Il 1° e 2 giugno a Salisburgo il presidente americano Gerald Ford e quello egiziano Anwar es Sadat hanno avuto una serie di colloqui giudicati costruttivi dalle due parti. Ford e Sadat pur non annunciando accordi particolari hanno comunque confermato concordi che i loro governi procederanno insieme nella ricerca delle soluzioni alla politica vicinorientale. Ford, giunto a Salisburgo dopo il placet sovietico alla politica americana sancito nei colloqui di Vienna tra Kissinger e il ministro degli Esteri sovietico Gromiko, è deciso a consolidare la politica USA nel Mediterraneo, e può ritenersi soddisfatto. Gli USA infatti sono riusciti a mettere in piedi un «fronte avanzato arabo» tra quei paesi che, ormai decisi ad ammettere e garantire la esistenza di Israele, si sono completamente votati alla politica yankee. Tale fronte può praticamente comprendere l'Egitto, l'Arabia Saudita, la Giordania, e in parte la Siria, che essendo sotto la sfera sovietica ha avuto evidentemente la direttiva da Mosca di associarsi alla politica egiziana. Lo «step by step» di Kissinger comincia a dare i suoi frutti, ed Israele può finalmente dormire sonni tranquilli? Mentre anche da parte russa si inizia a notare una certa apertura verso Israele (l'adesione russa alla tesi israeliana su una preparazione «più concreta» della conferenza di Ginevra è indicativa al riguardo), è da notare che contrariamente a quanto avvenuto ai tempi di Nixon, la politica americana di apertura verso i paesi arabi moderati non ha provocato l'isolamento di Israele. Anzi il presidente Ford era stato esortato con una lettera firmata da 76 senatori americani (25 repubblicani e 51 democratici) ad un atteggiamento decisamente filoisraeliano, e ciò a un anno e mezzo di distanza dalle elezioni presidenziali ha indubbiamente la sua importanza.
Restano ormai in piedi soltanto due ostacoli contro una completa vittoria della ingerenza USA e del colonialismo d'Israele, per giunta con l'accettazione araba moderata. La presenza della guerriglia palestinese e il tentativo di costruzione di un fronte unito dei paesi oltranzisti e rivoluzionari, che pare delinearsi sotto la leadership libica. L'Irak che sta attraversando una crisi nei rapporti con la Siria sembrerebbe schierarsi in tal senso, così pure i settori migliori della rivoluzione palestinese. La riuscita di questo fronte può definirsi un tentativo per una ripresa rivoluzionaria contro Israele, prima della completa liquidazione di tutte le speranze di lotta.

 

PRECISIAMO


La faccia tosta con cui la stampa radicale ha accolto la caduta della città vietnamita di Saigon, ribattezzata città di Ho Chi Minh, ultimo epilogo di una «giusta causa» secondo il metro di giudizio illuminato che divide appunto le guerre in giuste o sbagliate, ovvero, aggiungiamo noi, in quelle che non toccano gli interessi sionisti e in quelle che invece li toccano da vicino, tale faccia tosta dicevamo ha fatto cadere certa stampa in una macroscopica contraddizione. È noto infatti come essa sia impegnata a diffondere e sostenere la tesi secondo cui, lo stato di Israele è una realtà storica acquisita per cui è da stolti prospettare una sua cancellazione dalle carte geografiche del Vicino Oriente. Ergo i milioni di profughi palestinesi potranno al più accontentarsi di formare uno stato in esilio o dovranno rassegnarsi a restare dei senza patria.
Bene, la caduta -a seguito della lotta di popolo vittoriosa dei vietcong- del regime di Van Thieu (senza parlare della fine della Cambogia di Lon Nol) non ha insegnato nulla alla stampa radicale, e la stessa sorte dei governi fantoccio indocinesi potrebbe toccare in un futuro che ci auguriamo il più vicino possibile allo stato sionista di Israele.
A nostro avviso infatti, purché ci sia una volontà politica aliena da compromessi e una irriducibile certezza di vittoria, come è stato appunto il caso del Vietnam e della Cambogia, nessuna superfetazione storica o nessuno stato imposto con la violenza delle armi possono considerarsi storicamente acquisiti e immutabili.
Per tornare al discorso sui pennivendoli, adusi a dipingere gli israeliani come i novelli pionieri creatori del giardino nel deserto, essi non hanno neppure minimamente pensato che si potesse cogliere un parallelismo fra le guerre di popolo delle due realtà indocinese e palestinese. E in effetti la tesi dei pionieri invincibili della vanga e del fucile da opporsi agli arabi codardi e straccioni ha fatto breccia in molti ambienti, specialmente in quelli di destra stante l'alto grado di imbecillità che li caratterizza.
Si può cogliere di nuovo una analogia con il Vietnam circa il quale appunto la stampa e la propaganda tanto cara agli ambienti di destra (si ricordi il famoso film dei «berretti verdi») avevano dipinto i soldati yankees come i nuovi centurioni, mentre alla prova dei fatti essi si sono rivelati per quello che sono sempre stati, ovvero dei mediocri soldati e dei pessimi combattenti.
Considerando poi ciò che gli ebrei nel corso dei secoli, sparsi nei ghetti di tutto il mondo, sono sempre stati, riteniamo utile spendere qualche parola per puntualizzare alcuni dati di fatto.
In primo luogo quella dei contadini-soldati abitanti dei kibbuzim è una leggenda da sfatare. Essi infatti costituiscono appena poco più dell'1,5% della popolazione israeliana. In realtà la struttura sociale di Israele vede il predominio assoluto delle attività terziarie svolte da commercianti e sensali.
In secondo luogo un'altra leggenda da sfatare è quella che dipinge come «pionieri» gli ebrei che lasciati i paesi di origine hanno tentato i rischi e l'avventura sionista. Anche qui la realtà è ben diversa. Infatti tali «pionieri» sono sempre stati assistiti massicciamente sia dagli ebrei della diaspora che dagli USA. In particolare le banche ebraiche Rothschild, Kuhm-Loeb and Co., Wassermann, Warbrer ecc. hanno riversato milioni di dollari su Israele.
E sempre in tema di aiuti non si dimentichi come, con la colossale menzogna dei «sei milioni di ebrei morti» gli israeliani hanno rapinato alla Germania Federale (la Repubblica Democratica Tedesca più realista si è rifiutata di versare un solo centesimo) a iniziare dal 1952 più di un miliardo di dollari.
Considerando infine che più del 70% della bilancia attiva di Israele (mentre quella passiva gode di facilitazioni particolari) è costituito da rimesse e aiuti provenienti dall'estero, Israele più che stato sottosviluppato andrebbe definito «stato assistito».



UN LIBRO DIFFICILE


L'amico P. F. Altomonte, autore di opere filosofiche e politiche, che ci avevano fatto registrare la profondità e varietà della sua cultura e le non comuni sue doti di studioso e di pensatore, ha presentato recentemente un nuovo libro: "Per una tridirezionalità dello spirito come nuovo metro di valore".
Ingegnere, architetto, pittore e pubblicista Altomonte, con questa nuova fatica, affronta e risolve in modo rivoluzionario il problema dei rapporti tra individuo e società e tra individuo e Stato. Come sempre, Altomonte avvince, impegna, e quasi costringe il lettore alla ricerca, alla rimeditazione e all'«aggiustamento» delle proprie concezioni.
In questo senso il libro di Altomonte è un libro difficile. Opera di critica filosofica, nella quale però la parte propriamente critica ha -a nostro avviso- una funzione strumentale, quasi di supporto ad enunciazioni personali, originalissime; enunciazioni che, per una sorta di interno dinamismo, dal campo della speculazione si proiettano nella prassi. In sostanza, l'esigenza di «un nuovo metro di valore» non viene assunta quale mero motivo d'indagine, sibbene diviene elemento essenziale per la fondazione dello «Stato di popolo».
Attendiamo perciò da Altomonte la traduzione, in termini di attualità politica, del contenuto delle sue intuizioni filosofiche.


SAGGISTICA

INDOCINA: STORIA DI UNA GUERRA DI POPOLO

(1ª parte)
genesi e principi della rivoluzione vietnamita
 

Quando intorno al 1862 i francesi intrapresero la campagna di colonizzazione dell'Indocina, che si protrasse fino al 1895, le organizzazioni statali indigene erano ormai in completo declino. Gli ultimi sovrani di quello che fu il fastoso impero delle dinastie dei Tran e dei Le, vengono uno dopo l'altro scalzati dai troni, cedendo il passo alla casta dei colonialisti francesi.
Le strutture amministrative del «vecchio colonialismo», allo scopo di perpetuare lo spogliamento delle risorse economiche locali destinate poi all'esportazione, dovevano negare in primo luogo qualsiasi autonomia politica interna ed altresì imporre ai popoli assoggettati privazioni e rinunce tali da abbrutirli sul piano morale e materiale.
Reggendosi prevalentemente sui prodotti che davano le piantagioni, il regime coloniale ricava larghi profitti nel campo delle esportazioni. L'incremento e il ribasso della produzione vengono alternati a seconda della richiesta d'esportazione; quindi, la manodopera deve essa stessa avvicendare periodi di lavoro intenso con altrettanti periodi di inattività. La politica economica del regime non lasciava peraltro molte prospettive: lavorare per il colonialismo, mettendo i poderi dei piccoli proprietari terrieri indigeni al suo pieno servizio, oppure indebitarsi con le oligarchie agrarie locali asservite ai colonialisti, sotto il rischio costante della confisca delle terre. Inoltre, le banche francesi (Banca d'Indocina, Credito Fondiario, ecc.), dopo aver fatto sfruttare interamente le piantagioni, collocano i capitali indigeni nelle mani degli esportatori. Tale politica impedisce, proprio perché non rientrava negli interessi dell'amministrazione coloniale, uno sviluppo industriale omogeneo. Le uniche industrie esistenti riguardano la costruzione delle vie di comunicazione tra le città portuali e l'entroterra agricolo.
A causa della cattiva razionalizzazione delle acque, dovuta allo scarso numero di impianti per l'irrigazione, le inondazioni delle terre si succedono a lunghi periodi di siccità. Superfluo dire a questo punto come l'elemento indigeno resistesse agli stenti spesso in condizioni disumane.
Tuttavia, ovunque un sistema coloniale abbia radicato le proprie strutture di potere, esso ha sempre posto le premesse per il suo rovesciamento. Coincidendo con un allargamento delle comunicazioni interne, gli scambi economici determinano la rottura delle antiche barriere che separano le città dalle campagne, dando origine ad una acculturazione di popoli, i quali si rivelano strettamente legati in un destino comune. Sorgono così nei principali centri urbani le prime organizzazioni nazionaliste, composte perlopiù da esponenti della nascente borghesia illuminata, il cui intento è di spingere il Protettorato sulla via delle riforme, basando le richieste su un ammodernamento delle strutture feudali interne a proprio vantaggio.

LE DUE VIE MODERATE DEL NAZIONALISMO
In seno ai movimenti nazionalisti, si mette in luce la linea di un letterato buddista, Phan Boi Chan, secondo il quale la via per giungere ad una certa autonomia interna andava ricercata nella pressione di forze esterne non occidentali sul colonialismo francese, affinché si decidesse a concedere alcune libertà politiche, pur senza limitare il potere di decisione dell'amministrazione locale, la cui giurisdizione sul suolo indocinese era messa fuori discussione.
Secondo Chan a dirigere tali pressioni doveva essere il Giappone, che aveva dimostrato con la vittoria sulla Russia nel 1905 a Port Arthur come una nazione asiatica equiparandosi tecnologicamente agli occidentali, fosse in grado di sconfiggere anche una potenza europea.
Più interessante la tesi di Phan Chan Trinh, un letterato laico di Hanoi, che vedeva invece nella presa di coscienza delle masse e nella trasformazione delle strutture politiche e sociali dell'Indocina, le giuste condizioni per acquisire qualunque economia, nell'ambito sempre del Protettorato francese. Scriveva Trinh nel 1907: «... se il Protettorato volesse gradualmente lavorare per risollevarci ed assicurarci i benefici della tranquillità, questa sollecitudine troverebbe una felice rispondenza nell'affetto del popolo, e a quel punto l'unico timore degli Annamiti sarebbe di vedere la Francia abbandonare l'Annam a se stesso», non comprendendo forse che i francesi non avrebbero mai concesso gli strumenti per una limitazione del proprio potere.
Dal contesto di tali posizioni è facile rilevare come sia Chan che Trinh escludano l'ipotesi di una lotta per l'indipendenza totale dal colonialismo, da conseguire dopo una lunga guerra di liberazione. Seppure in entrambe le posizioni pullulassero tendenze aperte verso le nuove esigenze della società indocinese (ambedue erano antimonarchici), permanevano in esse i limiti di un moderatismo a sfondo riformista.
Un gruppo di associazioni commerciali indigene rispondono, malgrado tutto, positivamente all'invito di Trinh sulla collaborazione degli indocinesi con il Protettorato, e nell'aprile del 1907 sorge ad Hanoi un Centro politico-culturale, il Dong Kinh Nghia Thuc, il quale si prefigge di innalzare le masse incolte ad un livello di educazione tale da far prendere loro coscienza degli effettivi problemi che travagliano la regione annamita e del modo per fronteggiarli. Inizialmente, anche se con alcune riserve, le autorità francesi sembrano disposte ad accettare un piano di riforme presentato dal DKNT, ma quando questo cominciava ad ingrandire il proprio peso politico e la propria sfera d'influenza economica, il Protettorato lo chiuderà definitivamente nel dicembre dello stesso anno, prendendo il pretesto (ridicolo se si pensa alle premesse del tutto moderate di tali primi gruppi nazionalisti) da un presunto colpo di stato organizzato dalle formazioni politiche degli studenti di Hanoi, al quale il DKNT non sarebbe rimasto estraneo. Anche sul piano economico le associazioni commerciali interne attenuano la loro attività per la concorrenza schiacciante delle società finanziarie francesi.

IL PRIMO MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO
In tal modo, seguendo la strada della legalità colonialista, si dimostrano fallaci i tentativi di approdare ad una, anche minima, autonomia politica. Solo il Viet Nam Quoc Dan Dang (il partito nazionale dell'Annam, di recente formazione e operante nella clandestinità), avendo intuito le scarse vie di successo di un'azione legalitaria, esige l'evacuazione dei francesi dal territorio e l'indipendenza totale dell'Indocina.
L'occasione propizia per il VNQDD è data dalla crisi finanziaria mondiale del '29 che porta inevitabilmente uno sconvolgimento anche in Indocina. Il crollo dei prezzi manda in rovina migliaia di coltivatori e impone un forte calo dell'occupazione nei rami operaio ed impiegatizio. Di fronte allo squilibrio economico, il regime non è in grado nemmeno di praticare delle riforme di dettaglio, dei palliativi. Le correnti d'opposizione, che sino ad allora avevano pressato il regime da diversi punti di vista e in chiave moderata, si fondono strategicamente, dando vita ovunque a dei tumulti. Il VNQDD, approfittando dei larghi consensi, assurge al ruolo di coordinatore dei disordini, e dà un'impronta notevole all'insurrezione contro il Protettorato. Nel febbraio del '30 a Yen-bai, scatena una vera e propria battaglia contro i francesi e in seguito alla sconfitta, rientrato nella clandestinità, continuerà per un certo tempo la guerriglia armata.
Alcuni dei massimi esponenti del partito, però, cadono sul suolo di Yen-bai, mentre altri sono arrestati e giustiziati sulla piazza. Con la morte dei suoi capi, questo che fu il maggiore movimento rivoluzionario degli anni trenta, politicamente antiriformista e nazionalista anche se non certo di stretta osservanza ideologica, a poco a poco si sfalderà e i membri superstiti andranno ad ingrossare le file delle organizzazioni che decideranno le sorti della liberazione dell'Indocina dal vecchio e nuovo colonialismo.
Proprio in quei giorni, intanto, si associa alle rivolte scoppiate in tutta la regione, il movimento della gioventù rivoluzionaria (Thanh Nien), fondato a Canton nel 1925 e guidato da Nguyen Ai Quoc, il futuro Ho Chi Minh. Nei territori occupati, il Thanh Nien installa i " Consigli Provvisori della Rivoluzione ", forti soprattutto nella città di Nghe-an e in molti villaggi dell'Ha-thinh. Nuovamente le forze militari del regime, meglio addestrate ed armate riescono a riconquistare i territori perduti.

Al QUOC E I MODERATI RIFORMISTI
Dopo questa serie di rivolte a catena, le organizzazioni del nazionalismo moderato si fanno accalappiare dalle allettanti proposte in senso riformista del regime, che vedendo l'impossibilità di proseguire una politica di repressione militare, istituisce degli organismi rappresentativi costituiti anche da elementi indigeni. Questo atteggiamento certamente demagogico risente indubbiamente dell'ascesa nella madrepatria del Fronte Popolare di Leon Blum.
I poteri del "Gran Consiglio degli interessi economici e finanziari" e del "Consiglio Coloniale della Cocincina", le due più importanti camere di rappresentanza, sono detenuti direttamente dai francesi, seppure in maniera marginale posti di potere siano adesso occupati dai moderati nazional-borghesi indocinesi nelle camere dei rappresentanti del popolo del Tonchino e dell'Annam.
Nell'inverno del '30, Ai Quoc fonda il partito comunista vietnamita, sorto dal disciolto Thanh Nien. Egli è persuaso, in contrasto con le illusioni dei moderati riformisti, che la formazione di camere elettive per la rappresentanza sia insufficiente a garantire un progressivo esodo dei colonialisti dalla regione, esodo non prospettato affatto dai francesi. Ottimista invece sulla creazione di un grande movimento anticolonialista, Ai Quoc, che ormai viene chiamato dai suoi seguaci Ho Chi Minh, dà il via al processo di unificazione delle forze autenticamente indipendentistiche, riunendo nel novembre del 1939 sotto il "fronte unito antimperialista dei popoli d'Indocina" vaste frange di trotzkisti, di vecchi esponenti del VNQDD e di sette religiose come la Cao-Dai e la Hoa-Hao. I rapporti di forza all'interno del FUAPI sono a favore del partito di Ho Chi Minti, che nel frattempo ne aveva cambiato l'etichetta con quella di partito comunista indocinese, sancendo la propria volontà di riunire sotto una unica sigla le forze rivoluzionarie a stesso indirizzo in opera non solo in Vietnam ma anche nel Laos e in Cambogia.

LE "TESI POLITICHE"
L'articolazione del programma del PCI si imperniava su una lotta globale contro l'ingerenza straniera; l'amministrazione coloniale doveva essere sostituita da un governo rivoluzionario di popolo:
1) Abbattere l'imperialismo francese, il feudalismo e i proprietari terrieri;
2) Istituire un governo popolare;
3) Confiscare le terre dei proprietari fondiari stranieri e indigeni e delle chiese, rimettendole al servizio dei piccoli e medi coltivatori, serbandone il diritto di proprietà al governo rivoluzionario;
4) Nazionalizzare le grandi società controllate dai capitalisti stranieri;
5) Abolire le imposte e le tasse attualmente in vigore e creare un'imposta progressiva;
6) Decretare la giornata lavorativa di otto ore, migliorando il tenore di vita;
7) Fare dell'Indocina un paese completamente indipendente e riconoscere il diritto dei popoli all'autodeterminazione;
8) Approntare un esercito di popolo;
9) Promuovere la parità dei sessi;
10) Appoggiare l'Unione Sovietica ed allearsi con i movimenti rivoluzionari delle colonie e delle semicolonie.
Le "Tesi Politiche" saranno oggetto di revisione, e lo stesso Ho ne abolirà alcuni punti. La primitiva posizione filo-sovietica permarrà, in mancanza di altre forze d'appoggio alla rivoluzione indocinese, fino all'ascesa della Cina di Mao Tze ad un ruolo di primaria importanza nel contesto dei rapporti di forza internazionali, Offrendo all'azione di Ho un sostegno non indifferente. È interessante constatare al riguardo come Ho Chi Minh avesse superato, dopo il piccolo-nazionalismo dei borghesi riformisti, anche l'internazionalismo a sfondo cosmopolita (nonostante la necessità tattica di appoggiarsi alla Russia), battendo In breccia i sognatori occidentali del socialismo universale.
L'internazionalismo di Ho, precorrendo la lucida visione rivoluzionaria di Ernesto Guevara, è la ricerca della partecipazione alla lotta anticolonialista del maggior numero possibile di forze nell'ambito di una grande area geopolitica nazionale (nel caso nostro, l'Indocina), ove sia possibile far leva su motivi nazionalistici ed etnici di lingua, di sangue e di tradizioni comuni per conquistare alla causa la popolazione, e contemporaneamente conseguire un appoggio economico concreto da parte cinese, impossibile per una lotta settoriale.
La divisa marxista del «vietnamita Ho» è il risultato di una terminologia inadeguata -per cui chi non è capitalista è marxista- che la propaganda occidentalista ha potuto diffondere, falsificando la necessità tattica per i vietnamiti di assicurarsi delle alleanze e delle solidarietà in campo sovietico. Di conseguenza, sotto la divisa, sono presenti uno spirito rivoluzionario ed un corpo coraggioso, entrambi lontani dall'animo patetico ed umanitario del romanticismo sociale caro all'intellighenzia di casa nostra, e da quello truculento della «sovranità limitata» moscovita.
Ho Chi Minh rimarrà costantemente un rivoluzionario, forse di tipo machiavellico, che per conseguire i propri scopi è disposto anche ad indossare una divisa diversa da quella della sua anima.

LA GUERRA RIVOLUZIONARIA
L'esperienza acquisita durante le insurrezioni del '30, fa riflettere l'uomo intorno ai metodi ed ai princìpi dell'azione rivoluzionaria. Dimostratesi fallimentari le iniziative della guerriglia, che si proponeva di scalzare il colonialismo a breve scadenza, Ho Chi Minh di contro preconizza il sorgere della guerra rivoluzionaria. Nel 1939 afferma: «La guerra rivoluzionaria deve svolgersi su tutti i piani: militarmente, bisogna condurre una guerra di lunga durata alfine di sviluppare costantemente forze all'inizio limitate; politicamente, bisogna realizzare l'unità nazionale, isolando i colonialisti; economicamente, si deve elevare il tenore di vita della popolazione e rendersi autosufficienti; culturalmente, è necessario cancellare le tracce della cultura coloniale ed edificarne una nazionale, scientifica e popolare. La guerra di lunga durata dovrà passare attraverso tre fasi: guerra difensiva, guerra di resistenza (in modo da equilibrare le forze), e controffensiva generale. In ciascuna fase la guerriglia deve essere combinata, a differenti livelli, con una guerra di movimento».

LA GUERRA DEL PACIFICO
Nel dicembre del '41, l'episodio di Pearl Harbor è l'inizio del conflitto mondiale nel Pacifico.
L'Indocina, come del resto gli altri paesi del sud-est asiatico, ne rimane coinvolta; i nipponici la occupano quasi immediatamente instaurando l'indipendenza dal colonialismo europeo.
Malgrado i giapponesi avessero dato alle popolazioni locali alcune libertà, come ad esempio la costituzione di un governo presieduto dall'imperatore indigeno Bao-Dai di stanza a Huè, la antica città capitale dell'impero, e pur avendo concesso alle organizzazioni nazionaliste una certa libertà di movimento a patto che esse avessero collaborato con i generali di Hirohito, ciò non soddisfaceva gli indocinesi, i quali aspiravano ormai ad ottenere senza mezze misure l'indipendenza.
È questo il periodo in cui Nguyen Ai Quoc detto Ho Chi Minh fonda il Viet Minh (Lega per l'indipendenza del Vietnam) a Pac-bo. Verso la fine del 1944, è il solo a combattere gli occupatori tramite un "Esercito di propaganda e di liberazione", sotto la guida di Vo Nguyen Giap, che si affermerà come uno dei più esperti ed abili strateghi della guerra rivoluzionaria.
Al termine del conflitto mondiale, la situazione in Indocina è quanto mai favorevole alle forze rivoluzionarie, le quali, sfruttando la grossa incrinatura prodotta dalla guerra nel regime coloniale francese, porteranno a compimento la propria missione infliggendo al primo, ma non ultimo, nemico l'umiliante sconfitta nel campo militare di Dien Bien Phu.

 

Segue al prossimo numero:

LA PRIMA GUERRA D'INDOCINA


* Inizio delle ostilità
* Situazione nel Laos e in Cambogia
* La guerra d'Indocina dal '47 al '52
* L'epilogo di Dien Bien Phu
* Gli accordi di Ginevra