Italia - Repubblica - Socializzazione

Controcorrente

ANNO II * n. 7 * Settembre 1975

 

quindicinale iscritto al numero 15326 del registro stampa presso il Tribunale di Roma il 2 gennaio 1974 - direttore responsabile Romolo Giuliana - spedizione in abbonamento postale gruppo II - pubblicità inferiore al 70% - stampato in proprio - editrice SMIARCA srl - in caso di mancato recapito restituire al mittente: via  P. Villari 27 - 00184 Roma

dimensioni: cm. 16,5 X 22 * pagine n° 16

 

Sommario:

 


* Interni

* Il mondo arabo ad un bivio

* Helsinki: l'Europa dei servi

* Tito - la via jugoslava al neocapitalismo

* Indocina: storia di una guerra di popolo

(parte seconda)


 


 

INTERNI

 

La caduta di Fanfani e la strategia vaticana bloccata tra il neotemporalismo e l'entente coi radicali

«Mi hanno abbandonato i preti». Il commento amaro del senatore Fanfani alla ulteriore sconfitta elettorale, che gli è costata la segreteria della DC, ha mandato in bestia i santoni della stampa radical-progressista. Ligi alla propria formazione sociologista, essi tengono ad accreditare un significato liberatorio al voto di giugno. Una specie di catarsi della borghesia che si converte. La frase del pittore aretino, invece, non ci sembra da sottovalutare.
Il nume protettore di Fanfani dietro il portone di bronzo è anch'esso toscano: monsignor Giovanni Benelli. Probabilmente fu egli l'ispiratore della consultazione sul divorzio, che Fanfani sostenne in vista di una successiva imposizione, da posizioni di forza, di una qualificazione del centrosinistra su posizioni estremamente moderate, coi socialradicali in seconda fila. In quel quadro poteva passare il negoziato sul Concordato (assillo costante di Paolo VI), e, al culmine della strategia neotemporalista, una qualificazione del Vaticano su posizioni di autonomia rispetto al trentennale partner d'oltreatlantico.
A questo disegno si opponeva l'ala filoradicale della Curia, che ha i suoi uomini di punta nel cardinale Jean Villot e in mons. Agostino Casaroli. Fu questa ala che impose un estremo tentativo di mediazione sull'affare del divorzio, convincendo papa Montini, in bilico tra la strategia d'urto fanfaniana e l'entente con i radicali che già aveva portato Giovanni XXIII all'alleanza con Kennedy. Il PCI offrì un progetto di legge a mezza via tra «si» e «no» che, stando al settimanale dell'ebreo comunista Lajolo, fu discusso segretamente da esponenti comunisti, vaticani, e democristiani. Ma Fanfani, forte del mandato di Palazzo Giustiniani e memore del voltafaccia comunista per l'appoggio alla sua candidatura presidenziale, si irrigidì. Il quarto governo Rumor nato all'improvviso grazie ad una sortita di La Malfa con un colpo di stato silenzioso impose la data del referendum.
Di fronte al fatto compiuto, la Conferenza Episcopale, in precedenza assai tiepida, si dovette schierare. Lo stesso avvenne alle Botteghe Oscure, che avevano compreso la inutilità di offrire una vittoria, o a Fanfani o alla sinistra laica, che li vedeva comunque tagliati fuori.
Di fronte allo smacco elettorale. Paolo VI sul quale aveva premuto Benelli agitando lo spettro di una secessione cattolica a destra (Lombardi, Greggi, Gedda, ecc), dovette ritirare la sua benedizione al segretario democristiano. Fanfani si vide quindi appoggiato solo parzialmente dalla Chiesa nell'ultima campagna elettorale. Gli espedienti della Spes di Ciccardini, come il lancio di "Comunione e Liberazione", si rivelarono inutili. A questo punto però Montini non ha probabilmente potuto esser concorde col filoradicale Villot, restando impressionato e decidendo l'appoggio in extremis alla segreteria Fanfani. Se non apparve sull'Osservatore il famoso commento montiniano che si dice fosse apertamente antiradicale il papa diede però incarico ad un suo uomo di fiducia, mons. Bartoletti della CEI, di imporre il salvataggio di Fanfani, che è proprio lui l'unico democristiano capace di creare un secondo partito cattolico. Benelli e mons. Palazzini (la sua ninfa egeria si chiama Forlani molto cauto al consiglio di luglio contro Fanfani) contattarono alcuni notabili DC.
In tal modo la paura che, specie dalla periferia, si riversava sul Vaticano, ha impedito all'ala filoradicale di cogliere i frutti della propria azione. Fanfani è caduto ma l'appoggio vaticano, anche se a metà, c'è stato.


VICINORIENTE


Il mondo arabo ad un bivio: mentre si palesano sempre più evidenti tra i capi arabi i limiti moderati ed i tralignamenti dalla causa comune si pone per gli arabi il dilemma: liquidare ogni possibilità rivoluzionaria rassegnandosi al ruolo di protettorato russo-americano oppure definirsi in una scelta di civiltà incompatibile con quella sionista

L'accordo tra Egitto e Israele stipulato sotto la mediazione americana rappresenta una tappa fondamentale della penetrazione statunitense nel settore vicinorientale, ed una capitolazione del Cairo nei confronti dello stato ebraico. Il "disimpegno" infatti si è reso possibile grazie al limite moderato del presidente egiziano Sadat che, dopo aver liquidato le strutture nasseriane, ha spianato la strada all'entrata in Egitto dei capitali e dell'ideologia yankee. Sadat aveva bisogno, in questo quadro, di una lunga tregua per potere cogliere i vantaggi economici interni della nuova politica filoamericana. Continuare il confronto sordo con Israele, che assorbiva per buona parte le energie egiziane, significava per il "rais" procrastinare il decollo industriale ed esacerbare il malcontento della base popolare, la quale ha conosciuto solo gli aspetti onerosi della "denasserizzazione". Quando l'intervento USA farà sentire i suoi effetti sul tenore di vita delle classi medie il regime egiziano avrà sostituito il panarabismo, che guadagnò a Nasser la fiducia fanatica del suo popolo, col nuovo vessillo della «way of life» e dei miti consumistici d'oltreoceano.
Quello che viene chiamato "l'atteggiamento pragmatico" (e che noi definiamo tradimento della causa araba) del Cairo ha portato gli egiziani al riconoscimento ufficiale della sovranità israeliana, e alla ennesima rottura della solidarietà interaraba, separando nella filosofia delle trattative il Sinai dal Golan, in cambio di una fascia di deserto oltresuez. Quasi per beffa sono stati inseriti nella zona ceduta i pozzi petroliferi di Abu Rudeis, sfruttati fino all'esaurimento dagli israeliani. Il machiavello (che si dice escogitato dallo stesso Sadat) della "supervisione" americana, permetterà inoltre ai tecnici e agli agenti statunitensi di svolgere un ruolo determinante sulla zona dei passi di Mitla e Gidi.
Alcuni elementi però sono venuti a turbare questo quadro. In Israele non pochi guardano storto la vittoria dello "step by step" kissingeriano e del "flessibile" Rabin. Gli ambienti ebraici americani, che hanno espresso Kissinger, dimostrano invece di anteporre alla difesa della leadership supercolonialista e piccolonazionalista di un Dayan, gli interessi più vasti del sionismo come anima occulta dell'intera politica americana. In altri termini la "lobby" ebraica di New York (che dovrà giocare le sue carte alle presidenziali del '76) ha come fondamentale obiettivo il controllo economico-finanziario sul mondo occidentale, perpetrato attraverso le iniziative statunitensi, e non può sacrificarlo sull'altare dell'intransigenza a sfondo teocratico di chi vorrebbe fare di Israele un solo stato dal Nilo all'Eufrate. A questo proposito, e non a caso, in una corrispondenza da Gerusalemme il filosionista "Messaggero" di Roma ha riportato alcune considerazioni dei rabbini intransigenti: «La questione fondamentale è: o si è ebrei o non lo si è. Non esistono battaglie militari, confronti politici, ma una unica guerra religiosa che è tutt'uno col destino storico di questo popolo... Uno solo è il popolo eletto, il popolo di Dio, e questo è il popolo d'Israele... Nessuno ha il diritto di alienare un solo chilometro quadrato di questa terra. È sacra. Tolta ai gentili e consegnata ai giudei. Rimuovere la sovranità ebraica anche da un solo pollice di deserto significa profanare le sacre leggi... La vittoria degli ebrei è la vittoria di Dio, la vergogna degli ebrei è la vergogna di Dio. La gloria dell'esercito d'Israele è la gloria del Signore. Dio ha guidato le nostre conquiste e l'inizio della nuova era. L'era della redenzione».
Dopo aver subito il siluramento del "falco" Bar Lev, l'uscita dal governo del generale Dayan, e la parziale sconfitta del kippur, quanto sono disposti a concedere a Kissinger i sionisti intransigenti? A rendere più incerta la situazione si è aggiunta la sortita di Rabin, dichiaratosi disposto al colloquio con la Siria per il Golan, già definito «parte integrante di Israele» dalla signora Meyr. Lo stesso Rabin del resto aveva sempre escluso in precedenza ogni concessione a Damasco salvo qualche «rettifica cosmetica».
A questo punto il discorso si allarga. Dal gioco delle trattative sono per ora rimasti fuori i sovietici; ma Kissinger non è certo intenzionato ad incrinare il quadro distensivo, che ha irrobustito ad Helsinki. Ammiratore di Metternich, il "caro Henry" -come affettuosamente lo chiama Sadat- è anche stato professore ad Harvard, tempio del radicalismo, e alunno delle teste d'uovo della fondazione Rockfeller. La chiave della distensione non può essere dunque per lui una politica di potenza staticamente intesa (Johnson), ma la convergenza politica ed ideologica su base radicale e neocapitalista tra USA ed URSS. Russi e americani sanno quindi di aver bisogno di mantenere certe situazioni instabili e certe aree calde, per poter amministrare la tensione in condominio ed evitare il rischio dello scontro diretto. In questa logica il vicinoriente ed il sudest asiatico sono stati il terreno adatto per la politica di contrappeso USA-URSS.
Con la crisi dell'intervento in Vietnam, dalle trattative di Parigi in poi, gli USA hanno manifestato la volontà di chiudere la partita vietnamita, cercando di salvare la faccia il più elegantemente possibile. Liquidata l'Indocina in accordo col partner sovietico, gli USA oggi debbono necessariamente scaricare la tensione sul Mediterraneo, salvo aprire una nuova situazione di attrito internazionale altrove. La reazione sovietica all'accordo sul Sinai, in questo contesto, ha tutta l'aria di essere concordata.
Mentre gli americani sono penetrati ampiamente verso Israele e verso il mondo arabo, i sovietici si trovano in una situazione regressiva. Si fa dunque necessaria una ripresa di influenza sovietica, per bilanciare la penetrazione americana. Il filosovietico Assad si è incontrato con l'ex nemico Hussein di Giordania, accordandosi per un comando militare unificato. Lo stesso "fronte del rifiuto", (se si eccettua l'azione autonoma di Gheddafi tesa alla rottura degli equilibri colonialisti-distensivi e al rifiuto della protezione tanto americana quanto russa) è praticamente controllato da Mosca. Non mancano dunque gli elementi per ricucire la solidarietà distensiva.
Gli stati arabi dimostrano in sostanza di non essere in grado di uscire dalla logica delle alleanze con le superpotenze. Assad ed Hussein (lo rileva con malcelata soddisfazione anche la stampa radicale nostrana) non possono fare del moralismo contro Sadat: il primo ha acquistato aerei Boeing dall'America e delegato i diritti di ricerca petrolifera ad una delle "sette sorelle"; il secondo vuole ad ogni costo i prodotti della missilistica USA. Non è un mistero che l'industria aeronautica, quella bellica pesante, e quella petrolifera siano in mano ebraica-americana. Dov'è allora il rifiuto? La realtà è che un grosso limite di miopia politica e di incoerenza ideologica pesa sulla testa dei capi arabi. Essi stanno gestendo «un indegno mercato» -come giustamente ha affermato Gheddafi- sulla pelle del proprio popolo.
Vogliamo a questo riguardo svolgere alcune considerazioni. La politica di rapina territoriale israeliana è stata per lungo tempo il cemento della unità araba. La coscienza della comune lotta offrì le condizioni per tentare (Nasser) un superamento delle rivalità intestine, delle faide dinastiche, dell'ottica politica piccolo-nazionalista. Oggi la situazione può dirsi capovolta: prevale la tendenza alla disgregazione, allo smobilitamento dei valori che hanno in passato sorretto la politica araba, alla cura dei propri interessi economici da parte dei singoli paesi arabi. Né è proponibile per il mondo arabo un parallelo con le vicende estremorientali che suggerirebbe una affermazione delle forze anticolonialiste. Ho Chi Mihn infatti potè servirsi dell'appoggio dei cinesi, all'epoca alla ricerca di una espansione in tutta l'area geopolitica indocinese, nel quadro di una guerra di indipendenza nazionale. Nel Vicino Oriente invece il nemico da battere non è solo Israele come stato aggressore, ma il sionismo nel suo complesso, una forza transnazionale che ha influenza determinante nella vita politica ed economica del cosiddetto mondo libero ma anche del mondo comunista (si pensi a Leonid "Ilijch" Breznev, o alla mano tesa verso Israele di Ceausescu). In questa situazione la "lotta di liberazione nazionale" non ha più significato.
«Il prossimo anno a Gerusalemme», l'augurio che per millenni gli ebrei si sono scambiati nei ghetti di tutto il mondo e che solo ai nostri giorni si è realizzato, fu il simbolo della aspirazione ad una patria di una razza dispersa, ma anche quello della attuazione storica e concreta del suo sogno messianico di dominazione universale. La lotta araba non può essere quella di Sadat e compari, compreso Arafat, imperniata sulla contrattazione territoriale o comunque sulla contesa politico-militare in senso difensivista, tesa se non all'accordo alla sopravvivenza, ma deve darsi un contenuto di scelta di civiltà. Questo non per fare dell'estremismo a buon mercato. È nostra convinzione che aldilà degli scontri settoriali ed episodici, quali sono stati fin qui le battaglie tra arabi e israeliani (che non mettono in pericolo l'ordine mondiale garantito dalle superpotenze per conto del sionismo internazionale, ma sono addirittura sfruttati per il suo mantenimento tramite l'istituzionalizzazione della tensione), aldilà di tutto ciò, si dovrà concretizzare lo scontro storico tra i detentori della potenza e delle ricchezze mondiali, e i popoli poveri costretti a mendicarle in cambio della propria autonomia. Ma sarà soprattutto lo scontro tra una civiltà in declino, ripiegata sui miti propri dello scentismo e della massificazione, e le nuove energie che si affacciano alla storia.
La lotta dunque non è contro Israele ma contro il sionismo internazionale e i suoi supporti ideologici e politici, occidentalisti e comunisti. Non serve lamentare le aggressioni subite e le terre strappate, non serve illudersi sulle vittorie di carta alle Nazioni Unite.
Sadat si allea con gli americani. Il capo dell'OLP propugna uno stato laico ove coesistano arabi, cristiani ed ebrei. Ma come la bandiera della giustizia sociale è oggi agitata blasfemamente dai neocapitalisti di mezzo mondo, da Agnelli a Giscard, così gli stessi slogans di Arafat potrebbero essere usati da un ideologo neogiacobino di qualche partito socialista europeo, o da un democratico kennedyano di New York.
I giri di valzer di Sadat passeranno. Il legalismo di Arafat passerà. Il tempo si incarica di cancellare rapidamente dalla cronaca i rinnegati e le mezze figure. Altri resteranno per la storia. Quelli che sapranno esprimere contro la civiltà, la cultura, la visione del mondo sionista, una superiorità anzitutto spirituale e un più alto senso di religiosità, di giustizia sociale, di libertà dei popoli


HELSINKI: L'EUROPA DEI SERVI
Jerry Ford tenta di beneficiare delle realizzazioni della strategia radicale in Europa. Ma la strategia non è sua.


Preparato da un eccezionale battage pubblicitario sulla perfetta armonia delle due superpotenze, imperniato sulla impresa lunare in società, dopo tredici anni di negoziati e di azioni diplomatiche il vecchio progetto di una conferenza paneuropea ha avuto nella riunione dei 35 di Helsinki il suo epilogo.
Ford ha dimostrato di aver imparato bene la lezione del suo predecessore, maestro nell'allestire spettacoli internazionali per farsi pubblicità. Breznev che dell'evento è stato un tenace sostenitore è ora avviato al 25° congresso del PCUS con tutti gli onori.
Ma dietro il lustro che russi e americani si sono visti attribuire senza averne bisogno, il dato che emerge è la rinnovata decisione di non concedere alcuna autonomia all'Europa. I governanti europei dell'Est e dell'Ovest (tranne Ceausescu, ultimo bastian contrario dopo la fine del gollismo) hanno tutti recitato la stessa ignobile parte, tessendo le lodi della distensione e della cooperazione.
In effetti il risultato per USA e URSS era la sanzione ufficiale della irreversibilità distensiva, cui ha cooperato l'azione del Vaticano -presidente a turno dell'assise mons. Casaroli- che è stato il mediatore storico dei radicali statunitensi verso la Russia.
La sovranità sull'Europa dei due partners con il congelamento delle frontiere e con la perpetuazione della divisione tedesca è stata l'idea fissa dei radicali kennedyani da una parte e dei radicali sovietici, tecnocrati e burocrati. Tramontato l'asse Kennedy-Kruscev che aveva in papa Roncalli il suo fulcro, i radicali americani dovettero subire la parentesi "socialdemocratica" cioè di leadership protezionistica e nazional progressista di Johnson e poi di Nixon, proprio mentre in Russia emergeva l'ala neoradicale che ha espresso Breznev e Gromiko.
L'obiettivo primario degli orfani della nuova frontiera era il controllo sull'Europa; da qui il pacifismo della nuova sinistra americana circa il conflitto nel sudest asiatico cui si contrappone un atteggiamento guerrafondaio e filosionista per il Mediterraneo.
Scartato Nixon, eliminata la spina vietnamita, tutto sembra ordinato in vista di una ripresa radicale alla Casa Bianca. La stessa ripresa che si è manifestata in anticipo nel settore europeo coi mutamenti al vertice della primavera-estate '74 (Schmidt, Giscard, Soares).
Ma intanto la strategia radicale verso la Russia non ha segnato il passo, perseguendo la penetrazione in chiave consumatista e commerciale verso Mosca. Lo strumento di questo piano fu l'ostpolitik di Casaroli e di Brandt. La libera circolazione degli uomini e delle idee, sostenuta anche ad Helsinki, è lo slogan della azione colloquiante e di ammorbidimento che ha permesso al cavallo di Troia yankee di entrare trionfalmente nella struttura economica e nel costume sovietico.
A questo punto la conferenza sulla sicurezza europea poteva aver luogo. I nuovi fiduciari americani Giscard e Schmidt garantiscono la spartizione dei compiti nell'economia atlantica, e ad ovest la dottrina Breznev non ha oppositori pericolosi.
Visto al di fuori delle sue implicazioni, cioè della strategia in cui si inserisce, l'Atto finale di Helsinki non è nulla di eccezionale. I richiami al 1815 viennese, a Versailles 1919, e ancora a Monaco e Yalta c'entrano poco. I conservatori americani e le retroguardie atlantiste europee (compresa la destra italiana) hanno intonato il solito ritornello antisovietico dell'orso cattivo. Ma anche i radicali, che non sono disposti a concedere a Ford ipoteche sulle presidenziali del 1976, hanno battuto la grancassa. Così, per l'occasione il sindacalista Meany, il governatore Wallace, il senatore sionista Jackson, e la tromba ufficiosa dei radicali Ted Kennedy si sono trovati d'accordo.
 


PROFILI / TITO

la via iugoslava al neocapitalismo

Ciò che indusse le varie "Leghe dei comunisti" dell'Europa centrorientale ad adeguarsi alle direttive moscovite, prima e dopo il 1945, furono gli indirizzi politico-economici e la comune matrice ideologica, coi quali Stalin, nell'immediato dopo guerra, impose l'unità degli stati del Patto di Varsavia, e li contrappose in blocco all'Occidente europeo, ormai agli ordini degli occupatori americani, però restando sul terreno del compromesso, senza che fosse forzato il quadro di Yalta, nonostante la malafede attribuita alla parte russa.

COMUNISMO E REVISIONISMO
II conformismo totale ed ossequioso dei canoni sovietici rivelato dai teorici e dai politici europeo-orentali del comunismo, non riuscì a bloccare tuttavia i latenti motivi nazionalistici intrinseci al socialismo slavo. Josip Broz Tito, che riassume in sé le vicissitudini del mondo comunista dal suo sorgere, attraverso le numerose mutazioni, fino all'abbraccio finale con l'America, è un personaggio emblematico. Inquadrare il "revisionismo" di Tito è utile per comprendere come un proposito nazionalista e autonomista possa essere condotto alla sterilità politica, divenendo una tessera del mosaico distensivo.
Il discorso deve partire da una analisi del mondo comunista. Il comunismo non è mai stato attuato nella accezione marxista-leninista, che è al di fuori della misura dell'uomo. Esso è stato realizzato in Russia come nazionalismo e panslavismo, e come tale ha arrestato, intorno al 1925/30, la spinta eversiva del "radicale" Trotzsky (rivoluzione permanente). La rielaborazione che nel periodo stalinista è stata fatta di temi propri dell'anima russa e l'opposizione condotta nello stesso periodo contro l'influenza del radicalismo -in pieno sviluppo negli Stati Uniti, sotto Roosevelt- nella macchina statale sovietica, indicano che in Russia si seguiva in quel periodo storico una esaltazione di valori naturali, sicuramente anti-radicali. La ripresa del mito «Mosca terza Roma», il mantenimento della mitologia zarista, il trasferimento della capitale da Leningrado a Mosca, il processo di espansione dell'"Internazionale" a fini nazionalistici anziché internazionalistici quasi si trattasse della nuova diplomazia uscita dalla rivoluzione, l'industrializzazione forzata per la costituzione delle basi economiche del nuovo grande stato sovietico, la preferenza accordata nelle campagne ai kolcos di derivazione zarista (artel) rispetto ai sovcoz statalisti, la cultura tenuta lontana dalla decadenza borghese e dal sovversivismo formalistico, sono le prove più appariscenti della sostanziale strutturazione nazionalistica della Russia staliniana.
Con la morte di Stalin inizia nell'URSS un processo di conquista delle posizioni chiave nella macchina statale sovietica da parte dei radicali. L'alleanza con l'America, che Stalin accettò per ragioni di guerra, viene riproposta per ragioni di affinità ideologica e politica coi neogiacobini d'oltreoceano. Il radicalismo statunitense con la penetrazione nell'URSS post stalinista mostra subito di aver ben individuato i canali di assorbimento del mondo sovietico. Oggi siamo al passaggio dalla coesistenza alla cooperazione, all'abbraccio in chiave tecnocratica e neocapitalista tra i due gendarmi di Yalta.
Lo scontro in Russia tra radicalnazionalisti raccolti nel settore militare e dell'industria pesante, e radicaldistensionisti raccolti nel mondo del grande commercio, della finanza, e nei circoli culturali occidentalizzanti, volge a favore di questi ultimi, rappresentando una vittoria ed una estensione su scala mondiale del radicalismo statunitense di cui quei gruppi ripetono puntualmente i principi ideologici, culturali, politici ed economici.
In questo contesto va inquadrato il discorso sul revisionismo.
Quello occidentale, da cui traggono origine i partiti socialisti europei, esaurita la lotta contro Lenin alla seconda internazionale, si è lentamente ma sicuramente trasferito nel campo di Agramante, fino a divenire il nerbo della "nuova frontiera" kennedyana in Europa, ricettacolo di interessi radicali, sionisti, e mafiosi. È il naturale sviluppo dell'atteggiamento "centrista", che Lenin aveva definito "socialsciovinista", dei Plekanov, Kautsky, David e soci, alla vigilia del primo conflitto mondiale. «La rinuncia alla azione rivoluzionaria, il riconoscimento senza riserve della legalità borghese, la fiducia nella borghesia», (Lenin), portano i revisionisti socialisti al parlamentarismo e all'inserimento nel sistema neocapitalista. Dopo il secondo conflitto mondiale sarà facile agli americani catturarli alle tesi radicali.
Il revisionismo orientale, invece, è rimasto sotto la leadership sovietica, ma ne ha subito, in qualche caso addirittura anticipandola, la progressiva radicalizzazione. In questa logica si inquadrano il sorgere del socialismo dal volto umano con aperture all'economia consumistica (Ota-Sik) nella Cecoslovacchia di Dubcek; la rielaborazione del vecchio programma culturale socialista di marca ottocentesca nell'Ungheria di Lukàcs; il tentativo autonomista della Romania di Ceausescu che dopo aver percorso la giusta via del collegamento con la Cina e la Francia contro la logica di Yalta è stato riportato sui binari graditi alle superpotenze, una volta liquidato l'antiatlantismo di De Gaulle e dopo l'inserimento, seppur critico, di Pechino nella strategia distensionistica grazie al radicale Ciu En-Lai contro l'eretico Lin Piao; e infine il "titoismo".
CHI È TITO?
Le non comuni vicende della vita e della carriera politico-militare fanno del maresciallo Tito una figura di autentico interesse storico. Di origine contadina, Tito porta con sé e trasfonde nelle sue azioni le caratteristiche di tenacia e semplicità proprie delle genti dei campi. Dei contadini, però, egli non possiede il requisito più prezioso: la religiosità. Tale carenza di "pietas" non costituirà tuttavia una menomazione. Essa concorrerà invece a rendere il personaggio più adeguato al ruolo di capo delle popolazioni balcaniche, destinandolo a dirigere una guerriglia intrisa di vendette, di agguati, e di spietate rappresaglie. Gli conferirà inoltre quel "quid" di enigmatico utile ad ingigantire -presso una truppa rozza e irregolare- l'ascendente del comandante generoso ma inflessibile.
Sottufficiale dell'esercito austroungarico, ferito e fatto prigioniero dai Russi, partecipa alla rivoluzione bolscevica dell'ottobre 1917, militando in un reggimento della costituenda Armata rossa. Rientrato in Serbia e scontata una condanna per motivi politici (e avrebbe potuto farne a meno), diviene agente del Comintern, l'organizzazione comunista internazionale dominata da sionisti. Nessuno probabilmente saprà di quale natura furono i suoi contatti e i successivi legami con gli ambienti del sionismo russo che fornirono la classe dirigente alla rivoluzione bolscevica. Gli stessi ambienti, molto più tardi, si faranno sentire in Jugoslavia sostenendo la apertura alla finanza neocapitalista occidentale attuata da Tito negli anni '60 contro gli originari principi collettivisti.
Svolto un corso di addestramento a Mosca, adempirà per molto tempo agli incarichi affidatigli, senza porsi in evidenza più del necessario, tanto da sfuggire quasi miracolosamente alle purghe staliniane. È forse in questo clima che matura in lui la natura pragmatica che emergerà però solo dopo la guerra, soverchiata fino allora dalla fede ideologica. Ormai cinquantenne e in base alle sue riconosciute capacità di avvedutezza, Tito succede al dimissionario Gorkitch alla testa del partito comunista iugoslavo, costretto già da anni all'attività clandestina. In questa veste fu molto attivo a Parigi per la preparazione delle numerose bande slave partecipanti alla guerra civile spagnola.
Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, la storia di Tito somiglia decisamente a quella altrettanto squallida degli altri burocrati-rivoluzionari al servizio del Cremlino negli anni trenta. Sarà la guerra a far emergere le sue insospettate e prodigiose qualità militari. La lotta contro le forze dell'Asse in Jugoslavia costituisce infatti, per la perizia di comando evidenziata, il suo primo vero capolavoro.

L'INVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA
Nel dopo guerra tenterà di realizzarne un secondo, opponendosi alle pretese moscovite circa la sovranità sovietica su tutti gli altri stati comunisti. Dopo aver reso immensi servigi al capitalismo e al comunismo nei primi anni della sua carriera, il Maresciallo è costretto a constatare che la libertà della stagione eroica, agitata nel nome di Mosca come vessillo per rendere popolo unito il coacervo delle genti balcaniche, era la libertà di Yalta, la libertà di essere servi. È a questo punto che Tito imbocca la strada della socialdemocrazia, nel nome di un empirismo che rifiuta le divise. Ispirandosi a esigenze più economiche che politiche finisce per inserirsi senza disagi nella strategia americana che incoraggia l'incremento dei redditi e dei consumi nei paesi in via di sviluppo per subordinarne la economia e la cultura, una volta acquisiti i paesi stessi all'area del dollaro.
Nella ricostruzione dell'economia nazionale, Tito si era trovato alla fine del conflitto mondiale dinanzi ad una situazione estremamente fluida. In una società che tendeva ad accettare positivamente il pensiero politico-economico importato dall'occidente dalla classe tecnocratico-borghese di Zagabria, la cosiddetta «Svizzera della Jugoslavia», favorevole alla sostituzione di Marx con Keynes come sarà per il radicale Kruscev, a Tito si presentò l'alternativa: optare per una economia di mercato di tipo occidentale, oppure per il classico sistema verticale comunista in cui mediante dei compromessi interni si devono conciliare la struttura malamente liberalizzata con la sovrastruttura della burocrazia. Incapace a sostenere una terza via, Tito scivolerà sempre più verso il primo modello. All'inizio comunque imposta la sua azione su un esasperato riformismo, ispirato soprattutto a Liberman e Bakaric, che ha in sé i germi della reintroduzione del profitto e quindi dell'ascesa del capitale privato, contro l'azione dello stato accentratore e del partito unico dell'eredità staliniana. «Procedere nell'edificazione del socialismo senza ricorrere al terrore, senza concentrare il potere nelle mani di una minoranza, ma attuando la massima democratizzazione e decentralizzazione» questi gli obiettivi indicati da Tito (Borba, 1/2/1952).

IL NUOVO CORSO JUGOSLAVO
Tredici anni più tardi, la riforma economica segna una svolta decisiva. L'utopistico disegno volto a democratizzare un regime classista a partito unico finisce per fare in pieno il gioco dei radicali, acquisendo la Jugoslavia all'area economica occidentale. L'introduzione dei princìpi liberisti nella gestione delle aziende, l'adattamento dei prezzi alle regole della domanda e dell'offerta, la liquidazione delle industrie "protette" incapaci di adeguarsi alle leggi del profitto, il ritiro alle cooperative agricole delle sovvenzioni statali che rappresentavano i 4/5 del loro reddito, e soprattutto la libertà di manovra concessa alla finanza privata con la riforma del sistema bancario, hanno lo scopo evidente di inserire la Jugoslavia nel circuito finanziario mondiale, cioè nel grande gioco del neocapitalismo internazionale.
Il nuovo corso incontra il favore della borghesia, specie dei commercianti e dei tecnocrati, nonostante la pesante svalutazione e l'aumento del costo della vita. La borghesia slovena e croata si trova a suo agio nel nuovo clima, per la maggior solidità della struttura industriale delle due repubbliche settentrionali e per la contiguità geografica con l'Europa occidentale. Il delfino di Tito e vicepresidente della Repubblica Jugoslava, Rankovic, si oppone però ai nuovi indirizzi economici, difendendo con la sua rigida coscienza accentatrice di serbo, la funzione del partito unico come guida ideologica e politica, da cui devono discendere le scelte sul piano economico e sociale. Il Maresciallo aveva invece da tempo abbandonato la coerenza ideologica; postosi sul terreno dell'empirismo economicistico vuole egli stesso liquidare ogni struttura statalistica ed avviare la nazione verso le mete della socialdemocrazia all'interno, e dell'occidentalismo all'esterno. Rankovic viene accusato di cospirazione, e Tito esautora pubblicamente l'antico compagno di lotta. L'episodio si ripete con la condanna dello scrittore Mihajlov, dopo l'epurazione dei "dogmatici" dal partito e dalla pubblica amministrazione. Parimenti, restano lettera morta le tesi di un "riformista spregiudicato" del calibro di Mirko Tripalo, considerato il più degno erede di Bakaric, avversario dei dogmatici filosovietici come dei burocrati socialdemocratici. «Il piano economico non è una legge fondamentale del socialismo. Su questo punto noi iugoslavi abbiamo una visione del tutto diversa, anzi opposta a quella sovietica», tenne a precisare Tripalo alla gente croata, l'unica forse che nell'ambito dei balcani abbia in sé l'esperienza storica necessaria per proporre una soluzione ai problemi economici e politici in chiave antisovietica ed antioccidentale.

TITO E IL NEUTRALISMO
Come non collegare, a questo punto, la politica di Tito, tesa alla libertà di mercato, alla sua politica estera fiancheggiatrice degli indirizzi americani?
La politica neutralista, cui si diede l'etichetta di "terzomondista", fu in effetti una creatura di Tito. Sul piano ideologico il terzomondismo non andò mai oltre un anticolonialismo parolaio e piagnone, non comprendendo i fermenti capaci di suscitare la costruzione di grandi aree geopolitiche di contestazione al colonialismo USA-URSS, intese ad un'azione autonomista pregna di infinite possibilità per chi avesse la volontà di ricercarle. Da questo limite discende l'incapacità di concepire la lotta politica in termini di scelta di civiltà, col conseguente rifiuto della guerra rivoluzionaria e l'autocondanna al piccolo cabotaggio diplomatico in seno alle Nazioni Unite, col risultato di servire le superpotenze tenendo congelate le potenzialità rivoluzionarie del terzo mondo, specie africano, con le armi del legalismo e del moderatismo.
Il nazionalcomunismo slavo, dunque, non avendo saputo individuare una via di autonomia, verso l'Europa, si avvia ad un malinconico tramonto, molto lontano dai suoi inizi drammatici (si pensi alle stragi delle "foibe" e alla sanguinosa guerra civile). Al crepuscolo, la vecchia classe dirigente, facente capo a Tito in campo politico e a Kardelij in quello ideologico non ha ancora espresso un ricambio nella seconda e terza generazione, compromettendo, anche per il futuro, le possibilità di autonomia politica dai sovietici e di non dipendenza economica dagli USA. Ottantaquattrenne, Tito vorrebbe sfoderare un terzo capolavoro: «la difesa popolare globale», che consiste in una minuziosa e gigantesca organizzazione della guerriglia in tutto il territorio del paese. Dopo simbolici combattimenti regolari contro l'aggressore, tutto il popolo (anche le donne, i vecchi e i ragazzi) devono essere pronti a battersi nella più dura delle guerriglie: nelle città, nelle campagne, sui monti. Dietro questo fervore attivistico, si prepara per il 1977 a Belgrado la seconda edizione della conferenza di Helsinki, per decisione russa e americana.
 


SAGGISTICA

Indocina: storia di una guerra di popolo
2a parte - la prima guerra d'Indocina


La sconfitta del Giappone nel 1945 ed il corrispondente ritiro dei soldati nipponici dal subcontinente asiatico, produce in Indocina un vuoto di potere che i francesi, prostrati militarmente dall'urto del conflitto mondiale, non sono in grado di colmare. I necessari aiuti degli alleati tardano a venir fuori. Inglesi e americani avevano aumentato le proprie forze su tutti i fronti tranne quello indocinese, rifornendo però in continuazione i guerriglieri del Viet Minh per logorare i nipponici prima di infliggere loro il colpo decisivo.
Piegato il Giappone con l'atomica, gli USA ripresero ad aiutare i francesi per sbarazzarsi dell'organizzazione, ormai pericolosa, del Viet Minh. Con il trattato di Potsdam essi avevano sancito la propria volontà di confinare ad un ruolo subordinato Inghilterra e Francia, decretandone la fine come grandi potenze. Nel quadro di questa strategia, agendo ambiguamente, gli Stati Uniti non rifiutano gli aiuti ai francesi ma poi appoggiano solo in parte il tentativo francese di riassestamento della colonia d'Indocina. La Francia si vedrà costretta a passare la mano agli americani nel controllo della regione indocinese, come accadeva alla Gran Bretagna per il Mediterraneo. Contro le mire di Washington però, mentre si consumava il ricatto ai francesi, il Viet Minh riusciva ad impadronirsi di tutta la regione settentrionale, compresa Hanoi, e ricacciava i francesi a sud. Nelle zone occupate Ho Chi Minh proclamava l'indipendenza ed instaurava la repubblica.

INIZIO DELLE OSTILITÀ
I francesi, trovatisi di fronte ad un fatto compiuto, cercano di sottrarsi ad una disfatta. Prendono tempo per via diplomatica e firmano con il Viet Minh un accordo di compromesso in cui si riconosce l'indipendenza del Vietnam come «stato libero nell'Unione francese». Non rassegnati alla nuova situazione i colonialisti, poco dopo l'accordo, tentano e riescono ad attuare la restaurazione del vecchio status: rapidamente rioccupano il Laos, la Cambogia, e la parte meridionale del Vietnam, spingendosi fino ad Haiphong. Inoltre, per assicurarsi una fonte di penetrazione politica all'interno del Vietnam, stimolano il sorgere di un movimento separatista a Saigon. I servizi di spionaggio americani contribuiscono all'impresa con forti finanziamenti. Obiettivo è la creazione di uno stato del sud da contrapporre a quello di Ho Chi Minh, per giustificare la propria presenza militare. Vengono così gettate le basi della futura guerra civile.
Al comando del generale Léclèrc, le truppe francesi marciano dalla riconquistata Haiphong su Hanoi, e la strappano al Viet Minh. Ho Chi Minh ripiega verso il confine con la Cina, si riorganizza e ricuce il tessuto dello stato rivoluzionario lacerato dal colpo di forza dei francesi. Il 19 dicembre del '46 è nuovamente ad Hanoi per insorgere una seconda volta e riesce a spodestare i francesi. Ormai, è l'inizio di una generalizzazione del conflitto che sfocia nella lunga e sanguinosa guerra di Indocina.

SITUAZIONE NEL LAOS E IN CAMBOGIA
Anche nelle altre regioni indocinesi, la lotta al colonialismo prosegue tra alterne vicende. Già nel '45 viene proclamata dai Lao Issara (i Lao liberi) l'indipendenza del Pathet Lao (stato del Laos), ma successivamente i francesi riescono ad imporre di nuovo la loro supremazia. Dinanzi alle crescenti pressioni delle organizzazioni armate dell'indipendentismo laotiano, però, incoraggiate dall'esempio vietnamita, i colonialisti si dovranno fermare, applicando un accordo simile a quello annamita. I gruppi moderati del Pathet Lao rientrano subito nella sfera dei compromessi con il Protettorato, mentre la minoranza rivoluzionaria facente capo a Souphanouvong, aiutata dal Viet Minh, continua la sua lotta armata contro il colonialismo.
Più prudente si presenta invece il re Norodom Sihanouk di Cambogia. Quando nel 1941 salì al trono con l'aiuto dei francesi, il giovanissimo re prometteva di restare un utile ed innocuo strumento in mano ai colonialisti. Costretto ad uscire dal moderatismo neutralista iniziale, Sihanouk invece scenderà i gradini del trono monarchico della controrivoluzione, vestendo i panni del rivoluzionario: abdica nel '55 fondando la "comunità socialista popolare" che ottiene il 98 per cento dei voti al successivo referendum, e tenta una trasformazione interna della Cambogia in chiave socialista e buddista, che gli guadagnerà la simpatia delle masse contadine. Sul piano politico egli cercherà l'aiuto della Cina («il disinteressato fratello maggiore che preferisce le alleanze ai protettorati») mettendosi contro gli americani, (questi nel marzo '70 fomenteranno la rivolta di Lon Noi mentre il re-presidente era a Parigi). Nonostante questa scelta politica, cui fu costretto più dagli eventi che da persuaso volere, la sua vera vocazione restò comunque il neutralismo.
In questa fase immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale, Sihanouk assolve quindi il ruolo di moderato: «quando gli elefanti combattono, le formiche devono mettersi da parte» dice un suo motto. Restando sostanzialmente nella neutralità, proclama l'indipendenza, ma sempre nell'ambito dell'Unione francese. Solo in un secondo momento l'irrigidimento dei francesi farà cambiare idea al re. Dapprima egli si accontenta della sola autonomia interna subendo le imposizioni del protettorato. Tre anni dopo proclamerà invece l'indipendenza. Cosa era successo? Alle elezioni del marzo '46 il partito democratico cambogiano aveva raccolto la maggioranza dei voti. Viene promulgata la Costituzione ed edificata una monarchia di tipo costituzionale. La maggior parte degli esponenti del partito, di ispirazione moderata riformista, si farà convincere dalle vecchie armi del Protettorato, le solite riforme ingannatrici. Sihanouk passa allora all'azione, ormai certo che i francesi non gli avrebbero mai concesso spontaneamente una reale autonomia. Rivendicando la propria autorità sovrana egli si pone a capo di tutta la questione cambogiana, divenendo il capo carismatico della rivoluzione khmer.

LA GUERRA DI INDOCINA DAL '47 AL '52
Nel frattempo, Ho Chi Minh, impegnato nell'opera di rafforzamento del giovane stato del nord, cerca in tutti i modi di contenere l'avanzata francese, mettendo in pratica la strategia della guerra rivoluzionaria. Viene concretizzata, cioè, la prima delle tre fasi teorizzate da Ho: quella difensiva o terroristica.
Truong Chinh, un intellettuale rivoluzionario del Viet Minh, rilanciando l'ipotesi hociminhiana della guerra di lunga durata nella sua "Resistence Vaincra" scrive: «La chiave della vittoria è nel condurre una guerra di lungo respiro. Per quale ragione? Perché nell'attuale rapporto di forze siamo indubbiamente inferiori al nemico. Paese agricolo, noi ci troviamo in conflitto con un paese industriale. Combattiamo con armi rudimentali con un nemico che dispone di un'aviazione, di mezzi blindati e di una flotta da guerra. A unità avversarie bene addestrate, noi contrapponiamo truppe ancora poco agguerrite. Se lanciassimo tutto il nostro esercito in pochi combattimenti decisivi, andremo incontro a una disfatta inevitabile. Se viceversa, pur combattendo, sappiamo conservare e accrescere le nostre forze, istruire il nostro esercito e addestrare militarmente il nostro popolo, se impariamo a far la guerra nel corso stesso delle battaglie otterremo quel che all'inizio ci mancava».
Il terrorismo in questo contesto è lo stadio parallelo alla fase di preparazione militare del popolo. Emblematica a questo riguardo l'affermazione di Vo Nguyen Giap: «il popolo e l'esercito sono come il pesce e l'acqua».
Mentre al nord, dunque, si susseguono gli scontri in sede di guerriglia tra il Viet Minh e le forze francesi, a sud nascono le prime formazioni di agitazione politica accompagnate da atti di sabotaggio alle basi militari francesi destinate al rifornimento delle guarnigioni combattenti nel settore settentrionale della regione. Necessitando di una rete esterna di sostegno nel gennaio del '50 il machiavellico Ho ottiene il riconoscimento diplomatico dello stato del nord dall'URSS e dalla Cina, che farà crescere il proprio appoggio durante l'occupazione statunitense nel Vietnam. Dalla fase difensiva si passa decisamente in questo periodo a quella di resistenza o di guerriglia.
Ho Chi Minh, sfruttando gli aiuti, seppur esigui, dei "paesi socialisti", riconquista parte dei territori occupati dai francesi, proprio mentre questi ultimi, in un momento assai critico tentano di fronteggiare la situazione facendo a loro volta riconoscere dagli USA e dall'Inghilterra il governo vietnamita di Huè presieduto dall'imperatore Bao Dai. Ma il Viet Minh, imponendo agli avversari la propria strategia, si dimostra preparato a sufficienza per affrontare la fase finale della controffensiva generale.

L'EPILOGO DI DIEN BIEIM PHU
A Dien Bien Phu si decide la liquidazione dell'impero coloniale francese in Indocina. Ma più che la caduta dell'ultima piazzaforte colonialista di Parigi, circa la quale va registrato l'alto senso di abnegazione dimostrato nella battaglia da entrambe le parti, Dien Bien Phu significa l'epilogo vincente della strategia attendista degli americani, i quali possono ora soppiantare i francesi nel sud-est asiatico ed acquisire la leadership colonialista nella regione, e segna altresì il definitivo passaggio in Indocina da un tipo di colonialismo di vecchio stampo alla europea, al neocolonialismo tipicamente yankee, manifestato nelle sue intenzioni dagli USA già a Potsdam.

GLI ACCORDI DI GINEVRA
Dalla prima guerra d'Indocina, i francesi escono gravemente sconfitti. È la vittoria della strategia della guerra rivoluzionaria, teorizzata da Ho e messa in atto dalle forze del Viet Minh agli ordini del generale Giap, il vincitore di Dien Bien Phu. Gli USA, dal canto loro, non possono nascondere la loro soddisfazione per le sorti del conflitto. Con una Francia mutilata e un'Inghilterra politicamente e militarmente avvilita, gli americani giocano tutte le loro carte su un intervento massiccio delle proprie forze nella regione nella prospettiva di sviluppare le loro ingerenze. In clima di piena campagna negoziatoria, al tavolo delle trattative ginevrine, in cui sono di fronte i "due grandi" (americani e sovietici), gli altri "due meno grandi" (francesi e inglesi), la Cina di Mao Tze e i delegati del Viet Minh, di Norodom Sihanouk, del governo del Laos e dell'imperatore Bao Dai, si decide il futuro dell'Indocina.
Gli accordi di massima che concluderanno la conferenza offriranno agli USA la possibilità di mettere una pesante ipoteca politica, economica e militare sulla regione.
Le clausole degli accordi prevedevano per la Cambogia la sua piena autonomia politica sotto il governo di Sihanouk, col che era gratificata momentaneamente la strategia dello stare a galla ad ogni costo del re-presidente; per il Laos la neutralizzazione militare, che lasciava però insoluta quella politica, dando così ampio spazio ad una lotta tra le forze rivoluzionarie del Patet Lao e la destra (filo-americana) di Vientiane, desiderosa, per conto degli USA, di conquistare decisamente il potere; e per il Vietnam le elezioni generali entro il luglio del '56. Di fatto, invece, lo Stato vietnamita veniva diviso in due settori il cui confine di demarcazione era posto artificiosamente all'altezza del 17° parallelo. Le intenzioni di parte americana erano di fomentare i contrasti tra il Sud e il Nord, in modo da creare una situazione di rottura da cui fosse rimasta pressoché impossibile una soluzione elettoralistica, che avrebbe avuto per risultato la netta vittoria del Viet Minh. Come contropartita al proprio "laissez faire", l'URSS chiese un ammorbidimento delle posizioni antisovietiche delle nazioni dell'Europa occidentale, con la relativa abolizione del blocco economico ai paesi dell'Est.
Questi furono i risultati degli intenti yankee: il paese diviso come realtà di fatto e di diritto, preludio di un nuovo conflitto, e la giustificazione alla presenza USA nella regione sudvietnamita.
L'intervento americano è così destinato ad ingigantirsi.

 

Segue al prossimo numero:

LA SECONDA GUERRA D'INDOCINA

da Ginevra all'offensiva del Tet


* Gli USA nel Vietnam.
* Il ruolo della Cina.
* L'offensiva di gennaio