ANNO II * n. 8/9 *
Dicembre 1975
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Sommario:
* Editoriale
* Due porte aperte per il PCI
* Sotto il blasone del regime
* Cosa copre la foglia di fico?
* La morte di un vate del regime
* Faccia di spia n. 2
* Storia di una guerra di popolo
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EDITORIALE
Le molte orecchie tese a percepire -e spesso a
inventare- le intenzioni nascoste degli americani e del Vaticano per la
"questione italiana", sono l'immagine più eloquente del fatto che la
politica italiana si fa oggi alla Casa Bianca e dietro il portone di
bronzo. Quando gli equilibri del regime si complicano, nessuno si sogna
di rimboccarsi le maniche e cercare una via d'uscita. Ci si limita a
interrogarsi sui propositi dei vescovi e dell'ambasciata usa. Gli
ammiccamenti sofferti e le analisi sottili si intrecciano ancora nel
minuetto che, a sei mesi dalle elezioni di giugno, domina la scena
politica italiana.
L'affermazione elettorale della sinistra ha suscitato reazioni assai
diverse nelle tre maggiori componenti del regime: il partito cattolico,
la sinistra radicale, e quella comunista, mentre la fazione
liberalmissista appare sempre più fuori dei grandi giochi, ridotta al
ruolo di corrente di destra della DC. E se in campo democristiano tutto
sembra rimandato alla assise congressuale, a sinistra è riemersa quanto
mai viva la vecchia polemica tra i sostenitori del partito unico dei
lavoratori e quelli dell'unità coi cattolici, aggiornata
terminologicamente nelle opposte scelte dell'unità della sinistra e del
compromesso coi cattolici. In sostanza, nel momento di maggior forza
elettorale della sinistra dal dopoguerra ad oggi, la diversità di
strategia dei comunisti italiani rispetto ai radicali non consente né
agli uni né agli altri un serio tentativo di ribaltamento della egemonia
democristiana. Ciò impone anzitutto una riflessione. Il regime da
trent'anni al potere in Italia, aldilà delle diversità di riferimento
storico o di impostazione programmatica delle sue componenti, è ridotto
all'unità dalla comune volontà della classe politica italiana di
perpetuare la subordinazione e l'asservimento dell'Italia, nella cornice
della politica colonialista americana. Nella accettazione della
protezione occidentalista, la classe politica al potere trova la
possibilità di continuare indisturbata la gestione del potere, che
altrimenti non gli permetterebbe la dimostrata incapacità di risolvere i
problemi -anche di ordinaria amministrazione- della nostra società.
Sbaglia quindi chi crede oggi nella possibilità di risolvere quei
problemi nell'ambito delle forze dei regime, da tutta la destra a tutta
la sinistra. L'ultima conferma, in ordine di tempo, a questo dato viene
dalla manfrina per i posti di potere alla Rai, ballata con foga da
democristiani e socialisti, col benevolo silenzio dei comunisti e della
destra, dopo la copertura offerta ai ministri implicati nell'affare dei
finanziamenti petroliferi.
.
Il Vaticano, gli americani e i
comunisti
DUE PORTE APERTE PER IL PCI
Cerchiamo di schematizzare in che modo
la vita riflessa della democrazia italiana rispecchi le diverse scelte
che riservano all'Italia le centrali di potere d'oltreatlantico e d'oltretevere.
Al PCI, che ha colto la sua affermazione elettorale sul terreno del
pragmatismo e dell'adeguamento moderato, non era mai sfuggita
l'importanza dell'atteggiamento di rifiuto pregiudiziale che, prima del
centrosinistra, certe componenti della società italiana (i circoli
dell'industria del nord, i ceti aggregati alle clientele cattoliche) e
certe forze internazionali (USA e Vaticano) opponevano alla prospettiva
dell'acquisizione all'area di governo dei comunisti italiani. Se infatti
clericali e moderati avevano accettato l'appoggio dei comunisti per la
Costituzione, fu proprio il piano Marshall a bloccare il fronte
popolare, e fu ancora l'atlantismo di De Gasperi che costrinse Togliatti
in una posizione di appoggio al regime fuori del governo.
Da sempre negato ad ogni prospettiva rivoluzionaria, il PCI ha creduto
di poter uscire dal ghetto in cui lo aveva condannato prima il
conservatorismo centrista della DC degli anni '50, e poi l'apertura
kennedyana ai socialisti degli anni '60, seguendo le due strade che gli
erano offerte: da una parte il dialogo con i cattolici (da Ingrao alla
strategia del compromesso di Berlinguer), dell'altra l'unità delle
sinistre (da La Malfa ad Amendola). Entrambe le porte aperte
nascondevano secondi fini: la prima porta, quelli dei cattolici, che
intendono sfruttare la prospettiva del compromesso col PCI come arma di
ricatto verso i socialisti. La seconda porta, quelli della sinistra
neogiacobina che, come al solito, si serve dell'apparato di partito
comunista per estremizzare e diffondere le manovre politiche radicali.
Se quindi la posizione di rifiuto pregiudiziale può dirsi scomparsa in
campo industriale -al punto che il PCI è oggi il difensore dei medi
imprenditori- e nel ceto medio -al punto che il PCI è oggi un partito
d'ordine e di classi intermedie- resta da considerare l'atteggiamento
degli USA e del Vaticano.
Data la caratterizzazione ideologica radicale -al contrario di quanto si
afferma da destra- la svolta elettorale a sinistra non lascia spazio
all'URSS, potendo anzi preludere ad un esperimento di tipo
socialista-progressista che costituirebbe un polo di attrazione per
l'Europa orientale, a tutto svantaggio di Mosca. Questo dato è
certamente tenuto presente dagli americani, ed è continuamente
riproposto all'attenzione dall'europeismo a sfondo socialsindacalista
dei vari Amendola e Segre. Ciononostante la svolta a sinistra è
giudicata negativamente dagli americani, proprio perché in Europa le
sfere di influenza tra USA e URSS sono ben chiare, e Kissinger non è
affatto intenzionato a porre eccezioni allo schema bipolarista della
politica USA da Yalta in poi. Inoltre una serie di elementi interni alla
politica americana, costringe gli USA a non credere nella dichiarata
disponibilità atlantica del PCI. E qui il discorso deve spostarsi a
Washington.
RADICALI E CONSERVATORI
La leadership americana come la intende Kissinger si riallaccia più alla
linea nazional-conservatrice dì Nixon che non alla tradizione
democratica della "nuova frontiera" kennedyana. In altre parole
Kissinger è il sostenitore della distensione come politica di equilibrio
di potenze, mancandogli il substrato che portava Kennedy a concepire la
distensione come alleanza ideologica oltre che politica coi compari
radicali del Cremlino, sotto le grand'ali di Giovanni XXIII. Col "metternicchiano"
Kissinger, l'America si preoccupa oggi di difendere le proprie conquiste
(col radicale Kennedy pensava a farne di nuove), ristabilendo
l'equilibrio politico mondiale con interventi opportuni di volta in
volta. Un atteggiamento pragmatico, che i centristi del partito
repubblicano estremizzano fino al rifiuto delle ideologie radicali da
Wilson a Roosevelt a Kennedy, giudicate fumose ed ipocrite, e su cui si
inserisce un vasto movimento di critica alla distensione, definita «una
strada a senso unico», a vantaggio esclusivo dei sovietici. Nella
sinistra "liberal", la critica cresce sul terreno del disinteresse per i
problemi internazionali delle frange isolazioniste preoccupate per
l'inflazione. Nel campo della "new right" invece, dopo Helsinki, si va
delineando uno schieramento polemico verso la distensione, o comunque
verso una impostazione troppo flessibile di essa, che è stato definito
di «maccartismo limitato», schieramento che va da Ronald Regan a Henry
Jackson.
La politica americana "socialdemocratica", cioè ispirata ai temi del
conservatorismo internazionale in contrasto con quelli radicali, ha
sempre svolto un ruolo intermedio -di riconversione dell'industria
bellica e di difesa delle conquiste tramite l'isolazionismo commerciale-
per ridare fiato alla iniziativa democratica, che puntualmente si è
realizzata dopo le gestioni repubblicane, sostenuta da una leadership
d'attacco sui mercati esteri, dalla esportazione ideologica e spesso
dall'aggressione militare.
CRISI DI IDENTITÀ
Gerald Ford, l'unico presidente non eletto della storia americana,
continua una leadership nazionalconservatrice e "socialdemocratica" che
risale a Johnson, e che sorregge ormai la strategia americana da un
decennio, rappresentando dunque un'eccezione rispetto al ruolo
intermedio e momentaneo dei conservatori al potere prima di Kennedy. E
poiché per la propria intrinseca struttura politica e sociale, gli USA
hanno nel progressismo il loro motore storico, 10 anni di impasse
radicale alla Casa Bianca impongono una svolta alle presidenziali del
'76. Continuare sulla via dell'isolazionismo significherebbe per i
sionisti americani e per i gruppi radicali usa rischiare una grossa
crisi di identità della società americana. L'uomo medio yankee infatti
non può ammettere battute d'arresto nella marcia del progresso
indefinito; all'ombra del suo calvinismo egli si sente baciato in fronte
dalla provvidenza e, come osserva un giornalista radicale italiano,
scoprire che il prossimo frigorifero potrebbe non essere più grande e
più pieno del precedente è per lui un trauma. Lo stesso mito della
capacità della società americana di assorbire nel calderone consumista i
diversi gruppi etnici e sociali rischia oggi di incrinarsi di fronte
alla politica di Ford, mentre proprio il radicalismo aveva rilanciato
quel mito innestando con Kennedy i gruppi della protesta negra sul
vecchio supporto radicale rooseveltiano dei sindacati.
I sintomi di rafforzamento della tendenza isolazionista valgono comunque
ben poco, di fronte alla necessità di difendere l'impero americano nel
mondo -ciò che costituisce il comune denominatore dei gruppi politici
americani- e su questo punto si inserisce la critica radicale a Ford
(ombra di un nuovo Watergate su Kissinger, polemiche sulla CIA agitate
dai radicali, liquidazione di Schlesinger).
Ciò posto, per quanto riguarda l'Italia e il suo ruolo nella NATO, la
presenza dei comunisti al governo sarebbe del tutto negativa per gli
attuali sostenitori di una politica di potenza statica americana, in
quanto pur essendo salve le basi NATO, le attività parallele (schemi
operativi tattici, controllo della attività atomica) sarebbero esposte
alla critica radicale. E poiché a Kissinger le basi non servono per la
terza guerra mondiale ma per gestire la tensione internazionale con
operazioni di normale amministrazione, sono proprio gli schemi operativi
e la libertà di manovra della NATO che egli intende salvaguardare. Su
questo punto è ancora il clan degli ebrei d'America che non ammette
eccezioni, dopo l'esperienza del rifiuto opposto al ponte aereo verso
Israele da Papadopulos e Carrero Bianco (che è costato al primo la
carrièra e al secondo la vita).
SPACCATURA NELLA SINISTRA
(tratto da "Controccorrente" Anno III, n. 1)
Di fronte a questa situazione il PCI preferisce tacere, sulle scelte
internazionali, proseguendo e rafforzando la politica di tono minore
dell'inserimento nel governo periferico e nell'amministrazione locale.
Circa la scelta dell'accordo coi cattolici, contrapposta alla
prospettiva dell'unità della sinistra, un sintomo interessante è stata
la dichiarazione di Leone a Mosca sulla appartenenza spirituale e
politica della Russia all'Europa, coincidente con la sortita del
comunista Malagugini contro l'istituto del referendum a cui sono seguite
le proteste dei radicali con l'impennata -subito rientrata- del
socialista Fortuna. Inoltre un tentativo di isolamento della sinistra
socialradicale sembra il rifiuto delle Botteghe Oscure della politica di
La Malfa, cui si contrappone però un atteggiamento dimesso dei sindacati
comunisti verso il presidente della Confindustria Agnelli. Evidentemente
il discorso delle due porte resta sempre valido per il PCI,
rispecchiando la divisione tra radicali e conservatori che emerge anche
nella politica vaticana. L'ala radicale della Curia (Casaroli, Villot)
-che ha sostenuto la congiura di luglio contro la politica fanfaniana- è
infatti intenzionata ad appoggiarsi agli eredi americani del kennedysmo,
puntando su una ripresa democratica alla Casa Bianca; da qui l'apertura
al mondialismo e alle correnti ideologiche radicali in seno al mondo
cattolico della cosiddetta "teologia nuova" contro i residui del
pensiero metafisico cattolico. L'ala conservatrice della Curia
(Conferenza Episcopale, Palazzini, Benelli) invece -che ha mediato
l'appoggio in extremis al perdente Fanfani- è meno recettiva ai temi
radicali. Proprio questa ala ha interesse anzi ad isolare i radicali nel
paese. L'operazione avverrebbe in collaborazione col PCI in nome
dell'unità con i cattolici, e consentirebbe una svolta nella politica di
alleanze internazionali del Vaticano rinsaldando i vincoli religiosi
della Chiesa di Roma nel mondo, fino a proiettarli in una strategia
neotemporalista che prevede lo sganciamento dagli USA per una politica
di neutralismo In entrambi i casi il comunismo italiano, è destinato a
cogliere i frutti di trent'annj di trasformismo e di opportunismo,
trovandosi ridotto al ruolo di partner subalterne o delle manovre
radicali o di quelle papiste
la crisi permanente della scuola
SOTTO IL BLASONE DEL REGIME
Tramite la parlamentarizzazione della
protesta la dittatura dei partiti si inserisce nella scuola.
Nell'odierna congiuntura, le diverse crisi che ad altrettanti livelli
non permettono uno sviluppo omogeneo e funzionale delle strutture
portanti della società, in Italia i corifei della politica nazionale
tendono a risolverle mediante delle operazioni legalistiche e formali
che, in definitiva, si riducono a meri palliativi prodotti da una
laboriosa meccanica parlamentare. La volontà che oggi prevale in ogni
forza degli schieramenti del regime è quella tendente a ritoccare
marginalmente le strutture sociali, economiche e politiche, senza
modificarne il sistema. Mentre per un rivoluzionario la "riforma" è uno
strumento intermedio e provvisorio ai fini della lotta politica, per il
riformista, a qualunque fazione appartenga, la riforma costituisce il
"metodo" in mancanza del quale non si possono cambiare gli ordinamenti
politico-sociali.
RIFORMISMO E MODERATISMO
Questa ottica condanna al moderatismo e all'astrattezza. Le riforme
infatti sono oggi un'arma in mano al regime, che agitando la bandiera di
una falsa "giustizia sociale" conquista una rispettabilità artificiosa
di fronte ai lavoratori e anestetizza la coscienza delle classi fin qui
sistematicamente escluse dalle decisioni politiche. Inoltre l'attuazione
di una riforma nel nostro paese -oltre che essere approntata con
lentezza bradisismica, e quindi non corrispondente ai bisogni reali che
ne suscitano la richiesta- ha il costante difetto di non possedere a
monte una mentalità di analisi sociale, espressa in una volontà
politica, capace di cogliere in modo onnincludente la interdipendenza
delle singole crisi che simultaneamente coinvolgono i diversi settori,
cioè -in una parola- ha il difetto costante di essere settoriale.
L'attuale classe dirigente, legata alle tradizioni storiche del
riformismo italiano (inconcludente e trombone), filtrate dal
neocapitalismo e innestate sul modernismo cattolico, da trent'anni a
questa parte non è riuscita a sbrogliare un solo nodo di contraddizione
politica che non sia quello della spartizione del potere. È una
classe-fantoccio, ad uno stadio storico di sviluppo e con un retroterra
di esperienze tale da poter mascherare agevolmente l'asservimento a
centrali di potere extranazionali (USA, URSS, Vaticano), al quale
asservimento viene sacrificata l'autonomia politica, l'indipendenza
economica e la crescita culturale del proprio popolo.
Una classe dirigente che non esce dalle spicciole impostazioni
formalistiche e dagli schemi aprioristici cioè dal dottrinarismo, sia
esso di destra o di sinistra, non può e non deve governare.
IL MINISTRO GATTOPARDO
Da qui trae origine l'impronta di diffusa ambiguità che in questi ultimi
anni caratterizza in particolar modo la discussione sulla crisi della
scuola in termini che non rendono possibile una sua, sia pure parziale,
risoluzione. Dall'entrata in vigore degli organismi scolastici previsti
dai decreti delegati, il ministro Malfatti, al pari del dottor Grillo
che, dopo aver distribuito ricette a destra e a manca augura ai suoi
clienti «che Dio ve la mandi buona», ha lasciato insolute tutte le
conseguenze future e le questioni attuali connesse al mondo della
scuola. Egli non ha teso a dirimere immediatamente la mancanza di mezzi
che è causa della degradazione civile, culturale e spirituale del popolo
italiano, ma ha avuto piuttosto la pretesa, non priva della sua buona
parte d'inganno, di poterli risolvere passando prima attraverso il
dedalo degli organi di gestione. E qui si può largamente constatare come
il discorso sulla scuola sia un discorso di potere, e solo in questo
senso sia stato affrontato.
Ma il fatto forse più drammatico e, al tempo stesso, paradossale di
questa situazione, è che in Italia non esiste una vera opposizione
politica. Ne sono conferma a livello studentesco: il "revirement"
dell'ultrasinistra -e non potrebbe essere diversamente, stante la sua
natura di braccio extraparlamentare del PSI- che dall'atteggiamento
astensionistico è passata oggi a firmare "patti di non aggressione" con
i socialisti di De Martino, con i cristiani di Comunione e Liberazione e
a presentarsi in liste unitarie accanto ai giovani DC; il tentativo di
inserimento nell'area scolastica di potere dei comunisti di Berlinguer,
ormai allineati in chiave radicale e piccolo-progressista su un piano di
compromesso con i cattolici; e la adesione della destra almirantina, da
sempre intonatrice di ritornelli anticomunisti, alla strategia di
Palazzo Sturzo.
Della protesta, insomma, resta il rito, cade la sostanza. Cade, cioè, la
volontà di creare un'opposizione autentica e incondizionata al regime,
con la quale smuovere l'egemonia dell'immobilismo cattolico e dei suoi
alleati a destra, nonché arrestare la penetrazione nell'area di potere
dei suoi comprimari radicali e delle forze che essi manovrano a
sinistra.
l'ONU e il sionismo: una manovra
radicaldemocratica
COSA COPRE LA FOGLIA DI
FICO?
Manovrata dall'ebraismo americano e
rivitalizzata costantemente dalla sinistra radicale usa da Roosevelt a
Kennedy, l'ONU non è mai stata il difensore della giustizia ma sempre lo
strumento degli interessi colonialisti USA-URSS, come già la SdN per
l'Inghilterra. Perché allora la condanna formale del sionismo come
razzismo, nel tempio della distensione?
L'Assemblea generale dell'ONU, con 72 voti favorevoli, 35 contrari e 32
astensioni, ha approvato una risoluzione di condanna del sionismo, in
quanto «forma di razzismo e dì discriminazione razziale». La vicenda ha
suscitato, compatta ed immediata, un'ondata di grida di sdegno da parte
degli ambienti occidentali. I più forsennati nello strapparsi le vesti
appaiono comunque le centrali radicali della grande stampa e dei circoli
politici nordamericani ed europei, cioè il mondo neocapitalista e
l'internazionale neogiacobina della cultura, da Schmidt al "New York
Times", da Mitterrand ai giornali della Fiat, da Sartre a Nenni. Il
Senato americano inoltre ha approvato una risoluzione che "stigmatizza"
la ratifica ONU della risoluzione antisionista.
Sembrerebbe quindi che un'antica alleanza si sia spezzata, ma è una
sensazione apparente, e ci spieghiamo. Le Nazioni Unite furono una
creatura dell'ebraismo -che piazzò infatti nei posti chiave dell'ONU
degli israeliti- ed il legame tra lo stato israeliano e la politica
dell'ONU, tendente ad insabbiare le rivendicazioni arabe e dei non
allineati nel pelago del giuridicismo e della moderazione pacifista, fu,
da Truman in poi, un dato costante.
Si voleva in tal modo garantire agli Stati Uniti un controllo politico
economico e militare sulle nuove nazioni, emergenti dallo sgretolamento
del vecchio colonialismo europeo, controllo ispirato ai canoni del
radicalismo rooseveltiano. Con la copertura umanitaria e
"giustizialista" delle quattro libertà e della pace mondiale, veniva in
tal modo realizzata la sostituzione dell'impero USA al potere coloniale
europeo, in barba alle illusioni di Churchill sulla solidarietà
postbellica tra gli alleati. Secondo la strategia dei radicali americani
l'ONU si reggeva sulla potenza economica degli USA che consentiva loro,
senza temere rivali nell'Europa distrutta dal conflitto mondiale, una
politica di investimenti e di aiuti ai paesi poveri. Successivamente
l'organizzazione allargava la sua struttura, ammettendo agli inizi degli
anni '60 le nuove nazioni del cosiddetto terzo mondo, e la maggioranza
afroasiatica diveniva il secondo pilastro dell'ONU. Nella politica di
concessioni reciproche tra i due poteri, l'ebraismo americano, se
controllava direttamente il danaro USA che passava per le mani delle
holdings giudaiche, era però privo di agganci politici nella nuova
realtà internazionale del terzo mondo, aldilà del controllo finanziario.
In tale quadro l'ONU fu lo strumento della penetrazione del sionismo
americano in questi paesi, realizzata catturando la maggioranza
afroasiatica ad un terzaforzismo parolaio e piagnucolante che finiva per
restare ossequioso dei canoni distensivi e pago di ricevere i surplus
agricoli americani e i mezzi tecnici sovietici, senza ricercare uno
spazio politico proprio per una politica autonomista. In sostanza non
un'alternativa ma un'appendice a Yalta. A ciò si aggiungeva la
penetrazione diretta di Israele nel terzo mondo con l'invito di
istruttori militari e di tecnici israeliani in mezza Africa, e con una
politica di aggancio diplomatico, grazie anche alla copertura dell'URSS
che aveva riconosciuto per prima lo stato sionista.
L'ONU STRUMENTO DEI RADICALI
Con l'affermazione radicale su scala mondiale dell'epoca kennedyana,
l'ONU riceveva nuova linfa (vedi l'adesione al mondialismo di papa
Roncalli), e veniva a servire perfettamente gli interessi del
neocolonialismo USA-URSS, che manteneva il controllo sull'organo
esecutivo dell'Assemblea, il consiglio di sicurezza, e poteva mascherare
la propria ingerenza economica e politica dietro il paravento dell'aiuto
e della difesa dei paesi poveri, vera foglia di fico della distensione.
Così rispetto al conflitto arabo-istraeliano -che proprio il Palazzo di
Vetro aveva istituzionalizzato sancendo la spartizione della Palestina
nel '47, nonostante i principi solennemente enunciati nella Carta dell'ONU-
le Nazioni Unite da una parte appoggiavano le rivendicazioni arabe
(anche per cercare di gratificare il "bizzoso" Nasser, che aveva intuito
i limiti del terzaforzismo aspirando al superamento del piccolo
nazionalismo in chiave panaraba), e condannavano a più riprese le
incursioni israeliane; e dall'altra gestivano la tensione per conto
delle superpotenze senza che i caschi blu intervenissero in modo
efficace durante le aggressioni israeliane del '56 e del '67, come poi
per la guerra del Kippur.
Tuttavia il meccanismo perfettamente oliato dell'era kennedyana comincia
ad incepparsi con l'affermazione in America dell'ala
nazionalconservatrice (Johnson e Nixon). La politica economica
interventista USA (Kennedy round) viene infatti a spostarsi verso una
linea isolazionista, culminante nelle misure protezionistiche di Nixon
del ferragosto '71, e poi nella crisi petrolifera voluta dalle sette
sorelle, ciò che rischiava di mettere in crisi l'azione USA di
vincolamento economico del terzo mondo. A ciò va aggiunto il maturare in
seno al sionismo internazionale di una spaccatura, che divide gli
oltranzisti sostenitori di una leadership supercolonialista israeliana
anche contro gli interessi americani nel Vicino Oriente e nel
Mediterraneo, e i moderati che ad essa antepongono la difesa dell'impero
americano e quindi del quadro distensivo. E ancora l'isolamento
diplomatico di Israele in Africa, tenacemente perseguito dall'erede del
nasserismo Gheddafi.
LA MIOPIA TERZOMONDISTA
I paesi non allineati tuttavia non intendono sfruttare in senso
rivoluzionario, cioè contro gli equilibri distensivi, la fluidità della
situazione, chiedendo invece nuovi investimenti e nuovi apporti
tecnologici, offrendo in tal modo ai radicali americani la possibilità
di liquidare Nixon, rilanciando l'economia di mercato e il libero
scambio come molla dell'espansionismo commerciale. Finisce cosi anche
l'attrito col terzo mondo in tema economico. Gli USA, sotto la spinta
del Tesoro (Simon) e della Segreteria di Stato (Kissinger), promettono
oggi per bocca di Ford mezzo miliardo di dollari per il riequilibrio
economico mondiale, e gli animi si placano. L'URSS dal canto suo, quando
poteva aprire un suo gioco egemonizzando la protesta dei paesi
sottosviluppati, si è guardata dal farlo. Per i dirigenti del Cremlino
l'importante è salvare il bipolarismo internazionale.
È lecito a questo punto affermare che la condanna del sionismo come
razzismo non è affatto una vittoria del terzo mondo, ma rientra in una
più vasta manovra radicale, che ha avuto come risultato immediato di
ricucire la solidarietà, alla causa israeliana da parte della opinione
pubblica al di qua e aldilà dell'Atlantico, offrendo nuovo valore
all'immagine -patetica, ma sbiadita, a trent'anni dalla sconfitta della
Germania- dell'ebreo perseguitato. Inoltre la manovra va intesa come
ricatto ai moderati del sionismo e alla politica di accordo di Rabin, e
come risposta radicale alla strategia empirico-pragmatica
dell'amministrazione Ford e del suo commesso viaggiatore Kissinger.
Teorizzatore di una politica di equilibrio mondiale statico, ben lontana
dalla incisività della "nuova frontiera" kennedyana, Kissinger afferma
infatti che «gli USA sostengono Israele ma non le sue conquiste»,
atteggiamento inammissibile per i duri del sionismo e per l'ala radicale
USA.
È sintomatico che i sovietici si siano prestati a strumentalizzare lo
scontento arabo a vantaggio della sinistra radicale americana, proprio
mentre emerge in America un movimento di critica alla distensione, che
ripete i temi del nazionalconservatorismo che già fu di Johnson, con
tendenze isolazioniste, movimento che comprende anche alcuni settori
dell'ebraismo americano (Jackson, Moynihan), un tempo monoliticamente su
posizioni kennedyane.
Politicamente dunque l'azione araba all'ONU non appare opportuna. Come
opportuna non è stata l'azione dialogante di Arafat che, all'indomani
del vertice di Rabat, ha costretto la potenzialità rivoluzionaria della
guerriglia palestinese nei vincoli del legalismo ONU. Tutto ciò induce
anzi a credere che non si voglia rigettare da parte araba il ruolo di
foglia di fico, di copertura del colonialismo USA-URSS.
Sul piano più propriamente ideologico poi, piagnucolare contro il
razzismo lascia pensare che non si sia inquadrato il sionismo nei giusti
termini. Quello che occorre per rilanciare una politica antisionista e
rivoluzionaria -la sola a nostro avviso accettabile per risolvere i
problemi mediterranei- non è l'adesione alle trappole concettuali del
giacobinismo, ma lo smascheramento del potere occulto sionista e della
sua azione inquinante in seno alle nazioni, e il rifiuto dei supporti
ideologici e culturali del sionismo, dall'occidentalismo al marxismo,
che ne rappresentano l'aspetto più dannoso.
Cala la tela su Trepì, al secolo Pier Paolo
Pasolini
LA MORTE DI UN VATE DEL
REGIME
Sottoposti all'usura come tutte le
cose di questo mondo anche i buffoni di corte della democrazia vanno di
tanto in tanto sostituiti. Mentre ci auguriamo che il successore di
Trepì tenga alta la tradizione italiana della commedia dell'arte, vi
illustriamo come si costruisce un intellettuale "scomodo".
A poche ore dall'epilogo della vicenda di P. P. Pasolini, non si poteva
dubitare sui lacrimogeni cortei di coccodrilli che si sarebbero formati
alle sue spalle. Regolarmente, gli epicedi sono stati sparsi dai corifei
della cultura di regime, i quali hanno ricostruito ognuno a modo suo e
attimo per attimo le vicissitudini del "poeta assassinato". Intonato dai
soliti figuri che fino al giorno prima glielo avevano concesso o negato
a seconda delle necessità particolari del momento politico, il coro
accompagna ancora il feretro dell'intellettuale cosiddetto scomodo. E
ciò dimostra che le fortune di Trepi sono in gran parte legate alle
leggi dei "mass media" che pompano o sgonfiano i personaggi che si
agitano sul palcoscenico in base ai disegni del potere.
Vezzeggiato nei salotti borghesi, blandito dall'editoria
radicalprogressista, Trepi non è un personaggio scomodo. Un
intellettuale autenticamente scomodo non può vivere una vita di presunta
sofferenza inferiore e di effettivo privilegio come vorrebbe un cliché
di cui troppo spesso si abusa. Non può essere gettato tra i rifiuti
all'alba ed elegantemente riabilitato al tramonto dello stesso giorno.
Il potere non tollerò contestazioni da Giordano Bruno, che fu avviato al
rogo, né da Andrea Chénier, che dovette percorrere il boulevard
malinconico della ghigliottina, né da Ezra Pound, che percorse quello
ancor più tragico del manicomio. Nessun rogo, nessuna ghigliottina,
nessun manicomio per Trepi, di cui il potere si è servito, seppellendolo
con tutti gli onori.
Nel clima trasformista della cultura italiana dopo la guerra Trepi campa
da maestro. L'auto-smentita e l'autonegazione diventano un registro
obbligato nel suo ruolo di personaggio alla moda, alle quali si aggiunge
l'assenza della fedeltà a se stessi, carenza tipica degli omosessuali.
Permettendosi il lusso di possedere diversi passati, duplici presenti e
molteplici verità, anch'egli come tanti personaggi illustri si presta ai
giochi di sottobanco del regime. E proprio in tale veste ambigua finisce
per piacere alle folle. L'ambiguità gli imprime un carattere di
indiscutibile originalità, che presso il progressista della strada
diviene un mito. Per un certo pubblico, neoilluminista e grande borghese
che viene su di pari passo col neocapitalismo, le analisi di Trepi non
sono mai errate. Quando poi le dice troppo grosse e qualcuno storce il
naso, è la stampa che provvede a minimizzare i suoi spropositi. La
stampa gli elimina perfino la fatica di smentire poi ciò che ha
sostenuto prima. Nessun autolesionismo dunque, ma qualche articolo
azzeccato di terza pagina, scritto dal gazzettiere del momento
improvvisatosi critico letterario, basta al nostro per riconquistare
tutto intero il suo seguito. Egli è colui che smaga la gente intorno
alle contraddizioni della società, così celando le proprie.
L'estrazione culturale di Trepi non è sinceramente laicista. La sua
formazione è inizialmente cattolica e a stento si lega alle correnti
culturali e letterarie del dopoguerra, aderendo a modo suo alle
tematiche neorealiste. In campo letterario è molto più vicino alla
tradizione del cattolicesimo a tinte sociali di De Marchi e Fogazzaro,
che non a quella vibrante nel verismo di Verga. Ma nemmeno entra
completamente nella scuderia neorealista dei nuovi papaveri della
letteratura italiana: se lo accomuna ad essi la riduzione della tragedia
a squallore, e l'invettiva copiata dal mondo classico, lo distingue però
il substrato filosofeggiante e a tratti arcadico, assente nei primi.
Dalla sua torre d'avorio Trepì non scende a valle per collaborare con
Vittorini e il clan americanista e neoradicale del "Politecnico", ma
preferisce pubblicare i suoi primi saggi estetizzanti su "Officina". Mai
avrà un connubio stretto con gli epigoni di Vittorini e sarà di
conseguenza sfruttato al momento giusto contro il giacobinismo
arrabbiato dei radicali della seconda generazione. Si pensi, a tale
riguardo, alle sue posizioni sulla contestazione, sul divorzio, e a
quelle più recenti sull'aborto. In questo senso, anche il suo
anticonformismo a tutti i costi, a metà tra il matto scemo e il
rompiscatole, lo porta all'isolamento da cui tenta di uscire con la
chiave falsa del gattopardismo generalizzato, e sotto il profilo
dell'autonomia intellettuale, lo rende strumentalizzabile per gli altrui
fini.
In Trepì, essere anticonformista non significa rigettare l'adesione alle
opinioni prefabbricate, negare la deferenza e l'ossequio ai potenti,
fuggire il gusto massificato e le mode a buon mercato; significa invece
far assurgere a dottrina, ad abito mentale e a modello di pensiero le
proprie contraddizioni metodiche.
Col "miracolo economico" ed il trionfo del neocapitalismo in Italia
Trepì si trova davanti a un bivio: continuare sulla vecchia strada di un
cristianesimo alambiccato che vorrebbe essere quello umile delle origini
sa troppo di ecumenismo giovanneo; ma nemmeno gli è congeniale lo
spostamento verso il radical-progressismo. Quindi, dopo la breve
parentesi del comunismo ortodosso, sceglie la via di una protesta fatta
di velleità e di incoerenza.
Ricorda molto Gyòrgy Luhàcs, tipico esempio dell'intellettuale
"anticonformista": un gran signore che da marxista ripudia la borghesia
(ungherese) per avvicinarsi a quella tedesca, un neoilluminista
distruttore della ragione che poi pretende di salvare dal nazismo e
restaurare dopo lo stalinismo, un comunista senza la tessera in tasca,
un cosmopolita che vuole erigersi a precettore delle "intellighentie"
riformiste di tutta l'Europa con una ideologia da lui stesso definita
piena di grinze borghesi, scomodo per il Cremlino, in realtà comodissimo
ai vari Malenhow e Kruscev per la critica e la denigrazione di Stalin.
O ancora fa pensare a J. P. Sartre, che ieri rifiuta il Nobel e sostiene
la gioventù di Nanterre nella contestazione, ed oggi invece con giacca e
cravatta presenta alla Tv francese programmini in chiave riformista sul
rapporto cultura-mondo operaio; a H. Marcuse, l'antiaccademico
unidimensionale, uomo dalle molte facce e padre putativo dei giovani
radicali e pacifisti d'oltreoceano, che è capace di rientrare nei ranghi
accademici della "repressiva" università di Boston, anticipando lo
scivolone moderato della contestazione; a C. W. Mills, già eretico dello
hegelismo, fautore di una specie di nazional-marxismo fatto in casa, che
poi rinnega per una apertura alla sociologia weberiana, quando alla Casa
Bianca si insedia il cast radical-progressista kennedyano.
Trepì scopre la sua rivoluzione nel sottoproletariato delle borgate
romane. Vi trova la contaminazione feconda dell'elemento rurale con
quello cittadino. Esalta i diseredati e i frustrati come avanguardie
della guerra santa contro il consumismo, come i primi cristiani contro
l'impero. Ed è la sua trovata più balorda. Il mito della spontaneità
liberatrice del "lumpenproletariat" fallisce ben presto anche ai suoi
occhi. La sua "avanguardia" plebea è la prima ad accettare il
consumismo, aspirando anzi a farsi piccolo-borghese. Ma Trepì non si
scoraggia: continua a tuonare contro il consumismo e la società opulenta
e intanto si compra un castello tutto per lui, investe i soldoni che ha
fatto con l'industria della cultura, arriva perfino a far da regista a
un carosello in televisione. Diviene in tal modo profeta di se stesso.
Difende gli sfruttati sui rotocalchi e intanto adesca i ragazzini
baraccati, sfruttandone la miseria morale. E mentre continua, con piglio
arzillo e a tratti vivace, a pontificare sulle contraddizioni della
società dei consumi, comincia ad applicare le sue complicate macchine
estetologiche anche contro il sottoproletariato. Comincia a celebrare
l'allegorica evasività del linguaggio del dire una cosa per l'altra,
laureandosi filologo furbastro della contraddizione consapevole, e
conquista il seggio di vate del regime.
La sua parabola si conclude non nell'Olimpo degli Intellettuali ma
accanto a una baracca, non da sfruttato ma secondo il suo costume. Da
sfruttatore.
Il cinema al servizio del neogiacobinismo
FACCIA DI SPIA N. 2
La nuova moda delle accuse al potere
militare per scagionare il colonialismo yankee
È in atto da qualche tempo una campagna su vasta scala contro la CIA e i
servizi segreti occidentali, all'ombra della lotta portata avanti dai
gruppi radicali americani contro il mondo nazional-conservatore. l
centristi del partito repubblicano, il residuo capitalismo agrario del
sud, gli ambienti economici dell'industria non monopolistica, gli
intransigenti del sionismo, le alte sfere del potere militare,
costituiscono -rispetto agli obiettivi radicali dell'esportazione
ideologica e di una ripresa aggressiva della leadership USA sull'Europa-
altrettanti centri di resistenza e di difesa di una linea isolazionista
che non vuole troppo concedere all'Unione Sovietica e alla distensione.
Si ripete la differenza di scelte tipica di Johnson rispetto al
kennedysmo.
In questo quadro la critica radicale alla CIA tende a demolire
l'ingerenza militare rispetto alle scelte politiche dell'esecutivo. Non
va dimenticato che per i canoni della politica americana il potere del
Pentagono è pressoché zero, in tema di scelte strategiche. E, mentre
Ford liquida Schlesinger alla difesa e Colby ai servizi segreti, inizia
una colossale campagna contro gli errori e lo strapotere della CIA,
sostenuta dai centri tradizionali della stampa radicale dal "New York
Times" all'organizzazione "Newsweek" al "Washington Post". Lo stesso
quarto potere che cominciò l'attacco contro Nixon. Il discorso è sempre
quello. Il progressismo americano ha la forza di scacciare gli
attentatori alla libertà (da Nixon a Colby). Gloria al popolo americano.
Da noi, in Europa, come solito le filiazioni della sinistra radicale
americana hanno immediatamente eseguito l'ordine di scuderia.
Vogliamo a questo punto restringere il discorso sul cinema offrendovi,
colto al volo nella marea montante degli alti lai contro la CIA, un
fiorellino: il documentario-ricostruzione "Faccia di spia" dell'ebreo
comunista, di osservanza radicale, Giuseppe Ferrara. Preceduto da Costa
Gavras col film "L'Amerikano", Ferrara s'inquadra perfettamente col suo
film nel discorso anzidetto. Non accusa l'America globalmente, ma il
potere militare. Con l'aria di sparare chissà quale rivelazione, non
dice niente di più di ciò che ognuno non sappia, fatta eccezione per gli
ingenui che credono a Bond-Superman baluardo contro il comunismo. Per
evitare di annoiare comunque, il film presenta una serie di "segnali
forti" a base di gambe aperte e schizzi di sangue.
Poiché, a nostro avviso, sulla CIA c'è ancora da dire molto e senza
piangere con un occhio solo come ha fatto Ferrara; visto che è nata
l'era dei films n. 2, di quei films, cioè, che propongono agli
spettatori il "seguito" di pellicole già famose, ci prendiamo la libertà
di dare qualche suggerimento per il soggetto di un prossimo eventuale
lavoro.
In "Faccia di spia n. 2" noi parleremmo un po' del Vicinoriente; in
verità uno spettatore sprovveduto, vedendo il film di Ferrara -il n. 1,
per intenderci, non il nostro-, potrebbe supporre, chissà, che la CIA
col Vicinoriente non c'entra nulla, non essendovi neanche un'immagine in
proposito; e se lo spettatore sprovveduto pensasse ciò, a Ferrara, ch'è
amante della verità, dispiacerebbe senz'altro.
Nelle ricostruzioni, poi, saremmo meno fantasiosi, e non ci metteremmo
ad ammannire la solita storiella del "buon" Kennedy contrario ai metodi
trucibaldi, dato che -per fare un esempio- fu proprio Kennedy a gettare
le basì della guerra in Vietnam.
Al contrario non tralasceremmo certi piccoli particolari; come il fatto
che Guevara, nel tentativo di "esportare" la rivoluzione oltre i confini
di Cuba, non fu catturato per caso, ma grazie alla delazione dei
comunisti boliviani, e quindi immolato sull'altare della distensione,
col nulla osta di Castro.
E ancora, mostreremmo come a volte anche la CIA aiuti i "buoni": in che
modo spiegare altrimenti gli aiuti prestati al socialista Soares del
Portogallo? O, dando uno sguardo al passato, i finanziamenti ai "gauchistes"
francesi impegnati contro De Gaulle, agli extraparlamentari italiani e
tedeschi, alla Grecia post-colonnelli, ai gruppi radicali in tutta
Europa?
Infine, visto che il film è all'insegna del "cui prodest", dopo la
vittoria elettorale delle sinistre radicalizzate noi non andremmo a
tirar fuori i luoghi comuni del partito della paura e del potere ai
generali. E se anche lo facessimo, non chiederemmo mai a Valpreda di
impersonare Valpreda, come ha fatto Ferrara per il n. 1; perché in
qualche spettatore, vedendo che Valpreda fa l'attore, potrebbe
insinuarsi perspicacemente il sospetto che i fili della strategia della
tensione stavano, e stanno, in mano proprio ai radicali della sinistra
democratica.
SAGGISTICA
Indocina: storia di una guerra di
popolo
3a parte - la seconda guerra d'Indocina da Ginevra all'offensiva del Tet
Dopo la conferenza di Ginevra sull'Indocina, gli eventi nel punto focale
del settore, il Vietnam, si susseguono senza soste. Gli Stati Uniti, che
fino a quel momento avevano svolto le mansioni di artefici della
divisione regionale, installano nelle maggiori città meridionali delle
centrali adibite all'addestramento militare dell'esercito sudista,
collocando in codesto modo le prime basi atte al consolidamento della
status quo.
Già verso la fine del '56 erano all'incirca 27 i generali statunitensi
che operavano nella regione sulla messa a punto dei quadri militari del
Sud. Inoltre, ravvisando nella monarchia di Bao Dai un regime poco
adatto a sostenere in funzione USA la parte del "fantoccio", essi prima
concorrono all'eliminazione di quelle sette religiose (come la Cao Dai,
la Hoa Hao e la Binh Xuyen) che al Sud si tenevano ancora in contatto
con Hanoi e, successivamente, cedono la situazione nelle mani dei
nazionalisti cattolici, in vista del trapasso repubblicano.
I nazionalisti cattolici non s'esprimevano in un partito né avevano un
programma politico, ma rappresentavano piuttosto una tendenza in seno ad
alcune società finanziarie e a circoli politici e religiosi. Essi
auspicavano in chiave drasticamente anticomunista la creazione di un
nuovo stato, che garantisse la partecipazione dei cattolici più
intransigenti alla gestione della cosa pubblica, con la relativa libertà
di manovra, e con l'intento di togliere ai sovrani buddisti il potere
che fino ad allora, pur tra una detronizzazione e l'altra, avevano
detenuto.
riuscito a raccimolare dei consensi a Saigon e a realizzare, tramite il
referendum del '55, la repubblica, abbattendo così il governo
monarchico..
Pertanto gli USA intendono accentuare la già robusta corrente politica
separatista a Saigon, facendo leva su uno dei suoi protagonisti: Ngo
Dinh Diem. Uomo forte del momento, conservatore e attaccato a modo suo
alle tradizioni della propria terra, Diem, ritenendosi legato agli USA
da una sorta di occidentalismo vietnamita, una volta al potere metterà
al servizio degli americani il governo da lui presieduto, imperniato
essenzialmente su una sfrenata corruzione e su una politica clientelare
verso i suoi correligionari e verso la propria parentela, tipiche dei
regimi sotto l'ingerenza yankee. I rapporti di Diem con gli americani
andranno per il meglio, fino alla svolta impressa alla leadership USA
nel sudest asiatico dall'ala radicale che espresse Kennedy.
GLI U.S.A. NEL VIETNAM
Nel dicembre del 1960 nasce il Fronte Nazionale di Liberazione del Sud.
Quasi del tutto composto dalla vecchia guardia del Viet Minh, il FNL si
avvale ora della collaborazione esterna dei notabili del mondo
nazionalista non cattolico. Un vasto assembramento eterogeneo di
componenti politiche e religiose costituisce ormai l'opposizione al
regime filoamericano di Diem, il quale nel frattempo era (...) chico di
Huè. Preoccupato dal sorgere del nuovo fenomeno, egli riduce in poco
tempo nel suo ufficio governativo l'influenza di alcuni dei suoi massimi
collaboratori, restando la sola figura di primo piano tra i cattolici
nazionalisti, rafforzando così il proprio potere personale.
Ed è proprio Diem che, per conto degli USA, rifiuta di praticare la
clausola ginevrina concernente le elezioni generali entro l'estate del
'56. Le sue mire erano di riconquistare i vasti territori, che si
trovavano sotto il controllo del FNL, in modo di acquisire un rapporto
di forze superiore, nell'eventualità di trattative diplomatiche,
escludendo per sempre il risvolto elettoralistico. Ma ecco il colpo di
scena. Succeduto alla Casa Bianca nel gennaio 1961 ad Eisenhower, John
F. Kennedy fa sapere a Diem che il governo "democratico" degli Stati
Uniti non è affatto intenzionato a continuare a servirsi di un regime
totalitario per sostenere «la causa della libertà e del mondo libero».
L'ascesa dell'ala radicale negli States avrà una non lieve ripercussione
nel gioco delle alleanze statunitensi col resto del mondo. Con la
affermazione del radicalismo kennedyano il processo di distensione
(all'epoca ancora in fase iniziale dopo la scomparsa di Stalin), viene
concepito come controllo completo della tensione internazionale, in
condominio USA-URSS, per poter gestire la tensione stessa al fine del
mantenimento dell'ordine mondiale sugli schemi colonialisti di Yalta. La
distensione per Kennedy era la premessa indispensabile a tale ordine,
teso a nascondere la oppressione economica, politica e militare dietro
il paravento della solidarietà occidentale, e dietro la esportazione di
una "way of life" tipicamente americanizzata, che pretende di essere
sinonimo di libertà, mentre è narcosi delle coscienze, il cui potere di
lento ma inesorabile avvelenamento della volontà di autonomia è ben noto
agli europei.
Questo mutamento è importante per comprendere i fatti che hanno
determinato, nel settore indocinese, la caduta di Diem e poi
l'intervento militare massiccio degli USA. In sintesi l'assassinio del
dittatore saigonese non è che l'adeguamento della situazione ai nuovi
canoni radicali e neocapitalisti della stagione kennedyana, rispetto ai
quali mal si adattava un regime alleato paradittatoriale. A tal riguardo
è utile notare come, dieci anni dopo i fatti che stiamo esaminando, col
colpo di barra radicalprogressista dell'estate '74 (liquidazione del
repubblicano Nixon) si sia ripetuta, stavolta nel Mediterraneo, la
eliminazione dei regimi filoamericani autoritari -in vista di una
ripresa radicale oltreoceano-, colpevoli (al pari di quello di Diem) di
rappresentare una nota stonata nello spartito neocapitalista, e autori
per giunta (Papadopulos) di colpi di testa inammissibili da parte
americana, forse evocatori del temibile fantasma di De Gaulle. Non
sappiamo se Diem si rendeva conto di essere una pedina balorda nel
mosaico radicaldemocratico di Kennedy; in ogni caso egli cerca di
tenersi a galla eseguendo fedelmente gli ordini di Washington. In tal
senso il capo-famiglia Ngo intraprende una deleteria riforma agraria che
permette ai vecchi latifondisti, un tempo espropriati dal Viet Minh, di
riavere le terre. Tali interventi comunque finiscono per fare il gioco
del FLN, consentendogli di aggregare i malcontenti sporadici ed isolati
in vere e proprie insurrezioni programmate. Dopo questo fallimento del
tentativo di frenare gli scompensi politici interni nel Sud Vietnam,
Kennedy è forse ancora convinto che Diem, con un aiuto in
campo diplomatico -cioè tramite pressioni sull'URSS- e in campo
finanziario, sia in grado di poter normalizzare la situazione senza che
gli americani debbano intervenire in prima persona e in maniera pesante;
ma in seguito alla sconfitta dei governativi ad An-Bac, nel febbraio del
'63, il presidente bostoniano è deciso, dando a Diem l'ultima ratio, a
dirigere il dittatore saigonese verso una soluzione diplomatica con
Hanoi, ciò che quest'ultimo aveva sempre voluto evitare. Costretto dagli
eventi, Diem si piega all'ultimatum di Washington, elaborando insieme al
fratello Nhu una manovra diplomatica da sottoporre alla commissione
internazionale di Parigi per gli affari indocinesi. L'espediente,
demagogico e respinto da Hanoi, si dimostra catastrofico, e gli
americani stabiliscono di accelerare un ormai troppo lungo tramonto. Il
1° novembre del 1963 Diem viene liquidato da un colpo di stato
architettato dalla CIA e, al comando del generale Duong Van Minh (che
tornerà brevemente alla ribalta dopo la fuga di Thieu nel '75), una
giunta militare lo sostituisce.
Dopo l'assassinio di Diem e la caduta in disgrazia della famiglia Ngo,
gli USA, decisi a togliersi dal fianco una volta per tutte la spina
vietnamita, attuano la "escalation" del loro intervento militare. Essi
non intendono contenere ulteriormente il conflitto in termini
tollerabili per i vietcong, e si illudono di vincere rapidamente i
rivoluzionari con lo strumento a loro avviso più idoneo: il potenziale
bellico.
Questa nuova impostazione del problema coincide col passaggio dal
radicalismo kennedyano (la cui marcia è arrestata poco dopo la morte di
Diem dalle fucilate di Dallas) al nazional-conservatorismo di Johnson,
non più ispirato al grande disegno colonialista della "nuova frontiera",
ma teso alla difesa dell'impero yankee tramite una politica di potenza
staticamente intesa, basata ancora sulla penetrazione economica e
culturale ma essenzialmente sui rapporti di forza. In altri termini
mentre per Kennedy la distensione doveva essere applicata ai quattro
angoli del globo, per l'ala conservatrice ed isolazionista johnsoniana
prima e nixoniana poi il discorso distensivo va abbassato dalla funzione
di copertura, in nome della solidarietà ideologica, del colonialismo
USA-URSS (Kennedy - Roncalli - Kruscev), a calcolo di convenienza
politica. Si sostituisce al pacifismo colloquiante un atteggiamento duro
per il Vietnam che Johnson sosterrà fino alla decisione di bombardare il
nord, forte della affermazione elettorale del '64. La linea della
"soluzione militare" ha il suo esecutore diretto in Robert Mac Namara,
vero modello del tecnocrate efficientista e privo di remore politiche
(tanto da avere servito prima il radical Kennedy e poi il
"socialdemocratico" e conservatore Johnson), ideatore della "flexible
response". La adattabilità "tecnocratica" gli permette di passare da
Havard agli uffici militari del Pentagono, dalla Ford all'attività
politica e poi alla Banca Mondiale, con lo stesso spirito e gli stessi
compiti. Con Mac Namara e col "brain trust" che Kennedy gli aveva
affiancato (forse per nostalgia dei Morghentau e dei Baruch ispiratori
di Roosevelt?) il potere tecnocratico si sostituisce al potere militare
al Pentagono, e si apre l'era delle guerre programmate e analizzate al
computer.
Questa strategia condanna gli USA alla sconfitta: essi si orientano
verso un tipo di antiguerriglia già attuato con successo in America
Latina; ma non comprendono che tali metodi non sono adattabili alla
situazione indocinese. Nel subcontinente americano, infatti, le forze
rivoluzionarie non erano forti dell'aiuto di uno stato-guida, quale
ebbero nella Cina maoista i guerriglieri del FLN. È necessario ribadire
al riguardo che i più abili e intelligenti uomini della rivoluzione
latinoamericana trovarono la morte in Bolivia, Uruguay, Brasile e negli
altri paesi sudamericani, per la mancanza di aiuti esterni di uguale
natura politico-ideologica alla propria causa; mentre Ho Chi Minh, che
su questi aiuti poteva contare, era anche paradossalmente protetto dalla
logica distensiva che impediva agli americani di estremizzare la
situazione fino al bombardamento della Cina. Ed è per questo che
nell'America latina da un tipo di guerriglia all'inizio combattuta su
tutti i fronti si è passati in seguito a quella più strettamente urbana,
mentre le armi e gli aiuti economici e alimentari cinesi hanno
consentito, in Vietnam, uniti alla presenza della giungla, il
proseguimento della lotta nelle zone agricole, e in un secondo tempo
l'offensiva contro i centri urbani.
L'aumento dei contingenti americani nel Vietnam è impressionante. I
23.000 uomini dell'autunno del '63 passano decisamente nel '67 a
650.000, quanti, cioè, erano stati previsti dall'allora vice presidente
Nixon nel suo viaggio a Saigon. Calcolando anche l'esercito
sudvietnamita, gli uomini sotto le armi sono più di un milione su un
territorio paragonabile a quello dell'Olanda e del Belgio. È
interessante notare che il contingente francese nel 1953, operante su un
territorio quattro volte più vasto (comprendeva anche il Tonchino, il
Laos e la Cambogia), non ha mai oltrepassato gli 80.000 uomini
appoggiati da 360.000 autoctoni. In più gli americani disponevano
dell'aiuto aereo-navale della 7ª flotta e delle basi del Pacifico.
E qui sta la grande illusione americana.
Siamo del parere infatti che è pressoché perdente in partenza la guerra
di coloro che intendono sbarazzarsi con la sola supremazia bellica di un
nemico combattente con alti ideali di sacrificio e forte di un elemento
umano preparato ed inserito nella strategia della "guerra
rivoluzionaria".
Nonostante l'immenso spiegamento di forze sudvietnamite e statunitensi,
si poteva largamente dubitare dell'annientamento dei vietcong a causa,
più che altro, del carattere particolare della "seconda guerra
d'Indocina". Il nemico è dappertutto e in nessuna parte, imprendibile,
onnipresente, invisibile. Di fronte ad una situazione non abituale alle
tradizioni dell'esercito americano (forse più consone alle distruzioni
atomiche sul Giappone e alle stragi di Amburgo, Brema, e Dresda?) il
Pentagono decide di intensificare le distruzioni del Nord Vietnam,
ispirandosi al superato concetto che una guerra viene vinta per quanto
più potenziale bellico nemico si riesce a distruggere.
Lo stato maggiore statunitense finge di non sapere che i soldati
americani combattono un nemico che non punta alla conquista del
territorio, ma alla conquista della popolazione, ovvero, che non affida
le sorti della guerra al fattore «macchina» ma al fattore «uomo».
Ecco come si esprimeva Giap nel '65: «Abbiamo educato i combattenti al
principio che l'arma è loro sposa e le pallottole loro figlie... Abbiamo
incessantemente prodotto e perfezionato le armi della truppa. Anche i
proiettili e le bombe inesplose del nemico si sono convertite in armi
nostre. Abbiamo sviluppato al massimo grado il principio di strappare le
armi al nemico e di ucciderlo con queste stesse, e abbiamo rafforzato il
nostro spirito nella tecnica allo scopo di raggiungere un nemico per
ogni pallottola... Abbiamo tenuto conto del fatto che la politica e la
tecnica costituiscono una unità contraddittoria, ma il fattore dirigente
è quello politico... Lo spirito continua ad essere il fattore
fondamentale della combinazione tra uomo e arma. Per moderna che sia
l'arma, senza l'intervento dell'uomo non è che un oggetto inerte. L'uomo
addestrato tecnicamente può soltanto maneggiare l'arma, ma se gli manca
lo spirito combattivo, malgrado il suo livello tecnico, non potrà mai
utilizzarla... Nel nostro esercito rivoluzionario, l'uomo non respinge
la scienza e la tecnica, ma al contrario se ne fa padrone».
Lo stesso Ho Chi Minh scriveva nel '62: «Se i combattenti hanno una
ideologia ferma, una politica ferma, una tecnica abbastanza buona e un
corpo vigoroso, sicuramente vinceranno. Ma al contrario, se sono buoni
politicamente, ma inesperti nelle cose militari, o buoni politicamente e
militarmente, ma deboli fisicamente, non potranno vincere».
Siamo ben lontani dal neoilluminismo borghese e pacifista della sinistra
marxista e radicale occidentale. L'impostazione del rapporto uomo-arma
di Giap nasce probabilmente negli anni '30, durante l'esperienza
nell'armata cinese. Sostiene infatti il direttore del dipartimento
politico generale dell'esercito cinese Hsiao Hoa: «II risultato della
guerra viene deciso dall'uomo e dalla politica... La vittoria è
impossibile senza la politica, senza il fattore uomo. La vittoria è
impossibile se si segue la teoria secondo cui sono le armi a decidere».
Dinanzi a un nemico che pone l'uomo e non la macchina come fattore
decisivo e che non considera il militare come un semplice
"schiaccia-bottoni", gli Stati Uniti, costretti dalla spirale degli
avvenimenti di cui essi stessi sono stati la causa, tendono ad allargare
il conflitto nella speranza di una soluzione che a lungo andare si fa
sempre più improbabile. Ne sono controprova le dichiarazioni dello
stesso Thieu secondo cui gli americani devono invadere il Vietnam del
Nord «per porre fine alla guerra», lasciando capire che a tale proposito
sono già stati elaborati dei piani dall'alto comando statunitense.
Orchestratori di "governi fantoccio", così meticolosamente organizzati
per condurre guerre di rapina, gli uomini che si cedono le consegne alla
Casa Bianca tendono sempre a ricercare nei luoghi sotto l'occupazione
americana, dei soldati vietnamiti che possano continuare da soli i
conflitti degli USA. Se Nguyen Van Jhieu e Kao Ky, rispettivamente
presidente e premier della repubblica del Vietnam del Sud, subentrati
alla giunta capeggiata dai generali Minh e Khan, si dimostrano esecutori
fedeli, ciò non può tuttavia consentire agli USA, impantanati fino alla
gola nel conflitto, la facoltà di rimpatriare i propri contingenti
militari dalla regione. Non avendo la possibilità di optare per altre
vie di soluzione, gli USA devono continuare. E devono continuare per non
lasciare nelle mani del nemico tutto quello che fino ad allora sulla
pelle degli indocinesi hanno costruito, per non perdere la faccia
dinanzi agli alleati e agli avversari, e per riconfermate che l'esercito
degli Stati Uniti durante tutta la sua storia non ha mai conosciuto la
sconfitta.
Devono continuare, anche se si è sempre più convinti da ogni parte che,
come disse De Gaulle, in Cambogia «nessuna soluzione militare è
possibile» a meno che non si pensi alla soluzione di dover mantenere per
un certo periodo di tempo un esercito americano di 750.000 unità nel
Vietnam del Sud prima di sconfiggere i vietcong e poi lasciare a tempo
indefinito un altro esercito di 250.000 uomini per far rispettare
l'autorità del governo di Saigon, come risulta da un rapporto del
comandante dei marines, gen. Wallace M. Greene. D'altra parte, gi
americani sono decisi ad usare la mano militare, essendo loro
impossibile condurre una guerra ideologica basata sul chewing-gum, il
latte concentrato e la civiltà del dollaro affiancata dai miti
democratici della "prosperity" e dell'"affluent society", che avevano
fatto breccia nell'Europa "liberata".
IL RUOLO DELLA CINA
Parallelamente alle scelte americane, le posizioni sovietiche nei
riguardi dell'Indocina sono decise all'insegna dell'ambiguità e delle
contropartite con Washington. La Russia sostiene i rivoluzionari solo a
prezzo del condizionamento economico e politico cercando in tutti i modi
di contenerli e indirizzarli verso la strada del compromesso.
La Cina degli anni '60 invece, contraddistinta dall'equidistanza
politica ed economica da Mosca e Washington, imposta la propria azione
su una via alternativa alle superpotenze, ed offre alla rivoluzione
indocinese un appoggio economicamente disinteressato ed ideologicamente
originale.
La dottrina maoista, che in occidente è stata più strumentalizzata che
compresa, ha fatto sì che i movimenti rivoluzionari avessero un punto di
riferimento sul quale fare perno nel campo ideologico. Malgrado la
terminologia marxista del maoismo, la sua radice ideologica non è
affatto marxista; I rapporti tra il maoismo e il marxismo sono stati
posti da esigenze tattiche. Essi consistono propriamente nella
strumentalizzazione del marxismo ai fini di una politica nazionalista e
forse razzista, concretizzatasi in tre punti fondamentali:
1) il marxismo ha fornito al nazionalismo cinese una base dottrinaria
altamente qualificata per la critica al colonialismo;
2) esso ha consentito alla Cina di inserirsi da stato-guida nel sistema
di alleanze e nel quadro strategico delle rivoluzioni nazionali;
3) su un piano sociologico, considerata l'inesistenza in Cina del
proletariato operaio-industriale su cui poggiava l'analisi leninista, il
marxismo è stato utilizzato per favorire l'approccio maoista alle masse
popolari e contadine, dopo la vittoria sui corrotti aristocratici
"signori della guerra" e dopo la rottura con i gruppi borghesi del
Kuomintang.
Sul piano più propriamente dottrinario e della scelta di civiltà la Cina
nel periodo in esame -siamo all'epoca della rivoluzione culturale-
appare sostenuta da principi antitetici a quelli marxisti-radicali
(determinismo economico, dialettica, pacifismo, internazionalismo): il
volontarismo per cui la storia non è determinata dall'economia ma è
creata dall'uomo; l'unità del popolo e non della classe, in base
all'unione dei caratteri etnici sociali e spirituali cinesi;
l'elaborazione dell'appoggio alle rivoluzioni basate su un nazionalismo
geopolitico, come quello di Ho Chi Minh e più ancora di Guevara inteso
come superamento tanto del piccolonazionalismo patriottardo e borghese
quanto dell'internazionalismo cosmopolita; il concetto di guerra come
tensione degli spiriti e delle coscienze, non come valore dialettico,
per cui l'uomo impone la sua visione della vita e la sua concezione
politica attraverso la lotta, e ia verità si afferma con la vittoria.
Tale strategia però falliva a causa dell'affermazione del'radicalismo
nell'Unione Sovietica dietro la spinta della penetrazione
neocapitalista, ciò che conduceva la Cina all'isolamento, stante
l'impossibilità di un contatto con l'Europa mecchizzata e atlantista.
Con la fine di Lin Piao e l'ascesa del tecnocrate Ciu En-Lai si apre
negli anni '70 una colitica di ripiego, dapprima isolazionista -con un
giro di vite agli aiuti ai movimenti rivoluzionari specie in Africa e in
America Latina- e poi di apertura agli USA, con la "politica del
ping-pong" e il viaggio di Nixon. Facendo leva su una strategia
antigiapponese nell'area asiatica, gli americani riescono così ad
insabbiare la potenzialità rivoluzionaria cinese. Da notare, a questo
riguardo, l'insistente proposta di incapsulare la Cina nel legalismo ONU
che Kennedy aveva invece escluso, data la differente situazione tra gli
anni '60 e '70. Viene così intaccata pesantemente la originaria spinta
data ai movimenti rivoluzionari.
Negli anni '60 invece le posizioni cinesi sembravano ampiamente
suscettibili di uno sviluppo rivoluzionario, dopo la fine della "Nep
maoista" avviata nel '57 che aveva lasciato spazio all'economia mista e
quindi al capitale privato, alle deviazioni economicistiche,
intellettualistiche e tecnocratiche. Con l'ascesa di Lin Piao e la
rivoluzione culturale in effetti fu avviata una leadership di rottura
nei confronti degli equilibri colonialisti distensivi, sviluppando una
polemica contro gli USA e contro l'URSS, o almeno contro i gruppi
sovietici che si muovevano sul terreno del radicalismo, i Breznev, i
Kossighin, i Suslov, i tecnocrati, i burocrati, gli intellettuali
occidentalizzanti, contando su una affermazione dell'ala
militar-nazionalista (Malinovsky, Scelepin, Yepiscev) contraria
all'intruppamento con gli USA nel nome della distensione. In questo
quadro l'appoggio ai vietnamiti tendeva a estremizzare la situazione e
aprire una frattura tra USA e URSS.
L'OFFENSIVA DI GENNAIO
II 1965 è l'anno dell'inizio dei bombardamenti sulle città del Vietnam
del Nord. Tutto quello che in anni i vietnamiti avevano costruito
(scuole, ospedali, ecc), in pochi giorni viene distrutto dall'aviazione
americana. Ho Chi Minh invita la popolazione alla mobilitazione
generale.
Johnson, dal canto suo, conferma in pieno ed anzi aumenta gli impegni
assunti dal suo predecessore con il governo di Saigon.
La guerra combattuta dagli americani non ha fronti militari, come in una
guerra classica: i vietcong riuscivano a controllare vaste zone del Sud
con improvvisi combattimenti notturni. Di giorno sparivano come
inghiottiti dalla giungla. E contro i guerriglieri che, adoperando
tunnel di oltre 5 chilometri, scavati da un villaggio ad un altro,
sparivano e riapparivano alle spalle del nemico, a poco servivano i
bombardamenti a tappeto al napalm o i gas con aggressivi chimici.
Nel novembre del '67, Westmoreland, comandante in capo delle forze
statunitensi nel Vietnam, si era recato a Washington per affermate che
dopo i bombardamenti a valanga sul Nord, la guerra poteva considerarsi
vinta e che gran parte del territorio sudvietnamita era ormai
pacificato. Ed ecco l'iniziativa del generale Giap modificare
profondamente il quadro della situazione. Vengono eseguiti attacchi
contemporanei contro 21 dei 44 capoluoghi di provincia; i vietcong
smentiscono in una sola volta tutto quanto era stato riferito da
Westmoreland a Johnson. Anche quando nel gennaio '68 il servizio di
informazioni lo mette al corrente di un piano vietcong di attaccare la
capitale, il generale americano non prende misure di sicurezza e si
lascia sorprendere il giorno 31 dello stesso mese con soli 300 uomini in
assetto di guerra entro Saigon. Il suo errore principale è di aver
ragionato da militare anziché da politico. Egli non tiene conto
dell'importanza politica e psicologica che per i vietcong può avere
anche un successo parziale, sottovalutando l'efficacia e soprattutto il
disperato coraggio dei guerriglieri, proprio quando in America si
scatenava la critica pacifista degli intellettuali radicali, orfani
della "nuova frontiera", i quali vorrebbero veder concentrato lo sforzo
bellico USA in appoggio a Israele, per un forte controllo sul
Mediterraneo. In effetti, specie dopo i bombardamenti del '65, gli
americani e i russi iniziano una politica di bilanciamento e di
contrappeso tra sud-est asiatico e vicinoriente, scaricando
alternativamente la tensione mondiale dall'uno all'altro settore,
evitando così il rischio di uno scontro tra superpotenze e garantendosi
il ruolo di gendarmi dell'ordine mondiale.
Dopo il "bluff" di Westmoreland, la miopia dei militari è apertamente
denunciata in America. Emerge tra i critici un ex professore di Harvard,
legato a Rockfeller e ai circoli sionisti meno arrabbiati, che sta
facendo molta strada, al punto che diventerà il vero ispiratore della
politica di contrappeso cui accennavamo. Ormai "consiglieri" ufficiali
del padrino Nixon, Henry Kissinger afferma nel '69: «La tattica militare
americana seguiva il dogma classico che la vittoria dipenda da una
combinazione di controllo territoriale e di usura dell'avversario. Per
questo il nerbo delle forze era schierato lungo i confini del Vietnam
del Sud per impedire infiltrazioni nemiche, e sugli altipiani centrali
dove erano concentrate le forze regolari nord vietnamite». Ma il blocco
delle infiltrazioni si rivela impossibile nelle giungle impenetrabili e
prive di sentieri, mentre l'intenzione americana di sterminare i
"regolari" nordvietnamiti sugli altipiani costringeva il grosso
dell'esercito USA lontano dalla guerriglia. Continua Kissinger: «Oltre
il 90% della popolazione vive sulla pianura costiera e nel delta del
Mekong; gli altopiani centrali e i territori lungo le frontiere sono
invece quasi spopolati. L'80% delle forze americane sì è così trovato
concentrato in una area che conteneva meno del 4% della popolazione
vietnamita». Non si voleva tener conto che «una guerra di guerriglia
differisce dalle tradizionali operazioni militari perché il suo scopo
principale non è di controllare un territorio ma di controllare la
popolazione».
L'operazione modello dei vietcong è l'assalto all'ambasciata americana
da parte di 19 guerriglieri, i quali avevano pressoché assoluta certezza
di morire, ma erano anche intenzionati a portare a termine la missione.
Precedute da un intènso bombardamento, alcune compagnie di vietcong
passano all'attacco seguendo undici direttrici e occupando i punti
nevralgici della città. Forti reparti investono il Palazzo
dell'Indipendenza e l'ambasciata americana ritenuta imprendibile. Nel
perimetro della residenza diplomatica il combattimento è violentissimo;
i vietcong riescono a conquistare i primi piani dell'edificio, mentre da
un altro palazzo adiacente i loro mortai battono il palazzo
presidenziale sudvietnamita. Cannonate, proiettili traccianti,
esplosioni e raffiche di armi automatiche, creano un'atmosfera da prima
linea. Con l'attacco e la momentanea conquista dell'ambasciata
americana, i vietcong invadono moralmente e giuridicamente il suolo
degli Stati Uniti, riuscendo, con un'azione rivoluzionaria, a imporre un
particolare clima di insicurezza nel popolo americano.
Nelle altre città, i guerriglieri passano all'attacco proprio mentre il
Tet buddista saluta l'inizio dell'«anno della scimmia», sferrando la più
violenta offensiva di tutta la guerra.
I grandi centri urbani investiti sono dieci: Huè, Saigon, Pllikn, Tan
Cauh, Da Nang, l\lha Thang, Bai He Thuot, Hai Au e Ban San, dove sono
distrutti i palazzi governativi e tutte le installazioni militari.
Segue al prossimo numero:
LA SECONDA GUERRA
D'INDOCINA
dalla offensiva del Tet alla caduta di Saigon |
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