DOCUMENTAZIONE
La carta della Sorbona
La "Carta della Sorbona", che qui
pubblichiamo, spiega da sola, senza bisogno di commenti, perché la lotta degli
studenti rivoluzionari francesi sia ad un livello avanzatissimo. Non a caso
infatti, sono riusciti a sollevare le masse contro i mandarini della società
borghese; non a caso sono riusciti a mobilitare decine e decine di migliaia di
studenti, non a caso hanno scavalcato i partiti e i sindacati tradizionali che,
nella scena della sollevazione popolare, si sono ridotti al ruolo di comparse.
Affinché possa iniziare anche da noi quel processo di rivolta totale, oltre gli
estremismi verbali e certi atteggiamenti esteriori, teniamo a diffondere questo
documento perché con la forza delle idee in esso contenute possa essere di
stimolo per tutti gli studenti all'analisi delle posizioni passate e alla
ricerca di se stessi oltre i blocchi psicologici, derivati da oltre venti anni
di sistema borghese.
1. Noi viviamo in un periodo pre-rivoluzionario. Vediamo nascere una nuova
ideologia: sta a noi perfezionarla.
2. Ogni critica alla società è insieme un atto di lotta politica. La politica
critica non è né coraggio né debolezza, è semplicemente dovere.
3. Lasciamoci trasportare dall'entusiasmo per afferrare di nuovo il senso
dell'umano.
4. Recuperiamo tutto ciò che vi è di buono nel mondo attuale e che era stato
sfigurato.
5. I professori trovino di nuovo nell'insegnamento le soddisfazioni che oggi
vanno a cercare invano nei congressi e altrove.
6. Tutti coloro che hanno paura dell'«avventura» sappiano che hanno paura
soltanto dell'evoluzione del mondo.
7. La prevalenza intellettuale politica e sociale dei giovani sul resto della
società è un dato di fatto.
8. Chiunque non è in grado di comprendere venga a discutere con noi. Tutto si
può spiegare a tutti.
9. I nostri meccanismi psichici sclerotizzati e arcaici devono cedere il posto
alla fantasia.
10. Viviamo in una stagione critica. Chi non lo sa non può comprendere nulla di
questo mondo.
11. Tutte le nozioni esistenti sono consumate e vanno ripensate.
12. Il cambiamento non è qualcosa di fine a se stesso. Tra l'inerzia e
l'agitazione c'è un margine sufficiente per chiunque voglia sforzarsi a pensare.
13. Solo la vera autonomia permette la creatività.
14. Il concetto di conflitto tra le generazioni deve scomparire dal mondo: è
soltanto una maschera dietro la quale si nasconde la lotta per il potere.
15. Se i padri faranno il loro mestiere di padri la nostra rivolta sarà davvero
evoluzione.
16. Ogni creazione è frutto di un'emozione vissuta.
17. La differenza tra l'uomo comune e il genio non risiede nel livello
intellettuale ma nella volontà di progresso.
18. Ogni nuova creazione si basa su degli elementi antisclerotizzanti.
19. Gli uomini che governano le attuali istituzioni (quella del potere e quella
dell'opposizione) devono continuare a sbrigare gli affari correnti, devono
produrre il pane quotidiano. Domani queste cose le faremo noi al loro posto e
offriremo loro in più il dono della cultura.
20. Tutti coloro che non sono addetti a sbrigare gli affari correnti devono
decidersi a scendere nelle strade e rimettere in questione i loro schemi
mentali.
21. Mangiare e riposarsi ogni giorno.
22. Bisogna discutere dappertutto e con tutti.
23. Essere indispensabili e pensare politicamente è un diritto di tutti, non il
privilegio di una minoranza di iniziati.
24. Nessuno si meravigli del caos delle idee, nessuno ne sorrida, nessuno ne
tragga motivo di burla o di gioia. Questo caos è lo stato d'emergenza delle idee
nuove.
25. Nessuno cerchi di attaccare un'etichetta al Movimento studentesco, non ci
sono etichette, non ce n'è alcun bisogno. Il Movimento si crea da se stesso con
tutti coloro che vi aderiscono e lascia che ciascuno porti con sé il proprio
bagaglio di idee.
26 Chi si rifiuta di comprendere vada in pensione. È tempo di amare e di
imparare ad amare.
27. Deve rinascere in noi il piacere delle feste.
28. La bandiera rossa può morire, la bandiera nera anche, i pittori si sforzino
d'inventare per noi mille bandiere che esprimano la ricerca, lo sforzo, la
rivoluzione interiore, l'entusiasmo, l'invenzione.
29. Musicisti e poeti facciano nuove canzoni.
30. Inventiamo per questa estate un nuovo tipo di vacanze che ci consentano di
non interrompere il movimento.
31. Procuriamoci ogni giorno una tribuna nella stampa e negli altri mezzi di
diffusione delle idee.
32. Solo dopo l'esplosione dei nostri attuali metodi di pensiero potremo
ripensare da capo il mondo.
33. Lo sciopero è proclamato. L'università critica e l'impresa critica son già
aperte. I comitati di sciopero devono chiamarsi «comitati fondatori dell'impresa
o dell'università autonome».
34. Chi non ha imparato a marciare con gli altri non potrà conquistare
l'autonomia.
35. Chi conosce la strada verso l'autonomia l'insegni agli altri.
36. Perché l'uomo possa diventare davvero uomo.
(a cura della Commissione "Nous sommes en marche")
Il Movimento Studentesco-Operaio "Avanguardia Europea" vede in questo documento
una base di unione e di discussione, al di là delle etichette e degli
schematismi. Pur non essendo questi punti una precisa linea programmatica per la
contestazione del sistema, dobbiamo rilevare che rappresentano una posizione
spontanea e quindi validissima, nel senso che da essi si possono desumere le
istanze rivoluzionarie del "Movimento studentesco" più avanzato d'Europa.
ATTUALITÀ POLITICA
In margine ai fatti di Praga
«... noi dobbiamo essere l'avanguardia
unita di studenti e lavoratori in lotta. Dobbiamo innanzitutto far capire alle
masse, nonostante la propaganda massiccia, che la libertà oggi non esiste, che
la libertà va conquistata»
Gli affari cecoslovacchi hanno risvegliato, con notevole anticipo, la vita
politica italiana dalla consueta catalessi estiva.
L'incalzare degli eventi di Praga richiamava, dalle località più disparate, alle
usuali occupazioni gli uomini della politica nazionale. Molti i partiti, diverse
le posizioni, unico l'obiettivo: strumentalizzare i fatti cecoslovacchi. Così,
anche per questa occasione, abbiamo dovuto assistere a grida di orrore e di
scandalo, alla riaffermazione solenne degli «immortali princìpi» e alla
«coraggiosa» protesta di quel collegio di innocenti verginelle che regge la
politica italiana.
È stato uno spettacolo lungo. I politici hanno dato fondo alle loro qualità di
artisti consumati; ma, nonostante l'atmosfera di drammaticità, l'intima
preoccupazione era quella di raggiungere le finalità particolari che l'inatteso
evento proponeva.
I partiti
Gli schieramenti conservatori, dal PSU alla estrema destra, riscoprivano la
brutalità sovietica e dietro le facce buone da «coesistenza pacifica» dei
dirigenti sovietici intravedevano i volti spettrali degli aguzzini del più bieco
«nazismo».
Deploravano energicamente, condannavano, denunciavano le mire espansionistiche
bolsceviche, intravedevano le armate rosse ai confini; tutta questa gazzarra era
condita con una buona dose di ben simulata inquietudine e di perplessità; cosa
stavano facendo gli americani? Non reagivano? Non ammonivano i sovietici a
«stare attenti»? Forse non erano bene informati degli eventi cecoslovacchi?
Forse si stavano silenziosamente preparando ad agire? La NATO sarebbe
intervenuta?
Con tutta calma Dean Rusk, interpellato in merito alle «voci» su reazioni
americane rispondeva: «Non abbiamo nessuna intenzione di intervenire». «La
distensione continuerà» annunziava unanime la stampa USA. Oskar Negt, teorico
marxista tedesco, stigmatizzava acutamente la situazione: «Gli USA hanno
minacciato tanto poco, in questo caso, di prendere misure militari, quanto i
sovietici, dal canto loro, hanno fatto nei confronti del Vietnam e della
Repubblica Dominicana».
Il neo anticomunismo
Mao centrava in pieno il nocciolo della questione denunciando la complicità
degli imperialismi russo ed americano e l'intesa tra questi sulla politica
colonialista e quindi sull'invasione della terra dei «revisionisti
ceco-slovacchi». È da notare, al riguardo, che la stampa italiana si è passata
la voce nel non dar rilievo alle prese di posizione di Pechino e di Tirana che
frequenti si potevano rilevare invece sulla stampa francese.
Torniamo ora agli ambienti «nazionali». Una nuova dottrina nasceva ad opera
degli ultras anticomunisti, una dottrina complessa e retta dalle più solide basi
cartesiane. Ne diamo i passaggi fondamentali: russi = marxismo, invasione russa
1968 = invasione nazista 1938, marxismo = nazismo.
Non vogliamo entrare in merito, per economia di spazio, alla seconda identità,
per centrare la prima che a nostro avviso nasconde il maggior numero di magagne;
non si può identificare una ideologia, bella o brutta che sia, con dei fatti di
rilievo politico che non siano postulati dell'ideologia stessa. Non si può
identificare una ideologia con un regime storicamente determinato. Non si può
confondere la politica di potenza intrapresa da lungo tempo dall'URSS in spregio
alla dottrina marxista, con il marxismo stesso. Né si può credere alla buona
fede di quegli ambienti che strepitano oggi per la Cecoslovacchia, mentre
tacevano ieri, quando non esultavano, ad ogni escalation dei bombardamenti
americani nel Viet-Nam. D'altronde, di cosa si preoccupano i sostenitori del
«pericolo rosso»? Non sanno che i fatti di Praga non sono altro che un
«regolamento di conti» nella sfera d'influenza sovietica? Le leggi
dell'equilibrio fra i due blocchi hanno determinato l'invasione sovietica: le
stesse leggi impediscono oggi all'Unione Sovietica di superare i limiti della
propria zona di dominio. L'Italia fa parte di altra e non migliore zona di
dominio. Mai, comunque, come in questi ultimi tempi abbiamo provato tanta
oppressione per questa genia di politicanti dalla morale a senso unico.
La nuova sinistra
Se motivi interni ed elettoralistici hanno caratterizzato questa posizione, non
meno furbesca è stata quella della sinistra, partito comunista in testa. Memori
della crisi interna del '56 per i fatti d'Ungheria e, ancor più, consci del
«nuovo corso» del PCI, da lungo tempo iniziato, i comunisti hanno preso una
posizione di «dignitoso» ed «obiettivo» dissenso dall'invasione cecoslovacca. La
posizione della direzione comunista accolta con molto stupore da quasi tutti gli
ambienti politici non ha stupito noi; da tempo infatti avevamo indicato le linee
della politica comunista tendenti ad una clamorosa involuzione
socialdemocratica. I fatti cecoslovacchi sono serviti ai dirigenti comunisti da
alibi per giustificare il loro revisionismo ad una base sempre più sconcertata
e, soprattutto, a distruggere quel grosso ostacolo alla via socialdemocratica,
rappresentato dal «mito Mosca». Il comunismo sovietico avrebbe potuto mettere in
serio imbarazzo, di fronte alle masse comuniste, i teorici del «nuovo corso»;
magari con una pesante scomunica.
Forse non era l'accusa di dipendenza politica da Mosca mossa al PCI dalla
sinistra moderata il principale elemento di divisione? Il revisionismo dei
comunisti di casa nostra non suona dissimilmente da quelli di marca cecoslovacca
e jugoslava.
Intervistato da "l'Astrolabio", qualche giorno fa, così Longo si esprimeva. «...
I paesi socialisti (...) per il peso stesso che ha assunto il momento nazionale
di ogni paese nel processo di costruzione socialista, non possono eludere
l'esigenza di affrontare, nei modi adeguati alle differenti condizioni ed in
piena autonomia, i problemi di una appropriata e profonda democratizzazione dei
rispettivi ordinamenti economici, politici, sociali e culturali». In termini
concreti Mosca ha dato a Longo l'opportunità, da tempo attesa, di poter dire:
«Qui a casa mia faccio quello che mi pare e se voglio intrallazzare con il mondo
capitalista-borghese sono padrone di farlo».
Inutile dire che gli applausi di parte capitalista-borghese non sono mancati.
Tranne qualche riserva della destra; questa però non poteva fare diversamente
perché l'anticomunismo, inteso come difesa strenua degli interessi
confindustriali, è la sua unica ragion d'essere.
Non si può dire poi che certi ambienti della sinistra scarseggino quanto ad
ingegno: al «neo-anticomunismo» borghese hanno subito contrapposto la «nuova
sinistra».
Portatori della teoria, peraltro non nuova, sono i due noti settimanali
"l'Espresso" e "l'Astrolabio" che, l'indomani della nota presa di posizione di
Longo sui fatti di Praga, si sono passati la voce per elevare la non spiccante
figura del segretario del PCI a «mito Longo» e per teorizzare la nuova sinistra
di cui questi dovrebbe essere l'artefice.
In un recentissimo articolo di Santi su "l'Astrolabio", dal titolo fatidico «Il
PCI, Praga e la nuova sinistra», leggiamo: «Il nuovo corso del PCI è dunque un
grande contributo alla creazione di una nuova situazione di sinistra. (…) Le
forze già ci sono, già disponibili, molte potenziali, sia pure a diverso grado
di maturazione: quei comunisti che credono senza riserva ad una società di tipo
socialista, taluni strati della sinistra democristiana, pur tra incertezze e
contraddizioni, i cattolici del dissenso l'avanguardia delle ACLI, parte del
mondo culturale, il Movimento Studentesco, quella parte del PSIUP che concorda
con la sostanza del nuovo corso cecoslovacco e, infine, la grande maggioranza
dei lavoratori».
Diamo atto a Santi di grande buona volontà.
Dissentiamo tuttavia per quanto riguarda il Movimento Studentesco sicuri che, di
fronte a tale eventualità, la grande maggioranza di questo saprebbe come
reagire: a pernacchie.
La resistenza intelligente
C'è da dire che da anni ambienti politici ed organi di stampa radicali, andavano
propugnando certe soluzioni di sinistra unita, ma, per arrivare a questo
occorreva dimostrare due fatti: il primo che la Russia fosse avviata sulla
strada del superamento dei blocchi e quindi della liberalizzazione nei rapporti
con i paesi del Patto di Varsavia; il secondo che il PCI fosse autonomo nei
rapporti con l'URSS.
Il secondo fatto è dimostrato, il primo non ancora.
Il rafforzamento dei blocchi seguito ai fatti di Praga si oppone al disegno
radicale della Grande Sinistra; che altrimenti ben più vasto schieramento Santi
avrebbe potuto indicare.
L'altra grande manovra dei soliti ingegnosi ambienti ha un carattere prettamente
psicologico: ecco il «mito Dubcek» e della «resistenza intelligente». Che la
grande propaganda fosse capace di far diventare nero quello che è bianco lo
sapevamo e quindi non ci stupiscono le asserzioni di eroismo ed intelligenza dei
cechi. D'altronde, dicono, cosa poteva fare la piccola Cecoslovacchia (il
secondo esercito del patto di Varsavia) se non una resistenza stupida ed
inutile? È tutta questione di angoli visuali. La Cecoslovacchia intanto non è
più libera e la Storia non crediamo si accorgerà dell'eroismo e della
intelligenza, si limiterà al compianto.
Non è evidente piuttosto, il tentativo di contrapporre efficacemente a certi
«pericolosi» modelli come Ho Ci Min, Che Guevara e la resistenza eroica dei
Vietcong, dei miti più moderati? Dei miti più addomesticabili alle esigenze
revisioniste e moderate di certi disegni? È evidente che certi schemi di
ispirazione «cinese» e la loro vasta diffusione in ambienti sempre più ampi di
giovani, di studenti e di intellettuali vadano stroncati sul nascere, prima che
il pericoloso contagio si estenda ad altri ambienti e categorie.
Quindi, è meglio «l'intelligente resistenza» dei pacifici cechi.
Rafforzamento del sistema
Da questa disamina degli atteggiamenti assunti dagli schieramenti conservatori e
progressisti in Italia è facile rilevare la falsità ed il sottofondo di certe
posizioni.
Vedremo quindi la «prosecuzione, calma ed attenta di una politica in atto»
secondo le tesi recentemente sostenute da La Malfa.
Assisteremo, dunque, inattivi al rafforzamento della NATO ed al rinnovo del
Patto Atlantico? Purtroppo i fatti cecoslovacchi hanno regalato al sistema una
grande quantità di elementi atti al suo rafforzamento ed alla prosecuzione della
politica spudorata di consolidamento dei blocchi e, quindi, delle due grandi
potenze USA ed URSS e dell'accordo fra questi messo in atto ai danni di tutti i
popoli della terra. È triste rilevare che i fatti di Praga, ennesima ed evidente
conseguenza della spartizione mondiale russo-americana, servano nelle mani di
uomini politici non autonomi solamente al raggiungimento di pure finalità di
partito e di rafforzamento del sistema.
Tutto questo, per quanto riguarda il nostro paese, significa continuare ad
essere pedina del colonialismo americano.
Nixon, forse preoccupato da certi fenomeni di ribellione, anticipando le linee
della sua futura politica presidenziale, ha programmato un appesantimento della
pressione americana in Europa.
Per tranquillizzare gli ambienti «nazionali» chissà che non impianteranno
qualche altra base militare sul nostro territorio. Certi ambienti non
desidererebbero di meglio che trovare, magari nell'Università, qualche rampa di
missili USA pronti a difenderli dalle… armate studentesche scatenate.
La nostra lotta
In questo momento, comunque, è essenziale comprendere quali siano i termini in
cui si articola la situazione politica mondiale. Noi da molti anni abbiamo
indicato in Yalta l'inizio di una situazione politica, vera oggi più che mai: il
condominio colonialista mondiale americano-sovietico. Alla fine dell'ultima
guerra, a Yalta, l'Europa e il mondo intero venivano divisi fra i grandi imperi
USA ed URSS. Tutti i fatti politici interni dei popoli, salvo rare eccezioni
sono diventati fatti interni della Casa Bianca o del Cremlino.
Le ideologie, liberale o marxista, servono ai due grossi imperialismi per
giustificare agli occhi delle masse con motivazioni etico-politiche, dei volgari
atti di espansionismo coloniale.
La strategia usata dai due imperialismi per consolidarsi ed opprimere i popoli è
identica: tenere continuamente asservite le classi dirigenti dei paesi
colonializzati. Ogni tentativo di contrastare questa regola va assolutamente
stroncato con metodi apparentemente diversi, ma uguali nella sostanza: se non si
riesce a provocare il colpo di stato, subentrano i carri armati o i
bombardamenti al napalm.
L'ONU, strumento dei grandi imperialisti, serve a legalizzare direttamente o
psicologicamente le aggressioni più disparate.
Le classi politiche dei «paesi liberi» non si distinguono in base alle diverse
concezioni ideologico-politiche, ma in base alla propensione o all'appartenenza
al l'uno o all'altro impero.
I «paesi non impegnati» non vivono di una propria autentica sovranità, ma di una
autonomia apparente, basata sulle leggi precarie di equilibrio tra i blocchi.
Le eccezioni alla regola sono molto rare; la Cina, e la Francia sono le poche
nazioni che oggi si possono permettere di contestare la spartizione mondiale
russo-americana.
La Cina, che è l'unico fenomeno rivoluzionario di questi ultimi decenni,
rappresenta un pericolosissimo ostacolo da distruggere quanto prima: di qui la
continua pressione psicologica e militare, simile ad un assedio, che Russi ed
Americani esercitano rispettivamente nei confronti del popolo e della nazione
cinese.
Oggi, i popoli dovrebbero innanzitutto capire e sentire il peso di certe verità
per rompere poi le catene del giogo imperialista; per fare questo è preliminare
la lotta per la distruzione delle classi dirigenti asservite al capitale ed ai
blocchi imperialisti.
Noi dobbiamo essere l'avanguardia unita di studenti e lavoratori in lotta.
Dobbiamo innanzitutto far capire alle masse nonostante la propaganda massiccia
delle grandi centrali di potere, che la libertà oggi non esiste, che la libertà
va conquistata.
La nostra verità è quella di Mao Tse Tung quando dice che nella nostra epoca si
impone una nuova lotta di classe: quella dei paesi poveri contro i paesi ricchi.
Cecoslovacchia, la via armata alla distensione
I fatti di Praga sono l'ennesima conferma
della volontà russo-americana di spartirsi il mondo: qualsiasi fermento di
autonomia va stroncato con tutti i mezzi, compresi quelli militari: la
«distensione» -intanto- continua.
Il 19 agosto a Mosca fu convocata d'urgenza la riunione del Presidium sovietico.
I massimi responsabili della politica del Kremlino, interrompendo le loro
vacanze, si recarono precipitosamente nella capitale sovietica. L'ordine del
giorno era: «invasione della Cecoslovacchia». Si accesero subito le polemiche
tra i sostenitori dell'invasione e coloro che erano contrari. Dopo aspri dissidi
si passò alla votazione; Breznev, Podgorni, Andropov, capo della polizia
segreta, Yacubovski, comandante supremo delle forze del Patto di Varsavia,
Shelest ed altri delegati erano favorevoli, mentre Kossighin, Suslov, Grechko,
ministro della difesa, Scelepin, Polianski erano contrari. La vittoria è stata
dei primi, e il giorno seguente si passò immediatamente all'azione seguendo un
piano già da tempo preparato.
L'invasione della Cecoslovacchia, lungi dall'essere semplicemente un'azione di
repressione militare, va vista secondo noi, essenzialmente sotto un profilo
politico, onde evitare di cadere in sterili sentimentalismi, in ignobili
speculazioni, in enormi montature ed in evidenti falsità. Tutta la stampa
borghese e moderata di destra e di sinistra, per sostenere le proprie tesi è
ricorsa a questi sistemi senza minimamente centrare gli aspetti politici che ne
derivano.
I Cecoslovacchi sono diventati improvvisamente un «eroico» popolo senza che
abbiano fatto qualche cosa per meritarsi un onore simile, mentre la loro
«libertà» è stata «soppressa» e «schiacciata» dal colosso sovietico. L'orco
rosso si è improvvisamente ridestato, sostiene la stampa di destra, fra poco i
carri armati sovietici attraverso l'Ungheria, soffocheranno anche la Jugoslavia,
i Russi sono alle porte, i comunisti sono in casa, gli Americani debbono
difenderci altrimenti l'Occidente è perduto. A queste tesi fa eco la stampa
centrista, mentre quella di sinistra, profondamente indignata, si preoccupa di
distinguere però tra comunisti buoni e comunisti cattivi. Quelli buoni sarebbero
quelli del PCI, e quelli cattivi sarebbero i Russi, diventati improvvisamente
«nazisti» (al posto degli Americani). E per dimostrare tutto ciò, giù menzogne e
fotomontaggi.
«Precio? - Perché?». A questa domanda però nessuno ha saputo e voluto dare una
esauriente risposta. Questa è secondo noi, nella analisi politica che ne segue.
La crisi cecoslovacca si può inquadrare in tre fasi principali. La prima è
quella che va dal Settembre '67 al Marzo '68 durante la quale Novotny viene
gradatamente esautorato e sostituito dalle cariche di segretario del PCC e di
presidente della repubblica rispettivamente da Alexander Dubcek (5 gennaio) e da
Ludvig Svoboda (30 marzo).
L'appoggio dei Russi al «nuovo corso» in questa fase è evidente. Novotny chiese
ripetutamente l'aiuto dei sovietici, ma Breznev in una sua visita a Praga, nel
dicembre scorso, pare che abbia chiesto ai dirigenti cecoslovacchi di
allontanarlo in maniera graduale «... senza colpi di scena». A Novotny non
rimaneva che la via della forza, organizzare cioè un colpo di stato militare a
lui favorevole. Ma i generali Janko e Sejna, incaricati di attuarlo, fallirono
il tentativo. Janko si uccise e Sejna, fuggì, non certo nell'URSS, ma guarda
caso negli USA. Non può essere stato Novotny quindi a chiamare i Russi, cosa che
tra l'altro lui stesso, in una recente intervista, ha smentito.
La seconda fase che va da Aprile a Luglio, mette in chiara evidenza la piega che
ha assunto il «nuovo corso». I suoi presupposti sono insiti nella fase
precedente ma già da tempo covavano dentro gli organi dirigenti della
Cecoslovacchia: il partito, le associazioni culturali, gli organi di
informazione, le università. La «liberalizzazione» assume cioè una piega non
controllabile direttamente dai dirigenti cecoslovacchi né gradita ai sovietici,
i quali già in precedenza avevano espresso in proposito le loro preoccupazioni e
invitato i nuovi dirigenti di Praga a «stare attenti».
I gruppi di pressione radicali, facenti capo agli intellettuali, a Ludvig
Vaculik, ad Ota Sik l'economista, a Cestmir Cisar, a Oldrich Cernik, a Gustav
Husak, agli studenti e ai dirigenti e delegati del partito, fanno sentire presto
il loro peso. La Cecoslovacchia intraprende cioè la strada dell'autonomia
economica dall'URSS, pur rimanendo saldamente legata al Comecon, ma in chiave
distensionista, socialdemocratica e filo-occidentale. I dirigenti sovietici non
temevano quindi una uscita della Cecoslovacchia dal Patto di Varsavia, al quale
tra l'altro Dubcek aveva fatto continue dichiarazioni di fedeltà, ma che una
certa autonomia economica della Cecoslovacchia avrebbe alterato l'attuale stato
di dipendenza dei paesi dell'Est dall'Unione Sovietica, quindi che servisse
d'esempio anche per i paesi occidentali, quindi che alterasse l'attuale rapporto
tra i blocchi. L'avvicinamento commerciale ed economico con la Germania di Bonn,
le richieste di valuta occidentale da parte della Cecoslovacchia ne sono una
prova. Ma non è stata solo la politica estera a preoccupare i sovietici; anche
all'interno della Cecoslovacchia stavano avvenendo dei fatti che acuivano sempre
più il dissidio tra i due paesi.
Le polemiche sulla morte di Jan Masaryk, ministro degli esteri, ucciso nel 1948
per ordine di Beria, le riforme economiche di Ota Sik e quelle politiche
(autonomia dei sindacati con diritto di sciopero, abolizione della censura), la
crescente pressione degli intellettuali in polemica col «vecchio corso» e
l'URSS, furono tutti fatti che contribuirono notevolmente a determinare una
situazione di raffreddamento tra i due paesi. Situazione questa che ha il
proprio apice nel «manifesto delle 2.000 parole» di Ludvig Vaculik, pubblicato
sui giornali di Praga il 25 giugno, il quale rappresenta il testo ideologico del
riformismo del «nuovo corso».
Col «manifesto» inizia praticamente la terza fase; quella di rottura, quella di
ricatto. La prova di tutto ciò è nella così detta «Lettera di Varsavia», se la
stampa borghese italiana si fosse preoccupata di leggere o di capire. Nella
lettera si legge tra l'altro: «Cari compagni (...) vi è noto che i partiti
fratelli hanno dimostrato comprensione per le decisioni del Plenum di gennaio
del CC del PCC, considerando che il vostro partito, avendo saldamente in pugno
le leve del potere, avrebbe diretto l'intero processo nell'interesse del
socialismo, senza permettere alla reazione anticomunista di sfruttarlo a propri
fini. Noi eravamo sicuri che avreste difeso come la pupilla degli occhi il
principio leninista del centralismo democratico», e poi: «Gli avvenimenti
purtroppo hanno preso un altro corso. Le forze della reazione, sfruttando
l'indebolimento della direzione del partito nel paese, abusando demagogicamente
della parola d'ordine della «democratizzazione» hanno scatenato una campagna
contro il PCC contro i suoi onorati quadri con l'intenzione, di eliminare il
ruolo dirigente del partito, di abbattere il regime socialista, di opporre la
Cecoslovacchia agli altri paesi socialisti».
In questa fase si moltiplicano i tentativi di ricucire la crisi attraverso le
riunioni di Cierna e di Bratislava e le visite di Tito, di Ulbricht e di
Ceausescu; l'opera di Breznev e di Kossighin, in proposito, è stata veramente
straordinaria e pareva riuscita nell'accordo di Bratislava, salutato da tutti
come la fine della crisi. A questo proposito non ci sentiamo di condividere la
tesi sostenuta, già da alcuni anni, da vari settimanali e quotidiani di
sinistra, secondo la quale al superfalco Breznev si opporrebbe la docile colomba
Kossighin, addossando al primo tutta la responsabilità dell'invasione.
Ravvisiamo in ciò un tentativo da parte degli ambienti radicali di far apparire
accentuato il rapporto di forza esistente tra i dirigenti del Cremlino, nei
termini di «lotta per il potere nell'URSS», «opposizione tra stalinisti e
distensionisti», «tra falchi e colombe», in modo da avere sempre un capro
espiatorio contro cui scagliarsi, e nello stesso tempo l'elemento «buono»,
«moderato», «pacifico», da appoggiare per poi giustificare le prese di posizione
del PCI.
La realtà, secondo noi, è che non esiste una sostanziale opposizione tra Breznev
e Kossighin, in quanto entrambi mirano, con diversi accenti, alla stessa
politica. È stato solo il gioco delle forze al «Presidium» che ha visto Breznev
schierato dalla parte dei «sì», dalla parte dei «duri». Questi, infatti,
contemporaneamente ai tentativi di mediazione, si irrigidivano sulle posizioni
dell'intervento, appoggiati in questo dai militari, e non viceversa, come da più
parti si è sostenuto, e chiedevano alla fine la riunione del Presidium nel quale
ottennero poi la maggioranza. Non sono quindi i militari che determinano e
condizionano la politica nell'Unione Sovietica, come hanno affermato alcuni, ma
sono sempre i politici, pur non negando l'importante funzione dei militari
russi.
L'invasione della Cecoslovacchia va inquadrata, secondo noi, nella politica dei
«blocchi» e nella logica delle «sfere di influenza» secondo la quale una delle
due super potenze interviene militarmente nella rispettiva zona, laddove si
manifestano fermenti di autonomia, con il tacito consenso dell'altra; politica
questa che risponde al nome di «accordi di Yalta».
Come spiegare infatti l'atteggiamento di Washington?
Il controspionaggio tedesco del generale Gerhard Wessel sapeva che i Russi
avrebbero invaso la Cecoslovacchia e aveva informato il governo di Bonn e il
comando della NATO. Ma gli americani si preoccupavano solo di tranquillizzare
Kiesingher, dicendo che erano solo delle manovre.
Come spiegare tutto ciò e soprattutto i solenni silenzi di Washington,
interrotti ogni tanto da qualche breve dichiarazione di Johnson e di Rusk, se
non con il fatto che gli americani erano stati preventivamente informati e che
implicitamente davano il proprio consenso?
Perché questo? In Cecoslovacchia, nonostante tutto, non esistevano dei validi
motivi per giustificare un intervento armato, cioè non era tanto il nuovo corso
a preoccupare i Russi, quanto la politica di avvicinamento con la Germania di
Bonn, i prestiti finanziari, gli accordi commerciali con essa, e di conseguenza
l'autonomia economica rispetto a Mosca. Tale politica preoccupava non solo
l'Unione Sovietica, ma anche la Germania di Pankov e gli stessi Stati Uniti, che
vedevano anche loro, nella «Ostpolitik» di Bonn un elemento di autonomia. A
voler fare affermazioni spinte si potrebbe dire, assieme a Chiù En Lai, che
l'invasione è il frutto di un accordo tra le due superpotenze; non altera quindi
minimamente l'attuale rapporto di forza esistente tra i due blocchi, anzi mira
al mantenimento dello «status quo», e al rinnovo «sic et simpliciter» della
NATO.
La campagna allarmistica scatenata dalle destre, secondo la quale i Russi sono
alle porte, mira essenzialmente al rafforzamento della NATO, a ricreare il clima
di «guerra fredda», al potenziamento quindi dei blocchi. La miopia politica
delle destre è confermata dal comunicato del "Comitato per i piani di difesa"
della NATO, nel quale si afferma che essendo compito della difesa atlantica
garantire un equilibrio di forze con il Patto di Varsavia, non è possibile, allo
stato attuale, procedere ad una riduzione delle forze, come stabilito nelle
riunioni di Bruxelles e di Reykjavik; e aggiunge che «I membri del comitato per
i piani di difesa hanno pertanto ribadito la necessità di "mantenere" la
capacità militare della NATO ...».
Sempre a dispetto delle destre, che gongolavano sostenendo che la distensione
era finita, questa non ha subito il minimo incrinamento, non volendo l'invasione
della Cecoslovacchia significare altro che un rafforzamento della politica di
Yalta. In altri termini, le due superpotenze hanno dimostrato di non voler
rinunciare alla politica della coesistenza, ma nello stesso tempo di non
tollerare spinte di autonomia nei rispettivi blocchi. Eliminazione della «Ostpolitik»
tedesca, rifiuto da parte di Washington alle richieste di Bonn di rafforzare la
NATO, gli accordi di Mosca tendenti a vincolare economicamente in maniera più
salda la Cecoslovacchia all'Unione Sovietica, ne sono una prova.
L'invasione della Cecoslovacchia ci permette di dimostrare inoltre che sia il
Patto di Varsavia che la NATO, non sono in definitiva che degli strumenti di
repressione e non di difesa, come i servi dei due blocchi sostengono. Nello
stesso tempo ci permette di riprendere un vecchio discorso, a noi caro, per
porre il distinguo con tutti gli ambienti politici che hanno criticato
l'invasione, in particolare con quelli che parlano di «superamento dei blocchi».
Ai fini di una politica europeista, il superamento dei blocchi non può avvenire
che in chiave nazionale; cioè un'Europa unita politicamente, economicamente e
militarmente, è possibile solo se i singoli stati europei si sganciano dalle
superpotenze attuando una politica nazionale. Mentre una eventuale indipendenza
e autonomia dai blocchi in chiave economica e socialdemocratica non farebbe
altro che accelerare il processo distensivo senza minimamente alterare i
rapporti di forza tra i due blocchi.
Ecco perché critichiamo apertamente il «nuovo corso» cecoslovacco, mentre siamo
più attratti dal nazionalismo romeno.
Francia e Romania, in definitiva, sono la prova del nostro discorso.
POLITICA ESTERA
America Latina: da Cantilo Torres a Paolo VI
La linea imposta dal Papa è stata, come al
solito, una linea ambigua: egli ha operato in modo da ricondurre l'atteggiamento
estremista del clero nell'ambito di una dialettica genericamente contestataria e
riformista.
Alle ore 18,15 del 24 agosto i 18 mila poliziotti e i 25 mila soldati incaricati
di vigilare sulla sicurezza di Paolo VI durante le 57 ore della sua visita in
Colombia, potevano prendersi finalmente un meritato riposo: il Papa ripartiva
per l'Italia senza che nessun incidente fosse venuto a turbare la sua
partecipazione alla II Conferenza Generale dell'Episcopato Latino-Americano.
In effetti vi erano fondati motivi per l'imponente servizio di sicurezza: tutto
il continente sud-americano è squassato dalla guerriglia, alimentata
dall'arretratezza sociale e dalla corruzione dei tirannelli locali, espressione
delle "United Fruits Companies" statunitensi e dei grandi proprietari terrieri.
In questa situazione il clero cattolico, già attanagliato dalla crisi delle
vocazioni (in un continente che si definisce seguace del cattolicesimo romano,
solo una minima parte -dal 10 al 20%- della popolazione è praticante e la Chiesa
è costretta a servirsi di sacerdoti europei) si è diviso su opposte posizioni.
La maggioranza del basso clero e non pochi vescovi, si è schierata parte a
favore delle tesi di Camilo Torres, fautore della rivolta armata, e parte a
favore della cosiddetta «rivoluzione non violenta», ossia per la concessione
immediata di tutte quelle riforme atte ad alleviare le disperate condizioni dei
milioni di campesinos, della quale è portavoce monsignor Helder Camara,
arcivescovo di Recife.
La parte più estremista del clero si richiama, come detto, a Camilo Torres,
discendente da una delle più antiche e ricche famiglie della Colombia, che è
stato il precursore di un nuovo tipo di sacerdote: il sacerdote-guerrigliero.
I primi clamorosi passi sulla strada della guerriglia Camilo li fece il 27
novembre 1964, tenendo una conferenza sulla lotta di classe agli studenti della
facoltà di sociologia, di cui era stato uno dei fondatori, all'Università
nazionale di Bogotà. Questa conferenza evidentemente non fu gradita dai suoi
superiori ecclesiastici, che lo inviarono a «schiarirsi le idee» in Europa.
Ritornato in patria dopo 6 mesi, Torres fondò il "Frente Unido", organizzazione
clandestina che si proponeva la conquista del potere. Ciò gli costò la condanna
della Chiesa che lo sospese «a divinis».
D'altro canto la persecuzione governativa a cui il suo movimento era sottoposto
lo spinse alla guerriglia e per 101 giorni Camilo Torres visse alla macchia,
tendendo imboscate a pattuglie dell'esercito colombiano, finché il 16 febbraio
1966, a 37 anni, fu ucciso in una di queste azioni.
A un mese dalla sua morte Lleras Restrepo, il presidente colombiano, si rese
conto di quanta influenza il "Frente Unido" avesse conquistato nel paese: alle
elezioni presidenziali il 65% degli elettori disertò le urne e buona parte lo
fece per seguire le direttive postume del prete-guerrigliero.
Quello di Camilo Torres, pur essendo stato il più clamoroso, non è però il solo
caso di sacerdoti favorevoli alla guerriglia. Alla fine del 1967 infatti il
governo del Guatemala espulse 8 religiosi cattolici della Congregazione
statunitense di Maryknoll, fra i quali 3 suore, sotto l'accusa di aver
organizzato basi per i guerriglieri; successivamente 3 di essi, 1 suora e 2
sacerdoti, furono sospesi «a divinis», perchè, ritornati clandestinamente in
Guatemala, continuavano la collaborazione con le bande armate. Nel marzo 1968
luna cinquantina di cattolici, religiosi e laici, si riunirono a Montevideo, in
preparazione dell'incontro intercontinentale "Camilo Torres", previsto per il
marzo '69 all'Avana. In un comunicato diffuso al termine dei lavori, si chiedeva
ai cattolici di partecipare alla lotta rivoluzionaria, si condannava
l'intervento americano nel Vietnam, si preconizzava che l'America Latina sarebbe
stata il Vietnam degli anni settanta e si invitava Paolo VI a non recarsi in
Colombia dato il carattere dittatoriale di quel governo.
Alla fine di marzo il governo argentino espulse 4 sacerdoti spagnoli accusati di
complotto mentre, il 9 aprile padre Juan Batista Arenas, sospetto di connivenza
coi guerriglieri, venne assassinato in Argentina.
Clamorosa è stata infine la dichiarazione fatta da Monsignor Guzman, da padre
Zaffaroni (i principali propagatori delle opere di Camilo Torres) e da padre
Escurdia, i quali dichiaravano di parlare a nome di numerosi sacerdoti, al
Congresso Culturale dell'Avana sul Terzo Mondo.
Nella dichiarazione, fra l'altro si diceva: «... i cattolici, pur non
accettandone le basi ideologiche, riconoscono il marxismo come l'analisi
scientifica più esatta della realtà imperialista e come la spinta più efficace
alla azione rivoluzionaria delle masse»; «... come sacerdoti e come cattolici ci
schieriamo dalla parte della lotta rivoluzionaria contro l'imperialismo ...».
Questi sono solo alcuni esempi dei casi più importanti giunti a nostra
conoscenza: si tenga presente che centinaia sono i sacerdoti e migliaia i laici
su queste posizioni e non pochi di essi sono giunti al punto di calcare le orme
di Ernesto «Che» Guevara, imbracciando il mitra e dandosi alla macchia.
D'altra parte la maggior parte dei vescovi e cardinali e diversi sacerdoti,
specialmente quelli di provenienza europea, sono contrari alla ribellione, sia
armata sia non violenta, ed auspicano la concessione graduale, da parte dei
detentori del potere, delle riforme più urgenti.
Vi è inoltre una frazione reazionaria estremista, guidata da monsignor de Poenca
Sigaud, vescovo brasiliano, il quale poco prima della Conferenza episcopale ha
dichiarato che non avrebbe concesso di comunicarsi ai campesinos che avessero
accettato terre provenienti da espropriazioni di grandi possidenti.
Le conseguenze della divisione del clero sud-americano sono facilmente
intuibili: gli atteggiamenti poco ortodossi dei preti «rivoluzionari» hanno
destato un sentimento di diffidenza nei governi locali e soprattutto nei
dirigenti delle "United Fruits" (che in un successo della rivoluzione
filo-castrista vedrebbero sparire la loro posizione di privilegio), mentre la
repressione delle gerarchie ecclesiastiche, lungi dal rassicurare le compagnie
statunitensi, diminuiscono ulteriormente il prestigio della Chiesa fra le masse
dei diseredati. Logicamente il viaggio papale, inseritosi in questo contesto,
era atteso con speranza dalle diverse fazioni e specialmente dalla fazione più
progressista, memore della Enciclica "Populorum Progressio", dove si
giustificava la violenza e la ribellioni rivolte verso una lunga e manifesta
tirannia. (1)
Ma evidentemente Paolo VI aveva un proprio disegno personale e non ha tenuto in
nessun conto le aspettative dei suoi rappresentanti in America Latina.
Le dichiarazioni del Papa nei suoi discorsi sono state infatti di condanna della
rivolta armata «non giustificabile in nessun caso», anche se è stato costretto a
riconoscere le miserevoli condizioni in cui versano i milioni di campesinos: «In
sostanza Paolo VI ha fatto un quadro senza veli della situazione sociale
dell'America Latina; ha avuto accenti severi e condanne esplicite: ha parlato di
situazioni ignobili riservate ai lavoratori; di assenze di condizioni umane per
il vitto, l'alloggio e la cultura; di vasti quozienti del mondo degli umili (che
sono i facitori primi della ricchezza) condannati al sottosviluppo. Ed ha
affermato che la Chiesa assume sopra di sé la loro causa e difende il loro
diritto» (da "l'Osservatore Romano" del 25 agosto - commento al discorso ai
campesinos di Paolo VI).
Inoltre il Papa non ha detto una parola contro il dialogo che i sacerdoti
«irrequieti» hanno aperto con gli ambienti più radicali, appunto sulla scia
della "Populorum Progressio", limitandosi a predisporre le cose in modo che
avvenisse sotto il suo controllo o perlomeno sotto quello delle gerarchie
ecclesiastiche.
Ma, a prescindere dalle dichiarazioni «pubbliche» di Paolo VI, quello che più
conta è ciò che il Papa ha detto in «privato» ai vescovi (ricordiamoci che il
Papa era andato in Colombia appunto per sanare ogni dissidio del clero). Questo
si può ricavare dalle conclusioni a cui è giunta la Conferenza Episcopale:
prendiamo in esame il rapporto della commissione "Giustizia e Pace".
Il rapporto è stato approvato con 64 sì, 62 sì condizionati e solo 5 no.
Nel rapporto si può leggere: «L'America Latina si trova di fronte a una
situazione di violenza istituzionalizzata che esige una trasformazione globale,
urgente e rinnovatrice ...». Si rimprovera quindi ai ricchi ed ai potenti di
esercitare pressioni per impedire le riforme «arrivando al punto di distruggere
vite umane e beni» e li si avverte di non contare più sull'aiuto della Chiesa
per conservare i loro privilegi.
Inoltre il documento ammonisce che «il cristianesimo è pacifico, non pacifista»
e che i ricchi e i potenti «se vogliono conservare avidamente i loro privilegi
e, soprattutto, se li difendono impiegando mezzi violenti, sono responsabili
davanti alla storia di provocare le rivoluzioni esplosive della disperazione».
In questo rapporto la violenza è perfettamente giustificata, a patto che
risponda alla violenza altrui: infatti, commentando il già citato passo
dell'Enciclica "Populorum Progressio", il documento precisa: «Questa tirannia
non è necessariamente quella di una persona, ma anche delle strutture mantenute
da una classe di uomini che si oppongono in modo ingiusto, alle trasformazioni
che potrebbero portare alla fine della miseria».
La quasi unanimità dei consensi riportati nella votazione dal rapporto, dimostra
ulteriormente l'intervento papale per ricreare l'unità del clero sud-americano.
Infatti questo si presentava alla conferenza diviso in tre correnti, sancite
ufficialmente dalla triplice presidenza: il card. Samorè rappresentava i
conservatori, l'arc. Ricketts i «non violenti» e l'arciv. Brandao i progressisti
più accesi.
Questa divisione è stata però superata, secondo le direttive papali.
Dall'interpretazione dei voti si può ricostruire un allineamento dei seguaci di
Camilo Torres e di quelli di mons. Camara su tesi di compromesso fra le due
posizioni: non rivoluzione armata, ma rivoluzione non violenta (salvo le
giustificazioni offerte dalla "Populorum Progressio") e a questa nuova linea
hanno aderito gran parte dei conservatori -i 62 sì condizionati- isolando i
congressisti reazionari -i 5 no- guidati dal solito irriducibile de Proenca
Sigaud.
Quindi, dopo il viaggio di Paolo VI, la situazione è cambiata, logicamente
secondo il volere del Pontefice.
La linea imposta dal Papa è stata, come al solito, una linea ambigua: egli ha
operato in modo da ricondurre l'atteggiamento estremista del clero nell'ambito
di una dialettica genericamente contestataria e riformista, lasciando nello
stesso tempo aperta per ogni eventualità, la strada della ribellione violenta.
Ciò rientra nel quadro della tradizione politica della Chiesa: essa si è sempre
appoggiata alle classi dominanti ed al sorgere di nuovi fenomeni che potevano
mettere in discussione il vecchio stato li ha combattuti, salvo a schierarsi
dalla loro parte una volta che questi fossero riusciti a scalzare il regime al
potere.
Sicuramente il Papa, valutando la situazione nel Sud-America, è giunto alla
conclusione che, almeno per il momento, i governi reazionari hanno la
possibilità di stroncare la ribellione e quindi ha fatto in modo di non
inimicarseli.
Infatti la tesi riuscita vincitrice, quella della rivoluzione non violenta, in
un continente dove il problema presenta un aspetto così semplice (da una parte i
campesinos che vogliono una speranza di un domani migliore e dall'altra le
classi dominanti che non vogliono fare nessuna concessione), non rappresenta
altro che un tentativo di inganno della classe sfruttata: non vediamo infatti in
quale modo essa potrebbe convincere i gruppi al potere a concedere quelle
riforme ostinatamente negate, con la sola arma della contestazione generica e
della protesta.
Ma il Papa è stato ancora più sottile e furbesco: ha calcolato pure la
possibilità che fra qualche anno la situazione sociale diventi così esasperata
che nulla potrà fermare le masse dall'intraprendere la strada della rivolta
armata. Ha posto quindi la sua ipoteca su una loro eventuale vittoria, lasciando
aperta, «ultima ratio», la strada della violenza, sperando poi di poterla
incanalare, verso una riforma nel sistema. Una riforma nell'ambito del sistema
lascerebbe la situazione immutata: le "United Fruit" ed i proprietari terrieri
locali seguiterebbero ad esercitare la ormai tradizionale pressione sui paesi
dell'America Latina e il Vaticano continuerebbe ad usufruire del meccanismo del
potere. Ciò allo scopo di tagliar fuori qualsiasi eventuale soluzione
filo-castrista, nella quale la Chiesa verrebbe definitivamente messa fuori
gioco, e con essa i gruppi di potere che appoggia e dai quali è appoggiata.
(1) Testualmente: «... l'insurrezione
armata -salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attentasse
gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuocesse in modo pericoloso
al bene comune del paese- è fonte di nuove ingiustizie».
La situazione pre-elettorale negli USA
In barba a tutti i princìpi (più o meno
«immortali») della democrazia capitalistico-borghese statunitense, il braccio di
ferro stabilitosi fra la base ed i «boss» dei due principali partiti nazionali
in occasione della elezione dei rispettivi candidati presidenziali, si è
concluso con una sonora sconfitta della base a vantaggio della scelta dei
«boss».
Con mezzi che in verità dovrebbero essere estranei a quella truffa in grande
stile che chiamano «metodo democratico», entrambi gli apparati dei due partiti
erano riusciti a mandare alle rispettive Convenzioni un numero di delegati
favorevoli al proprio beniamino di gran lunga superiore a quello legittimo
(rispondente cioè ai responsi forniti dalle elezioni primarie). In seguito a
tali maneggi, sotterranei ma non troppo, una vittoria di coloro che più
direttamente ne avrebbero usufruito (Nixon per i repubblicani, Humphrey per i
democratici) era quasi scontata.
Le due convenzioni hanno così riversato i propri voti sugli uomini prescelti
dalle gerarchie di partito, e a dispetto delle preferenze, ben diverse, nutrite
dalla base, per Nixon ed Humphrey non è stato troppo difficile conquistarsi la
maggioranza dei voti e con essa la candidatura alla Casa Bianca.
In entrambi i casi, il candidato presidenziale impersona all'interno del partito
la linea centrista o centro-destrista. Gli sconfitti sono stati gli estremisti,
sia quelli di sinistra che quelli di destra. Il vero vincitore è stato il
moderatismo: genericamente progressista quello di Humphrey, vagamente
conservatore quello di Nixon.
Che negli Stati Uniti il moderatismo rappresenti un aspetto tipico della vita
politica nazionale è scontato. Insieme al pragmatismo, alla mancanza pressoché
assoluta di una dimensione ideologica della lotta politica, il moderatismo è un
presupposto vitale per la sopravvivenza del sistema bipartitico, perché solo una
linea centrista e pragmatista può garantire quella intercambiabilità dei due
partiti che costituisce il fulcro su cui poggia il sistema stesso.
Ogni volta, perciò, che uno dei due partiti vien meno a questa regola, rischia
di mettere in crisi il sistema bipartitico e se medesimo: valga per tutti
l'esempio della dura sconfitta subita nel 1964 dai repubblicani, per avere
eletto come proprio candidato presidenziale l'ultra-reazionario Barry Goldwater.
Questo ha senz'altro influito sulla scelta del candidato alla Casa Bianca,
suggerendo di scartare i candidati dal programma politico più caratterizzato e
meno conciliante. Esistono tuttavia altri motivi, forse più contingenti ma non
per questo meno importanti, da tenere presenti insieme a quello esaminato.
* * *
La nomina di Richard Nixon a candidato presidenziale dei repubblicani dovrebbe
ad esempio servire a ricucire -secondo i progetti dei massimi responsabili del
partito- l'unità dello stesso, sanando le ferite apertesi nel suo seno all'epoca
della candidatura Goldwater. Con un paziente lavoro, consistente in un continua
barcamenarsi alla meglio fra il progressismo di Nelson Rockefeller ed il
destrismo estremista di Ronald Reagan, Nixon è riuscito a costruire intorno a sé
l'idea che solo lui poteva riportare l'unità in campo repubblicano, conciliando
in nome del moderatismo le più opposte tendenze.
Inoltre la tradizione repubblicana è molto più radicata negli Stati più
conservatori, che certamente non avrebbero accettato un Rockefeller, mentre
invece un Nixon non è una pillola troppo amara. La nomina di Spiro Theodore
Agnew a candidato per la vicepresidenza dovrebbe servire a convogliare verso il
partito repubblicano i voti di quei conservatori che avrebbero desiderato un
candidato presidenziale più a destra.
Le aspettative di coloro che speravano in un candidato vicepresidenziale di
sinistra sono andate deluse. Nixon ha preferito Agnew, ben sapendo che un «vice»
progressista gli avrebbe alienato i voti della destra (pronti ad esser raccolti
dal super-falco del Partito Indipendente, George Wallace), senza peraltro poter
sperare di rifarsi con gli ambienti di sinistra o con quelli negri, presso i
quali (nonostante gli allettamenti ed ammiccamenti che da tempo va facendo loro
con una disgustosa sfacciataggine) ancora troppo vivo è il ricordo del Nixon
formato super-falco.
Nel partito democratico, angustiato da una profonda crisi, la situazione è molto
più complessa, per non dire caotica. Dopo la nomina di H. H. Humphrey, esponente
moderato, i sostenitori dei candidati sconfitti non intendono appoggiare il
candidato ufficiale.
Superato con relativa facilità lo scoglio della nomina, Humphrey si trova ora a
dover fare i conti con quello, molto più arduo, di riportare il suo partito ad
un «minimum» di unità, senza il quale gli verrebbe a mancare in misura notevole
l'aiuto determinante di una organizzazione compatta ed efficiente. I dissensi
che dividevano Humphrey dai propri avversari nella corsa alla candidatura
presidenziale (la colomba McCarty, il kennedyano McGovern ed il superfalco
razzista Lester G. Maddox) si sono trasformati dopo la Convenzione di Chicago in
una vera e propria rottura. La possibilità di vittoria di Humphrey dipende
dall'esito che avranno i suoi tentativi di ricucire i brandelli in cui è ridotto
il partito democratico.
Il gioco di Edward Kennedy e del suo clan nei confronti di Humphrey è un
capolavoro di machiavellica raffinatezza: con le debite distanze, sembra di
essere nell'Italia del '500, alla corte di Cesare Borgia.
Dopo aver rinunziato alla candidatura per la vicepresidenza, che da più parti di
avevano scongiurato di accettare per il bene del partito, Ted Kennedy si è
chiuso in una posizione di discreto isolamento, rotto qua e là da qualche
accademica promessa di appoggiare il candidato del partito, tanto per non
alienarsene l'amicizia. Nonostante l'apparente rientro del kennedyano McGovern
nell'ovile democratico, e la sua dichiarazione di esser pronto ad appoggiare
Humphrey onde « non favorire Nixon », Kennedy ed i kennedyani hanno tutto
l'interesse a che Humphrey sia sconfitto. Sanno benissimo che dopo quattro anni
di Presidenza, Humphrey sarebbe un temibile antagonista, capace di mandare a
rotoli il loro progetto di tornare nel 1972 alla Casa Bianca. Tanto vale,
allora, buttarlo a mare subito. Il senatore Russel Long, «fedelissimo»
dell'attuale vicepresidente americano ha fiutato la manovra, ed ha accusato
senza mezze parole i kennedyani di essere i veri responsabili delle rotture in
seno allo schieramento democratico, e di sabotare da dietro le quinte la causa
di H. H. H.
La situazione di Humphrey a qualche settimana dalle elezioni è dunque oltremodo
precaria. Nonostante che sia riuscito con qualche demagogica uscita progressista
a racimolare il consenso (poco convinto) di sparuti gruppetti del seguito di
McCarthy, la situazione è sempre critica. In seguito a tali prese di posizione,
anzi, ha persino fugato il consenso di qualche conservatore del Sud: è il caso
dei Governatori del Mississippi (J. W. Williams) e della Louisiana (J. McKeithen),
i quali hanno subito sconfessato H. H. H., privandolo del proprio appoggio. E
non è escluso che qualche altro Governatore li segua. Di fronte ad uno sfacelo
del genere, l'aspirante-Presidente non trova niente di meglio da fare che
uscirsene con qualche atteggiamento patetico, dando sfogo alla sua versatilità
nell'abbandonarsi ad un vittimismo di seconda categoria: «La mia disgrazia -ha
affermato in uno di questi momenti di ben simulata amarezza- è di avere
ereditato tutti i nemici di Lyndon Johnson e nessuno dei suoi amici».
Evidentemente, spera di far breccia nel cuore di qualche vecchietta
sentimentale, non tanto per conquistarle il cuore, quanto il voto. In momenti
critici come l'attuale, tutto fa brodo.
Ma nonostante il bassissimo tasso di mortalità registrato nella nazione più
ricca del mondo, le vecchiette non devono poi essere tante, visto che -stando ad
un sondaggio effettuato dal "New York Times"- il tandem repubblicano Nixon-Agnew
è in complesso notevolmente avvantaggiato rispetto a quello democratico
Humphrey-Muskie.
* * *
L'atteggiamento che i radicali di sinistra del partito democratico assumeranno
in occasione delle elezioni non è uniforme.
Una buona parte finirà con l'appoggiare Humphrey, in osservanza a quella
filosofia del «minor male» che per una certa razza di uomini equivale a quel che
la stella polare rappresenta per i naviganti. «Humphrey è sempre meno peggio di
Nixon» si diranno l'un l'altro con aria rassegnata, ed agiranno di conseguenza.
Una seconda parte si asterrà da ogni presa di posizione, e se ne starà a
guardare agnosticamente. Fra questi è il pacifista Eugene McCarthy, il quale
sembra risoluto a starsene in disparte, in una posizione di novello Cincinnato,
senza accettare di far da gregario a Humphrey nella campagna elettorale e
rifiutando d'altra parte di prendere il comando di un nuovo partito, collocato
alla sinistra dei democratici.
La prospettiva di un nuovo partito di sinistra, dopo la sconfitta del fronte
radicale in seno al partito democratico, è tutt'altro che remota. Ma la gran
maggioranza dei democratici radicali è convinta che sia più valido condurre una
battaglia all'interno. In effetti, uscire e fondare un nuovo organismo sarebbe
un vero salto nel buio, mentre all'interno del partito vi è la possibilità di
svolgere un lavoro denso di prospettive, non ultima quella di impossessarsene
del tutto. «Noi rappresentiamo già -ha detto Allard Loewenstein- la maggioranza
dei democratici d'America. Se a Chicago abbiamo perduto, è soltanto perchè
l'apparato ha soffocato senza scrupoli le aspirazioni della base, imponendo la
sua politica ed il suo candidato. Ma sono convinto che nei prossimi quattro anni
riusciremo a conquistare il partito all'interno e perciò sarebbe una follia
abbandonarlo ora per ripicca».
Ma i radicali più estremisti non sono d'accordo. Guidati da Marcus Rashin, hanno
disertato le file democratiche ed hanno fondato quel "New Party" che sembra
intenzionato a presentare un proprio candidato in venti Stati circa.
Quali sono le sue possibilità di successo? Molto scarse. Gli manca innanzitutto
un grosso nome, capace di richiamare l'interesse della massa. È probabile che
esso usufruisca di una legge elettorale americana che permette ai partiti di
presentare un candidato senza che questi abbia accettato la candidatura, e si
presenti quindi come il partito di McCarthy, ma anche con questo stratagemma non
aumenterebbe di molto il proprio ascendente. Manca inoltre di un apparato
propagandistico capillare, indispensabile nella lotta elettorale americana, e
soprattutto gli scarseggiano i finanziamenti che una campagna elettorale
"rispettabile" richiede. È ragionevole pensare, quindi, che la sua apparizione
sul palcoscenico delle elezioni non porterà a niente di clamoroso, e si limiterà
a raccogliere i voti degli scontentissimi di sinistra, svolgendo così uno
sterile ruolo di disturbo. Un milione di voti sarebbero già una affermazione.
* * *
Un discorso a parte merita il "Partito Indipendente Americano", l'organizzazione
di estrema destra capitanata dall'ex-Governatore dell'Alabama, George Wallace.
Il fenomeno Wallace, lungi dall'essere una delle tante espressioni più
«folcloristiche» che politiche della estrema destra USA, minaccia di diventare
una nuova realtà politica, capace addirittura di mettere in crisi il sistema
bipartitico. È una vera spada di Damocle sospesa sul capo dei due partiti
maggiori, i quali devono ormai badare a non lasciarsi scoperti a destra: nella
scelta dei rispettivi candidati per le prossime elezioni, essi hanno dovuto
tener conto anche di questo.
Negli ultimi tempi il "Partito Indipendente" ha fatto passi da gigante. Secondo
una indagine "Gallup" di qualche tempo addietro, da aprile a settembre di
quest'anno il suo seguito si è raddoppiato: esso aveva raggiunto la
considerevole consistenza del 21 per cento.
L'eventualità che più spaventa democratici e repubblicani è che nessuno dei
propri candidati raggiunga la maggioranza assoluta necessaria per essere eletti.
In tal caso Wallace diventerebbe l'arbitro del responso elettorale, ed
impiegherebbe il suo potere contrattuale per condizionare la futura politica
della Casa Bianca in senso conservatore.
In effetti, -se la popolarità dell'ex-Governatore dovesse resistere fino alle
elezioni- una evenienza del genere avrebbe non poche probabilità di diventare
realtà.
L'unica scappatoia potrebbe essere rappresentata da una sconfitta di Humphrey di
dimensioni tali, da permettere a Nixon di racimolare da solo la maggioranza
necessaria. È quanto potrebbe verificarsi se il recentissimo sondaggio "Gallup"
esprimesse l'effettiva realtà. Secondo tale sondaggio -infatti- se le elezioni
si facessero subito, su cento voti 43 andrebbero a Nixon, 31 ad Humphrey e 21 a
Wallace. Nixon avrebbe (in voti popolari) la maggioranza relativa, ed entrerebbe
alla Casa Bianca. Ancora più significativo è il sondaggio -basato sui voti
elettorali piuttosto che su quelli popolari- effettuato dal settimanale "Newsweek":
i repubblicani conquisterebbero 31 Stati, Wallace ne conquisterebbe 9, i
democratici 7 soltanto. Sarebbe la più grande sconfitta democratica che si
ricordi, nonché la fine del sistema bipartitico. Molte cose possono cambiare,
però, prima del grande confronto elettorale, eppoi i risultati dei sondaggi sono
credibili fino a un certo punto: vanno presi con le pinzette, con larghissimo
beneficio d'inventario.
Più baldanzoso che mai, Wallace continua intanto la sua campagna, diffondendo ai
venti i punti del suo programma politico misti agli anatemi più stravaganti
contro i suoi avversari: accusa gli altri due partiti di tendere entrambi ad un
«socialismo mascherato» (sic!); protesta per l'esosità delle tasse; dà del
«traditore» a chiunque parli di ritiro delle truppe americane dal Vietnam;
ironizza sulla (presunta) debolezza della polizia, la quale ha le mani legate
dai tribunali, cosa che spiegherebbe il dilagare della criminalità; promette
drastiche misure poliziesche per reprimere i disordini provocati dai soliti
«anarchici, attivisti, sovversivi, e comunisti» (sarebbero i negri ribelli, la
gioventù protestataria, i pacifisti); inveisce contro le ingerenze di Washington
negli affari interni degli Stati, dei quali rivendica l'autonomia
(strumentalizza così quell'insofferenza verso gli eccessi del potere federale
che è un retaggio storico della guerra di Secessione, e che ancor oggi è molto
sentita nel «profondo Sud»); promette l'abolizione di tutti gli aiuti economici
all'estero; critica aspramente l'integrazione razziale forzata e rivendica il
diritto dei singoli Stati di decidere in proposito; propugna, naturalmente,
sulla scia di Goldwater, un anticomunismo di marca maccartista.
Ma nonostante le idiozie che elargisce a piene mani, la gente lo segue con
entusiasmo, con il fanatismo acritico tipico delle destre, di quella americana
in particolare. Gli è che il suo qualunquismo interpreta bene o male le esigenze
di certi strati popolari, i quali non chiedono altro che il solito «governo
forte» capace di fugare (a colpi di manganello) lo «spettro» delle rivolte negre
e del dissenso giovanile. Se, per sopramercato, ci sarà anche una diminuzione
delle imposte (aumentate per coprire le spese della guerra in Estremo Oriente)
tanto di guadagnato.
Gli ultimi avvenimenti politici, «in primis» i fatti cecoslovacchi, è molto
probabile comportino un rafforzamento delle posizioni dei «falchi» in entrambe
le super-potenze. Se è vero che di un simile rafforzamento si avvantaggerà
Nixon, non è da escludere un ulteriore aumento del seguito di Wallace.
PROBLEMI DEL
NOSTRO TEMPO
UOMO-MASSA: la morte dell'uomo
In un'opera famosa apparsa nel 1930 ed
intitolata "Rebelion de las Masas", lo scrittore José Ortega y Gasset, tracciava
un quadro vivace dell'uomo-ingranaggio.
Questo tipo umano lo si trova oggi in tutte le classi ed in tutti gli ambienti.
Ortega lo chiamò uomo-massa e lo descrisse come l'uomo che non si differenzia
dagli altri uomini, ma ripete in se stesso uno schema generico.
È una figura anonima, impersonale, paragonabile ad una forza che vuole
frantumare ed annientare tutto ciò che è differente, singolare, individuale,
selezionato.
L'uomo massa non valuta se stesso né in bene né in male, non si pone difficoltà
o doveri, non esige da sé nulla ma si accontenta di essere sempre ciò che è,
senza sforzo di perfezione, senza ansia di ideali, od inquietudini per programmi
arditi da realizzare con il sacrificio della propria persona.
Senza individualità, né personalità, accorto nell'evitare ogni responsabilità,
privo di autentici problemi, non proteso od aperto verso l'avvenire, ma
soddisfatto del suo stato mediocre, convinto di sapere ciò che non sa, avido
sopratutto di godimento materiale, ma incapace parimenti di intendere il
significato ed il valore di quella «civiltà» di cui gode ottusamente i frutti,
l'uomo-massa è l'anima volgare che, riconoscendosi volgare, afferma ed impone la
sua volgarità.
L'Uomo è oggi una realtà al vertice di tutti i pensieri di filosofi, di
sociologi, d'economisti; ma per molti di costoro questa realtà viene
considerata, a volte in forma parziale, a volte nelle semplici manifestazioni
esterne, altre ancora esclusivamente come soggetto di diritti e, infine, come
elemento indifferenziato, classificato, eguale, di un amalgama che può chiamarsi
indifferentemente massa o classe.
È sintomatico che l'ora presente sia caratterizzata da una grande incertezza
ideale, da una grande stanchezza morale: gli ideali sono in crisi, i
pensieri-forza sono sostituiti da calcoli provvisori di utilità; la paura del
«peggio», quasi fosse inevitabile, guadagna gli animi e lo sforzo personale non
è più «di moda»; la spada dello spirito sembra riposare nel fodero del dubbio e
dell'irenismo.
Questa nostra società contemporanea, dominata dalle macchine, governata dalle
leggi della produzione e del numero, schiava delle strutture che essa stessa si
è costruita, ossessionata quasi dal mito della tecnica e dell'automazione,
questa società di oggi, figlia ormai adulta della civiltà industriale, sembra
vestire lussuosamente un'anima vuota.
L'avvento di grandi masse d'uomini sulle scene della storia, nei luoghi ove si
edificarono le civiltà passate, costituisce un enorme potenziale di nuove
energie che possono essere adoperate costruttivamente. Anche il più fiero
avversario di tale stato di cose, non può non riconoscere questa moltiplicazione
di possibilità umane introdotta nel mondo dallo svolgimento dell'era industriale
con le sue masse agglomerate e con gli strumenti sempre più perfezionati della
sua tecnica.
La contropartita di questo slancio ascensionale dell'era delle masse è il
pericolo del livellamento spirituale e l'illusione che l'organizzazione tecnica
e politica possa, da sola, risolvere tutti i problemi che assillano il mondo
odierno.
Il pericolo dell'era delle masse è appunto l'uomo-massa, imbottito di luoghi
comuni travasati nella sua minuscola testolina dalla propaganda giornalistica,
radiofonica, cinematografica, televisiva.
L'illusione delle masse consiste nell'identificare superficialmente tecnica e
cultura, nello scambiare l'aumento del «comfort» per un incremento di valore
personale.
E non ci si accorge che il pieno godimento di tutte le risorse della civiltà
industriale non è garanzia di un armonioso ed intelligente sviluppo della
personalità.
Vi è anzi la minaccia che la persona si incanti e si stordisca in una
partecipazione puramente voluttuaria a fini e beni strumentali nei quali fa
consistere largamente ed erroneamente il significato intimo dell'esistenza. Ciò
è assolutamente mostruoso. Le macchine sono strumenti di liberazione perchè
eliminano molte schiavitù, poiché aiutano ad eliminare il tempo e lo spazio,
perchè mettono le energie della natura a disposizione dell'uomo.
Ma le macchine divengono nuovi tiranni quando incoraggiano la pigrizia, il
disinteresse dei loro utenti, quando colui che fruisce passivamente dei vantaggi
della tecnica meccanica, non trasforma tale vantaggio in un nuovo mezzo di
superamento etico ed intellettuale.
Gli uomini-massa attuali sono in ultima analisi coloro che scelgono di essere
oggetti piuttosto che soggetti della loro storia e della loro esistenza.
Rinunciando a ciò che vi è di personale e di originale, essi vogliono godere i
frutti della loro «civiltà», senza fare alcuno sforzo per crearla.
Tale visione è meschina, degenerata e degradante.
In questo corpo smisuratamente ingrandito, l'anima resta ciò che era, troppo
piccola ora per riempirlo, troppo debole per dirigerlo. Donde il vuoto tra esso
e lei. Donde i formidabili problemi sociali, umani, politici che sono
altrettante definizioni di questo vuoto e che, per colmarlo, provocano oggi
tanti sforzi disordinati ed inefficaci.
Sarebbero necessarie nuove risorse e nuove riserve di energia potenziale, di
energia morale. Il problema si pone in questi termini: chi può darci queste
nuove energie?
Non limitiamoci a dire che la mistica chiama la meccanica, che al pensiero segue
l'azione. Aggiungiamo che il corpo cresciuto aspetta un «supplemento di anima»,
e che la meccanica esigerebbe una mistica. Forse le origini di questa meccanica
sono più mistiche di quel che non creda ed essa non ritroverà la sua vera
direzione, non renderà servigi proporzionali alla sua potenza se non quando
l'umanità, che proprio essa ha troppo curvato verso la terra, verso l'umano, il
troppo umano, arriverà, per suo mezzo a risollevarsi ed a guardare il cielo.
Quel cielo accantonato, quell'esistenza superiore dimenticata. «Vi è un Ordine
Fisico e vi è un Ordine Metafisico. Vi è la natura mortale e vi è la natura
degli immortali. Vi è la regione superiore dell'«essere» e vi è quella infera
del «divenire». Più in generale: vi è un visibile ed un tangibile e, prima e di
là da esso, vi è un invisibile ed un intangibile quale sopra mondo, principio e
vita vera. Dovunque vi sia stata una tradizione effettiva, in Oriente ed in
Occidente, in una forma o nell'altra, è sempre stata presente questa conoscenza
come asse incrollabile intorno al quale tutto il resto era gerarchicamente
ordinato». (1)
E l'uomo, protagonista antico di ogni civiltà, sembra ora rattrappirsi in una
angusta prospettiva materialistica dove i grandi valori della libertà
spirituale, della dignità individuale e dell'iniziativa personale volta al
superamento di se medesimi, i valori che fanno la vera storia, appaiono come
permanentemente insidiati, sopraffatti sovente dalla fretta e dalla
superficialità, unica, disperata divisa dell'uomo moderno.
In questa prospettiva, la spersonalizzazione dell'uomo, conseguenza fatale di un
ordine orientato al collettivo, sotto il dominio delle esigenze economiche,
sembra imporre con forza crescente il livellamento delle singole personalità, la
fatale sottomissione dell'individuo al gruppo, deificazione moderna di teorie
aridamente materialistiche.
«Il vero materialismo da accusare nei moderni è questo: gli altri loro
materialismi, in senso di opinioni filosofiche o scientifiche sono fenomeni
secondari. Oggi, come realtà, in fondo, non si sa nulla più che vada oltre il
mondo dei corpi nello spazio e nel tempo. Certo, vi è chi ammette ancora
qualcosa oltre il sensibile: ma in quanto è sempre al titolo di una ipotesi o
legge scientifica, di una idea speculativa o di un dogma religioso, che egli va
ad ammettere questo qualche cosa; in effetti non si va mai oltre detta
limitazione. Praticamente, cioè come esperienza diretta, qual pur sia il divario
delle sue credenze "materialistiche" e "spiritualistiche" l'uomo moderno normale
si forma la sua immagine della realtà in funzione del solo mondo dei corpi. Per
cui, la gran parte delle rivolte intellettuali contemporanee contro le vedute
"materialistiche" appartengono alle vane reazioni contro effetti ultimi e
periferici di cause remote e profonde stabilitesi in ben altra sede, che non in
quella delle "teorie"». (2)
Questa nostra società moderna è caratterizzata da una razionalità esasperata.
Della ragione, l'uomo, alla ricerca della sua massima conquista, ha fatto un
mito. E con essa ha separato e diviso, sezionato e polverizzato, inciso e
vagliato, perdendo di vista la sintesi.
Ha staccato l'umano dal divino, il sociale dal religioso, il politico e
l'economico dal morale.
È questo il tragico momento della sua «presunta autonomia».
Quale momento esprimerà nella civiltà universale la nostra epoca?
In base a quale elemento catalizzatore questa odierna «civiltà» potrà
contribuire all'ascesa dell'uomo od alla sua dissoluzione, all'avveramento delle
sue speranze od alla sua completa distruzione?
La risposta dipende dalla concezione che si avrà dell'uomo, secondo che si pensi
che nell'uomo ci sia o no qualcosa che respira oltre il tempo e lo spazio, e una
personalità, i cui profondi bisogni oltrepassano tutto l'ordine universale.
L'esperienza dell'uomo tradizionale andava molto oltre un tale ordine.
L'«invisibile» vi figurava come un elemento altrettanto reale e persino più
reale dei dati dei sensi fisici.
Ed ogni moto della vita, sia individuale che collettiva, ne teneva rigorosamente
conto.
Alla nozione di «natura», tradizionalmente, non corrispondeva semplicemente il
mondo dei corpi e delle forme visibili sul quale si è concentrata la scienza dei
moderni, ma altresì, ed essenzialmente, una parte della stessa realtà
invisibile.
È una concezione che ai moderni può sembrare astrusa e fantasmagorica per il
solo fatto che è loro vietato realizzarla, mancando in essi ogni sensibilità
spirituale.
Tale concezione viene simboleggiata da un aforisma di Eraclito: «Un uomo è un
dio mortale e, un dio, un uomo immortale».
Comunque: a ciascuno il suo. La società d'oggi sembrerebbe dover progredire solo
con il progrediente dominio delle forze meccaniche ed impersonali, e, a mano a
mano che si ingrandisce, esplica e perfeziona le strutture che imprigionano
l'iniziativa dei singoli, sostituendola. L'omogeneo, il pianificato, lo
standardizzato diminuiscono lo sforzo e la fatica, accelerano i tempi,
moltiplicano ed accrescono i prodotti e le ansietà: segnano e servono quel tipo
di società in continuo ed agitato travaglio.
Son queste le grandi tentazioni del mondo moderno: esaltare l'uomo nei suoi
bisogni per poi comprimerlo nella sua essenza, indurlo a lavorare febbrilmente
sviandolo dagli scopi del suo lavoro, costituirlo artefice di una fortuna
collettiva e responsabile della propria infelicità individuale.
Se la realtà umana, dunque, è al vertice di tutti i pensieri, quali dimensioni
avrà questa realtà? Di quali vasti o limitati aloni emotivi sarà circondata? A
quali cieli attingere la propria speranza?
Uno dei primi problemi che dobbiamo porci è quello del progresso.
Essenzialmente esso implica un giudizio, al metro di certi valori, sulla
direzione secondo cui avvengono i mutamenti del mondo. Uno dei modi di
valutazione è connesso con la meccanica statistica e secondo esso la tendenza
del mondo appare nell'insieme declinante. Vediamo che questo modo di valutazione
non è necessariamente legato ai nostri schemi consueti dei valori morali.
Occorre dire però che tali schemi sono oggi troppo spesso associati ad una
fiducia nel progresso, che non soltanto è priva di una base filosofica
sufficientemente salda ma non è neppure confrontata dall'evidenza scientifica.
Per quanto ci riguarda, nella nostro visione del mondo non ha alcun posto il
progresso. Noi vogliamo che si accetti la vera legge della vita che è fatta di
nascita e di morte, di ascesa e di caduta.
Lasciamo da parte la sciocca, ostinata, degradante, orgogliosa idea del
Progresso e ritorniamo alla più comprensiva filosofia delle stagioni.
Nascita e morte. Ascesa e caduta.
E' il mito del progresso che da noi deve essere messo in « Forse ».
Un mito meschino e traballante.
Nel corso del progresso l'uomo non ha forse perduto la méta di se stesso? Quel
che ha guadagnato è forse pari a quel che ha perduto?
La religione del progresso, consiste in (ultima) sintesi nel credere che l'uomo
vince sempre, non perde mai, o almeno, che quel che perde non ha alcuna
importanza.
Ciò non solo è meschino: ciò è assurdo.
Questa visione progressista, questo razionalismo invecchiato ed avvizzito a poco
a poco si è discostato da quella duplice ed equilibrata visione che sta alla
base di ogni sano umanesimo: l'uomo è fatto di un corpo e di un'anima.
Egli non può nulla al di fuori di questo dualismo, al di là dell'accordo di
questi due elementi.
Se il corpo è trascurato, l'anima presto avvizzisce; se è trascurata l'anima,
del corpo non resta che un ammasso di spiriti animali votati alla dissoluzione.
«In ultima analisi noi non crediamo né al corpo né all'anima. Intendiamoci bene:
né ad un corpo che sia solo il supporto dell'anima né all'anima che ha bisogno
del corpo per specificare la sua esistenza. Al di là della categoria di anima e
corpo esiste l'essere».
Il nostro Dio è lo stesso di Drieu La Rochelle: «Il nostro Dio non è il Dio
Psicologo, Psicagono e Psicopompo, questo "Deus ex machina" dei romanzieri, ma
l'Unico di Plotino, il Nirvana dei Buddisti, l'Atman dei grandi mistici ariani
dell'India, l'Abisso intraveduto da Meister Eckart, Ruysbròk e gli altri grandi
contemplatori dell'Europa gotica-medioevale».
In ultima analisi, il Dio di Drieu La Rochelle non è altro che l'esplicarsi in
termini attuali della visione nietzschiana dello «Eterno Ritorno» - Zarathustra
che interrompe ancora la sua predicazione e per la terza volta si ritira nella
solitudine. Passa altro tempo ed il saggio è ormai vecchio, ma folgorato dalla
intuizione dell'Eterno Ritorno, lascia la sua caverna e torna tra gli uomini.
L'Eterno Ritorno che non è altro che l'esaltazione pagana e dionisiaca
dell'esistenza nel suo perenne rinnovarsi, nella sua irrazionalità ordinata, nei
suoi ciclici ritorni.
Nascita e morte. Ascesa e caduta!
Non tragga in inganno il fatto che Nietzche assuma dalla più antica filosofia
greca la credenza nell'«Eterno Ritorno all'Identico».
Dalla prigione del tempo e dai vincoli della necessità, Nietzsche si libera,
trasformando «ciò che fu» in «ciò che io volevo, voglio, vorrò».
Accetta la necessità con una scelta che è «amor lati».
Trasforma quell'«Eternità» che per l'intelletto è infinito ripetersi di un ciclo
permanentemente ritornante in coscienza del valore extratemporale, della
risonanza assoluta ed infinita che si da a questo istante, e questo evento, con
questa decisione assoluta grazie alla quale l'Evento si colloca nel Tutto.
In quell'istante che Nietzsche assume a momento della sua concreta «volontà di
potenza» egli sperimenta l'Eternità, come categoria di questo suo concreto moto
di vita.
«Ciò che è una volta, è sempre?, ciò che faccio ora, è il mio stesso essere
eterno; nel tempo si decide ciò che io sono eternamente».
Vivere -per l'uomo- è andare al di là di se stesso, volere qualcosa che è al di
là dell'uomo. Tale concezione la troviamo nell'«Al di là del bene e del male».
Con tali princìpi, con un'etica che ci rimanda inevitabilmente ad una religione,
con l'educazione all'eroismo che è possibile solo in un clima saturo di tensione
metafisica, noi vogliamo dare un motivo alla nostra esistenza. Ad una realtà i
cui profondi bisogni oltrepassano tutto l'ordine dell'universo per impegnare
senz'altro tutta una metafisica.
Colui che si impegna a fondo nella pratica del dovere rifugge dal considerare le
dosature e le alchimie connesse con la rivendicazione dei diritti, per ritenere
questi ultimi naturale ed esclusiva conseguenza del primo. Un metodo di vita
quindi: alla massificazione indifferenziata degli individui contrapporre un
vivace spirito di iniziativa personale; alle molteplici forme di disimpegno
l'amore consapevole per la responsabilità; al pigro desiderio della vita comoda,
l'entusiasmante etica del rischio e della audacia; al timore irrazionale il
coraggio ardente; alla sonnolenta «routine» l'insaziabile desiderio di nuovo
alla convinzione della irrepetibilità delle grandi imprese, la ambizione di
impensate conquiste; all'equivoco della terminologia, la chiarezza della verità;
alla vuota mania delle chiacchiere, la concretezza dei fatti; all'insensata
materia, la validità dell'ideale.
Noi cerchiamo di cogliere, toccandoli quasi con le dita, i caratteri della
nostra epoca.
Essi sono così vergognosi ed oramai così diffusi che l'uomo indebolito non
riuscirà più a sottrarsi al destino annunziato da loro e perirà molto, molto
presto.
«Il regno della macchina e l'egualitarismo sono ragni che tessono la ragnatela
dei loro nomi crudeli tra le mie palpebre. Vedo un orizzonte pieno di sbarre e
di inferriate. Il soffocamento dei desideri con la soddisfazione dei bisogni:
questa è l'organizzazione sociale parsimoniosa, la sordida economia, che nasce
dal benessere con cui ci opprimono le macchine e che distruggerà la nostra
razza. L'uomo è geniale solo se ha vent'anni ed a patto che abbia fame. Ma
l'abbondanza di cibo uccide le passioni. Nella bocca dell'uomo riempita di
conserve, si forma una pericolosa reazione chimica che corrompe le parole. Così
finisce la religione, l'arte, il linguaggio. Ucciso, l'uomo non esprime più
niente».
È questa la biblica profezia di Drieu La Rochelle. Ecco la sua consegna:
«Occorre che noi operiamo una distruzione integrale». Spingere giù per la china,
nel baratro, nel precipizio, questo mondo da noi rinnegato ed aborrito!
Come è nato un mondo simile? La spiegazione è in parte nella stessa vocazione
dell'uomo, di migliorare se stesso e l'ambiente in cui vive, creando cultura e
progresso.
Un giorno, i risultati l'hanno impressionato e tratto in inganno. Nel '700 lo
svolgimento del pensiero, l'evoluzione della scienza e lo sviluppo dell'economia
hanno ispirato all'uomo un nuovo concetto di sé e della vita. E come oggi
qualcuno si smarrisce, per esempio, davanti ad un cervello elettronico,
scambiando quest'accumulatore di nozioni per una mente superiore, dimenticando
che in fondo è figlio della clava con cui l'uomo primitivo si allungò il
braccio, così gli ideologi hanno creduto che il progresso sia il fine proprio
dell'uomo. Giudicare il mondo come un traguardo, presumere che sia il nostro
regno: questo in sostanza il presupposto delle ideologie moderne, queste
illusorie matematiche della realtà, che hanno sovrapposto un diaframma tra il
terreno ed il divino, spegnendo ogni fede nella trascendenza e quindi nel
finalismo della Storia.
Per bocca di un William James questi ideologi hanno dichiarato che l'utile è il
criterio del vero e che il valore di ogni concezione, perfino metafisica, va
misurato dalla sua efficace pratica, la quale poi, nei quadri della mentalità
moderna, occidentale ed orientale che sia, finisce sempre col voler dire
economico-sociale.
In tutto questo le distinzioni ideologiche e politiche tra occidente capitalista
ed americanizzante ed oriente comunista e collettivo, hanno ben poco valore.
Sono le due facce di una medesima medaglia.
Il cosiddetto pragmatismo sta fra i segni più caratteristici di questa
degenerata civiltà moderna e sta fra questi segni anche la teoria dei vari John
Dewey, Carlo Peirce, Fernando Schiller, per i quali le idee non hanno alcun
valore obiettivo nel senso tradizionale, ma sono delle semplici «anticipazioni»
che ci permettono di prevedere e quindi di produrre delle situazioni sempre
nuove.
Non meravigliamoci della mostruosità di tali concezioni.
È d'altronde un indirizzo filosofico che ben s'addice allo «spirito pratico» che
ha invaso il mondo.
Esso afferma che la verità di una idea non dipende da un suo accordo con la
realtà oggettiva, ma dalla sua utilità pratica: scienza, filosofia, religione,
arte, valgono solo in quanto possono divenire sorgente di azione.
Azione da intendersi come vana agitazione!
Dottrina questa che, sotto l'aspetto gnoseologico e scientifico, prende il nome
di Strumentalismo e, sotto l'aspetto etico, quello di Migliorismo. Filosofia che
concepisce le idee come lo «Strumento» di cui l'uomo si serve per ordinare e
chiarificare la realtà allo scopo di farla servire ai propri fini pratici.
Se il pensiero ha un compito strumentale, in quanto tende ad accrescere il
proprio potere sulla natura, la moralità deve consistere nell'operare sempre più
attivamente sulla realtà per «migliorarla», ossia nel perseguire con le proprie
forze, in stretta collaborazione coi propri simili, fini che «arricchiscano e
nobilitino» la vita in tutte le sue forme.
È la religione del cosiddetto «progressismo».
Quanto più l'individuo ha di iniziativa e di inventiva nell'uso della propria
intelligenza per dare incremento alla realtà, tanto più egli realizza la propria
personalità.
Costoro dunque si sono immersi nel «mare magnum» della scienza commerciale e
vogliono dimostrare che l'unico scopo di fabbricare un aratro o un mattone è
quello di poter essere venduto. Per essi l'eroe romantico non è più il cavaliere
solitario, il poeta errante, il cowboy l'aviatore e nemmeno più il giovane
deputato e via di questo passo: ma il grande commerciante che ha «l'analisi dei
problemi mercantili» sul suo scrittoio dalla lastra di vetro, il cui titolo di
nobiltà è l'arrivismo, e che ha dedicato se stesso e tutti i suoi giovani
Samurai alla cosmica necessità del vendere un determinato articolo a determinate
persone, bensì al «vendere come concetto puro».
Lo stesso problema esistenziale e letterario di un «intellettuale» si esaurisce
coscientemente nel redigere una serie di annunzi pubblicitari per l'una o
l'altra azienda e la sua maggiore preoccupazione è di fare di ognuno di essi
un'autentica opera d'arte... una collana di perle letterarie.
La poesia dell'Industrialismo: un proliferare quasi automaticamente ed un
istituzionalizzare l'intenzione celebrativa del «Prodotto» nell'advertising,
nella pubblicità, cercando una formula magica per esorcizzarlo.
Ecco il dominio letterario cui i vari Ginsberg, Lewis, Miller, Walt Waitman e
soci si sforzano di aprire nuovi e più redditizi orizzonti.
Sapete qual'è il vero «genio americano»?
È l'individuo che né noi né voi conosciamo, ma la cui opera verrà tramandata
alle generazioni future yankees perchè possano giudicare del «pensiero» e della
«originalità» dello americano attuale.
È l'anonimo che scrive le «réclames» come un'elegante esercitazione di stile
pseudo-letterario e nulla più.
È la cosiddetta «cultura» posta al servizio di una Istituzione Commerciale,
nella cui torre l'uomo moderno medio vede il vertice di un tempio, in cui gli
affari -the businnes- sono adorati con fede appassionata e superstiziosa.
Fra l'America ufficialmente religiosa e quel bolscevismo che ha abolito ogni
forma di religione, proclamando ufficialmente l'ateismo, non esiste -oltre le
apparenze- una sostanziale differenza, perché l'unica vera religione
dell'America capitalistica è la religione del denaro.
Se questo ne fosse il luogo, sarebbe facile andare oltre nella constatazione di
analoghi punti di corrispondenza, i quali permettono di vedere, alla luce delle
considerazioni fin qui esposte, in Russia ed in America due facce di una stessa
cosa, due movimento che partono dai due più grandi centri di potenza del mondo.
«L'una - realtà in via di formarsi, sotto il pugno di ferro di una dittatura,
attraverso il metodo di statizzazione e di una razionalizzazione esasperata.
L'altra - realizzazione spontanea (e quindi ancora più preoccupante) di una
generazione che accetta di essere e vuole essere ciò che è, che si sente sana,
libera e forte e giunge da sé agli stessi punti, senza l'ombra quasi
personificata dell'«Uomo Collettivo», che pur l'ha nella sua rete, senza la
dedizione fanatico-realistica dello Slavo bolscevizzato. Ma dietro l'una come
all'altra «civiltà», dietro all'una come all'altra grandezza, chi vede riconosce
egualmente il preludio dell'avvento della «Bestia senza nome».
(3)
Il crollo finale non potrà non avere i caratteri di una apocalittica tragedia.
In verità tutta questa civiltà di titani, di masse poliartiche ed informi, di
macchine incatenanti, questa civiltà ha una importanza cosmogonica.
L'ottimismo rivoluzionario del periodo illuminista, secondo il quale nel mondo
della natura tutto andava nel migliore dei modi, è finito. Siamo alle soglie di
un nuovo giorno della creazione o di una nuova notte. Diremo meglio di una nuova
notte, poiché la luce solare può spegnersi.
«Al compiersi di un tale destino tutta questa civiltà di metropoli d'acciaio e
di cemento, di giungle di asfalto, di dominatori di cieli e di oceani, apparirà
come un mondo eh oscilla nella sua orbita e volge a disciogliersene per
allontanarsi e perdersi definitivamente negli spazi, dove non c'è più nessuna
luce, fuor da quella sinistra accesa dell'accelerazione della sua stessa
caduta». (4)
Abbiamo parlato di civiltà delle macchine e della automazione. Abbiamo parlato
di macchine, ma non soltanto di macchine che possiedono cervelli di ottone o
muscoli di ferro. Allorché le persone umane sono organizzate nel sistema che li
impiega non secondo le loro piene facoltà di esseri umani responsabili, ma come
altrettanti ingranaggi, leve e connessioni, non ha molta importanza il fatto che
la loro materia prima sia costituita da carne e da sangue.
Più direttamente collegato con la problematica della moderna filosofia della
scienza appare l'imponente mole dell'opera di Norbert Wiener, considerato il
padre spirituale della moderna scienza e «arte» cibernetica.
Wiener ebbe a scrivere nel suo testamento spirituale raccolto nel libro "The
human use of human beings", nel quale tentò un primo tragico bilancio delle
implicazioni etiche e sociologiche della cibernetica e dell'automazione in
genere:
«... il futuro offre ben poca speranza per quelli che aspettano che i nostri
nuovi schiavi meccanici ci offrano un mondo in cui potremo riposarci senza
pensare ...».
Prudentemente Wiener evita di sviluppare nei dettagli questa profezia: è
tuttavia sintomatico che un uomo di interessi così vasti e coerenti si chieda le
conseguenze di ciò che fa e voglia controllarle, soprattutto se pensa che
dall'uso «buono» o «cattivo» dei suoi risultati e di quelli della scienza
contemporanea può dipendere la sorte dell'uomo come specie.
Noi ci limitiamo a dire che la crisi che l'uomo attraversa è ben più complessa:
in verità essa è legata allo squilibrio tra la sua organizzazione psico-fisica e
la tecnica contemporanea. L'anima ed il corpo dell'uomo si sono andati formando
quando ancora la vita umana era in armonia con l'ordine cosmico, col ritmo della
natura e l'uomo era legato alla «madre terra».
Il dominio della tecnica significa la fine di questa epoca. L'ambiente organico
naturale dell'uomo (terra-piante-animali) può essere ucciso dalla tecnica: che
accadrà allora?
Oggi l'ordine cosmico al quale credevano e materialisti e positivisti vacilla.
L'uomo si trova di fronte alle forze cosmiche in una posizione nuova. Il cosmo
nel senso antico, greco della parola, il cosmo di Aristotele, non è più. La
scienza è penetrata nella struttura interna della materia e della natura, nella
profondità dell'essere.
Si può dire che la materia e la natura incatenavano l'energia e da ciò risultava
una stabilità nell'ordine cosmico.
Quest'ordine si è decomposto. Quando l'uomo antico salutò il progresso
scientifico come una delle maggiori mete dell'umanità, fu quasi un veggente nel
prevedere le conquiste che la scienza moderna avrebbe ottenuto per merito del
metodo induttivo. Poi si verificò una scissione tra le ricerche per il
miglioramento spirituale e quelle per il benessere materiale in quanto l'evo
antico e il medio evo avevano piuttosto badato all'«homo sapiens», mentre il
Rinascimento guardava più all'«Homo Oeconomicus», nella sua necessità di vita
pratica. Ora si è giunti al punto da accantonare, senza possibilità reversibili,
ogni forma di interesse spirituale e speculativo, per adagiarsi al puro
interesse voluttuario.
La letteratura moderna occidentale ha largamente sfruttato il tema
dell'asservimento meccanico, accennando alla ribellione possibile-probabile che
i «robots» inizierebbero per il loro affrancamento dagli uomini. Il linguaggio è
metaforico ma ha un profondo contenuto morale; e se non saranno essi a
strapparci il regno potremmo essere noi ad abbandonarci in loro balia. Tutto sta
in questo. Sia che noi affidiamo le nostre decisioni a macchine di metallo o a
quelle macchine viventi che sono gli uffici, i grandi laboratori, gli eserciti e
le società industriali, ì parlamenti, i ministeri, non avremo mai la risposta
giusta alle nostre domande a meno di non porre le domande giuste. Il tempo
stringe e l'ora della scelta tra il bene ed il male è oramai imminente.
Possiamo salvare l'uomo? E come?
Già questo fatto rappresenta per l'uomo-vero, una occasione unica sul piano
della storia, poiché se riusciamo a credere che l'uomo cammina, vive ed opera in
una realtà che non è fine a se stessa, per giungere ad una altra realtà, non
contrapposta ma conseguente, non distaccata ma trascendente, potremo renderci
conto che la nostra fede rappresenta il moderno «habitat» per ideali più elevati
di quelli economici e produttivistici.
Ideale non vuol dire cosa impossibile. L'ideale vero che discende dalla Idea
vera, è sempre realizzabile, altrimenti non sarebbe un ideale ma una fantasia.
L'altezza delle montagne non significa la loro irraggiungibilità, diventa anzi
uno sprone per forzare muscoli e cuore a raggiungere quelle vette.
L'idealismo nostro odierno è la capacità di conoscere ciò che sarà valido domani
e prepararsi di conseguenza. L'idea è ancora ed è sempre. È l'uomo nella sua
vocazione terrestre e trascendentale, con la sua sete di felicità e le sue
inquietudini, con i suoi slanci ed i suoi limiti, nello sforzo intrepido di
realizzare ed interpretare la sua volontà creatrice.
Occorre innanzitutto affermare a viso aperto la nostra rottura con questa
società e con il disordine conseguente e stabilito.
Il primo passo sta nel prendere coscienza di questo disordine.
Ma una presa di coscienza che non conduca ad una presa di posizione, ad un
cambiamento di vita e non solamente di pensiero, sarebbe un nuovo tradimento
dello spiritualismo sulla scia di tutti i tradimenti del passato.
La preoccupazione costante di noi tutti nel nostro tempo deve tendere ad evitare
che i risultati del progresso possano intorpidire le forze della volontà,
tarpare le ali degli entusiasmi, offuscare gli orizzonti delle intelligenze.
Riassumendo gli elementi motori della «vera» civiltà, Wolfango Goethe invitava
gli uomini allo «Streben», all'anelare senza tregua ad una superiore esistenza.
Ma questa superiore esistenza che noi proponiamo, non può essere fatta di dubbi
o di rivolte scurrili, di critiche aride e di scetticismi distruttivi: essa è
piuttosto rappresentata da un impegno che trae la propria origine e spinta
interiore dall'amore per il VERO, il SACRO, l'IMMUTABILE, che dominano ogni
incertezza e travolgono ogni esitazione.
La vera gloria ed il vero onore della vita è di far parte di una azione di cui
noi stessi siamo in grado di riconoscere la grandezza.
Nella natura la forza è inconsapevole, nella storia invece è ideale: tra gli
animali il più forte è quello che può resistere al maggior numero di avversari,
tra gli uomini il più forte è colui che rappresenta l'idea più grande.
Avanti dunque animati dalla forza primordiale dello istinto, dallo spirito
irrazionale dell'emulazione, da un desiderio implicito di affermazione
individuale e quindi di «disuguaglianza», al di là ed al di sopra della morale
corrente e delle sue leggi, tutti protesi a realizzare quella idea di potenza
spirituale e trascendentale oltre che terrena, che possa riscattare in chiave
eroica e vitalistica il conformismo piatto, sordo e grigio dell'esperienza
comune.
(1) Julius Evola: "Rivolta contro il mondo
moderno".
(2) Julius Evola: op. cit.
(3) Julius Evola: op. cit.
(4) Julius Evola: op. cit.
L'infatuazione atlantista
Se da un lato la Cina punta alla
industrializzazione ed alla realizzazione di una solida economia, dall'altra
cerca di evitare il pericolo di futuri scivolamenti verso modelli tipo Società
del Benessere, poggianti su concezioni della vita tipicamente borghesi.
Ne "Il Borghese" del 18 luglio scorso si poteva leggere un articolo di Julius
Evola intitolato «L'infatuazione maoista».
Polemicamente dedicato a «certi ambienti» che pur essendo di estrazione
«fascista» manifestano aperte simpatie per la Cina di Mao, lo scritto consiste
in una lunga requisitoria mirante a «contestare» la ragionevolezza di simili
convivenze, considerate frutto di un «mito» maoista che non corrisponde
minimamente alla realtà delle cose.
La natura del settimanale su cui l'articolo è comparso, e lo stesso carattere
preconcetto di quest'ultimo, dovrebbero indurci ad ignorarli entrambi, tuttavia
crediamo che possa essere interessante ribattere alle tesi propugnate
dall'autore dello scritto citato, se non altro per chiarire una volta per tutte
i motivi che ci spingono a guardare al Maoismo come al più valido dei fenomeni
politico-ideologici del nostro tempo.
Per prima cosa, Evola ha tentato una «smitizzazione» dell'ormai famoso «libretto
rosso», e lo ha fatto dicendo d'averlo letto, senza peraltro averci trovato
niente di tanto straordinario da giustificarne la fortuna.
Giustissimo. In effetti, le cose non potevano andare diversamente, perché il
libretto in questione non è né pretende di essere una pietra miliare della
letteratura politica. È solo una minuscola raccolta di frasi di Mao, vertenti
sugli argomenti più diversi. Che in sé stesso sia una ben piccola cosa lo
capiscono tutti, e quindi non c'era proprio niente da «smitizzare».
Altro è il suo valore simbolico: in quelle poche pagine strette in una fiammante
copertina rossa, sono racchiusi tutti gli ideali e le aspirazioni di un popolo;
è l'espressione materiale di una fede; è diventato un vessillo, una bandiera, e
le masse acclamanti ed entusiaste lo sventolano come appunto si fa con una
bandiera. I russi del tempo di Stalin agitavano le bandiere rosse con la falce
ed il martello; i fascisti innalzavano al sole i loro gagliardetti neri; è con
lo stesso spirito, con la stessa fede in un ideale, che il cinese d'oggi stringe
in una mano, agitandolo, il suo libretto color di fuoco. Che dentro ci siano
scritte cose più o meno «straordinarie» non ha nessunissima importanza.
* * *
Miopia politica significa invece voler ridurre il dissidio fra Mosca e Pekino ad
una semplice «lite di famiglia», dovuta più che altro a certi territori della
Unione Sovietica sui quali la Cina avanza delle rivendicazioni.
Il dissidio non solo non consiste in una misera questione irredentistica, come
vorrebbe far credere l'occidentalismo di destra, sempre in vena di ammannire
scempiaggini tipo «il comunismo ha un volto solo», ma non si riduce nemmeno a
quello scontro fra rivoluzionari intransigenti (i cinesi) ed ex-rivoluzionari
imborghesiti (i russi) tante volte indicato dai commentatori politici come la
chiave per comprendere la natura del conflitto.
Una simile impostazione potrà essere applicata -e nemmeno si può esserne troppo
certi- alla prima fase del dissidio stesso, quella che va dal XX Congresso del
PCUS fino allo scoppio della Rivoluzione Culturale, ma risulta del tutto
insufficiente quando lo si voglia applicare indiscriminatamente, prescindendo
cioè dai profondi mutamenti apportati in Cina dalla Rivoluzione delle Guardie
Rosse.
Agli inizi, infatti, il dissidio rappresentava la reazione della Cina alla
svolta revisionista imboccata in URSS per opera di Kruscev, ed entro questi
limiti si mantenne fino alla vigilia della nuova esplosione rivoluzionaria
cinese.
Con lo scoppio e lo svolgersi della Rivoluzione Culturale si hanno in Cina
profondi mutamenti non solo a livello politico ma anche a livello ideologico:
taluni aspetti latenti della dottrina maoista vengono esaltati, anche se in
verità esulano dalla tradizione marxista-leninista, mentre d'altra parte si
procede al siluramento di tutti coloro che potrebbero costituire un intralcio
alla nuova ventata rivoluzionaria, primi fra tutti i grossi personaggi che
dissentono dalla politica antisovietica di Mao.
Il dissidio con Mosca si aggrava, trasformandosi in un vero e proprio scontro
fra due mondi che ormai percorrono strade opposte. Di fronte ad una Unione
Sovietica che prosegue allegramente sulla strada del revisionismo ideologico e
marcia a larghi passi verso mete nettamente borghesi, c'è una Cina che non solo
ha proseguito sulla linea rivoluzionaria, ma si è spinta fino a superare gli
stessi limiti del marxismo-leninismo per approdare ad una concezione politica
che -pur conservando i caratteri salienti dell'ideologia comunista- presenta
d'altra parte non pochi aspetti del tutto originali, estranei comunque alla
ortodossia marxista-leninista: è ciò che nel linguaggio comune chiamiamo
Maoismo.
* * *
Non a caso si parla di Maoismo. Il Maoismo non è un momento del comunismo
destinato a scomparire con Mao, come potrà essere stato lo Stalinismo. È un
fatto nuovo, destinato a sopravvivere al capo.
Gli stessi Marx e Lenin sono stati in certo senso «ridimensionati»: se è vero
che Mao ha affermato essere il marxismo-leninismo il «fondamento teorico» su cui
si basa la sua dottrina, è anche vero che tempo fa Lin Piao in persona esortò i
cinesi a seguire innanzitutto il pensiero di Mao perché il resto -compresi Marx
e Lenin- è del tutto secondario.
Circa l'eventualità che col tempo, in seguito al raggiungimento di migliori
condizioni economico-sociali, la Cina finisca con l'accettare -sulla scia
dell'Unione Sovietica- un modello di vita borghese, dissentiamo dal giudizio di
Evola, in quanto tale possibilità ci sembra oltremodo remota.
Sta proprio in questo -a nostro avviso- l'aspetto più valido del Maoismo: aver
considerata questa eventualità e, -per scongiurarla- aver affrontato il problema
della rivoluzione non solo a livello di strutture, ma anche in sede di «tipo
umano».
Se da un lato la Cina punta alla industrializzazione ed alla realizzazione di
una solida economia, dall'altra cerca di evitare il pericolo di futuri
scivolamenti verso modelli (tipo Società del Benessere) poggianti su concezioni
della vita tipicamente borghesi.
Superata la prima fase della rivoluzione, quella diretta contro la proprietà
privata dei mezzi di produzione, si è passati ad eliminare tutti i sedimenti
ideologici del vecchio mondo, praticando a molte centinaia di milioni d'uomini
una vaccinazione radicale contro tutti i falsi miti del mondo borghese
occidentale. È ciò che intende dire Mao Tze-tung quando parla di «condurre una
lunga lotta contro l'ideologia borghese e piccolo-borghese».
È nel quadro di questo anelito a superare i limiti della rivoluzione sociale per
porre le basi di una nuova Civiltà, che vanno inquadrati quegli aspetti del
Maoismo chiaramente estranei alla tradizione marxista-leninista.
Senza dichiararlo esplicitamente, Mao rifiuta quel principio-cardine del
marxismo che è il materialismo storico, il quale pone l'economia alla base di
tutta la storia, ed abbraccia il principio volontaristico, secondo il quale è
l'uomo e non altri a fare la storia.
Proclama il valore dell'«eroismo rivoluzionario», invita il popolo ad inchinarsi
di fronte ai martiri ed ai caduti della sua rivoluzione. Insegna che «il potere
politico nasce dalla canna del fucile» e ricorda al suo popolo che «solo con il
fucile si può trasformare il mondo intero». Infonde coraggio ridimensionando
l'altrui potenza militare, dicendo che «in guerra le armi sono un fattore
importante, ma non decisivo», perché soltanto «gli uomini sono il fattore
decisivo, non le cose».
Fa così sua quella «concezione attiva della guerra» intesa come «mezzo per
affermare e far trionfare la propria verità», per cui essa non è più un termine
dialettico ma diviene un valore assoluto, e «l'uomo impone la sua concezione
attraverso la lotta» mentre «la verità si afferma con la vittoria».
* * *
È chiaro come il sole che Mao debba essere -come egli stesso dice- solo per le
«guerre giuste», che dal suo punto di vista sono poi quelle che servono per
portare avanti la sua fede politica. Forse Evola pretenderebbe che Mao si
mettesse a fare una indiscriminata apologia della guerra, fino ad accendere un
cero a Confucio perché si curi di proteggere i «marines» americani impiegati nel
conflitto vietnamita?
L'invito di Evola ad impegnarci solo nelle nostre «guerre giuste», come fa Mao,
è per noi un invito a nozze.
Temiamo però che sia piuttosto difficile metterci d'accordo e stabilire una
volta per tutte quale realmente sia la nostra «guerra giusta»; non certo quella
di cui parla lui, cioè la solita guerra «contro la sovversione mondiale», perché
questa sarà magari una guerra buona per neutralizzare le «guerre giuste» degli
altri, ma non la nostra. È solo una negazione, e la nostra guerra non può non
essere che una affermazione.
La faccenda, dunque, non può interessarci, anche perché la formula non ci è
nuova: sa di maccartismo, di Comitati Civici, di «fedeltà atlantica» e di
«fronte antimarxista». È un sapore che non si confà ai nostri gusti perché
somiglia troppo a quello dei vecchi arnesi della destra, tipo Mario Tedeschi.
* * *
Oltretutto, e questo è forse il punto più importante, partiti dall'intenzione di
combattere donchisciottescamente contro la fantomatica «sovversione» di cui
sopra, finiremmo certamente col cascar nelle braccia di questo putrido mondo
borghese, fino a diventarne -per una delle tante ironie della Storia- gli
involontari difensori. Ammesso e non concesso che le «infatuazioni maoiste»
possano rappresentare la padella, il nostro sarebbe un cadere dalla padella
nella brace.
E per capire cosa ci autorizzi a parlar di «brace» non ci vuole davvero molto:
basta chiedersi con onestà cosa sia in realtà questa nostra «civiltà» figlia di
una borghesia bottegaia e di un capitalismo più vampiresco d'una sanguisuga.
Basta guardarsi intorno per trovare una risposta: è la «civiltà» che si merita
un mondo, come il nostro, di cinici sentimentali, di benefattori usurai, di
nichilisti bigotti, di protestatari integrati, di moralisti immorali, di larve
d'uomini felici di chiudersi nel bozzolo del proprio sordido egoismo, incapaci
non solo d'una passione comunitaria, ma anche di concepire semplicemente un
qualsiasi sacrificio -anche piccolo, anche insignificante- che non arrechi dei
vantaggi personali e solo personali. È un mondo in cui i princìpi morali più o
meno fasulli rappresentano la facciata, ma nessuno si sogna di applicarli
quotidianamente; un mondo nel quale lo sfruttamento dell'uomo lo chiamano
«Giustizia Sociale» ed un vago senso di superstizione ne costituisce la
Religione.
È un mondo basato sull'ipocrisia e sul filisteismo cui manca anche la forza di
vergognarsi del baratro in cui è caduto, anzi se ne fa un vanto, giungendo
persino a deridere -con una punta d'ironia- coloro che nel baratro non vogliono
scendere.
Un mondo senza nemmeno l'ombra di una tensione ideale, perché la sola tensione
conosciuta è quella procurata dal pensiero di pagare la rata del frigorifero o
della lavatrice o del televisore o dell'automobile.
Come si vede, ce n'è abbastanza per desiderare una invasione «barbarica» che ci
tiri fuori da questo pantano come i «barbari» antichi tolsero dalla mollezza e
dal lassismo della decadenza i romani del Basso Impero.
Ecco perché -tra l'altro- pensiamo alla Cina con una «punta di speranza», mai
col raccapriccio dei nostri borghesi, perché vi pensiamo come ad una possibilità
di ridare un poco di energia vitale a questo nostro mondo ormai ridotto a
conoscere un solo tipo di energia: quella fornita, a «sferzate» dalla famosa
bevanda a base di uova sbattute, zucchero e marsala.
* * *
Ma gli aspetti «ideologici» della nostra «simpatia» non sono gli unici; vi sono,
non meno importanti, quelli politici.
Sottoscriviamo completamente -ad esempio- la politica di rottura svolta dalla
Cina nell'ambito delle relazioni internazionali, perché crediamo che oggi Mao
sia il solo ad opporsi fino in fondo all'infame progetto imperialista
russo-americano per la spartizione del mondo in due rispettive zone d'influenza,
e quindi alla politica dei blocchi -contrapposti o meno, la cosa non cambia-
nonché ai tiri mancini per castrare i popoli della loro libertà tipo trattato
anti-H.
Non sappiamo se una simile impostazione possa piacere a Evola, visto che è
finito in quella sezione distaccata dell'Ambasciata americana o della
Confindustria italiana che è il settimanale di Mario Tedeschi. Tuttavia gli
auguriamo sinceramente di rompere quanto prima certi legami e di superare
l'equivoco secondo il quale la nostra «guerra giusta» consiste nel contrastare
una non meglio definita «sovversione mondiale», onde evitare che qualche maligno
possa affermare che il Nostro -pur tanto refrattario alle «infatuazioni
maoiste»- sia incappato in una ben più squallida «infatuazione atlantista».
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