Italia - Repubblica - Socializzazione

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«Nessuno si meravigli del caos delle idee,
 nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia.
 Questo caos è lo stato d'emergenza delle idee nuove»
 (Carta della Sorbona)

 Anno 1 - N. 1 (in attesa di autorizzazione)
Roma, ottobre 1968

SOMMARIO

* DOCUMENTAZIONE
La carta della Sorbona

* ATTUALITÀ POLITICA
In margine ai fatti di Praga
Cecoslovacchia, la via armata alla distensione

*
POLITICA ESTERA
Da Camilo Torres a Paolo VI
La situazione pre-elettorale negli USA

* PROBLEMI DEL NOSTRO TEMPO
Uomo-massa: la morte dell'uomo
L'infatuazione atlantista
 

 

DOCUMENTAZIONE

La carta della Sorbona

La "Carta della Sorbona", che qui pubblichiamo, spiega da sola, senza bisogno di commenti, perché la lotta degli studenti rivoluzionari francesi sia ad un livello avanzatissimo. Non a caso infatti, sono riusciti a sollevare le masse contro i mandarini della società borghese; non a caso sono riusciti a mobilitare decine e decine di migliaia di studenti, non a caso hanno scavalcato i partiti e i sindacati tradizionali che, nella scena della sollevazione popolare, si sono ridotti al ruolo di comparse.
Affinché possa iniziare anche da noi quel processo di rivolta totale, oltre gli estremismi verbali e certi atteggiamenti esteriori, teniamo a diffondere questo documento perché con la forza delle idee in esso contenute possa essere di stimolo per tutti gli studenti all'analisi delle posizioni passate e alla ricerca di se stessi oltre i blocchi psicologici, derivati da oltre venti anni di sistema borghese.

1. Noi viviamo in un periodo pre-rivoluzionario. Vediamo nascere una nuova ideologia: sta a noi perfezionarla.
2. Ogni critica alla società è insieme un atto di lotta politica. La politica critica non è né coraggio né debolezza, è semplicemente dovere.
3. Lasciamoci trasportare dall'entusiasmo per afferrare di nuovo il senso dell'umano.
4. Recuperiamo tutto ciò che vi è di buono nel mondo attuale e che era stato sfigurato.
5. I professori trovino di nuovo nell'insegnamento le soddisfazioni che oggi vanno a cercare invano nei congressi e altrove.
6. Tutti coloro che hanno paura dell'«avventura» sappiano che hanno paura soltanto dell'evoluzione del mondo.
7. La prevalenza intellettuale politica e sociale dei giovani sul resto della società è un dato di fatto.
8. Chiunque non è in grado di comprendere venga a discutere con noi. Tutto si può spiegare a tutti.
9. I nostri meccanismi psichici sclerotizzati e arcaici devono cedere il posto alla fantasia.
10. Viviamo in una stagione critica. Chi non lo sa non può comprendere nulla di questo mondo.
11. Tutte le nozioni esistenti sono consumate e vanno ripensate.
12. Il cambiamento non è qualcosa di fine a se stesso. Tra l'inerzia e l'agitazione c'è un margine sufficiente per chiunque voglia sforzarsi a pensare.
13. Solo la vera autonomia permette la creatività.
14. Il concetto di conflitto tra le generazioni deve scomparire dal mondo: è soltanto una maschera dietro la quale si nasconde la lotta per il potere.
15. Se i padri faranno il loro mestiere di padri la nostra rivolta sarà davvero evoluzione.
16. Ogni creazione è frutto di un'emozione vissuta.
17. La differenza tra l'uomo comune e il genio non risiede nel livello intellettuale ma nella volontà di progresso.
18. Ogni nuova creazione si basa su degli elementi antisclerotizzanti.
19. Gli uomini che governano le attuali istituzioni (quella del potere e quella dell'opposizione) devono continuare a sbrigare gli affari correnti, devono produrre il pane quotidiano. Domani queste cose le faremo noi al loro posto e offriremo loro in più il dono della cultura.
20. Tutti coloro che non sono addetti a sbrigare gli affari correnti devono decidersi a scendere nelle strade e rimettere in questione i loro schemi mentali.
21. Mangiare e riposarsi ogni giorno.
22. Bisogna discutere dappertutto e con tutti.
23. Essere indispensabili e pensare politicamente è un diritto di tutti, non il privilegio di una minoranza di iniziati.
24. Nessuno si meravigli del caos delle idee, nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia. Questo caos è lo stato d'emergenza delle idee nuove.
25. Nessuno cerchi di attaccare un'etichetta al Movimento studentesco, non ci sono etichette, non ce n'è alcun bisogno. Il Movimento si crea da se stesso con tutti coloro che vi aderiscono e lascia che ciascuno porti con sé il proprio bagaglio di idee.
26 Chi si rifiuta di comprendere vada in pensione. È tempo di amare e di imparare ad amare.
27. Deve rinascere in noi il piacere delle feste.
28. La bandiera rossa può morire, la bandiera nera anche, i pittori si sforzino d'inventare per noi mille bandiere che esprimano la ricerca, lo sforzo, la rivoluzione interiore, l'entusiasmo, l'invenzione.
29. Musicisti e poeti facciano nuove canzoni.
30. Inventiamo per questa estate un nuovo tipo di vacanze che ci consentano di non interrompere il movimento.
31. Procuriamoci ogni giorno una tribuna nella stampa e negli altri mezzi di diffusione delle idee.
32. Solo dopo l'esplosione dei nostri attuali metodi di pensiero potremo ripensare da capo il mondo.
33. Lo sciopero è proclamato. L'università critica e l'impresa critica son già aperte. I comitati di sciopero devono chiamarsi «comitati fondatori dell'impresa o dell'università autonome».
34. Chi non ha imparato a marciare con gli altri non potrà conquistare l'autonomia.
35. Chi conosce la strada verso l'autonomia l'insegni agli altri.
36. Perché l'uomo possa diventare davvero uomo.
(a cura della Commissione "Nous sommes en marche")

Il Movimento Studentesco-Operaio "Avanguardia Europea" vede in questo documento una base di unione e di discussione, al di là delle etichette e degli schematismi. Pur non essendo questi punti una precisa linea programmatica per la contestazione del sistema, dobbiamo rilevare che rappresentano una posizione spontanea e quindi validissima, nel senso che da essi si possono desumere le istanze rivoluzionarie del "Movimento studentesco" più avanzato d'Europa.

 

ATTUALITÀ POLITICA

In margine ai fatti di Praga

«... noi dobbiamo essere l'avanguardia unita di studenti e lavoratori in lotta. Dobbiamo innanzitutto far capire alle masse, nonostante la propaganda massiccia, che la libertà oggi non esiste, che la libertà va conquistata»

Gli affari cecoslovacchi hanno risvegliato, con notevole anticipo, la vita politica italiana dalla consueta catalessi estiva.
L'incalzare degli eventi di Praga richiamava, dalle località più disparate, alle usuali occupazioni gli uomini della politica nazionale. Molti i partiti, diverse le posizioni, unico l'obiettivo: strumentalizzare i fatti cecoslovacchi. Così, anche per questa occasione, abbiamo dovuto assistere a grida di orrore e di scandalo, alla riaffermazione solenne degli «immortali princìpi» e alla «coraggiosa» protesta di quel collegio di innocenti verginelle che regge la politica italiana.
È stato uno spettacolo lungo. I politici hanno dato fondo alle loro qualità di artisti consumati; ma, nonostante l'atmosfera di drammaticità, l'intima preoccupazione era quella di raggiungere le finalità particolari che l'inatteso evento proponeva.

I partiti
Gli schieramenti conservatori, dal PSU alla estrema destra, riscoprivano la brutalità sovietica e dietro le facce buone da «coesistenza pacifica» dei dirigenti sovietici intravedevano i volti spettrali degli aguzzini del più bieco «nazismo».
Deploravano energicamente, condannavano, denunciavano le mire espansionistiche bolsceviche, intravedevano le armate rosse ai confini; tutta questa gazzarra era condita con una buona dose di ben simulata inquietudine e di perplessità; cosa stavano facendo gli americani? Non reagivano? Non ammonivano i sovietici a «stare attenti»? Forse non erano bene informati degli eventi cecoslovacchi? Forse si stavano silenziosamente preparando ad agire? La NATO sarebbe intervenuta?
Con tutta calma Dean Rusk, interpellato in merito alle «voci» su reazioni americane rispondeva: «Non abbiamo nessuna intenzione di intervenire». «La distensione continuerà» annunziava unanime la stampa USA. Oskar Negt, teorico marxista tedesco, stigmatizzava acutamente la situazione: «Gli USA hanno minacciato tanto poco, in questo caso, di prendere misure militari, quanto i sovietici, dal canto loro, hanno fatto nei confronti del Vietnam e della Repubblica Dominicana».

Il neo anticomunismo
Mao centrava in pieno il nocciolo della questione denunciando la complicità degli imperialismi russo ed americano e l'intesa tra questi sulla politica colonialista e quindi sull'invasione della terra dei «revisionisti ceco-slovacchi». È da notare, al riguardo, che la stampa italiana si è passata la voce nel non dar rilievo alle prese di posizione di Pechino e di Tirana che frequenti si potevano rilevare invece sulla stampa francese.
Torniamo ora agli ambienti «nazionali». Una nuova dottrina nasceva ad opera degli ultras anticomunisti, una dottrina complessa e retta dalle più solide basi cartesiane. Ne diamo i passaggi fondamentali: russi = marxismo, invasione russa 1968 = invasione nazista 1938, marxismo = nazismo.
Non vogliamo entrare in merito, per economia di spazio, alla seconda identità, per centrare la prima che a nostro avviso nasconde il maggior numero di magagne; non si può identificare una ideologia, bella o brutta che sia, con dei fatti di rilievo politico che non siano postulati dell'ideologia stessa. Non si può identificare una ideologia con un regime storicamente determinato. Non si può confondere la politica di potenza intrapresa da lungo tempo dall'URSS in spregio alla dottrina marxista, con il marxismo stesso. Né si può credere alla buona fede di quegli ambienti che strepitano oggi per la Cecoslovacchia, mentre tacevano ieri, quando non esultavano, ad ogni escalation dei bombardamenti americani nel Viet-Nam. D'altronde, di cosa si preoccupano i sostenitori del «pericolo rosso»? Non sanno che i fatti di Praga non sono altro che un «regolamento di conti» nella sfera d'influenza sovietica? Le leggi dell'equilibrio fra i due blocchi hanno determinato l'invasione sovietica: le stesse leggi impediscono oggi all'Unione Sovietica di superare i limiti della propria zona di dominio. L'Italia fa parte di altra e non migliore zona di dominio. Mai, comunque, come in questi ultimi tempi abbiamo provato tanta oppressione per questa genia di politicanti dalla morale a senso unico.

La nuova sinistra
Se motivi interni ed elettoralistici hanno caratterizzato questa posizione, non meno furbesca è stata quella della sinistra, partito comunista in testa. Memori della crisi interna del '56 per i fatti d'Ungheria e, ancor più, consci del «nuovo corso» del PCI, da lungo tempo iniziato, i comunisti hanno preso una posizione di «dignitoso» ed «obiettivo» dissenso dall'invasione cecoslovacca. La posizione della direzione comunista accolta con molto stupore da quasi tutti gli ambienti politici non ha stupito noi; da tempo infatti avevamo indicato le linee della politica comunista tendenti ad una clamorosa involuzione socialdemocratica. I fatti cecoslovacchi sono serviti ai dirigenti comunisti da alibi per giustificare il loro revisionismo ad una base sempre più sconcertata e, soprattutto, a distruggere quel grosso ostacolo alla via socialdemocratica, rappresentato dal «mito Mosca». Il comunismo sovietico avrebbe potuto mettere in serio imbarazzo, di fronte alle masse comuniste, i teorici del «nuovo corso»; magari con una pesante scomunica.
Forse non era l'accusa di dipendenza politica da Mosca mossa al PCI dalla sinistra moderata il principale elemento di divisione? Il revisionismo dei comunisti di casa nostra non suona dissimilmente da quelli di marca cecoslovacca e jugoslava.
Intervistato da "l'Astrolabio", qualche giorno fa, così Longo si esprimeva. «... I paesi socialisti (...) per il peso stesso che ha assunto il momento nazionale di ogni paese nel processo di costruzione socialista, non possono eludere l'esigenza di affrontare, nei modi adeguati alle differenti condizioni ed in piena autonomia, i problemi di una appropriata e profonda democratizzazione dei rispettivi ordinamenti economici, politici, sociali e culturali». In termini concreti Mosca ha dato a Longo l'opportunità, da tempo attesa, di poter dire: «Qui a casa mia faccio quello che mi pare e se voglio intrallazzare con il mondo capitalista-borghese sono padrone di farlo».
Inutile dire che gli applausi di parte capitalista-borghese non sono mancati. Tranne qualche riserva della destra; questa però non poteva fare diversamente perché l'anticomunismo, inteso come difesa strenua degli interessi confindustriali, è la sua unica ragion d'essere.
Non si può dire poi che certi ambienti della sinistra scarseggino quanto ad ingegno: al «neo-anticomunismo» borghese hanno subito contrapposto la «nuova sinistra».
Portatori della teoria, peraltro non nuova, sono i due noti settimanali "l'Espresso" e "l'Astrolabio" che, l'indomani della nota presa di posizione di Longo sui fatti di Praga, si sono passati la voce per elevare la non spiccante figura del segretario del PCI a «mito Longo» e per teorizzare la nuova sinistra di cui questi dovrebbe essere l'artefice.
In un recentissimo articolo di Santi su "l'Astrolabio", dal titolo fatidico «Il PCI, Praga e la nuova sinistra», leggiamo: «Il nuovo corso del PCI è dunque un grande contributo alla creazione di una nuova situazione di sinistra. (…) Le forze già ci sono, già disponibili, molte potenziali, sia pure a diverso grado di maturazione: quei comunisti che credono senza riserva ad una società di tipo socialista, taluni strati della sinistra democristiana, pur tra incertezze e contraddizioni, i cattolici del dissenso l'avanguardia delle ACLI, parte del mondo culturale, il Movimento Studentesco, quella parte del PSIUP che concorda con la sostanza del nuovo corso cecoslovacco e, infine, la grande maggioranza dei lavoratori».
Diamo atto a Santi di grande buona volontà.
Dissentiamo tuttavia per quanto riguarda il Movimento Studentesco sicuri che, di fronte a tale eventualità, la grande maggioranza di questo saprebbe come reagire: a pernacchie.

La resistenza intelligente
C'è da dire che da anni ambienti politici ed organi di stampa radicali, andavano propugnando certe soluzioni di sinistra unita, ma, per arrivare a questo occorreva dimostrare due fatti: il primo che la Russia fosse avviata sulla strada del superamento dei blocchi e quindi della liberalizzazione nei rapporti con i paesi del Patto di Varsavia; il secondo che il PCI fosse autonomo nei rapporti con l'URSS.
Il secondo fatto è dimostrato, il primo non ancora.
Il rafforzamento dei blocchi seguito ai fatti di Praga si oppone al disegno radicale della Grande Sinistra; che altrimenti ben più vasto schieramento Santi avrebbe potuto indicare.
L'altra grande manovra dei soliti ingegnosi ambienti ha un carattere prettamente psicologico: ecco il «mito Dubcek» e della «resistenza intelligente». Che la grande propaganda fosse capace di far diventare nero quello che è bianco lo sapevamo e quindi non ci stupiscono le asserzioni di eroismo ed intelligenza dei cechi. D'altronde, dicono, cosa poteva fare la piccola Cecoslovacchia (il secondo esercito del patto di Varsavia) se non una resistenza stupida ed inutile? È tutta questione di angoli visuali. La Cecoslovacchia intanto non è più libera e la Storia non crediamo si accorgerà dell'eroismo e della intelligenza, si limiterà al compianto.
Non è evidente piuttosto, il tentativo di contrapporre efficacemente a certi «pericolosi» modelli come Ho Ci Min, Che Guevara e la resistenza eroica dei Vietcong, dei miti più moderati? Dei miti più addomesticabili alle esigenze revisioniste e moderate di certi disegni? È evidente che certi schemi di ispirazione «cinese» e la loro vasta diffusione in ambienti sempre più ampi di giovani, di studenti e di intellettuali vadano stroncati sul nascere, prima che il pericoloso contagio si estenda ad altri ambienti e categorie.
Quindi, è meglio «l'intelligente resistenza» dei pacifici cechi.

Rafforzamento del sistema
Da questa disamina degli atteggiamenti assunti dagli schieramenti conservatori e progressisti in Italia è facile rilevare la falsità ed il sottofondo di certe posizioni.
Vedremo quindi la «prosecuzione, calma ed attenta di una politica in atto» secondo le tesi recentemente sostenute da La Malfa.
Assisteremo, dunque, inattivi al rafforzamento della NATO ed al rinnovo del Patto Atlantico? Purtroppo i fatti cecoslovacchi hanno regalato al sistema una grande quantità di elementi atti al suo rafforzamento ed alla prosecuzione della politica spudorata di consolidamento dei blocchi e, quindi, delle due grandi potenze USA ed URSS e dell'accordo fra questi messo in atto ai danni di tutti i popoli della terra. È triste rilevare che i fatti di Praga, ennesima ed evidente conseguenza della spartizione mondiale russo-americana, servano nelle mani di uomini politici non autonomi solamente al raggiungimento di pure finalità di partito e di rafforzamento del sistema.
Tutto questo, per quanto riguarda il nostro paese, significa continuare ad essere pedina del colonialismo americano.
Nixon, forse preoccupato da certi fenomeni di ribellione, anticipando le linee della sua futura politica presidenziale, ha programmato un appesantimento della pressione americana in Europa.
Per tranquillizzare gli ambienti «nazionali» chissà che non impianteranno qualche altra base militare sul nostro territorio. Certi ambienti non desidererebbero di meglio che trovare, magari nell'Università, qualche rampa di missili USA pronti a difenderli dalle… armate studentesche scatenate.

La nostra lotta
In questo momento, comunque, è essenziale comprendere quali siano i termini in cui si articola la situazione politica mondiale. Noi da molti anni abbiamo indicato in Yalta l'inizio di una situazione politica, vera oggi più che mai: il condominio colonialista mondiale americano-sovietico. Alla fine dell'ultima guerra, a Yalta, l'Europa e il mondo intero venivano divisi fra i grandi imperi USA ed URSS. Tutti i fatti politici interni dei popoli, salvo rare eccezioni sono diventati fatti interni della Casa Bianca o del Cremlino.
Le ideologie, liberale o marxista, servono ai due grossi imperialismi per giustificare agli occhi delle masse con motivazioni etico-politiche, dei volgari atti di espansionismo coloniale.
La strategia usata dai due imperialismi per consolidarsi ed opprimere i popoli è identica: tenere continuamente asservite le classi dirigenti dei paesi colonializzati. Ogni tentativo di contrastare questa regola va assolutamente stroncato con metodi apparentemente diversi, ma uguali nella sostanza: se non si riesce a provocare il colpo di stato, subentrano i carri armati o i bombardamenti al napalm.
L'ONU, strumento dei grandi imperialisti, serve a legalizzare direttamente o psicologicamente le aggressioni più disparate.
Le classi politiche dei «paesi liberi» non si distinguono in base alle diverse concezioni ideologico-politiche, ma in base alla propensione o all'appartenenza al l'uno o all'altro impero.
I «paesi non impegnati» non vivono di una propria autentica sovranità, ma di una autonomia apparente, basata sulle leggi precarie di equilibrio tra i blocchi.
Le eccezioni alla regola sono molto rare; la Cina, e la Francia sono le poche nazioni che oggi si possono permettere di contestare la spartizione mondiale russo-americana.
La Cina, che è l'unico fenomeno rivoluzionario di questi ultimi decenni, rappresenta un pericolosissimo ostacolo da distruggere quanto prima: di qui la continua pressione psicologica e militare, simile ad un assedio, che Russi ed Americani esercitano rispettivamente nei confronti del popolo e della nazione cinese.
Oggi, i popoli dovrebbero innanzitutto capire e sentire il peso di certe verità per rompere poi le catene del giogo imperialista; per fare questo è preliminare la lotta per la distruzione delle classi dirigenti asservite al capitale ed ai blocchi imperialisti.
Noi dobbiamo essere l'avanguardia unita di studenti e lavoratori in lotta. Dobbiamo innanzitutto far capire alle masse nonostante la propaganda massiccia delle grandi centrali di potere, che la libertà oggi non esiste, che la libertà va conquistata.
La nostra verità è quella di Mao Tse Tung quando dice che nella nostra epoca si impone una nuova lotta di classe: quella dei paesi poveri contro i paesi ricchi.


Cecoslovacchia, la via armata alla distensione

I fatti di Praga sono l'ennesima conferma della volontà russo-americana di spartirsi il mondo: qualsiasi fermento di autonomia va stroncato con tutti i mezzi, compresi quelli militari: la «distensione» -intanto- continua.
Il 19 agosto a Mosca fu convocata d'urgenza la riunione del Presidium sovietico. I massimi responsabili della politica del Kremlino, interrompendo le loro vacanze, si recarono precipitosamente nella capitale sovietica. L'ordine del giorno era: «invasione della Cecoslovacchia». Si accesero subito le polemiche tra i sostenitori dell'invasione e coloro che erano contrari. Dopo aspri dissidi si passò alla votazione; Breznev, Podgorni, Andropov, capo della polizia segreta, Yacubovski, comandante supremo delle forze del Patto di Varsavia, Shelest ed altri delegati erano favorevoli, mentre Kossighin, Suslov, Grechko, ministro della difesa, Scelepin, Polianski erano contrari. La vittoria è stata dei primi, e il giorno seguente si passò immediatamente all'azione seguendo un piano già da tempo preparato.
L'invasione della Cecoslovacchia, lungi dall'essere semplicemente un'azione di repressione militare, va vista secondo noi, essenzialmente sotto un profilo politico, onde evitare di cadere in sterili sentimentalismi, in ignobili speculazioni, in enormi montature ed in evidenti falsità. Tutta la stampa borghese e moderata di destra e di sinistra, per sostenere le proprie tesi è ricorsa a questi sistemi senza minimamente centrare gli aspetti politici che ne derivano.
I Cecoslovacchi sono diventati improvvisamente un «eroico» popolo senza che abbiano fatto qualche cosa per meritarsi un onore simile, mentre la loro «libertà» è stata «soppressa» e «schiacciata» dal colosso sovietico. L'orco rosso si è improvvisamente ridestato, sostiene la stampa di destra, fra poco i carri armati sovietici attraverso l'Ungheria, soffocheranno anche la Jugoslavia, i Russi sono alle porte, i comunisti sono in casa, gli Americani debbono difenderci altrimenti l'Occidente è perduto. A queste tesi fa eco la stampa centrista, mentre quella di sinistra, profondamente indignata, si preoccupa di distinguere però tra comunisti buoni e comunisti cattivi. Quelli buoni sarebbero quelli del PCI, e quelli cattivi sarebbero i Russi, diventati improvvisamente «nazisti» (al posto degli Americani). E per dimostrare tutto ciò, giù menzogne e fotomontaggi.
«Precio? - Perché?». A questa domanda però nessuno ha saputo e voluto dare una esauriente risposta. Questa è secondo noi, nella analisi politica che ne segue.
La crisi cecoslovacca si può inquadrare in tre fasi principali. La prima è quella che va dal Settembre '67 al Marzo '68 durante la quale Novotny viene gradatamente esautorato e sostituito dalle cariche di segretario del PCC e di presidente della repubblica rispettivamente da Alexander Dubcek (5 gennaio) e da Ludvig Svoboda (30 marzo).
L'appoggio dei Russi al «nuovo corso» in questa fase è evidente. Novotny chiese ripetutamente l'aiuto dei sovietici, ma Breznev in una sua visita a Praga, nel dicembre scorso, pare che abbia chiesto ai dirigenti cecoslovacchi di allontanarlo in maniera graduale «... senza colpi di scena». A Novotny non rimaneva che la via della forza, organizzare cioè un colpo di stato militare a lui favorevole. Ma i generali Janko e Sejna, incaricati di attuarlo, fallirono il tentativo. Janko si uccise e Sejna, fuggì, non certo nell'URSS, ma guarda caso negli USA. Non può essere stato Novotny quindi a chiamare i Russi, cosa che tra l'altro lui stesso, in una recente intervista, ha smentito.
La seconda fase che va da Aprile a Luglio, mette in chiara evidenza la piega che ha assunto il «nuovo corso». I suoi presupposti sono insiti nella fase precedente ma già da tempo covavano dentro gli organi dirigenti della Cecoslovacchia: il partito, le associazioni culturali, gli organi di informazione, le università. La «liberalizzazione» assume cioè una piega non controllabile direttamente dai dirigenti cecoslovacchi né gradita ai sovietici, i quali già in precedenza avevano espresso in proposito le loro preoccupazioni e invitato i nuovi dirigenti di Praga a «stare attenti».
I gruppi di pressione radicali, facenti capo agli intellettuali, a Ludvig Vaculik, ad Ota Sik l'economista, a Cestmir Cisar, a Oldrich Cernik, a Gustav Husak, agli studenti e ai dirigenti e delegati del partito, fanno sentire presto il loro peso. La Cecoslovacchia intraprende cioè la strada dell'autonomia economica dall'URSS, pur rimanendo saldamente legata al Comecon, ma in chiave distensionista, socialdemocratica e filo-occidentale. I dirigenti sovietici non temevano quindi una uscita della Cecoslovacchia dal Patto di Varsavia, al quale tra l'altro Dubcek aveva fatto continue dichiarazioni di fedeltà, ma che una certa autonomia economica della Cecoslovacchia avrebbe alterato l'attuale stato di dipendenza dei paesi dell'Est dall'Unione Sovietica, quindi che servisse d'esempio anche per i paesi occidentali, quindi che alterasse l'attuale rapporto tra i blocchi. L'avvicinamento commerciale ed economico con la Germania di Bonn, le richieste di valuta occidentale da parte della Cecoslovacchia ne sono una prova. Ma non è stata solo la politica estera a preoccupare i sovietici; anche all'interno della Cecoslovacchia stavano avvenendo dei fatti che acuivano sempre più il dissidio tra i due paesi.
Le polemiche sulla morte di Jan Masaryk, ministro degli esteri, ucciso nel 1948 per ordine di Beria, le riforme economiche di Ota Sik e quelle politiche (autonomia dei sindacati con diritto di sciopero, abolizione della censura), la crescente pressione degli intellettuali in polemica col «vecchio corso» e l'URSS, furono tutti fatti che contribuirono notevolmente a determinare una situazione di raffreddamento tra i due paesi. Situazione questa che ha il proprio apice nel «manifesto delle 2.000 parole» di Ludvig Vaculik, pubblicato sui giornali di Praga il 25 giugno, il quale rappresenta il testo ideologico del riformismo del «nuovo corso».
Col «manifesto» inizia praticamente la terza fase; quella di rottura, quella di ricatto. La prova di tutto ciò è nella così detta «Lettera di Varsavia», se la stampa borghese italiana si fosse preoccupata di leggere o di capire. Nella lettera si legge tra l'altro: «Cari compagni (...) vi è noto che i partiti fratelli hanno dimostrato comprensione per le decisioni del Plenum di gennaio del CC del PCC, considerando che il vostro partito, avendo saldamente in pugno le leve del potere, avrebbe diretto l'intero processo nell'interesse del socialismo, senza permettere alla reazione anticomunista di sfruttarlo a propri fini. Noi eravamo sicuri che avreste difeso come la pupilla degli occhi il principio leninista del centralismo democratico», e poi: «Gli avvenimenti purtroppo hanno preso un altro corso. Le forze della reazione, sfruttando l'indebolimento della direzione del partito nel paese, abusando demagogicamente della parola d'ordine della «democratizzazione» hanno scatenato una campagna contro il PCC contro i suoi onorati quadri con l'intenzione, di eliminare il ruolo dirigente del partito, di abbattere il regime socialista, di opporre la Cecoslovacchia agli altri paesi socialisti».
In questa fase si moltiplicano i tentativi di ricucire la crisi attraverso le riunioni di Cierna e di Bratislava e le visite di Tito, di Ulbricht e di Ceausescu; l'opera di Breznev e di Kossighin, in proposito, è stata veramente straordinaria e pareva riuscita nell'accordo di Bratislava, salutato da tutti come la fine della crisi. A questo proposito non ci sentiamo di condividere la tesi sostenuta, già da alcuni anni, da vari settimanali e quotidiani di sinistra, secondo la quale al superfalco Breznev si opporrebbe la docile colomba Kossighin, addossando al primo tutta la responsabilità dell'invasione.
Ravvisiamo in ciò un tentativo da parte degli ambienti radicali di far apparire accentuato il rapporto di forza esistente tra i dirigenti del Cremlino, nei termini di «lotta per il potere nell'URSS», «opposizione tra stalinisti e distensionisti», «tra falchi e colombe», in modo da avere sempre un capro espiatorio contro cui scagliarsi, e nello stesso tempo l'elemento «buono», «moderato», «pacifico», da appoggiare per poi giustificare le prese di posizione del PCI.
La realtà, secondo noi, è che non esiste una sostanziale opposizione tra Breznev e Kossighin, in quanto entrambi mirano, con diversi accenti, alla stessa politica. È stato solo il gioco delle forze al «Presidium» che ha visto Breznev schierato dalla parte dei «sì», dalla parte dei «duri». Questi, infatti, contemporaneamente ai tentativi di mediazione, si irrigidivano sulle posizioni dell'intervento, appoggiati in questo dai militari, e non viceversa, come da più parti si è sostenuto, e chiedevano alla fine la riunione del Presidium nel quale ottennero poi la maggioranza. Non sono quindi i militari che determinano e condizionano la politica nell'Unione Sovietica, come hanno affermato alcuni, ma sono sempre i politici, pur non negando l'importante funzione dei militari russi.
L'invasione della Cecoslovacchia va inquadrata, secondo noi, nella politica dei «blocchi» e nella logica delle «sfere di influenza» secondo la quale una delle due super potenze interviene militarmente nella rispettiva zona, laddove si manifestano fermenti di autonomia, con il tacito consenso dell'altra; politica questa che risponde al nome di «accordi di Yalta».
Come spiegare infatti l'atteggiamento di Washington?
Il controspionaggio tedesco del generale Gerhard Wessel sapeva che i Russi avrebbero invaso la Cecoslovacchia e aveva informato il governo di Bonn e il comando della NATO. Ma gli americani si preoccupavano solo di tranquillizzare Kiesingher, dicendo che erano solo delle manovre.
Come spiegare tutto ciò e soprattutto i solenni silenzi di Washington, interrotti ogni tanto da qualche breve dichiarazione di Johnson e di Rusk, se non con il fatto che gli americani erano stati preventivamente informati e che implicitamente davano il proprio consenso?
Perché questo? In Cecoslovacchia, nonostante tutto, non esistevano dei validi motivi per giustificare un intervento armato, cioè non era tanto il nuovo corso a preoccupare i Russi, quanto la politica di avvicinamento con la Germania di Bonn, i prestiti finanziari, gli accordi commerciali con essa, e di conseguenza l'autonomia economica rispetto a Mosca. Tale politica preoccupava non solo l'Unione Sovietica, ma anche la Germania di Pankov e gli stessi Stati Uniti, che vedevano anche loro, nella «Ostpolitik» di Bonn un elemento di autonomia. A voler fare affermazioni spinte si potrebbe dire, assieme a Chiù En Lai, che l'invasione è il frutto di un accordo tra le due superpotenze; non altera quindi minimamente l'attuale rapporto di forza esistente tra i due blocchi, anzi mira al mantenimento dello «status quo», e al rinnovo «sic et simpliciter» della NATO.
La campagna allarmistica scatenata dalle destre, secondo la quale i Russi sono alle porte, mira essenzialmente al rafforzamento della NATO, a ricreare il clima di «guerra fredda», al potenziamento quindi dei blocchi. La miopia politica delle destre è confermata dal comunicato del "Comitato per i piani di difesa" della NATO, nel quale si afferma che essendo compito della difesa atlantica garantire un equilibrio di forze con il Patto di Varsavia, non è possibile, allo stato attuale, procedere ad una riduzione delle forze, come stabilito nelle riunioni di Bruxelles e di Reykjavik; e aggiunge che «I membri del comitato per i piani di difesa hanno pertanto ribadito la necessità di "mantenere" la capacità militare della NATO ...».
Sempre a dispetto delle destre, che gongolavano sostenendo che la distensione era finita, questa non ha subito il minimo incrinamento, non volendo l'invasione della Cecoslovacchia significare altro che un rafforzamento della politica di Yalta. In altri termini, le due superpotenze hanno dimostrato di non voler rinunciare alla politica della coesistenza, ma nello stesso tempo di non tollerare spinte di autonomia nei rispettivi blocchi. Eliminazione della «Ostpolitik» tedesca, rifiuto da parte di Washington alle richieste di Bonn di rafforzare la NATO, gli accordi di Mosca tendenti a vincolare economicamente in maniera più salda la Cecoslovacchia all'Unione Sovietica, ne sono una prova.
L'invasione della Cecoslovacchia ci permette di dimostrare inoltre che sia il Patto di Varsavia che la NATO, non sono in definitiva che degli strumenti di repressione e non di difesa, come i servi dei due blocchi sostengono. Nello stesso tempo ci permette di riprendere un vecchio discorso, a noi caro, per porre il distinguo con tutti gli ambienti politici che hanno criticato l'invasione, in particolare con quelli che parlano di «superamento dei blocchi».
Ai fini di una politica europeista, il superamento dei blocchi non può avvenire che in chiave nazionale; cioè un'Europa unita politicamente, economicamente e militarmente, è possibile solo se i singoli stati europei si sganciano dalle superpotenze attuando una politica nazionale. Mentre una eventuale indipendenza e autonomia dai blocchi in chiave economica e socialdemocratica non farebbe altro che accelerare il processo distensivo senza minimamente alterare i rapporti di forza tra i due blocchi.
Ecco perché critichiamo apertamente il «nuovo corso» cecoslovacco, mentre siamo più attratti dal nazionalismo romeno.
Francia e Romania, in definitiva, sono la prova del nostro discorso.

 

POLITICA ESTERA

America Latina: da Cantilo Torres a Paolo VI

La linea imposta dal Papa è stata, come al solito, una linea ambigua: egli ha operato in modo da ricondurre l'atteggiamento estremista del clero nell'ambito di una dialettica genericamente contestataria e riformista.
Alle ore 18,15 del 24 agosto i 18 mila poliziotti e i 25 mila soldati incaricati di vigilare sulla sicurezza di Paolo VI durante le 57 ore della sua visita in Colombia, potevano prendersi finalmente un meritato riposo: il Papa ripartiva per l'Italia senza che nessun incidente fosse venuto a turbare la sua partecipazione alla II Conferenza Generale dell'Episcopato Latino-Americano.
In effetti vi erano fondati motivi per l'imponente servizio di sicurezza: tutto il continente sud-americano è squassato dalla guerriglia, alimentata dall'arretratezza sociale e dalla corruzione dei tirannelli locali, espressione delle "United Fruits Companies" statunitensi e dei grandi proprietari terrieri.
In questa situazione il clero cattolico, già attanagliato dalla crisi delle vocazioni (in un continente che si definisce seguace del cattolicesimo romano, solo una minima parte -dal 10 al 20%- della popolazione è praticante e la Chiesa è costretta a servirsi di sacerdoti europei) si è diviso su opposte posizioni.
La maggioranza del basso clero e non pochi vescovi, si è schierata parte a favore delle tesi di Camilo Torres, fautore della rivolta armata, e parte a favore della cosiddetta «rivoluzione non violenta», ossia per la concessione immediata di tutte quelle riforme atte ad alleviare le disperate condizioni dei milioni di campesinos, della quale è portavoce monsignor Helder Camara, arcivescovo di Recife.
La parte più estremista del clero si richiama, come detto, a Camilo Torres, discendente da una delle più antiche e ricche famiglie della Colombia, che è stato il precursore di un nuovo tipo di sacerdote: il sacerdote-guerrigliero.
I primi clamorosi passi sulla strada della guerriglia Camilo li fece il 27 novembre 1964, tenendo una conferenza sulla lotta di classe agli studenti della facoltà di sociologia, di cui era stato uno dei fondatori, all'Università nazionale di Bogotà. Questa conferenza evidentemente non fu gradita dai suoi superiori ecclesiastici, che lo inviarono a «schiarirsi le idee» in Europa.
Ritornato in patria dopo 6 mesi, Torres fondò il "Frente Unido", organizzazione clandestina che si proponeva la conquista del potere. Ciò gli costò la condanna della Chiesa che lo sospese «a divinis».
D'altro canto la persecuzione governativa a cui il suo movimento era sottoposto lo spinse alla guerriglia e per 101 giorni Camilo Torres visse alla macchia, tendendo imboscate a pattuglie dell'esercito colombiano, finché il 16 febbraio 1966, a 37 anni, fu ucciso in una di queste azioni.
A un mese dalla sua morte Lleras Restrepo, il presidente colombiano, si rese conto di quanta influenza il "Frente Unido" avesse conquistato nel paese: alle elezioni presidenziali il 65% degli elettori disertò le urne e buona parte lo fece per seguire le direttive postume del prete-guerrigliero.
Quello di Camilo Torres, pur essendo stato il più clamoroso, non è però il solo caso di sacerdoti favorevoli alla guerriglia. Alla fine del 1967 infatti il governo del Guatemala espulse 8 religiosi cattolici della Congregazione statunitense di Maryknoll, fra i quali 3 suore, sotto l'accusa di aver organizzato basi per i guerriglieri; successivamente 3 di essi, 1 suora e 2 sacerdoti, furono sospesi «a divinis», perchè, ritornati clandestinamente in Guatemala, continuavano la collaborazione con le bande armate. Nel marzo 1968 luna cinquantina di cattolici, religiosi e laici, si riunirono a Montevideo, in preparazione dell'incontro intercontinentale "Camilo Torres", previsto per il marzo '69 all'Avana. In un comunicato diffuso al termine dei lavori, si chiedeva ai cattolici di partecipare alla lotta rivoluzionaria, si condannava l'intervento americano nel Vietnam, si preconizzava che l'America Latina sarebbe stata il Vietnam degli anni settanta e si invitava Paolo VI a non recarsi in Colombia dato il carattere dittatoriale di quel governo.
Alla fine di marzo il governo argentino espulse 4 sacerdoti spagnoli accusati di complotto mentre, il 9 aprile padre Juan Batista Arenas, sospetto di connivenza coi guerriglieri, venne assassinato in Argentina.
Clamorosa è stata infine la dichiarazione fatta da Monsignor Guzman, da padre Zaffaroni (i principali propagatori delle opere di Camilo Torres) e da padre Escurdia, i quali dichiaravano di parlare a nome di numerosi sacerdoti, al Congresso Culturale dell'Avana sul Terzo Mondo.
Nella dichiarazione, fra l'altro si diceva: «... i cattolici, pur non accettandone le basi ideologiche, riconoscono il marxismo come l'analisi scientifica più esatta della realtà imperialista e come la spinta più efficace alla azione rivoluzionaria delle masse»; «... come sacerdoti e come cattolici ci schieriamo dalla parte della lotta rivoluzionaria contro l'imperialismo ...».
Questi sono solo alcuni esempi dei casi più importanti giunti a nostra conoscenza: si tenga presente che centinaia sono i sacerdoti e migliaia i laici su queste posizioni e non pochi di essi sono giunti al punto di calcare le orme di Ernesto «Che» Guevara, imbracciando il mitra e dandosi alla macchia.
D'altra parte la maggior parte dei vescovi e cardinali e diversi sacerdoti, specialmente quelli di provenienza europea, sono contrari alla ribellione, sia armata sia non violenta, ed auspicano la concessione graduale, da parte dei detentori del potere, delle riforme più urgenti.
Vi è inoltre una frazione reazionaria estremista, guidata da monsignor de Poenca Sigaud, vescovo brasiliano, il quale poco prima della Conferenza episcopale ha dichiarato che non avrebbe concesso di comunicarsi ai campesinos che avessero accettato terre provenienti da espropriazioni di grandi possidenti.
Le conseguenze della divisione del clero sud-americano sono facilmente intuibili: gli atteggiamenti poco ortodossi dei preti «rivoluzionari» hanno destato un sentimento di diffidenza nei governi locali e soprattutto nei dirigenti delle "United Fruits" (che in un successo della rivoluzione filo-castrista vedrebbero sparire la loro posizione di privilegio), mentre la repressione delle gerarchie ecclesiastiche, lungi dal rassicurare le compagnie statunitensi, diminuiscono ulteriormente il prestigio della Chiesa fra le masse dei diseredati. Logicamente il viaggio papale, inseritosi in questo contesto, era atteso con speranza dalle diverse fazioni e specialmente dalla fazione più progressista, memore della Enciclica "Populorum Progressio", dove si giustificava la violenza e la ribellioni rivolte verso una lunga e manifesta tirannia. (1)
Ma evidentemente Paolo VI aveva un proprio disegno personale e non ha tenuto in nessun conto le aspettative dei suoi rappresentanti in America Latina.
Le dichiarazioni del Papa nei suoi discorsi sono state infatti di condanna della rivolta armata «non giustificabile in nessun caso», anche se è stato costretto a riconoscere le miserevoli condizioni in cui versano i milioni di campesinos: «In sostanza Paolo VI ha fatto un quadro senza veli della situazione sociale dell'America Latina; ha avuto accenti severi e condanne esplicite: ha parlato di situazioni ignobili riservate ai lavoratori; di assenze di condizioni umane per il vitto, l'alloggio e la cultura; di vasti quozienti del mondo degli umili (che sono i facitori primi della ricchezza) condannati al sottosviluppo. Ed ha affermato che la Chiesa assume sopra di sé la loro causa e difende il loro diritto» (da "l'Osservatore Romano" del 25 agosto - commento al discorso ai campesinos di Paolo VI).
Inoltre il Papa non ha detto una parola contro il dialogo che i sacerdoti «irrequieti» hanno aperto con gli ambienti più radicali, appunto sulla scia della "Populorum Progressio", limitandosi a predisporre le cose in modo che avvenisse sotto il suo controllo o perlomeno sotto quello delle gerarchie ecclesiastiche.
Ma, a prescindere dalle dichiarazioni «pubbliche» di Paolo VI, quello che più conta è ciò che il Papa ha detto in «privato» ai vescovi (ricordiamoci che il Papa era andato in Colombia appunto per sanare ogni dissidio del clero). Questo si può ricavare dalle conclusioni a cui è giunta la Conferenza Episcopale: prendiamo in esame il rapporto della commissione "Giustizia e Pace".
Il rapporto è stato approvato con 64 sì, 62 sì condizionati e solo 5 no.
Nel rapporto si può leggere: «L'America Latina si trova di fronte a una situazione di violenza istituzionalizzata che esige una trasformazione globale, urgente e rinnovatrice ...». Si rimprovera quindi ai ricchi ed ai potenti di esercitare pressioni per impedire le riforme «arrivando al punto di distruggere vite umane e beni» e li si avverte di non contare più sull'aiuto della Chiesa per conservare i loro privilegi.
Inoltre il documento ammonisce che «il cristianesimo è pacifico, non pacifista» e che i ricchi e i potenti «se vogliono conservare avidamente i loro privilegi e, soprattutto, se li difendono impiegando mezzi violenti, sono responsabili davanti alla storia di provocare le rivoluzioni esplosive della disperazione».
In questo rapporto la violenza è perfettamente giustificata, a patto che risponda alla violenza altrui: infatti, commentando il già citato passo dell'Enciclica "Populorum Progressio", il documento precisa: «Questa tirannia non è necessariamente quella di una persona, ma anche delle strutture mantenute da una classe di uomini che si oppongono in modo ingiusto, alle trasformazioni che potrebbero portare alla fine della miseria».
La quasi unanimità dei consensi riportati nella votazione dal rapporto, dimostra ulteriormente l'intervento papale per ricreare l'unità del clero sud-americano. Infatti questo si presentava alla conferenza diviso in tre correnti, sancite ufficialmente dalla triplice presidenza: il card. Samorè rappresentava i conservatori, l'arc. Ricketts i «non violenti» e l'arciv. Brandao i progressisti più accesi.
Questa divisione è stata però superata, secondo le direttive papali.
Dall'interpretazione dei voti si può ricostruire un allineamento dei seguaci di Camilo Torres e di quelli di mons. Camara su tesi di compromesso fra le due posizioni: non rivoluzione armata, ma rivoluzione non violenta (salvo le giustificazioni offerte dalla "Populorum Progressio") e a questa nuova linea hanno aderito gran parte dei conservatori -i 62 sì condizionati- isolando i congressisti reazionari -i 5 no- guidati dal solito irriducibile de Proenca Sigaud.
Quindi, dopo il viaggio di Paolo VI, la situazione è cambiata, logicamente secondo il volere del Pontefice.
La linea imposta dal Papa è stata, come al solito, una linea ambigua: egli ha operato in modo da ricondurre l'atteggiamento estremista del clero nell'ambito di una dialettica genericamente contestataria e riformista, lasciando nello stesso tempo aperta per ogni eventualità, la strada della ribellione violenta.
Ciò rientra nel quadro della tradizione politica della Chiesa: essa si è sempre appoggiata alle classi dominanti ed al sorgere di nuovi fenomeni che potevano mettere in discussione il vecchio stato li ha combattuti, salvo a schierarsi dalla loro parte una volta che questi fossero riusciti a scalzare il regime al potere.
Sicuramente il Papa, valutando la situazione nel Sud-America, è giunto alla conclusione che, almeno per il momento, i governi reazionari hanno la possibilità di stroncare la ribellione e quindi ha fatto in modo di non inimicarseli.
Infatti la tesi riuscita vincitrice, quella della rivoluzione non violenta, in un continente dove il problema presenta un aspetto così semplice (da una parte i campesinos che vogliono una speranza di un domani migliore e dall'altra le classi dominanti che non vogliono fare nessuna concessione), non rappresenta altro che un tentativo di inganno della classe sfruttata: non vediamo infatti in quale modo essa potrebbe convincere i gruppi al potere a concedere quelle riforme ostinatamente negate, con la sola arma della contestazione generica e della protesta.
Ma il Papa è stato ancora più sottile e furbesco: ha calcolato pure la possibilità che fra qualche anno la situazione sociale diventi così esasperata che nulla potrà fermare le masse dall'intraprendere la strada della rivolta armata. Ha posto quindi la sua ipoteca su una loro eventuale vittoria, lasciando aperta, «ultima ratio», la strada della violenza, sperando poi di poterla incanalare, verso una riforma nel sistema. Una riforma nell'ambito del sistema lascerebbe la situazione immutata: le "United Fruit" ed i proprietari terrieri locali seguiterebbero ad esercitare la ormai tradizionale pressione sui paesi dell'America Latina e il Vaticano continuerebbe ad usufruire del meccanismo del potere. Ciò allo scopo di tagliar fuori qualsiasi eventuale soluzione filo-castrista, nella quale la Chiesa verrebbe definitivamente messa fuori gioco, e con essa i gruppi di potere che appoggia e dai quali è appoggiata.

(1) Testualmente: «... l'insurrezione armata -salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attentasse gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuocesse in modo pericoloso al bene comune del paese- è fonte di nuove ingiustizie».


La situazione pre-elettorale negli USA

In barba a tutti i princìpi (più o meno «immortali») della democrazia capitalistico-borghese statunitense, il braccio di ferro stabilitosi fra la base ed i «boss» dei due principali partiti nazionali in occasione della elezione dei rispettivi candidati presidenziali, si è concluso con una sonora sconfitta della base a vantaggio della scelta dei «boss».
Con mezzi che in verità dovrebbero essere estranei a quella truffa in grande stile che chiamano «metodo democratico», entrambi gli apparati dei due partiti erano riusciti a mandare alle rispettive Convenzioni un numero di delegati favorevoli al proprio beniamino di gran lunga superiore a quello legittimo (rispondente cioè ai responsi forniti dalle elezioni primarie). In seguito a tali maneggi, sotterranei ma non troppo, una vittoria di coloro che più direttamente ne avrebbero usufruito (Nixon per i repubblicani, Humphrey per i democratici) era quasi scontata.
Le due convenzioni hanno così riversato i propri voti sugli uomini prescelti dalle gerarchie di partito, e a dispetto delle preferenze, ben diverse, nutrite dalla base, per Nixon ed Humphrey non è stato troppo difficile conquistarsi la maggioranza dei voti e con essa la candidatura alla Casa Bianca.
In entrambi i casi, il candidato presidenziale impersona all'interno del partito la linea centrista o centro-destrista. Gli sconfitti sono stati gli estremisti, sia quelli di sinistra che quelli di destra. Il vero vincitore è stato il moderatismo: genericamente progressista quello di Humphrey, vagamente conservatore quello di Nixon.
Che negli Stati Uniti il moderatismo rappresenti un aspetto tipico della vita politica nazionale è scontato. Insieme al pragmatismo, alla mancanza pressoché assoluta di una dimensione ideologica della lotta politica, il moderatismo è un presupposto vitale per la sopravvivenza del sistema bipartitico, perché solo una linea centrista e pragmatista può garantire quella intercambiabilità dei due partiti che costituisce il fulcro su cui poggia il sistema stesso.
Ogni volta, perciò, che uno dei due partiti vien meno a questa regola, rischia di mettere in crisi il sistema bipartitico e se medesimo: valga per tutti l'esempio della dura sconfitta subita nel 1964 dai repubblicani, per avere eletto come proprio candidato presidenziale l'ultra-reazionario Barry Goldwater.
Questo ha senz'altro influito sulla scelta del candidato alla Casa Bianca, suggerendo di scartare i candidati dal programma politico più caratterizzato e meno conciliante. Esistono tuttavia altri motivi, forse più contingenti ma non per questo meno importanti, da tenere presenti insieme a quello esaminato.
* * *
La nomina di Richard Nixon a candidato presidenziale dei repubblicani dovrebbe ad esempio servire a ricucire -secondo i progetti dei massimi responsabili del partito- l'unità dello stesso, sanando le ferite apertesi nel suo seno all'epoca della candidatura Goldwater. Con un paziente lavoro, consistente in un continua barcamenarsi alla meglio fra il progressismo di Nelson Rockefeller ed il destrismo estremista di Ronald Reagan, Nixon è riuscito a costruire intorno a sé l'idea che solo lui poteva riportare l'unità in campo repubblicano, conciliando in nome del moderatismo le più opposte tendenze.
Inoltre la tradizione repubblicana è molto più radicata negli Stati più conservatori, che certamente non avrebbero accettato un Rockefeller, mentre invece un Nixon non è una pillola troppo amara. La nomina di Spiro Theodore Agnew a candidato per la vicepresidenza dovrebbe servire a convogliare verso il partito repubblicano i voti di quei conservatori che avrebbero desiderato un candidato presidenziale più a destra.
Le aspettative di coloro che speravano in un candidato vicepresidenziale di sinistra sono andate deluse. Nixon ha preferito Agnew, ben sapendo che un «vice» progressista gli avrebbe alienato i voti della destra (pronti ad esser raccolti dal super-falco del Partito Indipendente, George Wallace), senza peraltro poter sperare di rifarsi con gli ambienti di sinistra o con quelli negri, presso i quali (nonostante gli allettamenti ed ammiccamenti che da tempo va facendo loro con una disgustosa sfacciataggine) ancora troppo vivo è il ricordo del Nixon formato super-falco.
Nel partito democratico, angustiato da una profonda crisi, la situazione è molto più complessa, per non dire caotica. Dopo la nomina di H. H. Humphrey, esponente moderato, i sostenitori dei candidati sconfitti non intendono appoggiare il candidato ufficiale.
Superato con relativa facilità lo scoglio della nomina, Humphrey si trova ora a dover fare i conti con quello, molto più arduo, di riportare il suo partito ad un «minimum» di unità, senza il quale gli verrebbe a mancare in misura notevole l'aiuto determinante di una organizzazione compatta ed efficiente. I dissensi che dividevano Humphrey dai propri avversari nella corsa alla candidatura presidenziale (la colomba McCarty, il kennedyano McGovern ed il superfalco razzista Lester G. Maddox) si sono trasformati dopo la Convenzione di Chicago in una vera e propria rottura. La possibilità di vittoria di Humphrey dipende dall'esito che avranno i suoi tentativi di ricucire i brandelli in cui è ridotto il partito democratico.
Il gioco di Edward Kennedy e del suo clan nei confronti di Humphrey è un capolavoro di machiavellica raffinatezza: con le debite distanze, sembra di essere nell'Italia del '500, alla corte di Cesare Borgia.
Dopo aver rinunziato alla candidatura per la vicepresidenza, che da più parti di avevano scongiurato di accettare per il bene del partito, Ted Kennedy si è chiuso in una posizione di discreto isolamento, rotto qua e là da qualche accademica promessa di appoggiare il candidato del partito, tanto per non alienarsene l'amicizia. Nonostante l'apparente rientro del kennedyano McGovern nell'ovile democratico, e la sua dichiarazione di esser pronto ad appoggiare Humphrey onde « non favorire Nixon », Kennedy ed i kennedyani hanno tutto l'interesse a che Humphrey sia sconfitto. Sanno benissimo che dopo quattro anni di Presidenza, Humphrey sarebbe un temibile antagonista, capace di mandare a rotoli il loro progetto di tornare nel 1972 alla Casa Bianca. Tanto vale, allora, buttarlo a mare subito. Il senatore Russel Long, «fedelissimo» dell'attuale vicepresidente americano ha fiutato la manovra, ed ha accusato senza mezze parole i kennedyani di essere i veri responsabili delle rotture in seno allo schieramento democratico, e di sabotare da dietro le quinte la causa di H. H. H.
La situazione di Humphrey a qualche settimana dalle elezioni è dunque oltremodo precaria. Nonostante che sia riuscito con qualche demagogica uscita progressista a racimolare il consenso (poco convinto) di sparuti gruppetti del seguito di McCarthy, la situazione è sempre critica. In seguito a tali prese di posizione, anzi, ha persino fugato il consenso di qualche conservatore del Sud: è il caso dei Governatori del Mississippi (J. W. Williams) e della Louisiana (J. McKeithen), i quali hanno subito sconfessato H. H. H., privandolo del proprio appoggio. E non è escluso che qualche altro Governatore li segua. Di fronte ad uno sfacelo del genere, l'aspirante-Presidente non trova niente di meglio da fare che uscirsene con qualche atteggiamento patetico, dando sfogo alla sua versatilità nell'abbandonarsi ad un vittimismo di seconda categoria: «La mia disgrazia -ha affermato in uno di questi momenti di ben simulata amarezza- è di avere ereditato tutti i nemici di Lyndon Johnson e nessuno dei suoi amici». Evidentemente, spera di far breccia nel cuore di qualche vecchietta sentimentale, non tanto per conquistarle il cuore, quanto il voto. In momenti critici come l'attuale, tutto fa brodo.
Ma nonostante il bassissimo tasso di mortalità registrato nella nazione più ricca del mondo, le vecchiette non devono poi essere tante, visto che -stando ad un sondaggio effettuato dal "New York Times"- il tandem repubblicano Nixon-Agnew è in complesso notevolmente avvantaggiato rispetto a quello democratico Humphrey-Muskie.
* * *
L'atteggiamento che i radicali di sinistra del partito democratico assumeranno in occasione delle elezioni non è uniforme.
Una buona parte finirà con l'appoggiare Humphrey, in osservanza a quella filosofia del «minor male» che per una certa razza di uomini equivale a quel che la stella polare rappresenta per i naviganti. «Humphrey è sempre meno peggio di Nixon» si diranno l'un l'altro con aria rassegnata, ed agiranno di conseguenza.
Una seconda parte si asterrà da ogni presa di posizione, e se ne starà a guardare agnosticamente. Fra questi è il pacifista Eugene McCarthy, il quale sembra risoluto a starsene in disparte, in una posizione di novello Cincinnato, senza accettare di far da gregario a Humphrey nella campagna elettorale e rifiutando d'altra parte di prendere il comando di un nuovo partito, collocato alla sinistra dei democratici.
La prospettiva di un nuovo partito di sinistra, dopo la sconfitta del fronte radicale in seno al partito democratico, è tutt'altro che remota. Ma la gran maggioranza dei democratici radicali è convinta che sia più valido condurre una battaglia all'interno. In effetti, uscire e fondare un nuovo organismo sarebbe un vero salto nel buio, mentre all'interno del partito vi è la possibilità di svolgere un lavoro denso di prospettive, non ultima quella di impossessarsene del tutto. «Noi rappresentiamo già -ha detto Allard Loewenstein- la maggioranza dei democratici d'America. Se a Chicago abbiamo perduto, è soltanto perchè l'apparato ha soffocato senza scrupoli le aspirazioni della base, imponendo la sua politica ed il suo candidato. Ma sono convinto che nei prossimi quattro anni riusciremo a conquistare il partito all'interno e perciò sarebbe una follia abbandonarlo ora per ripicca».
Ma i radicali più estremisti non sono d'accordo. Guidati da Marcus Rashin, hanno disertato le file democratiche ed hanno fondato quel "New Party" che sembra intenzionato a presentare un proprio candidato in venti Stati circa.
Quali sono le sue possibilità di successo? Molto scarse. Gli manca innanzitutto un grosso nome, capace di richiamare l'interesse della massa. È probabile che esso usufruisca di una legge elettorale americana che permette ai partiti di presentare un candidato senza che questi abbia accettato la candidatura, e si presenti quindi come il partito di McCarthy, ma anche con questo stratagemma non aumenterebbe di molto il proprio ascendente. Manca inoltre di un apparato propagandistico capillare, indispensabile nella lotta elettorale americana, e soprattutto gli scarseggiano i finanziamenti che una campagna elettorale "rispettabile" richiede. È ragionevole pensare, quindi, che la sua apparizione sul palcoscenico delle elezioni non porterà a niente di clamoroso, e si limiterà a raccogliere i voti degli scontentissimi di sinistra, svolgendo così uno sterile ruolo di disturbo. Un milione di voti sarebbero già una affermazione.
* * *
Un discorso a parte merita il "Partito Indipendente Americano", l'organizzazione di estrema destra capitanata dall'ex-Governatore dell'Alabama, George Wallace.
Il fenomeno Wallace, lungi dall'essere una delle tante espressioni più «folcloristiche» che politiche della estrema destra USA, minaccia di diventare una nuova realtà politica, capace addirittura di mettere in crisi il sistema bipartitico. È una vera spada di Damocle sospesa sul capo dei due partiti maggiori, i quali devono ormai badare a non lasciarsi scoperti a destra: nella scelta dei rispettivi candidati per le prossime elezioni, essi hanno dovuto tener conto anche di questo.
Negli ultimi tempi il "Partito Indipendente" ha fatto passi da gigante. Secondo una indagine "Gallup" di qualche tempo addietro, da aprile a settembre di quest'anno il suo seguito si è raddoppiato: esso aveva raggiunto la considerevole consistenza del 21 per cento.
L'eventualità che più spaventa democratici e repubblicani è che nessuno dei propri candidati raggiunga la maggioranza assoluta necessaria per essere eletti. In tal caso Wallace diventerebbe l'arbitro del responso elettorale, ed impiegherebbe il suo potere contrattuale per condizionare la futura politica della Casa Bianca in senso conservatore.
In effetti, -se la popolarità dell'ex-Governatore dovesse resistere fino alle elezioni- una evenienza del genere avrebbe non poche probabilità di diventare realtà.
L'unica scappatoia potrebbe essere rappresentata da una sconfitta di Humphrey di dimensioni tali, da permettere a Nixon di racimolare da solo la maggioranza necessaria. È quanto potrebbe verificarsi se il recentissimo sondaggio "Gallup" esprimesse l'effettiva realtà. Secondo tale sondaggio -infatti- se le elezioni si facessero subito, su cento voti 43 andrebbero a Nixon, 31 ad Humphrey e 21 a Wallace. Nixon avrebbe (in voti popolari) la maggioranza relativa, ed entrerebbe alla Casa Bianca. Ancora più significativo è il sondaggio -basato sui voti elettorali piuttosto che su quelli popolari- effettuato dal settimanale "Newsweek": i repubblicani conquisterebbero 31 Stati, Wallace ne conquisterebbe 9, i democratici 7 soltanto. Sarebbe la più grande sconfitta democratica che si ricordi, nonché la fine del sistema bipartitico. Molte cose possono cambiare, però, prima del grande confronto elettorale, eppoi i risultati dei sondaggi sono credibili fino a un certo punto: vanno presi con le pinzette, con larghissimo beneficio d'inventario.
Più baldanzoso che mai, Wallace continua intanto la sua campagna, diffondendo ai venti i punti del suo programma politico misti agli anatemi più stravaganti contro i suoi avversari: accusa gli altri due partiti di tendere entrambi ad un «socialismo mascherato» (sic!); protesta per l'esosità delle tasse; dà del «traditore» a chiunque parli di ritiro delle truppe americane dal Vietnam; ironizza sulla (presunta) debolezza della polizia, la quale ha le mani legate dai tribunali, cosa che spiegherebbe il dilagare della criminalità; promette drastiche misure poliziesche per reprimere i disordini provocati dai soliti «anarchici, attivisti, sovversivi, e comunisti» (sarebbero i negri ribelli, la gioventù protestataria, i pacifisti); inveisce contro le ingerenze di Washington negli affari interni degli Stati, dei quali rivendica l'autonomia (strumentalizza così quell'insofferenza verso gli eccessi del potere federale che è un retaggio storico della guerra di Secessione, e che ancor oggi è molto sentita nel «profondo Sud»); promette l'abolizione di tutti gli aiuti economici all'estero; critica aspramente l'integrazione razziale forzata e rivendica il diritto dei singoli Stati di decidere in proposito; propugna, naturalmente, sulla scia di Goldwater, un anticomunismo di marca maccartista.
Ma nonostante le idiozie che elargisce a piene mani, la gente lo segue con entusiasmo, con il fanatismo acritico tipico delle destre, di quella americana in particolare. Gli è che il suo qualunquismo interpreta bene o male le esigenze di certi strati popolari, i quali non chiedono altro che il solito «governo forte» capace di fugare (a colpi di manganello) lo «spettro» delle rivolte negre e del dissenso giovanile. Se, per sopramercato, ci sarà anche una diminuzione delle imposte (aumentate per coprire le spese della guerra in Estremo Oriente) tanto di guadagnato.
Gli ultimi avvenimenti politici, «in primis» i fatti cecoslovacchi, è molto probabile comportino un rafforzamento delle posizioni dei «falchi» in entrambe le super-potenze. Se è vero che di un simile rafforzamento si avvantaggerà Nixon, non è da escludere un ulteriore aumento del seguito di Wallace.

PROBLEMI DEL NOSTRO TEMPO

UOMO-MASSA: la morte dell'uomo

In un'opera famosa apparsa nel 1930 ed intitolata "Rebelion de las Masas", lo scrittore José Ortega y Gasset, tracciava un quadro vivace dell'uomo-ingranaggio.
Questo tipo umano lo si trova oggi in tutte le classi ed in tutti gli ambienti. Ortega lo chiamò uomo-massa e lo descrisse come l'uomo che non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in se stesso uno schema generico.
È una figura anonima, impersonale, paragonabile ad una forza che vuole frantumare ed annientare tutto ciò che è differente, singolare, individuale, selezionato.
L'uomo massa non valuta se stesso né in bene né in male, non si pone difficoltà o doveri, non esige da sé nulla ma si accontenta di essere sempre ciò che è, senza sforzo di perfezione, senza ansia di ideali, od inquietudini per programmi arditi da realizzare con il sacrificio della propria persona.
Senza individualità, né personalità, accorto nell'evitare ogni responsabilità, privo di autentici problemi, non proteso od aperto verso l'avvenire, ma soddisfatto del suo stato mediocre, convinto di sapere ciò che non sa, avido sopratutto di godimento materiale, ma incapace parimenti di intendere il significato ed il valore di quella «civiltà» di cui gode ottusamente i frutti, l'uomo-massa è l'anima volgare che, riconoscendosi volgare, afferma ed impone la sua volgarità.
L'Uomo è oggi una realtà al vertice di tutti i pensieri di filosofi, di sociologi, d'economisti; ma per molti di costoro questa realtà viene considerata, a volte in forma parziale, a volte nelle semplici manifestazioni esterne, altre ancora esclusivamente come soggetto di diritti e, infine, come elemento indifferenziato, classificato, eguale, di un amalgama che può chiamarsi indifferentemente massa o classe.
È sintomatico che l'ora presente sia caratterizzata da una grande incertezza ideale, da una grande stanchezza morale: gli ideali sono in crisi, i pensieri-forza sono sostituiti da calcoli provvisori di utilità; la paura del «peggio», quasi fosse inevitabile, guadagna gli animi e lo sforzo personale non è più «di moda»; la spada dello spirito sembra riposare nel fodero del dubbio e dell'irenismo.
Questa nostra società contemporanea, dominata dalle macchine, governata dalle leggi della produzione e del numero, schiava delle strutture che essa stessa si è costruita, ossessionata quasi dal mito della tecnica e dell'automazione, questa società di oggi, figlia ormai adulta della civiltà industriale, sembra vestire lussuosamente un'anima vuota.
L'avvento di grandi masse d'uomini sulle scene della storia, nei luoghi ove si edificarono le civiltà passate, costituisce un enorme potenziale di nuove energie che possono essere adoperate costruttivamente. Anche il più fiero avversario di tale stato di cose, non può non riconoscere questa moltiplicazione di possibilità umane introdotta nel mondo dallo svolgimento dell'era industriale con le sue masse agglomerate e con gli strumenti sempre più perfezionati della sua tecnica.
La contropartita di questo slancio ascensionale dell'era delle masse è il pericolo del livellamento spirituale e l'illusione che l'organizzazione tecnica e politica possa, da sola, risolvere tutti i problemi che assillano il mondo odierno.
Il pericolo dell'era delle masse è appunto l'uomo-massa, imbottito di luoghi comuni travasati nella sua minuscola testolina dalla propaganda giornalistica, radiofonica, cinematografica, televisiva.
L'illusione delle masse consiste nell'identificare superficialmente tecnica e cultura, nello scambiare l'aumento del «comfort» per un incremento di valore personale.
E non ci si accorge che il pieno godimento di tutte le risorse della civiltà industriale non è garanzia di un armonioso ed intelligente sviluppo della personalità.
Vi è anzi la minaccia che la persona si incanti e si stordisca in una partecipazione puramente voluttuaria a fini e beni strumentali nei quali fa consistere largamente ed erroneamente il significato intimo dell'esistenza. Ciò è assolutamente mostruoso. Le macchine sono strumenti di liberazione perchè eliminano molte schiavitù, poiché aiutano ad eliminare il tempo e lo spazio, perchè mettono le energie della natura a disposizione dell'uomo.
Ma le macchine divengono nuovi tiranni quando incoraggiano la pigrizia, il disinteresse dei loro utenti, quando colui che fruisce passivamente dei vantaggi della tecnica meccanica, non trasforma tale vantaggio in un nuovo mezzo di superamento etico ed intellettuale.
Gli uomini-massa attuali sono in ultima analisi coloro che scelgono di essere oggetti piuttosto che soggetti della loro storia e della loro esistenza.
Rinunciando a ciò che vi è di personale e di originale, essi vogliono godere i frutti della loro «civiltà», senza fare alcuno sforzo per crearla.
Tale visione è meschina, degenerata e degradante.
In questo corpo smisuratamente ingrandito, l'anima resta ciò che era, troppo piccola ora per riempirlo, troppo debole per dirigerlo. Donde il vuoto tra esso e lei. Donde i formidabili problemi sociali, umani, politici che sono altrettante definizioni di questo vuoto e che, per colmarlo, provocano oggi tanti sforzi disordinati ed inefficaci.
Sarebbero necessarie nuove risorse e nuove riserve di energia potenziale, di energia morale. Il problema si pone in questi termini: chi può darci queste nuove energie?
Non limitiamoci a dire che la mistica chiama la meccanica, che al pensiero segue l'azione. Aggiungiamo che il corpo cresciuto aspetta un «supplemento di anima», e che la meccanica esigerebbe una mistica. Forse le origini di questa meccanica sono più mistiche di quel che non creda ed essa non ritroverà la sua vera direzione, non renderà servigi proporzionali alla sua potenza se non quando l'umanità, che proprio essa ha troppo curvato verso la terra, verso l'umano, il troppo umano, arriverà, per suo mezzo a risollevarsi ed a guardare il cielo.
Quel cielo accantonato, quell'esistenza superiore dimenticata. «Vi è un Ordine Fisico e vi è un Ordine Metafisico. Vi è la natura mortale e vi è la natura degli immortali. Vi è la regione superiore dell'«essere» e vi è quella infera del «divenire». Più in generale: vi è un visibile ed un tangibile e, prima e di là da esso, vi è un invisibile ed un intangibile quale sopra mondo, principio e vita vera. Dovunque vi sia stata una tradizione effettiva, in Oriente ed in Occidente, in una forma o nell'altra, è sempre stata presente questa conoscenza come asse incrollabile intorno al quale tutto il resto era gerarchicamente ordinato». (1)
E l'uomo, protagonista antico di ogni civiltà, sembra ora rattrappirsi in una angusta prospettiva materialistica dove i grandi valori della libertà spirituale, della dignità individuale e dell'iniziativa personale volta al superamento di se medesimi, i valori che fanno la vera storia, appaiono come permanentemente insidiati, sopraffatti sovente dalla fretta e dalla superficialità, unica, disperata divisa dell'uomo moderno.
In questa prospettiva, la spersonalizzazione dell'uomo, conseguenza fatale di un ordine orientato al collettivo, sotto il dominio delle esigenze economiche, sembra imporre con forza crescente il livellamento delle singole personalità, la fatale sottomissione dell'individuo al gruppo, deificazione moderna di teorie aridamente materialistiche.
«Il vero materialismo da accusare nei moderni è questo: gli altri loro materialismi, in senso di opinioni filosofiche o scientifiche sono fenomeni secondari. Oggi, come realtà, in fondo, non si sa nulla più che vada oltre il mondo dei corpi nello spazio e nel tempo. Certo, vi è chi ammette ancora qualcosa oltre il sensibile: ma in quanto è sempre al titolo di una ipotesi o legge scientifica, di una idea speculativa o di un dogma religioso, che egli va ad ammettere questo qualche cosa; in effetti non si va mai oltre detta limitazione. Praticamente, cioè come esperienza diretta, qual pur sia il divario delle sue credenze "materialistiche" e "spiritualistiche" l'uomo moderno normale si forma la sua immagine della realtà in funzione del solo mondo dei corpi. Per cui, la gran parte delle rivolte intellettuali contemporanee contro le vedute "materialistiche" appartengono alle vane reazioni contro effetti ultimi e periferici di cause remote e profonde stabilitesi in ben altra sede, che non in quella delle "teorie"». (2)
Questa nostra società moderna è caratterizzata da una razionalità esasperata. Della ragione, l'uomo, alla ricerca della sua massima conquista, ha fatto un mito. E con essa ha separato e diviso, sezionato e polverizzato, inciso e vagliato, perdendo di vista la sintesi.
Ha staccato l'umano dal divino, il sociale dal religioso, il politico e l'economico dal morale.
È questo il tragico momento della sua «presunta autonomia».
Quale momento esprimerà nella civiltà universale la nostra epoca?
In base a quale elemento catalizzatore questa odierna «civiltà» potrà contribuire all'ascesa dell'uomo od alla sua dissoluzione, all'avveramento delle sue speranze od alla sua completa distruzione?
La risposta dipende dalla concezione che si avrà dell'uomo, secondo che si pensi che nell'uomo ci sia o no qualcosa che respira oltre il tempo e lo spazio, e una personalità, i cui profondi bisogni oltrepassano tutto l'ordine universale.
L'esperienza dell'uomo tradizionale andava molto oltre un tale ordine. L'«invisibile» vi figurava come un elemento altrettanto reale e persino più reale dei dati dei sensi fisici.
Ed ogni moto della vita, sia individuale che collettiva, ne teneva rigorosamente conto.
Alla nozione di «natura», tradizionalmente, non corrispondeva semplicemente il mondo dei corpi e delle forme visibili sul quale si è concentrata la scienza dei moderni, ma altresì, ed essenzialmente, una parte della stessa realtà invisibile.
È una concezione che ai moderni può sembrare astrusa e fantasmagorica per il solo fatto che è loro vietato realizzarla, mancando in essi ogni sensibilità spirituale.
Tale concezione viene simboleggiata da un aforisma di Eraclito: «Un uomo è un dio mortale e, un dio, un uomo immortale».
Comunque: a ciascuno il suo. La società d'oggi sembrerebbe dover progredire solo con il progrediente dominio delle forze meccaniche ed impersonali, e, a mano a mano che si ingrandisce, esplica e perfeziona le strutture che imprigionano l'iniziativa dei singoli, sostituendola. L'omogeneo, il pianificato, lo standardizzato diminuiscono lo sforzo e la fatica, accelerano i tempi, moltiplicano ed accrescono i prodotti e le ansietà: segnano e servono quel tipo di società in continuo ed agitato travaglio.
Son queste le grandi tentazioni del mondo moderno: esaltare l'uomo nei suoi bisogni per poi comprimerlo nella sua essenza, indurlo a lavorare febbrilmente sviandolo dagli scopi del suo lavoro, costituirlo artefice di una fortuna collettiva e responsabile della propria infelicità individuale.
Se la realtà umana, dunque, è al vertice di tutti i pensieri, quali dimensioni avrà questa realtà? Di quali vasti o limitati aloni emotivi sarà circondata? A quali cieli attingere la propria speranza?
Uno dei primi problemi che dobbiamo porci è quello del progresso.
Essenzialmente esso implica un giudizio, al metro di certi valori, sulla direzione secondo cui avvengono i mutamenti del mondo. Uno dei modi di valutazione è connesso con la meccanica statistica e secondo esso la tendenza del mondo appare nell'insieme declinante. Vediamo che questo modo di valutazione non è necessariamente legato ai nostri schemi consueti dei valori morali. Occorre dire però che tali schemi sono oggi troppo spesso associati ad una fiducia nel progresso, che non soltanto è priva di una base filosofica sufficientemente salda ma non è neppure confrontata dall'evidenza scientifica.
Per quanto ci riguarda, nella nostro visione del mondo non ha alcun posto il progresso. Noi vogliamo che si accetti la vera legge della vita che è fatta di nascita e di morte, di ascesa e di caduta.
Lasciamo da parte la sciocca, ostinata, degradante, orgogliosa idea del Progresso e ritorniamo alla più comprensiva filosofia delle stagioni.
Nascita e morte. Ascesa e caduta.
E' il mito del progresso che da noi deve essere messo in « Forse ».
Un mito meschino e traballante.
Nel corso del progresso l'uomo non ha forse perduto la méta di se stesso? Quel che ha guadagnato è forse pari a quel che ha perduto?
La religione del progresso, consiste in (ultima) sintesi nel credere che l'uomo vince sempre, non perde mai, o almeno, che quel che perde non ha alcuna importanza.
Ciò non solo è meschino: ciò è assurdo.
Questa visione progressista, questo razionalismo invecchiato ed avvizzito a poco a poco si è discostato da quella duplice ed equilibrata visione che sta alla base di ogni sano umanesimo: l'uomo è fatto di un corpo e di un'anima.
Egli non può nulla al di fuori di questo dualismo, al di là dell'accordo di questi due elementi.
Se il corpo è trascurato, l'anima presto avvizzisce; se è trascurata l'anima, del corpo non resta che un ammasso di spiriti animali votati alla dissoluzione.
«In ultima analisi noi non crediamo né al corpo né all'anima. Intendiamoci bene: né ad un corpo che sia solo il supporto dell'anima né all'anima che ha bisogno del corpo per specificare la sua esistenza. Al di là della categoria di anima e corpo esiste l'essere».
Il nostro Dio è lo stesso di Drieu La Rochelle: «Il nostro Dio non è il Dio Psicologo, Psicagono e Psicopompo, questo "Deus ex machina" dei romanzieri, ma l'Unico di Plotino, il Nirvana dei Buddisti, l'Atman dei grandi mistici ariani dell'India, l'Abisso intraveduto da Meister Eckart, Ruysbròk e gli altri grandi contemplatori dell'Europa gotica-medioevale».
In ultima analisi, il Dio di Drieu La Rochelle non è altro che l'esplicarsi in termini attuali della visione nietzschiana dello «Eterno Ritorno» - Zarathustra che interrompe ancora la sua predicazione e per la terza volta si ritira nella solitudine. Passa altro tempo ed il saggio è ormai vecchio, ma folgorato dalla intuizione dell'Eterno Ritorno, lascia la sua caverna e torna tra gli uomini.
L'Eterno Ritorno che non è altro che l'esaltazione pagana e dionisiaca dell'esistenza nel suo perenne rinnovarsi, nella sua irrazionalità ordinata, nei suoi ciclici ritorni.
Nascita e morte. Ascesa e caduta!
Non tragga in inganno il fatto che Nietzche assuma dalla più antica filosofia greca la credenza nell'«Eterno Ritorno all'Identico».
Dalla prigione del tempo e dai vincoli della necessità, Nietzsche si libera, trasformando «ciò che fu» in «ciò che io volevo, voglio, vorrò».
Accetta la necessità con una scelta che è «amor lati».
Trasforma quell'«Eternità» che per l'intelletto è infinito ripetersi di un ciclo permanentemente ritornante in coscienza del valore extratemporale, della risonanza assoluta ed infinita che si da a questo istante, e questo evento, con questa decisione assoluta grazie alla quale l'Evento si colloca nel Tutto.
In quell'istante che Nietzsche assume a momento della sua concreta «volontà di potenza» egli sperimenta l'Eternità, come categoria di questo suo concreto moto di vita.
«Ciò che è una volta, è sempre?, ciò che faccio ora, è il mio stesso essere eterno; nel tempo si decide ciò che io sono eternamente».
Vivere -per l'uomo- è andare al di là di se stesso, volere qualcosa che è al di là dell'uomo. Tale concezione la troviamo nell'«Al di là del bene e del male».
Con tali princìpi, con un'etica che ci rimanda inevitabilmente ad una religione, con l'educazione all'eroismo che è possibile solo in un clima saturo di tensione metafisica, noi vogliamo dare un motivo alla nostra esistenza. Ad una realtà i cui profondi bisogni oltrepassano tutto l'ordine dell'universo per impegnare senz'altro tutta una metafisica.
Colui che si impegna a fondo nella pratica del dovere rifugge dal considerare le dosature e le alchimie connesse con la rivendicazione dei diritti, per ritenere questi ultimi naturale ed esclusiva conseguenza del primo. Un metodo di vita quindi: alla massificazione indifferenziata degli individui contrapporre un vivace spirito di iniziativa personale; alle molteplici forme di disimpegno l'amore consapevole per la responsabilità; al pigro desiderio della vita comoda, l'entusiasmante etica del rischio e della audacia; al timore irrazionale il coraggio ardente; alla sonnolenta «routine» l'insaziabile desiderio di nuovo alla convinzione della irrepetibilità delle grandi imprese, la ambizione di impensate conquiste; all'equivoco della terminologia, la chiarezza della verità; alla vuota mania delle chiacchiere, la concretezza dei fatti; all'insensata materia, la validità dell'ideale.
Noi cerchiamo di cogliere, toccandoli quasi con le dita, i caratteri della nostra epoca.
Essi sono così vergognosi ed oramai così diffusi che l'uomo indebolito non riuscirà più a sottrarsi al destino annunziato da loro e perirà molto, molto presto.
«Il regno della macchina e l'egualitarismo sono ragni che tessono la ragnatela dei loro nomi crudeli tra le mie palpebre. Vedo un orizzonte pieno di sbarre e di inferriate. Il soffocamento dei desideri con la soddisfazione dei bisogni: questa è l'organizzazione sociale parsimoniosa, la sordida economia, che nasce dal benessere con cui ci opprimono le macchine e che distruggerà la nostra razza. L'uomo è geniale solo se ha vent'anni ed a patto che abbia fame. Ma l'abbondanza di cibo uccide le passioni. Nella bocca dell'uomo riempita di conserve, si forma una pericolosa reazione chimica che corrompe le parole. Così finisce la religione, l'arte, il linguaggio. Ucciso, l'uomo non esprime più niente».
È questa la biblica profezia di Drieu La Rochelle. Ecco la sua consegna: «Occorre che noi operiamo una distruzione integrale». Spingere giù per la china, nel baratro, nel precipizio, questo mondo da noi rinnegato ed aborrito!
Come è nato un mondo simile? La spiegazione è in parte nella stessa vocazione dell'uomo, di migliorare se stesso e l'ambiente in cui vive, creando cultura e progresso.
Un giorno, i risultati l'hanno impressionato e tratto in inganno. Nel '700 lo svolgimento del pensiero, l'evoluzione della scienza e lo sviluppo dell'economia hanno ispirato all'uomo un nuovo concetto di sé e della vita. E come oggi qualcuno si smarrisce, per esempio, davanti ad un cervello elettronico, scambiando quest'accumulatore di nozioni per una mente superiore, dimenticando che in fondo è figlio della clava con cui l'uomo primitivo si allungò il braccio, così gli ideologi hanno creduto che il progresso sia il fine proprio dell'uomo. Giudicare il mondo come un traguardo, presumere che sia il nostro regno: questo in sostanza il presupposto delle ideologie moderne, queste illusorie matematiche della realtà, che hanno sovrapposto un diaframma tra il terreno ed il divino, spegnendo ogni fede nella trascendenza e quindi nel finalismo della Storia.
Per bocca di un William James questi ideologi hanno dichiarato che l'utile è il criterio del vero e che il valore di ogni concezione, perfino metafisica, va misurato dalla sua efficace pratica, la quale poi, nei quadri della mentalità moderna, occidentale ed orientale che sia, finisce sempre col voler dire economico-sociale.
In tutto questo le distinzioni ideologiche e politiche tra occidente capitalista ed americanizzante ed oriente comunista e collettivo, hanno ben poco valore. Sono le due facce di una medesima medaglia.
Il cosiddetto pragmatismo sta fra i segni più caratteristici di questa degenerata civiltà moderna e sta fra questi segni anche la teoria dei vari John Dewey, Carlo Peirce, Fernando Schiller, per i quali le idee non hanno alcun valore obiettivo nel senso tradizionale, ma sono delle semplici «anticipazioni» che ci permettono di prevedere e quindi di produrre delle situazioni sempre nuove.
Non meravigliamoci della mostruosità di tali concezioni.
È d'altronde un indirizzo filosofico che ben s'addice allo «spirito pratico» che ha invaso il mondo.
Esso afferma che la verità di una idea non dipende da un suo accordo con la realtà oggettiva, ma dalla sua utilità pratica: scienza, filosofia, religione, arte, valgono solo in quanto possono divenire sorgente di azione.
Azione da intendersi come vana agitazione!
Dottrina questa che, sotto l'aspetto gnoseologico e scientifico, prende il nome di Strumentalismo e, sotto l'aspetto etico, quello di Migliorismo. Filosofia che concepisce le idee come lo «Strumento» di cui l'uomo si serve per ordinare e chiarificare la realtà allo scopo di farla servire ai propri fini pratici.
Se il pensiero ha un compito strumentale, in quanto tende ad accrescere il proprio potere sulla natura, la moralità deve consistere nell'operare sempre più attivamente sulla realtà per «migliorarla», ossia nel perseguire con le proprie forze, in stretta collaborazione coi propri simili, fini che «arricchiscano e nobilitino» la vita in tutte le sue forme.
È la religione del cosiddetto «progressismo».
Quanto più l'individuo ha di iniziativa e di inventiva nell'uso della propria intelligenza per dare incremento alla realtà, tanto più egli realizza la propria personalità.
Costoro dunque si sono immersi nel «mare magnum» della scienza commerciale e vogliono dimostrare che l'unico scopo di fabbricare un aratro o un mattone è quello di poter essere venduto. Per essi l'eroe romantico non è più il cavaliere solitario, il poeta errante, il cowboy l'aviatore e nemmeno più il giovane deputato e via di questo passo: ma il grande commerciante che ha «l'analisi dei problemi mercantili» sul suo scrittoio dalla lastra di vetro, il cui titolo di nobiltà è l'arrivismo, e che ha dedicato se stesso e tutti i suoi giovani Samurai alla cosmica necessità del vendere un determinato articolo a determinate persone, bensì al «vendere come concetto puro».
Lo stesso problema esistenziale e letterario di un «intellettuale» si esaurisce coscientemente nel redigere una serie di annunzi pubblicitari per l'una o l'altra azienda e la sua maggiore preoccupazione è di fare di ognuno di essi un'autentica opera d'arte... una collana di perle letterarie.
La poesia dell'Industrialismo: un proliferare quasi automaticamente ed un istituzionalizzare l'intenzione celebrativa del «Prodotto» nell'advertising, nella pubblicità, cercando una formula magica per esorcizzarlo.
Ecco il dominio letterario cui i vari Ginsberg, Lewis, Miller, Walt Waitman e soci si sforzano di aprire nuovi e più redditizi orizzonti.
Sapete qual'è il vero «genio americano»?
È l'individuo che né noi né voi conosciamo, ma la cui opera verrà tramandata alle generazioni future yankees perchè possano giudicare del «pensiero» e della «originalità» dello americano attuale.
È l'anonimo che scrive le «réclames» come un'elegante esercitazione di stile pseudo-letterario e nulla più.
È la cosiddetta «cultura» posta al servizio di una Istituzione Commerciale, nella cui torre l'uomo moderno medio vede il vertice di un tempio, in cui gli affari -the businnes- sono adorati con fede appassionata e superstiziosa.
Fra l'America ufficialmente religiosa e quel bolscevismo che ha abolito ogni forma di religione, proclamando ufficialmente l'ateismo, non esiste -oltre le apparenze- una sostanziale differenza, perché l'unica vera religione dell'America capitalistica è la religione del denaro.
Se questo ne fosse il luogo, sarebbe facile andare oltre nella constatazione di analoghi punti di corrispondenza, i quali permettono di vedere, alla luce delle considerazioni fin qui esposte, in Russia ed in America due facce di una stessa cosa, due movimento che partono dai due più grandi centri di potenza del mondo. «L'una - realtà in via di formarsi, sotto il pugno di ferro di una dittatura, attraverso il metodo di statizzazione e di una razionalizzazione esasperata.
L'altra - realizzazione spontanea (e quindi ancora più preoccupante) di una generazione che accetta di essere e vuole essere ciò che è, che si sente sana, libera e forte e giunge da sé agli stessi punti, senza l'ombra quasi personificata dell'«Uomo Collettivo», che pur l'ha nella sua rete, senza la dedizione fanatico-realistica dello Slavo bolscevizzato. Ma dietro l'una come all'altra «civiltà», dietro all'una come all'altra grandezza, chi vede riconosce egualmente il preludio dell'avvento della «Bestia senza nome». (3)
Il crollo finale non potrà non avere i caratteri di una apocalittica tragedia. In verità tutta questa civiltà di titani, di masse poliartiche ed informi, di macchine incatenanti, questa civiltà ha una importanza cosmogonica.
L'ottimismo rivoluzionario del periodo illuminista, secondo il quale nel mondo della natura tutto andava nel migliore dei modi, è finito. Siamo alle soglie di un nuovo giorno della creazione o di una nuova notte. Diremo meglio di una nuova notte, poiché la luce solare può spegnersi.
«Al compiersi di un tale destino tutta questa civiltà di metropoli d'acciaio e di cemento, di giungle di asfalto, di dominatori di cieli e di oceani, apparirà come un mondo eh oscilla nella sua orbita e volge a disciogliersene per allontanarsi e perdersi definitivamente negli spazi, dove non c'è più nessuna luce, fuor da quella sinistra accesa dell'accelerazione della sua stessa caduta». (4)
Abbiamo parlato di civiltà delle macchine e della automazione. Abbiamo parlato di macchine, ma non soltanto di macchine che possiedono cervelli di ottone o muscoli di ferro. Allorché le persone umane sono organizzate nel sistema che li impiega non secondo le loro piene facoltà di esseri umani responsabili, ma come altrettanti ingranaggi, leve e connessioni, non ha molta importanza il fatto che la loro materia prima sia costituita da carne e da sangue.
Più direttamente collegato con la problematica della moderna filosofia della scienza appare l'imponente mole dell'opera di Norbert Wiener, considerato il padre spirituale della moderna scienza e «arte» cibernetica.
Wiener ebbe a scrivere nel suo testamento spirituale raccolto nel libro "The human use of human beings", nel quale tentò un primo tragico bilancio delle implicazioni etiche e sociologiche della cibernetica e dell'automazione in genere:
«... il futuro offre ben poca speranza per quelli che aspettano che i nostri nuovi schiavi meccanici ci offrano un mondo in cui potremo riposarci senza pensare ...».
Prudentemente Wiener evita di sviluppare nei dettagli questa profezia: è tuttavia sintomatico che un uomo di interessi così vasti e coerenti si chieda le conseguenze di ciò che fa e voglia controllarle, soprattutto se pensa che dall'uso «buono» o «cattivo» dei suoi risultati e di quelli della scienza contemporanea può dipendere la sorte dell'uomo come specie.
Noi ci limitiamo a dire che la crisi che l'uomo attraversa è ben più complessa: in verità essa è legata allo squilibrio tra la sua organizzazione psico-fisica e la tecnica contemporanea. L'anima ed il corpo dell'uomo si sono andati formando quando ancora la vita umana era in armonia con l'ordine cosmico, col ritmo della natura e l'uomo era legato alla «madre terra».
Il dominio della tecnica significa la fine di questa epoca. L'ambiente organico naturale dell'uomo (terra-piante-animali) può essere ucciso dalla tecnica: che accadrà allora?
Oggi l'ordine cosmico al quale credevano e materialisti e positivisti vacilla. L'uomo si trova di fronte alle forze cosmiche in una posizione nuova. Il cosmo nel senso antico, greco della parola, il cosmo di Aristotele, non è più. La scienza è penetrata nella struttura interna della materia e della natura, nella profondità dell'essere.
Si può dire che la materia e la natura incatenavano l'energia e da ciò risultava una stabilità nell'ordine cosmico.
Quest'ordine si è decomposto. Quando l'uomo antico salutò il progresso scientifico come una delle maggiori mete dell'umanità, fu quasi un veggente nel prevedere le conquiste che la scienza moderna avrebbe ottenuto per merito del metodo induttivo. Poi si verificò una scissione tra le ricerche per il miglioramento spirituale e quelle per il benessere materiale in quanto l'evo antico e il medio evo avevano piuttosto badato all'«homo sapiens», mentre il Rinascimento guardava più all'«Homo Oeconomicus», nella sua necessità di vita pratica. Ora si è giunti al punto da accantonare, senza possibilità reversibili, ogni forma di interesse spirituale e speculativo, per adagiarsi al puro interesse voluttuario.
La letteratura moderna occidentale ha largamente sfruttato il tema dell'asservimento meccanico, accennando alla ribellione possibile-probabile che i «robots» inizierebbero per il loro affrancamento dagli uomini. Il linguaggio è metaforico ma ha un profondo contenuto morale; e se non saranno essi a strapparci il regno potremmo essere noi ad abbandonarci in loro balia. Tutto sta in questo. Sia che noi affidiamo le nostre decisioni a macchine di metallo o a quelle macchine viventi che sono gli uffici, i grandi laboratori, gli eserciti e le società industriali, ì parlamenti, i ministeri, non avremo mai la risposta giusta alle nostre domande a meno di non porre le domande giuste. Il tempo stringe e l'ora della scelta tra il bene ed il male è oramai imminente.
Possiamo salvare l'uomo? E come?
Già questo fatto rappresenta per l'uomo-vero, una occasione unica sul piano della storia, poiché se riusciamo a credere che l'uomo cammina, vive ed opera in una realtà che non è fine a se stessa, per giungere ad una altra realtà, non contrapposta ma conseguente, non distaccata ma trascendente, potremo renderci conto che la nostra fede rappresenta il moderno «habitat» per ideali più elevati di quelli economici e produttivistici.
Ideale non vuol dire cosa impossibile. L'ideale vero che discende dalla Idea vera, è sempre realizzabile, altrimenti non sarebbe un ideale ma una fantasia. L'altezza delle montagne non significa la loro irraggiungibilità, diventa anzi uno sprone per forzare muscoli e cuore a raggiungere quelle vette.
L'idealismo nostro odierno è la capacità di conoscere ciò che sarà valido domani e prepararsi di conseguenza. L'idea è ancora ed è sempre. È l'uomo nella sua vocazione terrestre e trascendentale, con la sua sete di felicità e le sue inquietudini, con i suoi slanci ed i suoi limiti, nello sforzo intrepido di realizzare ed interpretare la sua volontà creatrice.
Occorre innanzitutto affermare a viso aperto la nostra rottura con questa società e con il disordine conseguente e stabilito.
Il primo passo sta nel prendere coscienza di questo disordine.
Ma una presa di coscienza che non conduca ad una presa di posizione, ad un cambiamento di vita e non solamente di pensiero, sarebbe un nuovo tradimento dello spiritualismo sulla scia di tutti i tradimenti del passato.
La preoccupazione costante di noi tutti nel nostro tempo deve tendere ad evitare che i risultati del progresso possano intorpidire le forze della volontà, tarpare le ali degli entusiasmi, offuscare gli orizzonti delle intelligenze.
Riassumendo gli elementi motori della «vera» civiltà, Wolfango Goethe invitava gli uomini allo «Streben», all'anelare senza tregua ad una superiore esistenza.
Ma questa superiore esistenza che noi proponiamo, non può essere fatta di dubbi o di rivolte scurrili, di critiche aride e di scetticismi distruttivi: essa è piuttosto rappresentata da un impegno che trae la propria origine e spinta interiore dall'amore per il VERO, il SACRO, l'IMMUTABILE, che dominano ogni incertezza e travolgono ogni esitazione.
La vera gloria ed il vero onore della vita è di far parte di una azione di cui noi stessi siamo in grado di riconoscere la grandezza.
Nella natura la forza è inconsapevole, nella storia invece è ideale: tra gli animali il più forte è quello che può resistere al maggior numero di avversari, tra gli uomini il più forte è colui che rappresenta l'idea più grande.
Avanti dunque animati dalla forza primordiale dello istinto, dallo spirito irrazionale dell'emulazione, da un desiderio implicito di affermazione individuale e quindi di «disuguaglianza», al di là ed al di sopra della morale corrente e delle sue leggi, tutti protesi a realizzare quella idea di potenza spirituale e trascendentale oltre che terrena, che possa riscattare in chiave eroica e vitalistica il conformismo piatto, sordo e grigio dell'esperienza comune.

(1) Julius Evola: "Rivolta contro il mondo moderno".
(2) Julius Evola: op. cit.
(3) Julius Evola: op. cit.
(4) Julius Evola: op. cit.


L'infatuazione atlantista

Se da un lato la Cina punta alla industrializzazione ed alla realizzazione di una solida economia, dall'altra cerca di evitare il pericolo di futuri scivolamenti verso modelli tipo Società del Benessere, poggianti su concezioni della vita tipicamente borghesi.

Ne "Il Borghese" del 18 luglio scorso si poteva leggere un articolo di Julius Evola intitolato «L'infatuazione maoista».
Polemicamente dedicato a «certi ambienti» che pur essendo di estrazione «fascista» manifestano aperte simpatie per la Cina di Mao, lo scritto consiste in una lunga requisitoria mirante a «contestare» la ragionevolezza di simili convivenze, considerate frutto di un «mito» maoista che non corrisponde minimamente alla realtà delle cose.
La natura del settimanale su cui l'articolo è comparso, e lo stesso carattere preconcetto di quest'ultimo, dovrebbero indurci ad ignorarli entrambi, tuttavia crediamo che possa essere interessante ribattere alle tesi propugnate dall'autore dello scritto citato, se non altro per chiarire una volta per tutte i motivi che ci spingono a guardare al Maoismo come al più valido dei fenomeni politico-ideologici del nostro tempo.
Per prima cosa, Evola ha tentato una «smitizzazione» dell'ormai famoso «libretto rosso», e lo ha fatto dicendo d'averlo letto, senza peraltro averci trovato niente di tanto straordinario da giustificarne la fortuna.
Giustissimo. In effetti, le cose non potevano andare diversamente, perché il libretto in questione non è né pretende di essere una pietra miliare della letteratura politica. È solo una minuscola raccolta di frasi di Mao, vertenti sugli argomenti più diversi. Che in sé stesso sia una ben piccola cosa lo capiscono tutti, e quindi non c'era proprio niente da «smitizzare».
Altro è il suo valore simbolico: in quelle poche pagine strette in una fiammante copertina rossa, sono racchiusi tutti gli ideali e le aspirazioni di un popolo; è l'espressione materiale di una fede; è diventato un vessillo, una bandiera, e le masse acclamanti ed entusiaste lo sventolano come appunto si fa con una bandiera. I russi del tempo di Stalin agitavano le bandiere rosse con la falce ed il martello; i fascisti innalzavano al sole i loro gagliardetti neri; è con lo stesso spirito, con la stessa fede in un ideale, che il cinese d'oggi stringe in una mano, agitandolo, il suo libretto color di fuoco. Che dentro ci siano scritte cose più o meno «straordinarie» non ha nessunissima importanza.
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Miopia politica significa invece voler ridurre il dissidio fra Mosca e Pekino ad una semplice «lite di famiglia», dovuta più che altro a certi territori della Unione Sovietica sui quali la Cina avanza delle rivendicazioni.
Il dissidio non solo non consiste in una misera questione irredentistica, come vorrebbe far credere l'occidentalismo di destra, sempre in vena di ammannire scempiaggini tipo «il comunismo ha un volto solo», ma non si riduce nemmeno a quello scontro fra rivoluzionari intransigenti (i cinesi) ed ex-rivoluzionari imborghesiti (i russi) tante volte indicato dai commentatori politici come la chiave per comprendere la natura del conflitto.
Una simile impostazione potrà essere applicata -e nemmeno si può esserne troppo certi- alla prima fase del dissidio stesso, quella che va dal XX Congresso del PCUS fino allo scoppio della Rivoluzione Culturale, ma risulta del tutto insufficiente quando lo si voglia applicare indiscriminatamente, prescindendo cioè dai profondi mutamenti apportati in Cina dalla Rivoluzione delle Guardie Rosse.
Agli inizi, infatti, il dissidio rappresentava la reazione della Cina alla svolta revisionista imboccata in URSS per opera di Kruscev, ed entro questi limiti si mantenne fino alla vigilia della nuova esplosione rivoluzionaria cinese.
Con lo scoppio e lo svolgersi della Rivoluzione Culturale si hanno in Cina profondi mutamenti non solo a livello politico ma anche a livello ideologico: taluni aspetti latenti della dottrina maoista vengono esaltati, anche se in verità esulano dalla tradizione marxista-leninista, mentre d'altra parte si procede al siluramento di tutti coloro che potrebbero costituire un intralcio alla nuova ventata rivoluzionaria, primi fra tutti i grossi personaggi che dissentono dalla politica antisovietica di Mao.
Il dissidio con Mosca si aggrava, trasformandosi in un vero e proprio scontro fra due mondi che ormai percorrono strade opposte. Di fronte ad una Unione Sovietica che prosegue allegramente sulla strada del revisionismo ideologico e marcia a larghi passi verso mete nettamente borghesi, c'è una Cina che non solo ha proseguito sulla linea rivoluzionaria, ma si è spinta fino a superare gli stessi limiti del marxismo-leninismo per approdare ad una concezione politica che -pur conservando i caratteri salienti dell'ideologia comunista- presenta d'altra parte non pochi aspetti del tutto originali, estranei comunque alla ortodossia marxista-leninista: è ciò che nel linguaggio comune chiamiamo Maoismo.
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Non a caso si parla di Maoismo. Il Maoismo non è un momento del comunismo destinato a scomparire con Mao, come potrà essere stato lo Stalinismo. È un fatto nuovo, destinato a sopravvivere al capo.
Gli stessi Marx e Lenin sono stati in certo senso «ridimensionati»: se è vero che Mao ha affermato essere il marxismo-leninismo il «fondamento teorico» su cui si basa la sua dottrina, è anche vero che tempo fa Lin Piao in persona esortò i cinesi a seguire innanzitutto il pensiero di Mao perché il resto -compresi Marx e Lenin- è del tutto secondario.
Circa l'eventualità che col tempo, in seguito al raggiungimento di migliori condizioni economico-sociali, la Cina finisca con l'accettare -sulla scia dell'Unione Sovietica- un modello di vita borghese, dissentiamo dal giudizio di Evola, in quanto tale possibilità ci sembra oltremodo remota.
Sta proprio in questo -a nostro avviso- l'aspetto più valido del Maoismo: aver considerata questa eventualità e, -per scongiurarla- aver affrontato il problema della rivoluzione non solo a livello di strutture, ma anche in sede di «tipo umano».
Se da un lato la Cina punta alla industrializzazione ed alla realizzazione di una solida economia, dall'altra cerca di evitare il pericolo di futuri scivolamenti verso modelli (tipo Società del Benessere) poggianti su concezioni della vita tipicamente borghesi.
Superata la prima fase della rivoluzione, quella diretta contro la proprietà privata dei mezzi di produzione, si è passati ad eliminare tutti i sedimenti ideologici del vecchio mondo, praticando a molte centinaia di milioni d'uomini una vaccinazione radicale contro tutti i falsi miti del mondo borghese occidentale. È ciò che intende dire Mao Tze-tung quando parla di «condurre una lunga lotta contro l'ideologia borghese e piccolo-borghese».
È nel quadro di questo anelito a superare i limiti della rivoluzione sociale per porre le basi di una nuova Civiltà, che vanno inquadrati quegli aspetti del Maoismo chiaramente estranei alla tradizione marxista-leninista.
Senza dichiararlo esplicitamente, Mao rifiuta quel principio-cardine del marxismo che è il materialismo storico, il quale pone l'economia alla base di tutta la storia, ed abbraccia il principio volontaristico, secondo il quale è l'uomo e non altri a fare la storia.
Proclama il valore dell'«eroismo rivoluzionario», invita il popolo ad inchinarsi di fronte ai martiri ed ai caduti della sua rivoluzione. Insegna che «il potere politico nasce dalla canna del fucile» e ricorda al suo popolo che «solo con il fucile si può trasformare il mondo intero». Infonde coraggio ridimensionando l'altrui potenza militare, dicendo che «in guerra le armi sono un fattore importante, ma non decisivo», perché soltanto «gli uomini sono il fattore decisivo, non le cose».
Fa così sua quella «concezione attiva della guerra» intesa come «mezzo per affermare e far trionfare la propria verità», per cui essa non è più un termine dialettico ma diviene un valore assoluto, e «l'uomo impone la sua concezione attraverso la lotta» mentre «la verità si afferma con la vittoria».
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È chiaro come il sole che Mao debba essere -come egli stesso dice- solo per le «guerre giuste», che dal suo punto di vista sono poi quelle che servono per portare avanti la sua fede politica. Forse Evola pretenderebbe che Mao si mettesse a fare una indiscriminata apologia della guerra, fino ad accendere un cero a Confucio perché si curi di proteggere i «marines» americani impiegati nel conflitto vietnamita?
L'invito di Evola ad impegnarci solo nelle nostre «guerre giuste», come fa Mao, è per noi un invito a nozze.
Temiamo però che sia piuttosto difficile metterci d'accordo e stabilire una volta per tutte quale realmente sia la nostra «guerra giusta»; non certo quella di cui parla lui, cioè la solita guerra «contro la sovversione mondiale», perché questa sarà magari una guerra buona per neutralizzare le «guerre giuste» degli altri, ma non la nostra. È solo una negazione, e la nostra guerra non può non essere che una affermazione.
La faccenda, dunque, non può interessarci, anche perché la formula non ci è nuova: sa di maccartismo, di Comitati Civici, di «fedeltà atlantica» e di «fronte antimarxista». È un sapore che non si confà ai nostri gusti perché somiglia troppo a quello dei vecchi arnesi della destra, tipo Mario Tedeschi.
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Oltretutto, e questo è forse il punto più importante, partiti dall'intenzione di combattere donchisciottescamente contro la fantomatica «sovversione» di cui sopra, finiremmo certamente col cascar nelle braccia di questo putrido mondo borghese, fino a diventarne -per una delle tante ironie della Storia- gli involontari difensori. Ammesso e non concesso che le «infatuazioni maoiste» possano rappresentare la padella, il nostro sarebbe un cadere dalla padella nella brace.
E per capire cosa ci autorizzi a parlar di «brace» non ci vuole davvero molto: basta chiedersi con onestà cosa sia in realtà questa nostra «civiltà» figlia di una borghesia bottegaia e di un capitalismo più vampiresco d'una sanguisuga.
Basta guardarsi intorno per trovare una risposta: è la «civiltà» che si merita un mondo, come il nostro, di cinici sentimentali, di benefattori usurai, di nichilisti bigotti, di protestatari integrati, di moralisti immorali, di larve d'uomini felici di chiudersi nel bozzolo del proprio sordido egoismo, incapaci non solo d'una passione comunitaria, ma anche di concepire semplicemente un qualsiasi sacrificio -anche piccolo, anche insignificante- che non arrechi dei vantaggi personali e solo personali. È un mondo in cui i princìpi morali più o meno fasulli rappresentano la facciata, ma nessuno si sogna di applicarli quotidianamente; un mondo nel quale lo sfruttamento dell'uomo lo chiamano «Giustizia Sociale» ed un vago senso di superstizione ne costituisce la Religione.
È un mondo basato sull'ipocrisia e sul filisteismo cui manca anche la forza di vergognarsi del baratro in cui è caduto, anzi se ne fa un vanto, giungendo persino a deridere -con una punta d'ironia- coloro che nel baratro non vogliono scendere.
Un mondo senza nemmeno l'ombra di una tensione ideale, perché la sola tensione conosciuta è quella procurata dal pensiero di pagare la rata del frigorifero o della lavatrice o del televisore o dell'automobile.
Come si vede, ce n'è abbastanza per desiderare una invasione «barbarica» che ci tiri fuori da questo pantano come i «barbari» antichi tolsero dalla mollezza e dal lassismo della decadenza i romani del Basso Impero.
Ecco perché -tra l'altro- pensiamo alla Cina con una «punta di speranza», mai col raccapriccio dei nostri borghesi, perché vi pensiamo come ad una possibilità di ridare un poco di energia vitale a questo nostro mondo ormai ridotto a conoscere un solo tipo di energia: quella fornita, a «sferzate» dalla famosa bevanda a base di uova sbattute, zucchero e marsala.
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Ma gli aspetti «ideologici» della nostra «simpatia» non sono gli unici; vi sono, non meno importanti, quelli politici.
Sottoscriviamo completamente -ad esempio- la politica di rottura svolta dalla Cina nell'ambito delle relazioni internazionali, perché crediamo che oggi Mao sia il solo ad opporsi fino in fondo all'infame progetto imperialista russo-americano per la spartizione del mondo in due rispettive zone d'influenza, e quindi alla politica dei blocchi -contrapposti o meno, la cosa non cambia- nonché ai tiri mancini per castrare i popoli della loro libertà tipo trattato anti-H.
Non sappiamo se una simile impostazione possa piacere a Evola, visto che è finito in quella sezione distaccata dell'Ambasciata americana o della Confindustria italiana che è il settimanale di Mario Tedeschi. Tuttavia gli auguriamo sinceramente di rompere quanto prima certi legami e di superare l'equivoco secondo il quale la nostra «guerra giusta» consiste nel contrastare una non meglio definita «sovversione mondiale», onde evitare che qualche maligno possa affermare che il Nostro -pur tanto refrattario alle «infatuazioni maoiste»- sia incappato in una ben più squallida «infatuazione atlantista».