Italia - Repubblica - Socializzazione

♦ ♦  liberi scritti per un'alternativa di civiltà  ♦ ♦

«Nessuno si meravigli del caos delle idee,
nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia.
Questo caos è lo stato d'emergenza delle idee nuove»
(Carta della Sorbona)

 

 Anno 1 - N. 2 (in attesa di autorizzazione)
Roma, Dicembre 1968

IN QUESTO NUMERO:

* quale unità?

* la scuola borghese

* un reazionario progressista

* usura internazionale

* la «Nuova Chiesa» e la «Santa Inquisizione»

* opportunismo, una tradizione nazionale

* Messico insegni
 

 

Allo scopo di stabilire uno stretto contatto con i nostri lettori, riserviamo alcune pagine del nostro periodico agli scritti di quanti vorranno portare un contributo di idee alla comune battaglia.


quale unità?

In questi ultimi tempi, sembra stia sorgendo all'interno dei singoli gruppi che compongono il movimento studentesco l'esigenza di elaborare una strategia di lotta comune. Se per strategia comune si intende l'elaborare insieme un piano di azione politica nel cui contesto globale ogni gruppo svolga una funzione autonoma in accordo con gli altri, noi riconosciamo questa esigenza come assolutamente valida. Essa, però, non deve assolutamente tradursi in una ricerca della unificazione ad ogni costo; in altri termini non deve tendere ad una strutturalizzazione di tipo partitico, pur senza le sovrastrutture che caratterizzano i partiti tradizionali.
È chiaro che non si vuole con ciò teorizzare una specie di «dissoluzione permanente» del movimento: intendiamo solamente sostenere che nell'attuale fase storica riteniamo prematuro qualsiasi tentativo di unificazione. Che essa poi debba maturare in un futuro più o meno prossimo, siamo i primi a sostenerlo ed ad auspicarlo.
Il fatto è che i «sistemi» che il movimento combatte si presentano chiusi nella loro logica politica. In altre parole il sistema comunista ortodosso (sovietico) e il sistema borghese hanno sviluppato una sorta di logica nei cui schemi fanno rientrare qualunque problema si prospetti.
Questa tendenza alla semplificazione oltre a dare una enorme forza dialettica ai due sistemi, fa si che essi si sviluppino parallelamente rendendo nullo il risultato dialettico di qualsiasi scontro diretto.
In pratica qualsiasi soluzione a qualsiasi problema è già precostituita in essi, ed ambedue le soluzioni vivono separate senza che nessuna abbia la possibilità di sopraffare l'altra.
Il movimento studentesco, invece, si presenta con una logica caratterizzata da un'estrema fluidità: il solo fatto che esso si costituisca sulla base di una contestazione «a» qualcosa, e non sulla base di un discorso rivoluzionario costruttivo, dimostra che la sua differenziazione interna è un dato di fatto oggettivo da cui non si può prescindere.
In realtà il momento iniziale della lotta rivoluzionaria, cioè il momento contestativo, non solo non è stato superato, ma non è stato ancora ben definito, nonostante lo sforzo in tale senso. Tendenze riformistiche, atteggiamenti dogmatici infantili, legami con le vecchie forze politiche, sono alcune delle contraddizioni che ancora non sono state completamente risolte, e la cui risoluzione necessita sì di un'azione politica comune, ma nell'ambito delle differenziazioni esistenti fra i singoli gruppi, proprio per evitare di cadere nelle schematizzazioni che caratterizzano i sistemi tradizionali.
Si può a questo punto obiettare che in ogni caso la schematizzazione darebbe al movimento una forza dialettica enorme, mentre l'attuale fluidità lo rende attaccabile da ogni parte.
Ma se è vero che la fluidità logica costituisce una intrinseca debolezza del M. S., è anche vero che all'occorrenza essa può diventare una sua forza.
Infatti l'attuale situazione ci permette di entrare nelle logiche tradizionali, coglierne le contraddizioni, e scardinarle dall'interno. Si badi bene, questo non è un discorso esclusivamente tattico: un'azione condotta lungo queste direttive, infatti, offre la possibilità di verificare in ogni momento, attraverso le comuni esperienze di lotta, la validità dei principi che si vanno man a mano acquisendo.
Questa verifica costante, della teoria a contatto con la realtà storica, è per il Movimento necessità vitale, che altrimenti rischierebbe di sviluppare una analisi critica chiusa in sé stessa, cadendo nel vano intellettualismo da élite.
Questa potrebbe sembrare una osservazione ovvia, ma in realtà il pericolo di perdere il contatto con la realtà incombe in ogni momento su di noi.
Partiti da alcune premesse critiche, siamo andati via via sviluppando il nostro discorso senza preoccuparci minimamente di riproporre alla massa le diverse fasi della nostra evoluzione. Questo ha fatto sì che delle affermazioni per noi scontate rimangano per gli altri delle astrusità, delle stranezze incomprensibili: stiamo cercando cioè le dimostrazioni dei nostri teoremi, quando è ancora necessario affermare i nostri postulati.
Questa frattura con la massa non è per ora tale da dover essere considerata incolmabile, ma è necessario rinunciare sin da ora ad atteggiamenti messianici da depositari del verbo, semplificare il linguaggio che tende a diventare sempre più astruso, acquistare insomma una nuova dimensione dialettica, dimensione che non si acquista a tavolino o in assemblea dove si parla di «un certo tipo di discorso» che si inserisce in un «certo tipo di problematica» in vista della «demistificazione di certi discorsi mistificanti», ma dal contatto diretto con la realtà storico-sociale del nostro tempo.

A. S.
Studente del V anno del Righi


La scuola borghese

L'esame ed il voto servono soltanto alla designazione di un valore astratto da attribuire al prodotto della macchina scolastica (il tecnico), in base al suo diverso grado di perfezionamento
Negli anni che vanno dal '59 al '65 la produzione annua di laureati ha oscillato da un minimo di 20.000 ad un massimo di 28.000. Se pensiamo che ogni anno in prima elementare si iscrivono circa un milione di bambini, dobbiamo concludere che una minoranza impercettibile di questi ha superato gli ultimi ostacoli scolastici; la stragrande maggioranza è stata falciata da una guerra micidiale: la selezione scolastica.

La selettività
Se percorriamo l'iter che dal primo anno di scuola porta alla laurea, vediamo che, ad ogni «scalino» superiore, migliaia, centinaia di migliaia di studenti, vengono respinti. Alcuni tenteranno di risalire lo scalino; molti altri, sempre di più, verranno scartati, buttati nella «pattumiera della società», cioè dove si raccolgono tutti coloro che non sono riusciti a conquistarsi il «pezzo di carta», diploma o laurea, il lasciapassare per accedere alla posizione sociale di diplomato o laureato, cioè di cittadino di prima categoria.
La prima grande strage si ha dopo i primi otto anni di scuola, la «scuola dell'obbligo». In questo periodo circa la metà degli alunni viene tagliata fuori dalla scuola: dovranno trovarsi un lavoro.
I dati statistici di cui disponiamo a questo riguardo si fermano alla leva del '51; dei nati in questo anno su 958.000 che erano in prima elementare ne sono rimasti, alla fine della terza media, soltanto 465.000. Ciò secondo i dati ISTAT.
Fino alla terza media la selezione è «mitigata» (in percentuale) dal fatto che si tratta di scuola obbligatoria: otto anni che, bene o male, tutti debbono fare, non importa se, al limite, si fanno in due o tre classi soltanto, senza cioè arrivare alla terza media, quel che importa è semplicemente che gli anni trascorsi sui banchi da ogni alunno siano otto. Con le medie superiori la situazione peggiora. La percentuale dei «persi» sale decisamente oltre il 50% ed identicamente accade per l'università. Cosicché i laureati costituiscono alla fine del ciclo di studi uno sparuto gruppetto rispetto alla massa iniziale di studenti.

Il diritto allo studio
All'art. 34 della costituzione si afferma: «La scuola è aperta a tutti» e, poi, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Ieri, negli Stati democratici, la scuola era un privilegio raro, riservata a pochissimi, i quali però, volendo, potevano farne a meno; la scuola per quei «fortunati» non era altro che un accessorio poiché, quelli, «nascevano già istruiti» e quindi governavano i paesi con o senza scuola.
Oggi, secondo la costituzione, i tempi sono cambiati; non esistono più né principi, né aristocrazia di sangue, né caste; è subentrata la democrazia e lo «stato di diritto»; non sono più in pochi a decidere per molti, ma molti decidono per sé stessi; non c'è più, quindi, chi possa dire «la legge sono me» dato che la legge è uguale per tutti. È per questo quindi che la scuola è aperta a tutti: da privilegio di pochi è diventata una istituzione di massa.
Gli uomini sono diventati migliori? Se tutto questo può essere vero per un professore di diritto, uno di quegli uomini cioè che studiano la società ed i suoi mutamenti in base alla produzione giuridica dei popoli ed alla evoluzione delle norme, non è detto che ciò corrisponda alla realtà delle cose.
Quello che possiamo contestare più facilmente è che gli uomini siano diventati migliori; se la scuola è oggi una istituzione di massa non è per la bontà degli uomini ma per il fatto che i bisogni, in una società moderna, sono moltiplicati nel numero e nella complessità.
In un mondo di contadini e di piccoli centri urbani dove l'agricoltura, peraltro latifondista, ed una industria nascente e rudimentale costituivano la base economica della società, non c'era bisogno di laureati né di studenti poiché, allora, per lavorare la terra non occorreva istruzione e per mandare avanti le industriette artigianali occorreva una buona dose di senso pratico ed estro individuale. In quell'epoca non potevano esistere, dunque, le centinaia di migliaia di bambini che oggi vanno a scuola; anzi, la scuola era tanto piccola che essa stessa spesso si recava a casa dello scolaro, scolaro «giovin signore» beninteso.
Nei paesi ad industrializzazione avanzata, invece, l'evoluzione tecnologica determinando, da un lato, una suddivisione del lavoro sempre più accentuata e complessa e, dall'altro, creando nuovi tipi di attività ha richiesto un salto qualitativo: alla manodopera generica si è sostituita la manodopera specialistica.
Quello che ieri potevano fare cento, mille uomini oggi è possibile fare con una macchina a patto che i «tecnici» la creino e la facciano funzionare; questo è il succo del discorso.
È per questo che oggi occorre un lavoratore istruito o specializzato. In passato, alla scarsa produttività del lavoro si faceva fronte con le centinaia e le migliaia di lavoratori: donne, vecchi e bambini e orari di lavoro che superavano le 14-16 ore giornaliere. Non poteva esserci, quindi, una scuola di massa.
Oggi, più che mai, per incrementare la produzione non occorre aumentare numericamente la manodopera ma raffinare qualitativamente il «capitale umano» di cui si dispone, incrementare cioè la produttività pro-capite. La società della tecnica e dei consumi porterà ad un ingigantimento del settore terziario, cioè dei servizi privati e delle professioni private (avvocati, medici, economisti) e soprattutto di insegnanti.
È per questo motivo che si è aperta ai geometri ed ai ragionieri la possibilità di accedere ad Economia e Commercio, è per questo che si parla oggi di abolire l'esame per accedere a Magistero: l'Istituto di Studi sulle Relazioni Industriali e di Lavoro (ISRIL) ha previsto che dai 263.134 insegnanti del 1965 si passerà entro il 1980 ad un numero doppio, 508.000 circa. Sono questi i fattori che hanno determinato la «scuola aperta a tutti», non le costituzioni!

Repressione psichica
Quello che in questi ultimi decenni ha caratterizzato l'università e le scuole in generale è l'interdipendenza sempre più marcata tra le strutture societaria e quella scolastica; seguendo questo indirizzo, la scuola è diventata la fabbrica di un elemento della produzione: il tecnico.
Questa interdipendenza, funzionale alle esigenze della evoluzione industriale, ha portato all'esplosione numerica del mondo studentesco, decuplicatosi in questi ultimi decenni; ha portato poi alla struttura specialistica della scuola e all'incremento numerico delle discipline, alcune delle quali sconosciute fino a poco tempo fa.
La nuova civiltà ha creato, ad esempio, la sociologia dove lo studio umanistico è posto su basi matematiche; si collegano così i due tronconi della scienza, l'umanistico e lo scientifico, in un unico ed inscindibile elemento al servizio della produzione in generale e dell'industria in particolare. Tutto ciò per regolare meglio la vita degli uomini, in un modo più sottile ed efficace di quanto possa fare lo stesso diritto: mentre la legge agisce sulle azioni umane, la «sociologia applicata» agisce sull'elemento promotore di tutte le azioni, la psiche.
Reprimendo da un lato ed incentivando dall'altro le volizioni e tendenze delle psiche che i signori dell'economia e della politica giudicheranno rispettivamente nocive o positive si potrà arrivare finalmente ad una pianificazione delle azioni umane.
Propaganda ultra specializzata, pubbliche relazioni, tempo libero, e disseminazione dei sociologi nelle medie e grandi industrie; tutto è stato pianificato: laddove non arriva il bastone, arriva la vaselina.
Quanto detto, però, non deve creare malintesi: da parte nostra non si vuole denigrare la sociologia che, anzi, intesa come scienza critica, è una disciplina degna del massimo rispetto, bensì vogliamo criticare la distorsione e il cattivo uso che se ne fa e che da frutti immediati e macroscopici nella figura del sociologo «consigliere del re».

Classismo scolastico
Se il sociologo è uno strumento del potere ed in particolare di quella classe economica che di fatto lo detiene, ciò non è casuale in quanto l'università e la scuola in genere altro non sono che strumenti al servizio della produzione e di chi in particolare ne ha il dominio: la classe capitalista.
Anche qui occorre tornare ai numeri(1): nel 1963, i figli dei professionisti, dirigenti, alti funzionari ed impiegati erano l'86,5% della popolazione universitaria, i figli dei lavoratori dipendenti il 13,5%...
Come si spiega questo strano fenomeno? Eppure, alla partenza di prima elementare c'erano tutti, anzi i figli degli operai e dei contadini, dei lavoratori dipendenti in genere, costituivano la stragrande maggioranza rispetto all'esiguo gruppetto dei figli dell'alta e media borghesia.
All'università il rapporto è completamente capovolto, come risulta chiaramente dalle statistiche riportate. Il discorso però non è ancora finito: sempre nell'anno '63, i laureati «figli di papà» costituivano il 91,9% mentre i figli dei lavoratori dipendenti, ulteriormente diminuiti, sono ridotti ora dell'8,1%.
Come possiamo spiegare questo fenomeno? Perché la selezione marcia a senso unico? Se andiamo a chiedere spiegazione di tutto questo ad un professore, ci risponderà con aria sdegnata: «Lo studente non porta scritto sulla fronte il mestiere del padre» oppure «l'interrogazione non discrimina secondo la classe sociale», ecc.
Il vizio è proprio in questo: non si può dare un giudizio formalmente imparziale ad una massa di studenti che non ha avuto la possibilità di formarsi in eguali condizioni.
Sin dalla prima classe elementare gli studenti non sono nella medesima situazione: c'è chi proviene da una famiglia istruita e chi no, c'è chi ha avuto la possibilità di imparare a parlare ed a ragionare con persone colte e chi ha invece assimilato un dialetto (talvolta quasi un'altra lingua).
Andando oltre negli studi, alcuni potranno fruire di letture adeguate e di ripetizioni, altri dovranno aiutare la famiglia nei più umili lavori.
Le ripetizioni -per molti- sono inaccessibili: un professore, per un'ora di lezione privata, chiede l'equivalente del guadagno di un lavoratore manuale dopo una giornata di dura fatica. Né la legislazione scolastica sembra essersi mai accorta di questa situazione.
Dopo la terza media, la selettività diviene drastica; i bisogni materiali spingono masse sempre più larghe di studenti verso il lavoro, spesso necessario anche al sostentamento familiare; altri, per poter continuare gli studi, dovranno contemperare questo impegno con quello del lavoro.
Molti studenti finiranno in quei corsi sbrigativi dai quali si esce con un «mestiere»: le scuole tecniche è professionali. La divisione del lavoro abbisogna anche di questo tipo di scuole. Usciranno, da queste, «impiegati di concetto» (ragionieri) ed «operai specializzati» (periti). Il mercato è pieno di questi diplomati, ai quali saranno offerti stipendi pressoché simbolici.
All'Università, la selezione prosegue con forme analoghe: le tasse sono alte, i libri di testo costosissimi, le dispense sono vendute a prezzi da borsa nera e -quasi sempre- non servono a niente (se non al professore che ne ricaverà onore, soldi e carriera).
Potremmo proseguire a lungo, ma a noi occorre soltanto fornire una spiegazione a certi dati statistici che altrimenti potrebbero averne ben altra: ci riferiamo a quei giudizi circa «l'intelligenza», il «merito», e via discorrendo. È evidente, invece, che solo pochi eletti potranno sostenere il costo dei corsi, soltanto in pochi potranno, liberi da necessità materiali, frequentare assiduamente i corsi accademici, per non parlare dei seminari. Ecco spiegata la bassa percentuale di frequenze (senza contare -naturalmente- i «menefreghisti»).
Tutti questi elementi creano le condizioni per una selezione a senso unico, cioè classista, per cui sarà perfettamente prevedibile sin dal primo giorno di scuola, chi arriverà e chi dovrà fermarsi.

Il prezzo di mercato
A certe conclusioni si può arrivare con facilità appena ci si ponga ad analizzare obiettivamente la situazione scolastica, senza pregiudizi e con dati statistici alla mano.
A questo punto viene spontaneo di chiedersi: l'esame ed il voto che senso hanno? L'esame ed il voto sono la duplice fase del momento culminante e decisivo del nostro sistema scolastico; attraverso questi strumenti si opera il tipo di selezione di cui si è parlato.
Dopo quanto abbiamo detto, dovrebbe emergere che, sul (…) non hanno alcun valore; ciò perché costituiscono la duplice fase di un criterio di valutazione eguale per diseguali.
L'esame ed il voto servono soltanto alla designazione di un valore astratto da attribuire al prodotto della macchina scolastica (il tecnico), in base al suo diverso grado di perfezionamento.
Ad ogni grado di questo corrisponderà poi un prezzo: più alto sarà il perfezionamento, più alto sarà il prezzo.
La selezione scolastica oltre che a decimare, serve anche a differenziare i suoi prodotti. La selezione ed il voto servono a stabilire, quindi, una gerarchia di valori cui corrispondono diversi prezzi, cioè stipendi, cioè ancora differenziazioni sociali.
Tenendo presenti le statistiche riportate possiamo dire che, attraverso esami e voti, ai figli dell'alta e media borghesia sono assicurate alte remunerazioni mentre ai figli dei lavoratori manuali e dipendenti spettano bassi salari.
Né ci convince la costituzione quando aggiunge che «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» poiché nel nostro sistema scolastico, ai fini del conseguimento di assistenze, per essere «capaci e meritevoli» occorre ottenere medie molto alte, astronomiche per chi non ha i mezzi per poter seguire assiduamente i corsi. Inoltre il sistema attuale di assistenze (borse di studio, esenzioni tasse, presalario) è completamente inadeguato, insufficiente a coprire il costo degli studi. Ben bene che l'assistenza scolastica porti qualche aiuto agli studenti poveri, irrilevante sarà il numero di questi che riuscirà a strappare la laurea: si tratterà di eccezioni.
Sono proprio queste eccezioni che permettono alla regola di dissimularsi, cioè di dare alla nostra scuola una vernice di rispettabilità. Resta il fatto che, con un'assistenza scolastica così concepita, per studiare a un povero è necessario essere «capace e meritevole», mentre un figlio di papà può essere anche «cretino».

Nuova oligarchia
Il rapporto scuola-società è di interdipendenza funzionale. La scuola, nei confronti del sistema, assolve ad una duplice funzione: da un lato serve a consolidare le situazioni di privilegio nella società, dall'altro fornisce quei prodotti culturali e tecnici di cui il sistema capitalistico ha bisogno per sopravvivere.
Non ci si meravigli dell'autoritarismo dei professori; questi hanno il compito di assicurare alla società una regolare produzione di idee e di tecnici da inserire nel sistema per garantirne il funzionamento e la continuità. La cultura non deve uscire da quel binario che la collega funzionalmente al sistema; la lezione del professore consiste in un complesso di «dati acquisiti» approvati dal sistema e che lo studente «deve» apprendere meccanicamente.
La «didattica ripetitiva» e l'«esame quiz» sono le conseguenze della dittatura culturale del sistema; non può esistere, quindi, una «cultura critica», la libera creatività è bandita dalla scuola.
L'autorità del professore, quella che alcuni chiamano «autorità scientifica», è simile a quella del poliziotto: entrambe impongono l'osservanza di «norme» volute dall'alto. L'analisi della struttura scolastica e di quella societaria porta agli stessi risultati; la nostra società è, infatti, strutturata in modo selettivo e classista: qui, come nella scuola, la competizione è basata sul miraggio di appartenere ad un rango sociale più elevato, tutto è in funzione di questo scopo. Il massimo criterio discriminatore fra gli uomini è il denaro: più se ne ha, più in alto si sale nella scala sociale.
Non a caso, nella nostra società, l'arrivismo è così diffuso, su questo è basata l'intera struttura scolastica: si va a scuola per conquistare la posizione sociale connessa al diploma od alla laurea.
Giustizia sociale, democrazia e diritto allo studio sono soltanto belle parole, utili ai mandarini della politica e della cultura che se ne servono per addormentare le masse.
Piaccia o non piaccia alla costituzione ed a chi la teorizza, tiriamo ora un'ultima conseguenza: non esiste una sostanziale differenza tra la moderna struttura statale e quella «ancien regime» basata sull'aristocrazia di sangue. In entrambe abbiamo delle ristrette caste ereditarie di privilegiati che dispongono a loro piacimento delle condizioni di vita delle popolazioni; in entrambe esistono strutture atte a perpetuare la discriminazione sociale.
Sono mutate le circostanze storiche e le forme; infatti gli attuali strumenti di dominazione si sono evoluti e raffinati, si parla di «diritti», di «democrazia», di «giustizia» e di «scuola aperta a tutti». L'unica differenza è che allora le aristocrazie si distinguevano per sangue, ora per denaro. Le cose -dopotutto- sono peggiorate.

Scuola e società
Dalla stretta interdipendenza fra le strutture sociali e quelle scolastiche, discende che soltanto l'eliminazione dei «vizi» della società potrà consentire la soluzione dei problemi della scuola. È completamente errato sostenere certe soluzioni settoriali dei problemi scolastici o, peggio ancora, di poter risolvere i problemi della scuola risolvendo quelli scolastici, magari con una «università efficiente».
Parlare di «ristrutturazione», «razionalizzazione», «funzionalità» dell'Università e della scuola in genere significa voler rendere più efficaci quegli strumenti che il sistema stesso ha predisposto per la propria esistenza, significa voler consolidare, cioè, l'attuale stato di cose.
Certe posizioni scaturiscono da una mancata analisi dell'interdipendenza tra scuola e società o da una cosciente preoccupazione di conservare il sistema. Di qui discende l'inconsistenza di tutte quelle posizioni sindacal-studentesche che si dicono in grado di realizzare, attraverso una serie di riforme, quella profonda ristrutturazione che sotto in «mutate condizioni» potrà realizzarsi.
La lotta studentesca, cosciente degli obiettivi da raggiungere, deve sapere in partenza che i propri problemi di settore (e non solo questi) si risolvono solo con l'abbattimento delle strutture sociali. Si potrà fare del «sindacalismo studentesco» soltanto nella misura in cui questo possa essere finalizzato ad una strategia che abbia per obiettivo il potere politico. D'altronde, siamo fermamente convinti che i politici, espressione delle classi privilegiate e delle centrali economiche, non acconsentiranno mai spontaneamente ad abbandonare i propri strumenti di supremazia, cioè le strutture capitalistiche, classistiche, selettive ecc.
Tutto ciò è possibile solo in una nuova società; dove non esistano classi, dove gli uomini non vengono discriminati per censo, cioè in base al denaro che hanno in tasca, dove tutte le attività umane, tutti i mestieri abbiano pari dignità.
Gli uomini non dovranno essere ridotti, in nome della produttività, a «capitale umano», non esisterà l'alienazione nel lavoro: l'uomo, prima di essere un «laureato», un «professionista», un «tecnico», uno «studente» o un «operaio», dovrà essere un uomo con tutti i suoi attributi, un uomo integrale.
Solo in una società completamente rivoluzionata sarà possibile conciliare l'antagonismo libertà-bisogni; sarà possibile, quindi, una scuola libera e creativa che della culturalizzazione di tutto il popolo e della elaborazione culturale, fuse in un nuovo corpo, faccia un fine e non un muro di discriminazione fra gli uomini.

(1) Secondo l'annuario statistico italiano del 1963 tav. 113-114.
 

Campagna abbonamenti 1969

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Un reazionario progressista

Il "New York Times" pubblicò, tempo addietro, un lunghissimo articolo-saggio che suscitò un'ampia eco internazionale, ciò non tanto per il suo contenuto, quanto per l'insolito personaggio che ne era l'autore.
Intitolato "Progresso, coesistenza e libertà intellettuale", l'articolo era firmato da Andrei Dmitrievic Zacharov, un illustre fisico nucleare russo, membro della Accademia delle Scienze (massima istituzione scientifica dell'Unione Sovietica), elemento molto vicino all'attuale gruppo dirigente del suo Paese.
Lo scritto -pubblicato in Italia per i tipi della casa editrice Etas Kompass- pare sia giunto in America clandestinamente, come più volte è successo per altre opere politiche o letterarie che non avevano ottenuto il necessario imprimatur dei censori moscoviti.
Esiste tuttavia una profonda differenza fra il caso dello Zacharov e quello di altri autori sovietici rei, come lui, di aver esportato la propria opera senza il permesso di prammatica: mentre i secondi hanno pagato cara la propria «colpa» ed hanno attraversato una serie più o meno lunga di tribolazioni (Pasternak), finendo in qualche caso addirittura in Siberia, (Daniel, Ginzburg), lo Zacharov continua a circolare a piacimento, libero e rispettato, per i corridoi del Cremlino, come e più di prima, come se nulla fosse accaduto.
La tacita condiscendenza dimostrata nei confronti di Zacharov dalle autorità russe ha fatto galoppare -e non a torto- la fantasia degli osservatori politici occidentali.
Si è pensato che le tesi avanzate dal fisico nucleare rispecchiassero un modo di pensare diffuso anche a livello di responsabili politici, per cui esse non coinvolgerebbero soltanto la persona dello Zacharov in particolare, bensì -sia pure entro certi limiti- tutto il gruppo dirigente attuale dell'URSS.
Qualcuno -poi- ha addirittura avanzato l'ipotesi che il saggio sia stato ispirato a Zacharov (o persino commissionato) da qualche importante uomo politico sovietico.
Ufficioso in apparenza, lo scritto esprimerebbe in definitiva posizioni semiufficiali e sarebbe un prudente passo delle autorità politiche russe per sondare le reazioni statunitensi alle tesi in esso contenute.
Inutile dire quali siano state tali reazioni.
Per chi conosce l'opera di cui andiamo parlando e la genìa di persone alla quale essa si rivolge, è estremamente facile comprendere come essa possa essere stata accolta come un segno del destino, con lo stesso spirito di soddisfazione e di interiore compiacimento che avrebbe animato un personaggio mitico alle prese con un felice auspicio della Sibilla.

La coesistenza pacifica
Il saggio di Zacharov si divide in due parti: la prima è dedicata a quelli che l'autore chiama "I Pericoli", la seconda alla costruzione della cosiddetta "Base della Speranza". Le due parti sono poi rispettivamente preceduta e seguita da una "Introduzione" e da una "Conclusione".
Ridotto ai minimi termini, il saggio è un invito (rivolto alle due «superpotenze») a trasformare la strategia della coesistenza pacifica in una sorta di dottrina politica destinata a guidare comunismo sovietico e capitalismo americano verso un'unica meta comune: una forma ibrida dei due sistemi.
Nel pensiero di Zacharov la coesistenza pacifica non è intesa come una strategia mediante la quale due diversi sistemi politico-sociali, pur essendo entrambi decisi a conservare gelosamente la propria individualità, coesistono senza tentare di sopraffarsi con la forza delle armi.
Né è intesa come la intese Kruscev, e cioè come un confronto pacifico, dal quale il vincitore doveva saltar fuori non mediante il confronto armato, bensì in virtù degli obiettivi che era riuscito a realizzare.
Per Zacharov la coesistenza pacifica deve escludere a priori tutte le possibilità che vi sia infine un vincitore ed uno sconfitto (in senso ideologico).
Essa deve essere una occasione, per entrambi i sistemi, per constatare ed assorbire gli aspetti validi dell'altro; il tutto in vista del raggiungimento di un sistema intermedio, che non è specificato se si debba chiamare comunismo capitalista o capitalismo comunista (in passato lo si sarebbe chiamato socialdemocrazia, ma questo Zacharov fa finta di ignorarlo).
In tutti i casi il riavvicinamento dei due sistemi -secondo l'illustre fisico- «non dovrebbe essere un fatto antipopolare, senza princìpi, stabilito tra gruppi dirigenti come accadde nel caso limite del patto sovietico-nazista del '39-40»; esso dovrebbe «basarsi su un fondamento non soltanto socialista, ma democratico e popolare, posto sotto il controllo dell'opinione pubblica come si esprime attraverso il dibattito pubblico, le elezioni e così via».

Verso la socialdemocrazia
A spingere Zacharov verso tesi del genere è stata -a suo dire- la seguente «conclusione ragionevole» (lui la chiama così): se è vero che l'URSS ha dimostrato la «vitalità del socialismo » è altrettanto vero che «non vi sono motivi per affermare... che il capitalismo inevitabilmente conduce all'impoverimento assoluto della classe operaia», perché in realtà, secondo il Nostro, «sia il capitalismo che il socialismo sono in grado di raggiungere un progresso a lungo termine prendendo a prestito reciprocamente gli elementi positivi e avvicinandosi realmente l'uno all'altro in taluni aspetti fondamentali».
A giudicare dallo spirito apocalittico che anima tutto lo scritto in esame, una tale convergenza non costituisce una eventualità più o meno lontana, da prendere in considerazione, salvo rigettarla dopo un accurato esame, ma costituisce bensì una necessità improrogabile, un destino fatale da rispettare sino in fondo, pena la fine dell'umanità: sembra che non sia un fisico nucleare a parlare, ma Cassandra in persona.
Fedele al ruolo di moderna Cassandra addossatosi, Zacharov si è spinto nella descrizione, con tanto di date, degli eventi salienti che -secondo le sue speranze- dovrebbero caratterizzare la storia dei prossimi decenni.
Dunque: egli prevede innanzitutto un «inasprimento della lotta ideologica» nei Paesi socialisti «tra le forze staliniste e maoiste da una parte, e le forze dei comunisti leninisti più avanzati (e degli occidentalisti di sinistra) dall'altra», la quale dovrebbe portare alla formazione di un sistema pluripartitico, sino alla definitiva vittoria dei cosiddetti «realisti». (1960-1980).
Nei Paesi capitalistici vincerà l'ala «riformista più avanzata della borghesia» sostenitrice della coesistenza pacifica, (1972-1985).
Negli anni seguenti lo Zacharov prevede ci si dedicherà alle opere di beneficenza (a carattere internazionale): il venti per cento del reddito nazionale delle due superpotenze dovrà essere devoluto per aiutare la parte più povera dell'umanità (in sostanza: le ricchezze raccolte dai due «colossi» estorcendole al resto del mondo con i vari metodi neo-imperialistici, ritorneranno -opportunamente decurtate- ai legittimi proprietari, i quali ringrazieranno i padroni della munificenza dimostrata col rinunciare a qualsiasi ribellione, violenta o «pacifica» che essa sia). (1972-1990).
Quarta ed ultima fase: passato decisamente con armi e bagagli dall'internazionalismo proletario al cosmopolitismo borghese, Zacharov auspica e prevede l'avverarsi del sogno degli illuministi settecenteschi: si arriverà -dulcis in fundo- alla creazione di un «governo mondiale», per opera e sotto la giurisdizione, beninteso, delle due superpotenze (forse perché l'ONU, per quel tempo, non sarà più adatta ad assecondare e salvaguardare in pieno -come fa attualmente- gli interessi dei due «gendarmi» del mondo, di quello americano in particolare). Quando avverrà? Zacharov ce lo dice con la consueta sicurezza: fra il 1980 ed il 2000.

La «collaborazione ideologica»
Il pericolo di una guerra termonucleare, il problema di milioni di uomini in preda alla fame, la degenerazione dell'ambiente naturale, l'intossicazione dei cervelli prodotta dalla cultura di massa, l'esplodere di miti che «gettano interi popoli e continenti in balìa di demagoghi crudeli ed impositori» rappresentano altrettanti stimoli -per Zacharov- a proseguire sulla strada della coesistenza, fino al raggiungimento delle mete da lui indicate.
Questi problemi -infatti- costituiscono la causa della divisione esistente fra i popoli e gli uomini, e secondo Zacharov «la divisione del genere umano» implica «il pericolo della sua distruzione».
Di fronte a questo pericolo «ogni azione tendente ad accentuare la divisione del genere umano, ogni tesi volta a sottolineare l'incompatibilità tra le ideologie mondiali e tra le nazioni» sarebbe «una follia e un crimine».
Bisognerebbe invece tendere alla cosiddetta «collaborazione ideologica», tenendo tuttavia presente che tale collaborazione «non può essere applicata anche alle ideologie fanatiche, settarie ed estremiste che rifiutano ogni possibilità di avvicinamento, di discussione e di compromesso», tanto più che, secondo lui, sarebbero milioni le persone che detestano tali ideologie, le cui «manifestazioni estreme» sono per lo Zacharov «fascismo, stalinismo e maoismo».
Nei confronti della Cina Zacharov nutre un sentimento che rasenta l'odio. A suo avviso il maoismo avrebbe portato in Cina «un'ondata di violenza, di demagogia, di crudeltà e di bassezza morale», mentre d'altro canto, «l'idiozia del culto della personalità» vi avrebbe assunto «forme mostruose, grottesche, tragicomiche» ed avrebbe «spinto al limite dell'assurdo molti aspetti caratteristici dei regimi di Stalin e di Hitler».
Accoppiando ai nomi di Stalin e di Hitler quello di Mao, Zacharov intende coinvolgere quest'ultimo nella impopolarità che in genere circonda i primi due. Aldilà delle ricorrenti puntate contro il nazismo e lo stalinismo, è solo la Cina che egli vuole in effetti colpire.
Perché tanto astio nei confronti della Cina?
La risposta è piuttosto semplice. A prescindere dagli aspetti del maoismo che chiaramente non possono essere digeriti da uno Zacharov (cioè da un pacifista, da un «moderato» per principio, da un ultrarevisionista ideologico, da un anticomunista), vi è il fatto che la Cina rappresenta oggi l'unico effettivo ostacolo alla piena realizzazione dell'ispirazione russo-americana di spartirsi il mondo, aspirazione della quale Zacharov si è fatto irriducibile paladino.

La «santa alleanza»
Affermare che oggi il mondo è soggetto ai voleri di una nuova «Santa Alleanza», nata con l'etichetta del pensiero democratico-radicale di Roosevelt come l'altra era nata sotto gli auspici umanitari dello zar Alessandro, non costituisce davvero dire una novità.
A Yalta, nella Conferenza ivi tenutasi nel 1944, russi e americani si spartirono il mondo in zone di influenza. Al bottino prese parte anche l'Inghilterra, ma successivamente la sua fetta di torta è finita nelle mani dei suoi cugini d'oltreoceano. I veri ed unici imperialisti di primo piano sono oggi USA e URSS.
Nel periodo della guerra fredda, nonostante la frattura superficiale creatasi fra i due vecchi compari, essi riuscirono sempre a mettersi d'accordo quando si trattava di difendere la propria posizione di dittatori del mondo (per la questione di Suez, USA ed URSS erano addirittura alleate!).
Con l'avvento dei radicali alla Casa Bianca (Kennedy) e dei revisionisti al Cremlino, nasce e si sviluppa una nuova strategia di dominazione: la coesistenza pacifica.
La sua parola d'ordine è la pace a tutti i costi. Nel frattempo i due Paesi imperialisti continuano imperterriti a fare le loro guerre.
La pace di cui tanto si parla, è solo un pretesto per bollare a fuoco, accusandolo di guerrafondaismo, chi cerca in qualche modo di rompere l'attuale equilibrio internazionale (espressione degli interessi russo-americani) per rompere le catene che tengono legati i popoli in balìa della schiavitù morale e materiale, oltre che dello sfruttamento (tipico esempio, la virulenta campagna anticinese della stampa «moderata» e «amante della pace»).
I «superpotenti», nel frattempo si permettono tutte le guerre di questo mondo (Vietnam, Cecoslovacchia), senza che i rispettivi lacchè li accusino minimamente di mettere in pericolo la pace: c'è sempre un motivo per giustificare il tutto («difendere il mondo libero», «salvare il socialismo»), ed intanto i due compari continuano indisturbati a fare i propri sporchi interessi.

I veri imputati
Zacharov è un difensore di questi interessi.
Prova ne sia che egli, nell'indicare quali sono gli «alleati» della linea politica da lui delineata, cita non solo «la classe operaia e l'intelligencija progressista», ma anche «l'ala riformista della borghesia» della quale sarebbero «tipici rappresentanti» -oltre che Cyrus Eaton- anche Roosevelt «e, specialmente, il presidente John F. Kennedy».
Si badi bene: quello stesso J. F. Kennedy che -aldilà degli ipocriti programmi sbandierati a destra e a sinistra- ideò la cosiddetta "Alleanza per il Progresso", destinata a legare ancor più strettamente i Paesi latino-americani al carro dell'imperialismo statunitense; promosse il sopruso nei confronti della Cuba di Fidel Castro culminato nella cosiddetta crisi della Baia dei Porci; quello stesso Kennedy che scatenò il conflitto vietnamita per finire, finalmente, sotto i colpi di una carabina che non ancora si è saputo da chi fosse azionata.
Zacharov è un tipico radicale: un reazionario travestito da progressista.
È un reazionario perché, se si può parlare di un ordine costituito internazionale, ebbene egli è un difensore di tale ordine.
È un reazionario perché -ammantate di belle parole e di pii propositi- le sue tesi sono uno strumento atto a cristallizzare definitivamente l'attuale status quo, cioè a perpetuare il sopruso, la sperequazione, lo sfruttamento, la sopraffazione, la miseria dei popoli.
Ma Zacharov non è l'unico imputato, né il principale.
I veri imputati sono coloro che, comodamente piazzati al Cremlino, opprimono i popoli «satelliti» in nome dell'integrità di un socialismo nel quale non credono più, e nel quale -forse- non hanno mai creduto.
È senz'altro vero che in Cecoslovacchia si stava imboccando una strada che un autentico marxista-leninista giudica estranea e contraria alle proprie convinzioni.
Ma se davvero i sovietici hanno invaso quel Paese per impedire che vi si instaurasse un corso politico ultra-revisionista, se cioè l'invasione è stata necessaria -come Mosca ha sostenuto- per «salvare l'integrità del movimento comunista» e non piuttosto quella -un po' più squallida- del dominio russo, se tutto questo è vero, non sarebbe il caso di chiedersi come mai i dirigenti sovietici siano così premurosi di «salvare il socialismo» altrove, quando in casa loro dimostrano il massimo della «tolleranza», tanto è vero che l'anticomunista Zacharov vive libero e rispettato, invece di trovarsi dove si meriterebbe, cioè in Siberia?

Il potere politico nasce dalla canna del fucile.

Mao


Chi voglia essere un creatore nel bene e nel male, deve innanzitutto essere un distruttore e frantumare valori.

Nietzsche


Usura internazionale

Attraverso una vera e propria usura internazionale i popoli poveri diventano sempre più poveri a vantaggio di quelli ricchi, che arricchiscono sempre di più.

I
Per chi non lo sapesse -checché ne dicano i vari pennivendoli del giornalismo nazionale ed i vari politicanti da corridoio, indistintamente venduti ai padroni di casa (leggi Confindustria) od a quelli d'oltreoceano (leggi Stati Uniti), il che fa lo stesso- il Fondo Monetario Internazionale ha una funzione fondamentale che troppo spesso ci si «dimentica» di menzionare: quella di servire gli interessi degli americani nella loro politica imperialista.
Attraverso il Fondo Monetario Internazionale gli Stati Uniti hanno modo di porre le economie nazionali dei Paesi satelliti in condizioni di privilegio o di inferiorità, a seconda dei propri interessi.
Il Fondo Monetario Internazionale -infatti- da agli USA il potere di creare artificialmente il valore delle monete. Sottovalutando o sopravvalutando la moneta di un Paese rispetto al livello dei suoi costi interni, si creano artificialmente degli incentivi o delle penalità alle importazioni ed alle esportazioni (rispettivamente) di quel paese.
Il Fondo Monetario Internazionale, in poche parole, serve agli Stati Uniti per colonizzare il mercato capitalistico.
Per comprenderci meglio, faremo un esempio.

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Quando gli Stati Uniti, al tempo della guerra fredda, decisero di creare una Germania economicamente forte, non fecero altro che servirsi del Fondo Monetario Internazionale per sottovalutare il marco. Fu sottovalutato del venticinque per cento circa.
Le esportazioni tedesche, grazie a questa sottovalutazione, ricevettero uno sconto del venticinque per cento rispetto ai costi interni: la Germania poteva vendere a 75 lire quello che, in condizioni normali, non avrebbe potuto vendere a meno di 100 lire.
In tali condizioni di privilegio monetario, era logico che la Germania aumentasse vertiginosamente le sue esportazioni, con profitti da dare il capogiro, e con una larghissima monetizzazione del mercato.
Perché gli americani posero la Germania in questa condizione di privilegio? Non certo perché avevano bisogno di una Germania forte in funzione antisovietica, come sostiene qualcuno, perché essi sapevano benissimo che anche allora con l'Unione Sovietica ci si poteva sempre metter d'accordo.
Il motivo è un altro ed è molto semplice: il premio sull'esportazione (dovuto alla sottovalutazione del marco) permise alla Germania di battere la concorrenza e di imporre i suoi prodotti su tutti i mercati del mondo.
Si ebbe così un continuo afflusso di capitali nelle banche tedesche. Questi capitali, poi, finivano (e tutt'ora finiscono) negli Stati Uniti d'America, sotto forma di prestiti per la difesa del dollaro.
Il compito della Germania -dunque- fu (ed è) quello di rastrellare da tutti i mercati del mondo più capitali possibili, per poi riversarli nelle casse americane. Conseguenza più visibile di questo giro: i popoli poveri diventano sempre più poveri, a vantaggio di quelli ricchi, che arricchiscono sempre di più.

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Qualche tempo fa la cronaca registrò un avvenimento che a molti potrebbe sembrare curioso: in Calabria molti produttori di arance avevano preso a distruggere il proprio prodotto stritolandolo sotto i cingoli dei trattori o i pneumatici dei camions.
Erano improvvisamente impazziti? Oppure in Italia abbiamo tanta frutta da poterci permettere il lusso di distruggerne a tonnellate? Niente di tutto questo. Quegli agricoltori erano perfettamente sani di mente, e d'altra parte la frutta in Italia, semmai, scarseggia, tanto è vero che per molti consumarne tutti i giorni è tutt'ora un lusso.
La verità è un'altra: quei produttori hanno distrutto le arance a scopo dimostrativo, contro il fatto che in Italia mangiamo arance israeliane. Perché sono più buone? Nient'affatto. Perché costano meno.
E perché costano meno?
Non certo perché le tecniche colturali adottate in Israele siano più economiche di quelle adottate in Italia. Da questo punto di vista, anzi, c'è da dire che semmai i costi di produzione sono più alti in Israele che in Italia.
Le arance israeliane costano meno di quelle italiane grazie alla sottovalutazione della moneta d'Israele. La posizione di Israele nei confronti dell'Italia è del tutto simile a quella -prima descritta- della Germania nei confronti del mondo. Israele può vendere a prezzi imbattibili per noi, visto che non godiamo di nessuna sottovalutazione della lira, ed allora l'agricoltore calabrese, di fronte a questa vera e propria «concorrenza sleale», non può fare altro che trasformare le sue arance in una immensa spremuta.
Grazie al Fondo Monetario Internazionale, dunque, gli Stati Uniti possono decidere il destino dei popoli.
Sottovalutando una moneta, si mette in condizioni di privilegio l'economia del relativo Paese (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Israele, Jugoslavia, etc.) creando le premesse per la sovrapproduzione ed una forte esportazione, il tutto a svantaggio della economia delle Nazioni a moneta sopravalutata (Paesi dell'America latina, dell'Africa, dell'Asia, etc.) che viene invece predisposta agli alti costi di produzione, e quindi ad una bassa esportazione ed alta importazione (in definitiva: alla chiusura delle fabbriche, ad un basso tasso di industrializzazione, alla disoccupazione, alla miseria).

II
Si può sfuggire al colonialismo del Fondo Monetario Internazionale e, quindi, al dominio americano in materia di monete?
Tutto dipende dal grado di asservimento politico nei confronti degli USA.
La Francia -che è innegabilmente il Paese europeo meno ossequioso alla volontà di Washington (= Wall Street)- pare aver dimostrata la possibilità di sfuggirvi.
Così almeno fanno pensare i risultati da essa ottenuti in occasione della recente crisi del franco.
Cerchiamo di comprendere cosa è in realtà successo.
«I primi segnali di allarme cominciano a suonare il 4 novembre quando le voci di una possibile rivalutazione del marco diventano sempre più insistenti. La Germania occidentale sta registrando da mesi uno sviluppo spettacoloso nel campo economico e in particolare nell'industria. La produzione industriale progredisce a ritmo annuo del 20%. La produttività è arrivata a livelli mai raggiunti, le riserve ammontano a poco meno di 10 miliardi di dollari e la bilancia dei pagamenti con l'estero segna un attivo di due miliardi e mezzo di dollari. Chi cerca una moneta sicura, in mezzo a tante monete oscillanti e a tante economie fragili, non ha dubbi: i risparmiatori di ogni parte del mondo cominciano ad indirizzare i loro risparmi verso le banche di Francoforte, e i francesi seguono anche essi la corrente. Anzi, la seguono con maggiore entusiasmo di tutti: nella settimana tra il 4 e il 9 novembre, 500 milioni di nuovi franchi passano il Reno e vanno a depositarsi nelle casse delle banche tedesche, mentre di altrettanto diminuiscono le riserve di valuta estera della Banca di Francia. È il primo segnale di avvertimento», (da "L'Espresso").

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Di questo passo, è il tracollo. Si tenta di arrestare l'emorragia monetaria aumentando del 6 per cento il tasso di interesse della Banca di Francia. Non solo non si avverte nessuna tendenza al ritorno in patria dei capitali, ma addirittura la fuga del franco diventa più massiccia. Il problema ormai interessa tutti i Paesi occidentali, che rischiano di andare a fondo insieme alla Francia, se non si corre ai ripari.
Si riuniscono a Basilea, fra il 15 ed il 18 novembre, i Governatori delle banche centrali europee. Non si arriva a nessun risultato. Il problema, ormai, non è più un problema di economia; è diventato un problema politico.
La situazione non accenna minimamente a migliorare. Si mormora di un'eventuale rivalutazione del marco tedesco. Come conseguenza, l'afflusso di moneta verso la Germania aumenta ulteriormente. La situazione diventa di ora in ora più minacciosa: si decide allora di riunire il cosiddetto Club dei Dieci.
Il Club dei Dieci è il consesso dei Paesi economicamente più floridi del mondo «occidentale». Esso si riunisce il giorno venti a Bonn.
Con l'acqua alla gola, spalleggiati dai loro cugini poveri di Londra, gli americani tentano di indurre tedeschi ed italiani a rivalutare le rispettive monete.
Con l'educazione che il cameriere deve al padrone, i rappresentanti italiani cercano di far capire, a chi vorrebbe la rivalutazione della lira, che un passo del genere creerebbe ulteriori problemi all'economia italiana.
I tedeschi, dal canto loro, sono ben decisi a difendere la posizione di privilegio derivante dalla sottovalutazione del marco. Di rivalutare la loro moneta, non se ne parla. Su questo la posizione di Strauss e di Schiller è irremovibile. Le pressioni di Harold Wilson sul Cancelliere Kiesinger, per indurlo ad operare la tanto sospirata rivalutazione, non sortiscono un effetto migliore.

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A questo punto, americani (ed inglesi) operano un repentino cambiamento di rotta: passano sulla barricata italo-tedesca, e cercano di convincere i francesi a svalutare il franco.
«Benissimo -rispondono i francesi- siamo disposti a svalutare. Ma non del 9-10 per cento, come vorreste voi. Se si deve svalutare, svaluteremo del 20-25 per cento».
Inglesi ed americani cominciano a tremare. Sanno benissimo che per rimettersi seriamente in sesto -cioè per adeguarsi alla verità dei prezzi e dei costi- i francesi dovrebbero svalutare almeno del venti per cento (devaluation sauvage). Ma sanno altrettanto bene che una svalutazione così massiccia del franco coinvolgerebbe senza scampo nella crisi anche la sterlina ed il dollaro. Non si aspettavano dalla Francia un simile tiro mancino. Credevano che questa si sarebbe accontentata di una svalutazione contenuta entro i limiti del 9-10% (devaluation moderée): un palliativo.
La conclusione della faccenda è ormai nota a tutti.
II club dei Dieci ha concesso alla Francia un prestito di tre miliardi di dollari.
De Gaulle ha ricattato nel senso vero e proprio della parola gli usurai di Wall Street: per scongiurare il pericolo che mantenesse fede alla minaccia, e svalutasse oltre il margine di sicurezza del 10 per cento, gli hanno dovuto concedere un prestito di tre miliardi di dollari (!) senza condizioni. Non solo: gli hanno anche dovuto promettere quella ristrutturazione di tutto il sistema monetario internazionale, che il vecchio Generale va auspicando da tempo.
 

La «Nuova Chiesa» e la «Santa Inquisizione»

La politica vaticana, in duemila anni di storia, è stata sempre caratterizzata da una strategia che -pur variando le situazioni politiche e le forze in gioco- si serviva sempre degli stessi metodi e mezzi.
Non disponendo il Vaticano di una capacità di pressione diretta e immediata, atta a creare fatti politici storicamente innovativi, l'unica strategia che da questa situazione poteva scaturire, era una strategia di «sfruttamento» di determinati fenomeni o linee tendenziali, più che di «creazione» di nuove situazioni politiche.
Uno degli esempi più tipici fu rappresentato dalla svolta politica segnata dall'Enciclica "Rerum novarum", con cui Leone XIII e la Curia Romana -abbandonate le ormai indifendibili posizioni della reazione economica- corsero a sfruttare il fenomeno nuovo delle rivolte proletarie, al fine di riguadagnare (con qualche concessione) l'assenso al sistema politico che reggeva e puntellava il potere temporale della Santa Sede.

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A ventitré anni dalla fine della seconda guerra mondiale, si sono cominciate a notare le prime crepe nell'edificio che le due superpotenze (URSS e USA) avevano costruito a Yalta.
Da varie parti, in vari modi, si è cominciato a levare il dissenso nei confronti della spartizione del mondo in sfere d'influenza; e laddove il cosiddetto terzo blocco dei neutrali, partendo da premesse pacifiste e distensioniste, aveva dimostrato la sterilità della propria azione con l'incapacità di modificare la situazione o perlomeno di influenzarla, oggi all'interno stesso dei blocchi cominciano ad affiorare le prime prese di coscienza più nettamente e decisamente rivoluzionarie.
Dalla contestazione pacifista si è passati all'apologia della guerriglia, alla contestazione globale, all'accettazione della violenza. Si è smesso di giocare per fare sul serio.
A questo punto era da aspettarsi la reazione delle forze radicali, che, facendosi portavoce delle richieste più contingenti e pressanti e concedendo il proprio appoggio alla battaglia rivoluzionaria, l'avrebbero al tempo stesso svuotata del contenuto più genuinamente eversore, per ridurre il tutto ad una contrattazione mercantilistica e sindacale nei confronti di un sistema che, pur riformato fino alla radice, rimane sempre lo stesso.
Superate le forze più reazionarie, le forze radicali si sono quindi gettate nell'impresa di incapsulare il fenomeno e riportarlo nel solito schema contrattualistico: abbiamo assistito così al tentativo di Robert Kennedy di riportare sul piano della discussione la contestazione promossa dalle minoranze negre e dai giovani; così come, d'altronde, si è notato in Europa il tentativo di recupero da parte dei sindacati e dei partiti del movimento studentesco.
Nel quadro di questo contrattacco delle forze radicali si è inserita, per esigenze tattiche, la nuova politica vaticana, che dall'americanismo (occidentalismo) netto di Pio XII, si è andata evolvendo verso l'ecumenismo kennediano di Paolo VI.
Abbiamo assistito -così- ad un radicale mutamento della politica vaticana.

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Tipico il caso del Sud America, dove il Clero locale si orienta sempre più verso una forma di opposizione flessibile nei confronti delle oligarchie latifondiste e militari da essa stessa a suo tempo appoggiate.
Il fenomeno castrista e soprattutto la mitica figura di Che Guevara, sembrano aver risvegliato nelle coscienze dei popoli sudamericani la rivolta contro lo sfruttamento politico ed economico a cui da decenni sono sottoposti dai potenti trusts statunitensi, che controllano quasi completamente l'economia latino-americana.
All'interno del mondo cattolico sudamericano, si sono venuti a creare fenomeni di adesione alla lotta armata contro i sistemi politici di quei paesi, sistemi caratterizzati dal predominio di oligarchie latifondiste o militari appoggiate all'interno dalla borghesia timorosa del castrismo e all'esterno dalla rapace potenza USA.
L'Enciclica "Populorum Progressio" indica a grandi linee la nuova politica vaticana nei confronti delle grandi masse affamate e sottosviluppate del terzo mondo. Mentre da una parte il Papa si fa alfiere di una crociata contro la fame e il sottosviluppo, chiedendo un cambiamento dei meccanismi dei mercati mondiali e la creazione di un fondo pro-sottosviluppati, dall'altra non si azzarda a colpire la causa politica del sottosviluppo (imperialismo).
Notevole risulta anche essere il nuovo orientamento, preso dalla politica vaticana per quanto riguarda l'amministrazione di quel serbatoio di voti che nei regimi democratico-liberali è rappresentato dall'elettorato cattolico.

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In Italia il distacco dalle forze moderate-conservatrici si è manifestato con la sempre maggiore autonomia di azione che le ACLI hanno ripreso nei confronti del partito che fino ad oggi è stato la proiezione della politica vaticana nell'ambito italiano. È significativo il fatto che, di fronte alla manifestazione d'immobilismo quasi reazionario della DC nei confronti delle richieste degli ambienti progressisti e radicali, il Vaticano abbia ripreso a manovrare cercando nuovi strumenti.
I fermenti nuovi che agitano il mondo cattolico si sono bene evidenziati al congresso delle ACLI di Vallombrosa. Il presidente delle ACLI Labor propose di presentare, alle elezioni, liste autonome dalla DC.
Ciò potrebbe significare che nel laicato cattolico già vasta e cosciente è la volontà di rompere con le forze moderate e conservatrici, ormai padrone della DC. L'ultima remora che potesse ancora trattenere le ACLI è caduta quando il Papa ha mandato una lettera al card. Siri in occasione della Settimana Sociale dei Cristiani. In questa lettera il card. Cicognani (e quindi il Papa), faceva un'ampia disamina della società moderna e dei suoi problemi politici e -dopo aver negato la validità del sistema partitocratico- prendeva una posizione profondamente critica nei confronti di alcuni tabù del sistema attuale, come la Costituzione e i partiti tradizionali, giungendo perfino a chiedere -se necessario- la modifica della prima e l'abbandono dei secondi se politicamente valido.
Che questa lettera significhi che le ACLI si muovano su ordine del Vaticano è indubbio, ma è altresì evidente che con queste manovre esse e la Santa Sede stanno cercando di abbandonare le vecchie posizioni filo-moderate per appoggiarsi a nuove forze politiche, che si vanno organizzando nella nuova sinistra italiana radicale e progressista.
L'esperimento giovanneo ha dimostrato che anche le più tradizionali forze laiche e anticlericali sono disponibili, in cambio di modeste concessioni, a sostenere l'apparato ecclesiastico.
E così, in cambio di un atteggiamento pacifista e progressista più netto, ottenuto con la estromissione da parte di Paolo VI di alcuni elementi meno flessibili e accomodanti, il Papa è arrivato addirittura ad essere citato come esempio contro la DC e la sua politica estera.
D'altronde l'enciclica "Humanae Vitae", anche se rifiuta l'assenso papale alla cosiddetta pillola, lascia in piedi e intoccato il dialogo con le forze laiche.
Ma è opportuno fermarsi a considerare più a fondo il significato di questa enciclica, che a prima vista sembrerebbe il ritorno ad una rigidità dogmatica e tradizionalista nella Chiesa.

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Il Concilio Vaticano II aveva già messo in luce non solo alla base del mondo cattolico, ma anche nelle sue sfere più alte, l'esistenza di deviazioni e di fermenti innovatori che dimostravano la reale presenza di problemi, come il controllo delle nascite, il celibato ecclesiastico, l'obiezione di coscienza ecc., che risultavano insolubili alla luce della precedente dottrina.
Le soluzioni adottate dal Concilio non permettevano di trarre delle indicazioni chiare e nette sull'orientamento preso dalla Chiesa; anzi incrementavano la confusione in coloro che non erano riusciti a discernere fin dove arrivasse il tatticismo e dove cominciasse la reale posizione della Santa Sede.
Non si era cioè capito che certe posizioni demagogiche prese nelle discussioni conciliari dimostravano solamente che la Santa Sede non si riteneva abbastanza forte e sicura per ignorare certe istanze o condannarle.
Laddove quindi si volevano accontentare quegli strati sensibili alle innovazioni, il Vaticano volutamente aveva applicato il metodo della carota; laddove invece nel mondo ecclesiastico, cioè nelle sue gerarchie, si è dimostrata una tendenza ingenuamente innovatrice, il Vaticano ha iniziato ad usare il metodo del bastone: si parla addirittura di ispettori della Santa Sede in Svezia e in Olanda il cui compito sarebbe quello di raddrizzare la situazione.
La posizione vaticana, quindi, è doppia: morbida e aperta all'esterno, dura ed intransigente all'interno.
L'enciclica "Humane Vitae", si rivolge essenzialmente al clero, al quale, mentre da un lato ricorda di applicare il dettato del Papa, dall'altro raccomanda «pazienza e bontà» nei confronti dei trasgressori, usando di nuovo la distinzione giovannea tra peccato e peccatore.
Evidentemente per concedere la pillola il Vaticano vorrà essere sicuro di avere ben più alti e sicuri appoggi di quelli che ha ora.

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La politica vaticana, oggi come ieri, è una politica di cedimento calcolato che si ammanta talvolta del cinismo e dell'opportunismo più deteriore.
All'insegna della durezza laddove c'è il morbido, e della morbidezza laddove c'è il duro, il Vaticano è riuscito a superare tante tempeste, evitando sempre di essere travolto.
Aldilà delle apparenze, la verità è una: la Chiesa di oggi è pur sempre la Chiesa di sempre, cioè quella di Papa Borgia e della Santa Inquisizione.
 

Ogni critica è costruttiva. la creatività nasce anche dalla critica

Creatività
non è compilata da una cerchia chiusa di dottrinari detentori di tutte le verità.

Creatività
ha bisogno della collaborazione di tutti.

Creatività
è aperta all'opinione di quanti, studenti e lavoratori, sentano i problemi in essa affrontati.

Chiunque non è in grado di comprendere venga a discutere con noi. Tutto si può spiegare a tutti (Carta della Sorbona)



Opportunismo, tradizione nazionale

Il successo riportato dal PCI nell'ultima competizione elettorale non ha sortito altro effetto che cristallizzare su certe posizioni un'altra considerevole massa di elettori, il cui voto non ha certo permesso al partito di uscire dall'isolamento in cui si trova.
Infatti, l'unica cosa certa che si può rilevare dall'incerto, e quasi iniziatico mondo della politica italiana, è che il partito comunista è completamente isolato, checché ne dicano le querule sibille della ormai putrescente destra italiana, sempre pronte, da anni, a denunciare all'opinione pubblica il minaccioso avvicinarsi alle fontane di piazza San Pietro dei feroci cosacchi, desiderosi di abbeverarvi i loro stanchi cavalli.
La manovra iniziata dalla Democrazia Cristiana nel 1963 (creazione della formula di centro-sinistra, avente lo scopo di allargare e rendere più forte la base di sostegno del governo e di allontanare -cosa questa assai più importante- sempre più i socialisti dai comunisti) si può dire ormai completamente riuscita.
L'esito del primo congresso dei socialisti unificati non lascia dubbi in proposito: al di là delle molte incertezze, appare evidente la volontà della maggioranza del partito di partecipare alla nuova edizione del centro-sinistra. Per vincere i complessi e le frustrazioni derivate dalle umiliazioni subite nella precedente esperienza di governo, essi hanno affermato risolutamente la volontà di non cedere più ai ricatti dei loro partners e di ottenere da questi precise garanzie per il futuro. Solo una esigua minoranza sarebbe disposta ad un lavoro comune con gli ex-compagni comunisti: la sparuta schiera dei seguaci di Lombardi.
Se l'isolamento di solito è un bene, e non un male, per una forza rivoluzionaria, questo fatto naturalmente non tange per nulla il partito comunista, in quanto niente vi potrebbe essere di più ingiusto della qualifica di rivoluzionario assegnata a tale partito.
La stessa matrice culturale del comunismo italiano, del resto, ha in sé i germi della involuzione piccolo-borghese del PCI: basta pensare alla notevole influenza esercitata dal pensiero di Croce sulla formazione di Gramsci e dello stesso Togliatti, e quindi alle inevitabili conseguenze sul piano del pensiero e della prassi.
Questo sul piano ideologico. Sul piano storico basta soffermarsi a considerare -al di là di esaltazioni retoriche e reducistiche- la massima espressione dell'azione comunista: la resistenza. Essa, in sostanza, non ebbe altra conclusione (come Bordiga ha sempre rinfacciato ai suoi ex-colleghi di partito) che l'affermazione di un certo tipo di borghesia su di un altro tipo, sempre a spese della classe operaia. Fu in realtà un fenomeno «gattopardesco»: si era voluto cambiar tutto per non cambiare nulla.

Il dialogo con i cattolici
Nel 1965 Pietro Ingrao proponeva al partito, per rompere la cintura sanitaria che lo circondava, la linea del dialogo con i cattolici. Sia con il grande partito cattolico, che con le frange dei cattolici del dissenso.
Se fosse possibile continuare il discorso con la Democrazia Cristiana e portare a buon fine l'operazione intrapresa, il PCI si troverebbe a gestire il potere immediatamente, ben inteso in condominio con la DC. Si tratterebbe in fondo di un nuovo tipo di centro-sinistra. È superfluo ricercare quale sarebbe l'effettiva autonomia dei comunisti in una simile formula di governo. La precedente esperienza dei socialisti insegni.
Ora, a ben considerare, le possibilità di riuscita di una tale manovra sono piuttosto scarse. Infatti l'atto del porgere la mano al PCI non è stato certamente dettato al partito cattolico da una profonda esigenza di carità cristiana: il tutto rientrava in un preciso piano politico. In fin dei conti non è stato altro che un ricatto nei confronti dei socialisti. Un ricatto che suonava pressappoco così: «State buoni, non esagerate con le vostre richieste, altrimenti vi scavalchiamo e ci accordiamo direttamente con i vostri amici di un tempo, i comunisti». Si ricordi, a prova di questo, che la DC tanto più si mostrava aperturista e possibilista nei confronti del PCI quanto più i suoi alleati di governo si mostravano irrequieti (ad esempio il discorso di Piccoli alla Camera in occasione della crisi SIFAR).
Ben più facile si rivela il dialogo con i gruppi del dissenso, sia che facciano capo a correnti all'interno della DC o delle ACLI, sia che si tratti di cani sciolti.
Questi gruppi benché siano impotenti a spingere il partito cattolico ad una reale intesa con i comunisti, sarebbero però disponibili qualora si venisse a creare un nuovo organismo politico in cui confluissero tutte le forze della sinistra.

L'unità delle sinistre
Passata in secondo piano, per le difficoltà incontrate, la linea che proponeva l'inserimento in una specie di centrosinistra allargato, la strategia radicale per l'unità delle sinistre, sostenuta all'interno del partito da Amendola, si è presa una rivincita sulle tesi di Ingrao, che tanta fortuna avevano goduto negli anni precedenti.
La creazione di un «partito unico dei lavoratori» che catalizzi intorno a sé tutte le forze della sinistra, viene considerata dai più l'unica realtà politica capace di scalzare la DC dalle sue più che ventennali posizioni di potere e di affidare finalmente e per la prima volta alla sinistra la gestione del potere. Raggiunta la direzione dello Stato si potrebbe forse realizzare quel pacchetto di riforme che già il centro-sinistra avrebbe dovuto attuare (revisione del Concordato, introduzione del divorzio, decentramento amministrativo con la formazione delle regioni, ristrutturazione nel campo economico e sociale e così via).
È bene riaffermare che -per quanto efficaci possano essere- le riforme non intaccano per nulla le profonde radici strutturali su cui poggia il sistema. Anche se si ottenessero con ciò alcuni miglioramenti nelle condizioni generali di vita dei lavoratori, non si sarebbe fatto un solo passo avanti verso la distruzione dell'«ordine» borghese e verso l'immissione sostanziale delle masse lavoratrici nella gestione del potere. Anzi, il sistema borghese capitalista -conquistata una maggiore rispettabilità con lo sventolare la bandiera di una ormai acquisita ed indiscutibile «giustizia sociale»- si rafforzerebbe al suo interno proprio per via di queste riforme che avrebbero, in ultima analisi, lo scopo di anestetizzare ancora più profondamente la coscienza delle classi fin qui escluse dalla vera politica con l'ipocrita e comodo paravento della democrazia mediata di tipo parlamentare.

PCI, socialdemocrazia, radicalismo
Il fatto che l'unità di tutto lo schieramento delle sinistre sia una esigenza sentita non vuol dire che gli altri partiti siano troppo d'accordo nel considerare il PCI quale «polo di attrazione a sinistra», formula con la quale si è voluta sintetizzare questa strategia del partito.
Nella strategia dei socialdemocratici e dei radicali è compresa la strumentalizzazione delle forze del partito comunista. Queste, inserite nel contesto del nuovo partito, verrebbero usate per la realizzazione dei loro fini. Punto di arrivo di tale strumentalizzazione sarebbe il definitivo inserimento del PCI nell'area cosiddetta «democratica» e, da un punto di vista ideologico, la sua totale «socialdemocratizzazione». A tale riguardo si ricordi, a mo' di esempio, il discorso tenuto da La Malfa nell'aprile del 1966 ai comunisti in un dibattito con Amendola, eterno amplificatore delle tesi «radicali» nel PCI. In tale discorso si precisava che in occidente l'unica sinistra può essere quella democratica, perché la sola capace di inserirsi nel sistema per modificarne le strutture e per correggerne il meccanismo di sviluppo. Da ciò conseguirebbe per il comunismo in generale la necessità di rifiutare le posizioni «rivoluzionarie», per il PCI in particolare, la necessità di piegarsi completamente ed unicamente alla funzione di sostegno dei «radicali» impegnati nel centro-sinistra.
Tale strategia rientra completamente, a livello mondiale, nel processo distensionista, teso alla ricerca di una inconfessata sintesi tra sistema capitalista e sistema socialista, da tempo in atto tra le due superpotenze imperialiste che nel 1944 a Yalta si spartirono il mondo in sfere d'influenza.

Prospettive unitarie
Il partito comunista è indiscutibilmente il più forte e il più organizzato tra quelli interessati all'unità. Stando alle dimensioni, nell'economia del nuovo partito dovrebbe esercitare un ruolo di priorità. Da qui la fonte di preoccupazioni per socialdemocratici e radicali che ha reso più difficile la formazione di questo nuovo strumento politico. Se prima delle ultime elezioni la meta era sembrata molto vicina, ora di unità si potrà parlare, se non interverranno ovviamente fatti nuovi, fra molto tempo e forse addirittura dopo le elezioni del '73. Ciò appare evidente dalle dichiarazioni rilasciate recentemente da La Malfa e da alcuni esponenti del PSU.
Infatti fra le condizioni ricercate per intavolare trattative più serie e conclusive vi era -oltre ad un ammorbidimento delle posizioni ideologiche e politiche del PCI- la necessità di un suo sensibile calo di elettori, che lo ponesse in condizioni di inferiorità (per lo meno psicologiche) di fronte ai suoi interlocutori, nonché un sensibile rafforzamento del PSU e del PRI. Ma i risultati delle urne, come è noto, hanno deluso i pronostici della vigilia.
Quindi, per il prossimo futuro, ogni passo verso l'unità, che non sia puramente tattica e contingente, è da escludere. Ciò non vuol dire che socialisti e radicali non abbiano intenzione di continuare il discorso con i comunisti. Anzi il dibattito su questo problema, nelle dichiarazioni di uomini politici e sulle colonne di giornali quale "l'Espresso" e "l'Astrolabio", si è fatto negli ultimi tempi sempre più intenso, e sicuramente aumenterà di tono col passar del tempo. I socialisti e i radicali sono consapevoli della attuale portata storica della unità della sinistra italiana, senza la quale, del resto, nessuna formazione partitica sarebbe in grado di raggiungere il potere con le proprie forze. E coscienziosamente si sono messi a lavorare per le prospettive che offre loro il futuro. Anche se per ora il lavoro in comune con i comunisti non può sfociare -per quanto detto sopra- in unità organizzativa, mantiene sempre una sua importante funzione. Quella di spingere sempre di più il PCI su posizioni riformistiche, approfittando di quella crisi del partito che è crisi non solo a livello politico ma anche, e soprattutto, a livello ideologico (come i fatti di Praga hanno drammaticamente messo in evidenza nei mesi scorsi).
Da parte sua il partito comunista -incapace di trovare una sua vocazione rivoluzionaria, con la minaccia di una spaccatura sospesa sul capo- si dimostra sempre più sensibile e recettivo verso quelle tematiche di importazione radicale e socialdemocratica che permeano ormai vasti strati dei suoi quadri. Cedendo via via alle lusinghe che vengono dal centro e alle suggestioni che vengono da sinistra, il PCI ha creduto di poter uscire dal ghetto in cui da venti anni si trova costretto, seguendo le due strade che gli si offrivano aperte. Così facendo, ha ottenuto in definitiva un solo risultato: quello di spingersi sempre più sulla strada di una lunga tradizione italiana: l'opportunismo.
 

L'opportunismo non è più un effetto del caso, né un errore, né una svista, né il tradimento di individui isolati, ma il prodotto sociale di tutta un'epoca storica.

Lenin


Messico insegni

È necessario raggiungere l'unità di tutte le forze rivoluzionarie non su basi tattiche ma su precise impostazioni ideologiche e politiche che superino i vecchi schemi decadenti e che siano frutto della creazione di una nuova forza, maturata nell'attività rivoluzionaria di ogni giorno

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«I compagni sono sfiduciati: da 40-50 mila che erano attivi nel Movimento alle ultime assemblee eravamo presenti in 4 o 5 mila». Questa sconsolata affermazione, benché sia stata fatta da un appartenente al Movimento Studentesco messicano, sarebbe stata ugualmente bene sulla bocca di un collega del Movimento francese o italiano. Infatti una caratteristica comune a tutti i Movimenti Studenteschi, europei o extraeuropei, è quella di non aver continuità d'azione esterna: lo abbiamo visto in Messico, lo stiamo vedendo in Francia e soprattutto lo vediamo in Italia, dove si è stati costretti a riprendere dall'inizio o quasi l'opera di sensibilizzazione degli studenti.

Gli studenti messicani
Ciò, se non ci preoccupa per la sopravvivenza del Movimento (infatti, se il Movimento esiste pur raggruppando tante componenti diverse è chiaro come il sole che le basi per la sua esistenza ci siano effettivamente: in altri termini il Movimento Studentesco ha lo spazio politico in cui operare, anzi è facilmente prevedibile che tale spazio si farà sempre più ampio), ci preoccupa però per il suo futuro sviluppo al di là dello spontaneismo a livello di massa che lo ha caratterizzato finora. Per assolvere una funzione creativa il Movimento deve continuamente evolversi, non fossilizzarsi su posizioni già raggiunte, deve continuamente «creare» e non a livello di avanguardie più o meno vaste, ma a livello di masse sensibilizzate politicamente.
Indubbiamente, se dopo l'estate bisogna ricominciare da capo, qualcosa non ha funzionato: occorre quindi chiedersi dove sia l'errore o gli errori commessi e trarne un valido insegnamento per il futuro.
A tale scopo è utile un'analisi critica dello sviluppo del Movimento Studentesco Messicano: infatti, pur tenendo presenti le obiettive differenze esistenti a causa delle diverse situazioni locali, la tematica e la strategia (se di strategia si può parlare) rimangono le stesse, diversificandosi, non nella qualità, ma solo nell'intensità delle reazioni provocate.
Il Movimento degli studenti messicani, come appare chiaro anche dalle ultime notizie, non ha saputo reggere alla violenza della reazione borghese e sta attraversando un periodo di grave crisi, soprattutto a causa di una mancanza che si è rivelata decisiva: il non aver preparato una strategia a lungo termine che si ponesse reali obiettivi rivoluzionari e non unicamente lo scopo di far «casino», rimasto poi inevitabilmente fine a se stesso. In tal modo si è lasciato spazio d'azione agli individui più impreparati e semplicisti, occupati a riempirsi la bocca colla parola «revolucion» e a veleggiare col pensiero fra mille nuvolette, magari colorate di un bel rosso rivoluzionario e non di rosa, ma sempre lontane mille miglia dalla realtà terrena.
Così si è sopravvalutata la potenzialità rivoluzionaria degli studenti e non si è minimamente presa in considerazione la sorda lotta che alcune frazioni del partito al potere stanno conducendo tra loro, lotta che invece (come avremo modo di constatare nel corso dell'analisi) ha giocato un ruolo di primo piano.

«Il pericolo rosso»
La situazione politica del Messico è infatti complessa, malgrado l'aspetto apparentemente semplice che essa presenta. Al potere è, da 40 anni, il Partito Rivoluzionario Istituzionale, che attualmente ha perso la sia pur minima spinta innovatrice che aveva all'origine e si è trasformato in un'accozzaglia di correnti estremamente diverse tra loro e che vanno dalla sinistra riformista alla destra reazionaria, in continua guerra per il predominio nel partito e quindi nel paese (per avere subito chiara la situazione basta pensare alla DC nostrana).
Gli uomini della destra del PRI, per ottenere la successione all'attuale presidente, Diaz Ordaz, hanno pensato di presentarsi agli occhi della borghesia come «i salvatori della patria» di fronte a un complotto comunista mirante ad impadronirsi dello stato.
Sfortunatamente per loro, a questo disegno si opponeva però un piccolo particolare: il Partito Comunista Messicano, lungi dall'intraprendere pericolose azioni rivoluzionarie, si cullava nella sicurezza delle piccole posizioni di potere raggiunte con l'inserimento nel sistema parlamentare.
D'altra parte i soli movimenti autenticamente rivoluzionari presenti in Messico -quelli di ispirazione cinese e cubana- non avevano ancora raggiunto una consistenza tale da incutere un gran spavento alle classi conservatrici e quindi anche da questa parte nulla di concreto su cui appoggiarsi.
L'obiettiva situazione politica non ha però scoraggiato la destra che, di fronte alla mancanza di un reale «pericolo rosso» ha pensato bene di crearlo artificiosamente. (È questo un procedimento usuale alla destra in genere, non limitato a quella messicana: infatti essa, priva di qualsiasi funzione creativa, si è ridotta a svolgere un semplice ruolo di negazione. È logico, quindi, che, di fronte alla mancanza di una realtà da «negare», la destra sia costretta, per conservarsi una ragion d'essere, ad inventarla). Già dalla primavera scorsa si era sparsa infatti la voce di un complotto castrista per sabotare le Olimpiadi e il vice capo della polizia di Città del Messico, insieme al capo del servizio segreto, rivelò alla stampa particolari terrificanti su questo piano dimostrando tra l'altro di possedere una notevole dose di fantasia macabra evidentemente allo scopo di preparare l'opinione pubblica a una severa repressione.
Il piano non è rimasto alla fase di progetto ma è stato attuato praticamente e con successo. Infatti la destra del PRI ha fatto in modo che gli scontri fra studenti e polizia divenissero sempre più gravi: a riprova di ciò il Movimento cita due episodi; gli incidenti del 26 luglio in Piazza dello Zocalo e del 24 settembre in Piazza delle Tre Culture.

«Guanti bianchi»
Il 26 luglio alcune migliaia di studenti, mentre manifestavano contro la dura azione della polizia, intervenuta il giorno precedente per sedare dei disordini scoppiati fra due scuole pre-universitarie, furono caricati a freddo dalla polizia in piazza dello Zocalo, circondata da ogni parte da reparti di granaderos. Gli studenti si difesero con delle pietre trovate in decine di carrettini dei netturbini, «inspiegabilmente» abbandonati nella piazza.
Il Movimento Studentesco afferma che gli organizzatori dell'agguato e coloro che avevano predisposto i carrettini sono gli stessi individui che avevano interesse a che la situazione si estremizzasse, ossia gli uomini della destra del PRI. Anche gli uomini con una mano guantata di bianco che parecchi esponenti del Movimento hanno visto aprire il fuoco nella Piazza delle Tre Culture contro la polizia e contro gli stessi studenti e che, appena iniziata la battaglia, scomparvero misteriosamente, sarebbero stati ispirati dagli stessi elementi.
Questa tesi è avvalorata anche dalla «confessione» di Socrate Campus Lemus, presunto dirigente dell'organismo coordinatore su scala nazionale della lotta, il quale -dopo esser stato per tre giorni nelle mani della polizia- ha dichiarato che il Movimento era finanziato da una frazione di sinistra del PRI esclusa dal governo la quale voleva riconquistare il potere attraverso un complotto. In realtà tale «finanziamento» era stato di sole 50 mila lire, ma su questa tenue base si è imbastita la montatura del complotto comunista con la quale anche la nostra stampa, timorosa che si compromettessero le olimpiadi, ci ha deliziato.

I falsi rivoluzionari
I dirigenti revisionisti, per evitare qualsiasi pericolo di perdere i vantaggi personali a cui erano faticosamente arrivati, avevano subito sconfessato gli studenti.
In una dichiarazione alla stampa fatta appena la situazione si era arroventata, essi avevano infatti affermato che il Movimento Studentesco Messicano era sobillato dalla CIA «perché le agitazioni avrebbero potuto costituire un mezzo di pressione sul governo messicano». (Non si capisce bene che bisogno avessero gli USA di sobillare il Movimento per premere sul governo quando l'economia messicana, grazie anche a Diaz Ordaz, è quasi completamente nelle mani del capitale statunitense: l'80% dell'industria automobilistica, il 90% di quella della gomma, il 60% di quella chimica, l'80% di quella alimentare, il 90% di quella farmaceutica e pressocché tutta l'industria alberghiera sono direttamente o indirettamente controllati dai banchieri di Wall Street).
Inoltre, quasi a ribadire come il governo messicano non avesse nulla da temere da loro, i dirigenti del PCM aggiungevano che «il governo di Diaz Ordaz è il governo più rivoluzionario che il Messico abbia mai avuto». (Ben strana concezione debbono avere i revisionisti messicani della parola «rivoluzionario» se arrivano a confonderla con «reazionario»!).
Purtroppo solo una minima parte degli studenti ha capito quale gioco si stesse tentando sulla propria pelle ed ha cercato di correre ai ripari raggiungendo una tregua col governo, ma gli «estremisti» hanno voluto indire lo stesso una manifestazione per «tener viva la fiamma del Movimento», offrendo alla destra quell'occasione che, come abbiamo visto, non si è lasciata sfuggire (strage di Piazza delle Tre Culture).
Analizzando ora gli errori del Movimento Studentesco messicano vedremo che basta cambiare il contesto e li ritroviamo presenti anche negli altri Movimenti.
Innanzitutto l'errore più grave è costituito dalla mancanza di una linea strategica che si ponesse concretamente iì problema della rivoluzione e che quindi tenesse conto delle reali condizioni in cui agire.
Questo problema, a quanto pare, non si è nemmeno posto, dato che, provocando (o lasciando provocare) una situazione insurrezionale si è spaventato il regime in misura non proporzionale alle reali possibilità di lotta del Movimento che si è trovato così ad affrontare una reazione che lo ha soffocato.
In ultima analisi, non avendo la coscienza di ciò che si doveva e poteva fare (e soprattutto di ciò che NON si doveva e NON si poteva fare) si è lasciata l'iniziativa all'avversario che se ne è servito ampiamente e, cosa ancora più grave, se ne servirà maggiormente in futuro, stroncando sul nascere qualsiasi altro momento potenzialmente rivoluzionario.
La faciloneria e l'improvvisazione del Movimento Studentesco messicano offrono anche l'occasione per fare delle considerazioni non certo benevole perso quella genìa di sedicenti rivoluzionari, (in realtà semplici ammalati di infantilismo estremista) che sentono realizzate tutte le loro aspirazioni « contestatarie » quando si trovano in mezzo al disordine di piazza, più o meno violento.

Prospettive
Occorre insegnare a questa gente che il sistema non si contesta uccidendo tre o quattro poliziotti e nemmeno uccidendone tre o quattrocento e protestando poi contro la inevitabile «repressione borghese». Così si forniscono nuove armi al regime per soffocare i fermenti potenzialmente rivoluzionari, prima che questi abbiano acquistato sufficiente forza per porsi come alternativa di potere allo stato borghese.
Bisogna appunto creare una alternativa di potere: questo lo si può raggiungere solo con l'appoggio completo delle masse. Bisogna, con un lavoro continuo e capillare, restituire alle masse degli studenti e dei lavoratori la coscienza politica da troppo tempo narcotizzata dalla propaganda della grandi centrali di potere.
Neutralizzando l'opera dei gruppi revisionisti e riformisti, che vorrebbero far credere che basti realizzare qualche piccolo cambiamento per trovarci tutti quanti nel paese di Bengodi, occorre nello stesso tempo sensibilizzare le masse sul problema di fondo, sulla necessità di cambiare l'attuale società in maniera radicale. Ma in qual modo? Agendo su un particolare obiettivo allo scopo di portare le masse alla lotta, acuendo e sfruttando a tal fine le contraddizioni interne dei singoli istituti dello Stato, occorre poi superare il momento settoriale della lotta, facendo capire alle masse che la soluzione del singolo problema è intimamente legata alla soluzione del problema generale: il problema della società.
Per far questo è però necessario raggiungere l'unità di tutte le forze rivoluzionarie non su basi tattiche ma su precise impostazioni ideologiche e politiche che superino i vecchi schemi decadenti e che siano frutto della creazione di una nuova forza, maturata nell'attività rivoluzionaria di ogni giorno. Se è vero che questo obiettivo è realizzabile a lunga scadenza, è altresì incontestabile la necessità di perseguirlo costantemente. Si creerà così un'avanguardia capace di guidare le masse, di farle interessate e partecipi alla lotta contro l'attuale società, finché la sentiranno come la LORO lotta.
Fino a quel giorno bisogna evitare di affrontare frontalmente la forza repressiva dello Stato: solo quando si sarà sicuri di potersi difendere e contrattaccare vittoriosamente si potrà dare al sistema la spinta finale che lo farà definitivamente precipitare nella fossa che gli avremo scavato giorno per giorno, con un'attività efficacemente rivoluzionaria.