Italia - Repubblica - Socializzazione

♦ ♦  liberi scritti per un'alternativa di civiltà  ♦ ♦

«Nessuno si meravigli del caos delle idee,
nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia.
Questo caos è lo stato d'emergenza delle idee nuove»
(Carta della Sorbona)

 

 Anno 1 - N. 3 (in attesa di autorizzazione)
Roma, Aprile 1969

IN QUESTO NUMERO:

* lotta e repressione

* il movimento studentesco dopo un anno

* la docimologia

* un trattato e molti servi

* estratto della commissione "scuola e società": analisi della scuola italiana odierna
(1ª parte)
 

 

Allo scopo di stabilire uno stretto contatto con i nostri lettori, riserviamo alcune pagine del nostro periodico agli scritti di quanti vorranno portare un contributo di idee alla comune battaglia.


lotta e repressione

Nel momento in cui il potere costituito, gettando ancora una volta la maschera di tollerante e bonaria comprensione verso gli studenti che si «agitano», ricorre nuovamente alla minaccia del suo potenziale repressivo, è utile fare delle considerazioni sulla tattica di cui esso si avvale nei confronti di tutte le forze che realmente lo osteggiano.
Una corretta analisi del meccanismo repressivo la si può fare prendendo in esame le manovre attuate nei confronti del Movimento Studentesco.
Il sistema ha dimostrato di sapersi servire in maniera stupefacente di tutte le armi a sua disposizione, adattando la sua tattica ai diversi momenti di maggior forza o di maggior debolezza del Movimento, sfruttando in maniera esemplare i suoi sbagli, rintuzzandone gli attacchi più virulenti e passando a sua volta al contrattacco.
Il principio ispiratore della linea repressiva seguita contro il Movimento è stato questo: individuare e separare gli elementi «irriducibili» da quelli recuperabili, colpire con tutta la violenza possibile i primi e cercare, con il più ipocrita paternalismo, di «recuperare i secondi alla società».
Quindi misure di intimidazione poliziesca per i primi (perquisizioni domiciliari, denunce a profusione, pesanti condanne, ecc.), cercando di evitare la sia pur minima pubblicità. Blando atteggiamento paternalistico, reclamizzato al massimo, per i secondi (amnistia, comprensione per la protesta -se contenuta- riforme, ecc.).
Questo è stato l'atteggiamento seguito non solo a livello dell'apparato repressivo -polizia, magistratura- o a livello politico da parte del governo e dei partiti «d'opposizione» (sia che si presentino come i «paladini» o i negatori della rivolta studentesca), ma anche da parte dei grandi organi di informazione (e soprattutto di formazione) dell'opinione pubblica.
Infatti questi riconoscevano la validità dei motivi della protesta, ma ne condannavano la «estremizzazione» al di fuori dei problemi strettamente scolastici, cercando di svilirla limitandola a mera contrattazione sindacalista. Indubbiamente in questo sono stati favoriti dal diffuso qualunquismo imperante nelle masse, ormai diseducate a qualsiasi forma di impegno politico che non sia quella, vuota di qualsiasi reale significato, della «scheda».
* * *

La reazione del Movimento a questa tattica repressiva è stata del tutto inefficace: da parte del sistema si voleva acuire la già esistente frattura tra un numero limitato di elementi, a un livello avanzato di politicizzazione, e la base, ancora su posizioni di rivolta istintiva. Nel Movimento, invece di impostare tutto un lavoro tendente a facilitare il processo di sensibilizzazione già in atto -in una certa misura- nelle masse studentesche, si è arrivati con una ottusa «sufficienza», ad irridere ed osteggiare coloro che volevano portare avanti questa linea.
Si è impostata tutta una campagna di stampa tendente a dar via libera alle forze di destra, in modo di poter portare avanti la solita tematica dei due opposti estremismi; tematica tendente a far risaltare la funzione di «equilibrio» del «centro democratico». Il Movimento Studentesco, invece di denunciare e di emarginare la manovra in atto, ha lasciato, non dando una giusta valutazione dei fatti (1), che la destra imbastisse una sciacallesca speculazione sugli avvenimenti cecoslovacchi (come, da un angolo prospettico diverso, ha fatto la sinistra).
Di esempi come questi se ne potrebbero portare a decine, ma è preferibile, per portare delle proposte costruttive, fermarsi qui.

* * *
Reagire alla manovra in atto è facile, almeno teoricamente: il difficile è impostare praticamente la soluzione, superando tutte le difficoltà che porranno i sostenitori della linea avventurista e spontaneista, tenaci avversari di ogni iniziativa tendente a far sì che le masse prendano coscienza di una seria impostazione rivoluzionaria che vada al di là di ogni puerile atteggiamento anarcoide.
Dovunque è possibile, occorre impostare un lavoro di studio delle reali condizioni della società neo-capitalista, dei suoi meccanismi e delle sue contraddizioni, ricercando nello stesso tempo le soluzioni da contrapporle, verificando nella prassi quotidiana la giustezza della linea seguita, onde evitare di cadere nel vuoto intellettualismo da «torre d'avorio».
Logicamente, per far questo, si deve cercare di sgombrare il pensiero da ogni soluzione derivante da analisi della società ormai vecchie, fatte in condizioni estremamente diverse e che, anche se allora portarono a delle conclusioni indubbiamente valide, oggi non corrispondono più all'evoluzione che la società ha subito.
L'esperienza insegna che bisogna anche dare una corretta valutazione di tutti gli avvenimenti politici, per evitare che le masse siano indotte ad un giudizio non obiettivo dalle tesi faziose dei mass-media, interessati a dare una visione distorta dei fatti.
Ma soprattutto occorre che i frutti di quella che sarà necessariamente un'elaborazione di pochi (è insperabile per il momento pensare che a un simile lavoro possono partecipare le grandi masse: questo è un obiettivo per il futuro) siano portati a conoscenza di tutta l'opinione pubblica, e fare in modo che le masse ne dibattano e portino il loro apporto critico, in modo che non si realizzi un indottrinamento di diverso genere, ma che realmente si abbia un elevarsi della coscienza politica popolare.
In contrapposizione al sistema che vuole fare in modo che le masse restino prive degli strumenti critici per valutare la situazione di asservimento non solo economico, ma politico, culturale, morale in cui sono tenute, bisogna non mettersi nella posizione accademica di «depositari del verbo», ma di chi vuole concretamente contribuire alla libertà delle masse.
È questo l'unico modo per formare un movimento rivoluzionario che realmente sia l'espressione concorde di una volontà rivoluzionaria popolare.

E. C.
III anno chimica

(1) La giustificazione data al fatto che non si è presa posizione sui fatti cecoslovacchi è stata questa: «Il Patto di Varsavia non ci interessa: l'Italia si trova nella NATO; è la NATO che bisogna attaccare e distruggere per creare delle possibilità rivoluzionarie in Italia». Questo ragionamento è però inficiato dal fatto che la NATO trova la sua giustificazione nella politica delle zone d'influenza USA e URSS: il problema non è tanto attaccare e distruggere la NATO o il Patto di Varsavia, il problema è attaccare e distruggere la politica dei blocchi; solo così sarà possibile creare una possibilità rivoluzionaria in Italia come in Europa, in Sud America, in Africa, in Asia. La parola d'ordine quindi non deve essere «No all'imperialismo americano», ma «NO ALL'IMPERIALISMO, NO ALLA SANTA ALLEANZA USA - URSS». (N.d.R.).


La docimologia

La docimologia ha dimostrato, che l'esame è fondato sull'ingiustizia: giustizia, infatti, vuol dire anche dare a ciascuno ciò che si merita, utilizzando lo stesso parametro di giudizio per tutti

La controversia sulla utilità o meno dell'esame, non è affatto nuova: illustri pedagoghi e psicologi borghesi si sono posti il problema in vari modi e a più riprese; esiste addirittura una specie di scienza che studia la validità o meno dell'esame: la «docimologia».
La docimologia nacque nel 1928, quando il prof. Henry Piéron, dell'Istituto di Psicologia di Parigi, iniziò gli studi in questo campo.
La "Fondazione Carnegie" finanziò allora studi su questo argomento in sette paesi; solo in Francia ed in Inghilterra però si compirono studi con qualche risultato, ma furono subito accantonati per essere ripresi ai giorni nostri.
Il metodo seguito per analizzare i risultati degli esami è per la docimologia quello statistico; le statistiche possono essere fatte sia sui risultati di esami realmente svoltisi, sia su votazioni ottenute in appositi esperimenti.
In un esperimento realizzato a Parigi, furono sottoposti a cinque professori due compiti svolti da uno studente, al quale avevano fruttato due bocciature, a giugno e a ottobre; i cinque esaminatori erano naturalmente all'oscuro di ciò. I compiti si articolavano in cinque domande, ognuna delle quali classificabile in ventesimi (in totale, quindi, una gamma di voti da 0 a 100). I risultati sono significativi: i voti andavano da un minimo di 45 per il primo compito e di 32,5 per il secondo, ad un massimo di 78 per il primo compito e di 73 per il secondo: tre professori avrebbero promosso il candidato in tutti e due i compiti, e solo due lo avrebbero bocciato.
Si provava così che gli esaminatori discordano fra loro ed in modo notevole.
In un esperimento dei docimologi Weinberg e Laugier, un professore fu invitato a riesaminare le copie di trentasette prove scritte di fisiologia, da lui stesso esaminate e giudicate tre anni prima.
Risultato: solamente in sette prove i giudizi concordavano, mentre negli altri trenta casi il punteggio era discorde da un massimo di dieci punti ad un minimo di uno. Prendendo come base l'unità, il coefficiente di correlazione tra la prima e la seconda serie di giudizi fu di 0,58: veramente troppo basso! Né si può parlare di un caso isolato: altri esperimenti analoghi (con altri giudici), infatti, fecero oscillare il coefficiente di correlazione intorno a valori che andavano da 0,55 a 0,60 circa.
Si provava così che un esaminatore discorda nei giudizi anche da se stesso.
Ma l'esperimento più interessante fu un altro; le stesse prove di fisiologia, che erano state sottoposte per il nuovo giudizio al professore, furono sottoposte ad una studentessa appena uscita dalle scuole medie superiori. Dopo una breve lettura degli argomenti in questione la ragazza esaminò le prove e attribuì i suoi voti che messi a confronto con quelli di un fisiologo, dettero un coefficiente di correlazione di 0,51.
Conclusione: un profano, completamente digiuno dell'argomento, discordava dal giudizio di un professore nella misura, all'incirca, in cui il professore discordava da se stesso.
Per un po' si credette che questi inconvenienti si limitassero solo agli esami scritti.
Hartog e Rhodes, due docimologi, chiesero in uno dei loro esperimenti a riguardo, a due gruppi di cinque professori ciascuno di esaminare separatamente sedici studenti, classificandoli secondo le doti che dimostravano. I risultati furono due classifiche completamente differenti (qualche risultato come esempio: il primo di una classifica era tredicesimo per la seconda, il primo di questa l'undicesimo della prima): il coefficiente di correlazione fra le due classifiche era di 0,41, e non variò sensibilmente in prove analoghe.
Altre annotazioni fatte dalla docimologia sono: il voto non è impiegato uniformemente, ma dipende dal singolo professore; nessun professore sfrutta mai tutta la gamma dei voti di cui dispone:

Sull'ordinata sono riportate le percentuali degli studenti, sull'ascissa le votazioni.
La statistica è stata fatta in Francia, quindi i voti sono in ventesimi.

Il grafico dimostra che la maggior parte dei giudizi è data usufruendo solo di una piccola parte dei voti a disposizione del professore, a scapito del valore del giudizio.

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La docimologia ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che l'esame è fondato sull'ingiustizia: giustizia, infatti, vuol dire anche dare a ciascuno ciò che si merita, utilizzando lo stesso parametro di giudizio per tutti.
L'esame è, quindi, ingiusto per i docimologi perché si fonda su criteri, se così li si vuole chiamare, soggettivi, che variano, cioè, da professore a professore o, meglio, da esaminatore ad esaminatore, non garantendo a tutti quella parità di trattamento che è alla base della giustizia.
Gli esaminatori discordano tra loro e sono addirittura in contrasto con se stessi, ma questo è niente se si pensa che è stato provato che basterebbe un profano dell'argomento per svolgere quasi con i medesimi risultati lo stesso compito oggi svolto, con molta prosopopea, da fior di professori con anni di esperienza sulle spalle.
Questo in astratto, considerando l'esame come viene inteso oggi. Lo studio dei docimologi, però, si occupa solo di verificare se l'esame assolva oggettivamente alla funzione per la quale è stato creato, e non verte invece sul problema fondamentale e cioè se l'esame sia veramente necessario per la formazione culturale dell'individuo e se trovi una sua giustificazione sul piano dei fini che l'istruzione scolastica dovrebbe avere, se cioè questa funzione sia accettabile.
La funzione che l'esame ha oggi è di carattere selettivo, e ciò è innegabile; ma tralasciando di contestare la validità della selezione per quanto riguarda la formazione culturale dell'individuo (discorso molto lungo e complesso che porterebbe a chiedersi innanzitutto che cosa si intende per cultura e quindi per superiorità culturale e che verrà affrontato in altra sede), c'è da esaminare quali finalità persegue questa selezione, in base a quali parametri di giudizio viene fatta e su quali postulati si fondano questi parametri.
È indubbio che la finalità più evidente dell'esame è quella di impedire che proseguano gli studi regolarmente coloro che non hanno assimilato le nozioni prescritte dall'esaminatore, o da chi per lui, e da questi ritenute necessarie: la funzione è dunque quella di costituire uno sbarramento che possa essere superato solo dai «migliori», cioè da coloro che più si sono adeguati a certi contenuti e li hanno accettati assimilandoli.
La selezione non si limita a decidere se l'individuo sia degno di passare oltre, ma va anche più in là: si compie anche una graduatoria tra i «migliori»; si seleziona anche tra coloro che hanno superato l'esame.
È evidente a questo punto che la selezione negli studi viene fatta allo scopo di ottenere alla fine dell'istruzione una graduatoria di tutti gli studenti che hanno raggiunto il possesso di quelle nozioni che permetteranno loro di inserirsi proficuamente nel sistema produttivo.
Ma chi sono questi «migliori»? I più colti? No, perché questa scuola non si propone, in realtà, di far sì che ognuno possa «farsi» una cultura, ma esiste invece per «dargli» una cultura, fra l'altro parziale e di comodo, anzi per imporgliela.
Non c'è spazio nella scuola per la fantasia o per l'inventiva (se non preordinata in funzione di una attività futura all'interno dei sistema produttivo) e quindi per qualsiasi attività creativa; viene esaltata l'intelligenza contro l'intuizione allo scopo di far capire solo determinate nozioni che rappresentano le leggi della realtà presente, davanti alle quali si pretende l'ossequio e l'assenso incondizionato.
I contenuti dell'istruzione hanno carattere tecnico, e non certo carattere formativo (si parla dell'istruzione impartita nelle scuole borghesi), a meno che formativo non venga inteso nel senso più deteriore del termine, cioè nel senso di plasmare individui con le misure e le dimensioni della società borghese e con caratteristiche funzionali al sistema neocapitalistico.
Escluso quindi che questa scuola selezioni allo scopo di far emergere i più colti, salta quasi immediatamente agli occhi che l'unico scopo che può avere una scuola borghese in un sistema neocapitalistico a struttura industriale avanzata, è quello di selezionare i migliori tecnici, al fine di creare una graduatoria degli elementi più produttivi, naturalmente allo stadio potenziale.
Naturalmente perché un tecnico venga inserito in un sistema produttivo ed economico basato sullo sfruttamento capitalista del lavoro, bisogna che dimostri di accettare questo sistema, altrimenti potrebbe divenire un elemento disfunzionale al sistema stesso in quanto potenzialmente ribelle.
I modi con cui si costringono gli individui ad assentire, consciamente o no, ai postulati su cui si fonda la società borghese sono diversi, ma il primo in ordine di tempo e forse il più importante, è proprio quello della selezione scolastica, che si attua con diversi mezzi di carattere repressivo (tra cui l'esame), nel senso della discriminazione classista sia sotto il profilo meramente economico sia sotto il profilo più squisitamente culturale.
Da un lato si discrimina nei confronti di coloro che avendo minori disponibilità economiche ed appartenendo ad una classe socialmente inferiore non hanno la possibilità di integrare la scuola con altri insegnamenti (le famose «lezioni private») che, data la natura tecnica e nozionistica dello studio oggi voluto, sono necessari anche per gli individui di capacità superiori alla media.
L'altro senso verso cui si orienta la discriminazione è di natura psicologica e culturale; infatti l'esame costituisce il momento della verifica dell'adeguazione maggiore o minore ai contenuti dell'istruzione ed alle sue finalità: contenuti a carattere classista, finalità produttivistiche, metodi di carattere repressivo.
La persona preposta al compito di selezionare questi «migliori» è il docente, e, nel caso particolare degli esami, l'esaminatore.
L'esaminatore possiede la potestà (secondo i più anche la capacità!!!) di discriminare tra gli esaminandi, decretando chi tra coloro che sostengono la prova siano in possesso dei requisiti necessari per superare la prova stessa.
Ora, a prescindere dalla uniformità maggiore o minore dei giudizi finali degli esaminatori, c'è da notare che un certo parametro di giudizio comune esiste ed è costituito dal contenuto tecnico dell'esame stesso: l'esaminatore ha la potestà di decidere se il candidato è più o meno maturo culturalmente in base alla capacità di costui di rispondere a domande di carattere tecnico.
L'esaminatore è quindi un tecnico che giudica sul piano tecnico le capacità generali o, meglio, la cultura del singolo candidato. La contraddizione salta evidente agli occhi: come può un tecnico che giudica su materie di carattere tecnico e, quindi, analitiche e ripetitive giudicare la cultura di un altro individuo, quando la cultura è un fatto creativo e sintetico?
A questo punto non si può fare altro che fare un'affermazione che potrebbe sembrare paradossale ma che in fondo non lo è: la cultura per questi signori non è affatto un fatto creativo e sintetico, ma invece è proprio un fatto ripetitivo ed analitico, è la tecnica, è il nozionismo.
Le parole stanno a zero: a questi signori interessano i tecnici migliori, e perciò è mutile e pericoloso mettersi a parlare di cultura come creazione libera e sintetica.
Non è quindi attaccando l'esame in sé e per sé, che si centra il problema, ma riconducendo l'effetto alla causa, cioè attaccando il concetto della contrapposizione docente-discente.
L'unico primato che oggi si può riconoscere al professore è (se di primato si vuole assolutamente parlare) di carattere squisitamente tecnico e non certo culturale.


Il Movimento Studentesco dopo un anno

È passato un anno dalla nascita del movimento studentesco romano: un lasso di tempo, cioè, sufficientemente lungo da permetterci un'analisi critica che dalle esperienze svolte e dalle situazioni determinatesi (anche ultimamente) tragga spunto per l'indicazione di nuove prospettive.
È bene chiarire che la nostra analisi parte da un giudizio di valore positivo verso il movimento. Ciò, quindi, serve ad individuare la nostra posizione nei confronti del MS e a contraddistinguerci da quanti, per finalità particolari, si sono accinti in passato, fra l'altro molto frettolosamente, a trattare l'argomento.
Quando affermiamo la positività del Movimento facciamo essenzialmente riferimento a quel fenomeno studentesco di vaste dimensioni che, per contenuti e metodi di lotta, si è posto in antitesi con il sistema, dimostrando così una «potenzialità rivoluzionaria».
Scaturisce da ciò una distinzione fondamentale di cui si dovrà tenere conto costantemente: da una parte la massa degli studenti che scende in lotta con l'attuale società, dall'altra il Movimento con le sue strutture, con le sue impostazioni e le sue esperienze.
Non vogliamo scendere sul piano della cronologia spicciola degli avvenimenti poiché inadeguata al tema che vogliamo trattare, nondimeno dovremo esaminare qualche situazione particolare o fissare dei punti di riferimento.
Il fatto iniziale e saliente a cui è indispensabile fare riferimento è che la nascita del MS a Roma è stata un fatto improvviso ed imprevedibile: gli stessi studenti della facoltà di lettere ove il fenomeno è nato non avrebbero mai immaginato di trovarsi in così breve tempo di fronte ad un Movimento Studentesco nuovo e di così vaste dimensioni.
Quando il gruppo dei G.A. convocò a lettere un'assemblea di solidarietà con gli studenti fiorentini (che si erano scontrati con la polizia nei giorni precedenti) non riuscì ad individuare la causa dei fatti studenteschi di Firenze se non indicandola nelle carenze del piano Gui.
Ciò nondimeno, l'assemblea, pressoché unanimamente, decise l'occupazione: la prima della teoria di occupazioni romane che, in pochi giorni, si estese ad una lunga serie di facoltà.
Con ogni evidenza ci si trovava di fronte ad una situazione nuova e soprattutto non preparata: non si trattava della solita protesta contro il piano ministeriale, poiché piani e circolari ministeriali sono sempre passati senza che una massa così considerevole di studenti si scomodasse in un gran numero di facoltà, con occupazioni massicce e con contenuti e metodi di lotta senza precedenti.
La contestazione delle strutture universitarie e dell'autoritarismo accademico è la riprova di uno stato d'animo che va ben oltre le tradizionali lotte studentesche: le precedenti «lotte» ci avevano abituato alla figura dello studente «democratico», «intellettuale», «goliardico» e soprattutto «accomodante» nei confronti del mondo accademico e politico.

Il movimento giovanile
È bene spostare lo sguardo momentaneamente su di un altro campo che non è, come potrebbe sembrare a prima vista, distante da quello che stiamo analizzando: il movimento giovanile.
Con il termine generico di movimento giovanile comunemente si faceva riferimento agli ambienti giovanili legati ai partiti.
Questa definizione voleva supporre una netta divisione concettuale tra giovani ed anziani che invece mascherava uno degli aspetti della lotta per il potere nell'ambito dei partiti.
Ormai da parecchi anni le organizzazioni giovanili di partito erano in crisi; ciò era dovuto soprattutto alla scarsa fiducia nei partiti e nelle istituzioni del sistema democratico-parlamentare, diffusasi a livello popolare, che portava i giovani a disinteressarsi della politica attiva e ad allontanarsi dai partiti che permettevano loro di interessarsi attivamente alla politica solo attraverso le proprie organizzazioni giovanili.
C'è da notare inoltre che le organizzazioni giovanili erano diventate semplici e ciechi strumenti al servizio delle varie correnti in lotta per il potere all'interno del partito.
Le file di tali organizzazioni, private del ricambio giovanile, si erano andate sempre più assottigliando, mentre si fossilizzavano i gruppetti di «giovani dirigenti», sempre più integrati nel generale malcostume politico.
Il malcontento nell'ambito di tali organismi portava ad una frattura sempre più marcata tra base giovanile in opposizione alla linea del partito ed i «giovani dirigenti» che, in attesa della fatidica carica elettiva, mediavano il contatto tra ambiente giovanile e partito.
Iniziò così, in tali organizzazioni, un progressivo sganciamento di singoli e di frange più o meno estese, che portava alla configurazione di un nuovo fenomeno politico: il dissidentismo.
Si iniziò, infatti, a verificare il fenomeno per cui accanto alle strutture partitiche si venivano a costituire, sempre più numerosi, gruppi di giovani più o meno organizzati, in polemica col partito d'origine.
Tale fenomeno si estese rapidamente in due sensi: in senso quantitativo, dando luogo ad una formidabile proliferazione di gruppetti; in senso qualitativo, in quanto gruppi, composti quasi esclusivamente da studenti ed anche per questo liberi dal condizionamento politico ed organizzativo del partito tendevano a superare la posizione di semplice dissidenza, fino a giungere a nuove tematiche che sempre meno ricordavano le posizioni iniziali.
Queste tendenze, unite a una sempre maggiore «decadenza» dei partiti, portarono alla configurazione di un nuovo settore politico formato dai gruppuscoli dissidenti e da tutti quegli ambienti che si erano staccati dal partito.
Si creò, quindi, un nuovo «strato politico» che, per essere politicamente ed organizzativamente autonomo dal condizionamento delle strutture demo-parlamentari, si trovò sempre più consciamente in antagonismo di lotta con l'intero sistema.
Una analisi delle posizioni politiche dei vari gruppi sarebbe di estremo interesse, ma ci porterebbe lontano dagli obiettivi che più ci siamo prefissi: sarà bene, però esaminare alcuni aspetti caratteristici del fenomeno.
Ciò che si deve notare preliminarmente è la composizione di questi gruppi: in prevalenza studenti medi ed universitari, il che indica molto chiaramente come, per costoro, la politica non sia un mestiere.
In secondo luogo, ed è l'aspetto politico saliente, questi gruppi sono caratterizzati dall'estremismo: essi infatti, staccandosi dai partiti e soprattutto da quelli sedicenti di opposizione, avevano creduto di poter individuare le cause del «malessere» semplicemente nel riformismo e nel deviazionismo, senza però preoccuparsi di portare l'attenzione su di un fatto: l'inadeguatezza politica, ideologica e quindi strutturale del partito nei confronti di una realtà sociale che da lungo tempo percorreva la sua strada; il popolo si incontrava sempre più raramente con i partiti e l'incontro si verificava soltanto in occasione del voto, unico strumento -in mancanza d'altro- di espressione politica.
Il non aver considerato attentamente questa situazione portava i «gruppuscoli» semplicemente a contendere ai partiti l'«autenticità ideologica», senza però contemporaneamente tentare una verifica intorno a certi postulati teorici ed alla loro rispondenza alle nuove condizioni reali della società.
La frattura tra teoria e realtà sociale costituisce il limite profondo di questi gruppi che, pur in numero considerevole, non erano in condizioni di incidere sulla realtà. Questa frattura portava con sé un vuoto che poteva essere colmato soltanto dall'estremismo con le sue tinte ideologistiche, dogmatiche e massimalistiche; un estremismo sterile quanto inefficace, incapace di raggiungere altro scopo che quello di procurare ai partiti un fastidio poco più che epidermico.

Il movimento spontaneo
Queste situazioni in atto alla nascita del movimento studentesco vennero sconvolte non appena questo iniziò a definirsi come fenomeno di vaste dimensioni.
Da un lato si ebbe così la disgregazione, a livello di base, delle organizzazioni giovanili legate ai partiti, mentre dall'altro si determinò il ridimensionamento dei gruppuscoli che venivano posti in secondo piano politicamente dal fenomeno studentesco di massa.
Il movimento studentesco, libero da schematismi inadeguati, riusciva, pur con le carenze teoriche tipiche di un fenomeno spontaneo, ad interpretare la situazione reale; questo fatto provocò un mutamento radicale della politica dei gruppi: la iniziale dialettica dissidentistica gruppo-partito mutò in quella gruppo-movimento studentesco.
La posizione di molti gruppi rispetto al Movimento Studentesco fu di sottovalutarlo o disprezzarlo a parole, ma, in pratica, fu simile a quella del satellite rispetto al pianeta; criticarlo, elogiarlo, attaccarlo per poi girargli attorno senza mai staccarsene.
Vero è che i gruppi, in particolare i più seri e preparati, hanno contribuito a richiamare all'interesse politico la massa studentesca; è vero anche che a lettere, ove il fenomeno è nato visibilmente, agissero da tempo gruppi di varia estrazione, prevalentemente su posizioni di ortodossia marxista-leninista, ma è altresì vero ed indiscutibile che il fenomeno è nato spontaneamente e che l'iniziale assemblea promossa dal gruppo G.A. non costituì altro che una occasionale scintilla.
Inoltre, se da una parte è vero che il movimento trovò terreno più favorevole in quelle facoltà dove i suddetti marxisti-leninisti avevano maggiormente lavorato, è vero da altra parte che l'ondata si propagò fulmineamente a moltissime altre facoltà ed alla massa degli studenti di ogni tendenza: dalle sinistre ai cattolici, dai marxisti-leninisti ad alcuni ambienti fascisti.
Analizzare con precisione le cause della nascita del movimento studentesco o, meglio, del fenomeno studentesco, è un argomento di notevole importanza, che ci ripromettiamo di sviluppare in altra sede. Ciò che rileviamo è che il movimento studentesco non è nato per cause di ordine sindacalistico -ad es. il piano Qui- come aveva creduto di individuare il gruppo G.A. (ed altri): la critica del piano veniva presto superata da un'ondata poderosa di lotta, mentre i G.A. confermavano su di essa la loro tematica: lo ORUR, il parlamentino studentesco, diventava un ricordo e, di lì a poco, anche il gruppo G.A.

Anarchismo e sindacalismo, la contraddizione nel Movimento Studentesco
La lotta degli studenti contro il piano Gui rappresentava la lotta contro un obiettivo vicino ed immediato: si attaccavano le attuali strutture universitarie per attaccare l'attuale società.
La rottura degli schemi tradizionali in cui si era svolta precedentemente la politica studentesca, cioè il parlamentino, rappresentò esattamente la rottura di strumenti politici adeguati a scopi riformistici o sindacalistici. La «contestazione globale» e la rottura di ogni vincolo organizzativo con il sistema (almeno in un primo momento), ci rivelano che il movimento spontaneo degli studenti, pur non essendo giunto ad un limite di coscienza rivoluzionaria, marciava nella giusta direzione.
Parlando sempre della parte spontanea del movimento studentesco, di quella parte cioè che sentiva profondamente ed in buona fede le tematiche che scaturivano dall'azione e dal lavoro giornaliero delle assemblee e dei collettivi del movimento studentesco, pur non avendo una sensibilizzazione politica ad alto livello, si può dire che la sua spinta si esercitava in due direzioni (approssimativamente parlando): da una parte la «spinta spontanea» si orientava verso una tematica anarchicheggiante, dall'altra verso una prassi sindacalistica.
Questi orientamenti erano caratterizzati almeno all'inizio da una notevole interdipendenza: la «contestazione globale» della società trovava riscontro nel rifiuto di obbedienza all'autorità accademica, mentre il «diritto allo studio» rappresentava la contestazione della discriminazione censitaria della società classista.
C'è da dire però che la tendenza alla globalità, pur rappresentando nella lotta studentesca la prima tappa, sulla strada di una effettiva presa di coscienza rivoluzionaria, trovava il suo limite più profondo nella mancanza di una completa analisi critica sulle condizioni di vita della società.
Questa carenza impediva la formazione di un «credo rivoluzionario», mancando le basi teoriche atte a portare la lotta qualitativamente dallo stadio di istintività, in cui grosso modo si trovava, a quello di coscienza.
È stata proprio questa carenza, a nostro avviso, a restringere la contestazione al parziale campo dell'Università e della scuola in generale, ed è chiaro che queste posizioni difettose lasciavano sufficiente spazio a riformisti di ogni tipo, in quanto la mancata individuazione di obiettivi più generali permetteva di introdurre discorsi di chiara marca sindacalistica.
Il non aver adeguatamente razionalizzato la spinta emotiva, ha portato quindi allo scontro con quei difetti macroscopici del sistema con i quali gli studenti erano in immediato rapporto: le strutture scolastiche.
Lo spirito rivoluzionario di molti studenti è stato così svilito al livello di una critica astratta al sistema (vedremo poi le cause politiche di ciò), anche se questa critica era animata da un sincero anelito rivoluzionario.
Per concludere, se consideriamo che il sindacalismo in se stesso, cioè non funzionalizzato ad una strategia rivoluzionaria, porta soltanto a posizioni riformistiche adeguabili alle strutture del sistema, possiamo dire che la spinta spontanea portava la lotta su due posizioni antitetiche: l'una potenzialmente rivoluzionaria, l'altra riformistica e sindacale. Una contraddizione questa che inevitabilmente frenava il movimento degli studenti.

Le componenti del Movimento Studentesco
Seguendo quanto detto finora, possiamo considerare il movimento studentesco come formato da due componenti: la prima raggruppante la massa spontanea degli studenti non formata politicamente, ed una seconda composta da tutti gli ambienti già caratterizzati ideologicamente e politicamente, a loro volta distinguibili in gruppi provenienti dalla dissidenza, gruppi autonomi, e gruppi legati ai partiti.

I marxisti-leninisti
L'aver esaminato precedentemente la situazione del «movimento giovanile» ci permette ora di valutare l'influenza esercitata sul movimento studentesco da tutti quegli ambienti che avevano avuto modo di formarsi politicamente nell'ambito delle strutture partitiche: ci riferiamo soprattutto agli ambienti giovanili provenienti dalla sinistra e dal partito comunista in particolar modo.
Già si è accennato che nell'ambito di alcune facoltà operavano da tempo alcuni gruppi comunisti autonomi dal partito e su posizioni di ortodossia marxista-leninista, e che questi gruppi avevano caratterizzato l'impostazione iniziale del movimento studentesco, il che è un dato di fatto.
In effetti, sono stati questi gruppi, presenti fin dall'inizio, a dare al movimento quei contenuti di lotta che hanno caratterizzato il movimento studentesco come fenomeno politico; i marxisti-leninisti hanno inizialmente colmato quel vuoto ideologico-politico-strategico tipico di ogni movimento spontaneo.
La funzione di questi gruppi venne, però, presto a mancare: la discordanza tra l'impostazione teorica dei marxisti-leninisti e le reali esigenze di un movimento potenzialmente rivoluzionario impediva di comprendere e, quindi, di sincronizzarsi con il moto spontaneo.
La scissione tra moto spontaneo e teoria dei gruppi marxisti-leninisti, ancorata a ideologismi spesso obsolescenti, portava alla graduale emarginazione di questi ultimi, che alla fine, si costituivano in gruppi autonomi, unico mezzo per poter mantenere la coerenza rispetto alle loro impostazioni teoriche.
In questo modo, però, i gruppi marxisti-leninisti hanno perso gran parte della loro influenza sul movimento: lo iniziale rapporto di unione con gli studenti si spostava sulla posizione dialettica gruppo-movimento.
In questo nuovo rapporto erano i gruppi a dover subire la presenza del movimento Studentesco che, unico fenomeno di massa in movimento, finiva con il costituire il maggior centro di interesse dei gruppi e talvolta la loro ragione di essere.
I gruppi (e non solo quelli su posizioni di ortodossia marxista-leninista) finivano, anche se in polemica, con l'orbitare intorno al movimento studentesco; in questa fase però la loro funzione si riduceva soltanto ad una azione infrenante dello sviluppo del movimento.

La cricca, la causa di tutti i mali
Possiamo accusare i gruppi marxisti-leninisti di ideologismo, di cinesismo e di massimalismo, ma non possiamo negare che essi fossero mossi da una sincera carica rivoluzionaria; dobbiamo inoltre dar loro atto di non aver mai cercato di strumentalizzare il movimento studentesco in nessun senso.
Valutazioni radicalmente diverse sono invece da fare nei confronti di quei gruppi che hanno operato all'interno del movimento studentesco costituendone in un secondo momento il «gruppo» dirigente.
Questi gruppi si sono formati nell'ambito di quella componente del movimento formata da elementi provenienti da precedenti esperienze politiche, per lo più partitiche.
La forza di questi gruppi è consistita essenzialmente nell'aver catalizzato intorno a sé la maggior parte degli elementi provenienti dal movimento giovanile e, con questi, aver seguito una tattica consistente nell'assumere una posizione di equilibrio fra le due tendenze più forti: quella spontanea e quella marxista-leninista.
A differenza di quanto è accaduto ai marxisti-leninisti, costoro sono riusciti ad integrarsi nel fenomeno di massa ed a prenderne la testa.
Durante la fase di integrazione il gruppo dei dirigenti ha seguito la tattica dell'opportunismo più schietto: da un lato ha seguito docilmente il movimento spontaneo e dall'altro ha teso a prenderne la testa per strumentalizzarlo.
Tale integrazione, infatti, non è avvenuta intorno a posizioni teoriche, ideologiche o politiche, ma sulla base di metodologie politiche proprie del sistema: la figura del «leader», la dialettica, la demagogia, l'oratoria, la manovra, tutto ciò con l'indispensabile supporto del gruppo organizzato.
Il «gruppo dirigente» ha fruito grandemente del fatto di essere organizzato in «cricca», in quel tipo di organizzazione, cioè, tipico del sistema, che non ha una fisionomia ufficiale, ma che, cionondimeno, è individuabile per l'azione pratica tendente unicamente a conquistare la direzione dei movimenti di massa e a mantenerla.
Tale è, infatti, la linea della cricca verticistica del movimento studentesco: ciò che in una parola chiamiamo opportunismo.

Spontaneismo spontaneità e rivoluzione
La cricca, allo scopo di prendere la testa del movimento studentesco ha seguito essenzialmente una linea spontaneistica.
Abbiamo detto all'inizio che le tendenze essenziali del movimento studentesco erano da una parte l'anarchismo e dall'altra il sindacalismo: ebbene queste due tendenze vennero seguite ed incrementate dalla cricca che badò bene altresì ad impedirne una qualsivoglia razionalizzazione; tutto ciò consiste nello spontaneismo, l'esaltazione della spontaneità.
Ciò che ha caratterizzato e differenziato la spontaneità del movimento studentesco in lotta, dallo spontaneismo della cricca è questo: la massa studentesca nel sollevarsi tendeva a seguire una sua istintività che avrebbe potuto giungere, a patto di una sua successiva razionalizzazione, ad una autentica posizione rivoluzionaria; la cricca, invece, seguendo ed esaltando la spontaneità ha dimostrato innanzitutto di non possedere una propria impostazione, e poi di voler impedire la presa di coscienza della massa studentesca.
Il movimento studentesco romano nasce come fenomeno spontaneo che individua e colpisce le contraddizioni interne del sistema (anche se a livello intuitivo o, meglio, emotivo); essendo chiaro che un fenomeno spontaneo di massa è fenomeno potenzialmente rivoluzionario, il movimento studentesco si porrebbe su basi rivoluzionarie solo nella misura in cui una avanguardia lo legasse ad una linea rivoluzionaria.
L'avanguardia rivoluzionaria e la conseguente linea non nascono contemporaneamente al fenomeno spontaneo di massa, ma si devono formare attraverso una attività teorica tesa all'acquisizione di una coscienza rivoluzionaria ed ad una prassi che imprima e verifichi nella realtà la teoria rivoluzionaria.
Nel movimento studentesco una cricca di dirigentelli da poco prezzo si è posta come avanguardia rivoluzionaria poggiandosi, non già sulla teoria rivoluzionaria, ma sulla truffa: la truffa si articola in due fronti: lo spontaneismo e la cricca dei leaders.
Da un lato si è osannato ad un movimento studentesco autonomo, senza capi, che si muove da sé giorno per giorno, che decide collettivamente, che non ha una precisa ideologia, che non ha una precisa linea, ecc.
Dall'altro lato la cricca, attraverso la disorganizzazione inerente al fenomeno spontaneo, impone le sue decisioni verticistiche tramite l'organizzazione di cui usufruisce: è chiaro che in una massa inesperta, eterogenea e disordinata, è sufficiente un gruppetto organizzato per fare il bello e il cattivo tempo (anche se non a lungo termine).
Cosicché per rifiutare la società autoritaria e l'autoritarismo accademico, si è finito per accettare un altro tipo di autoritarismo che, per il fatto di nascondersi dietro la esaltazione della spontaneità, è peggiore degli altri. La degenerazione della spontaneità è stata rapidissima; risultato: castrazione della spontaneità.
L'equivoco spontaneista ha fatto sì che l'attività del movimento studentesco si articolasse organizzativamente tramite l'assemblea; questa, quindi, invece di essere uno strumento di lotta teso a conquistare le masse studentesche ed a farle partecipare coscientemente all'attività, si è trasformata in uno strumento di potere nelle mani di quattro demagoghi.
La convocazione, i temi di discussione, le decisioni di ogni assemblea, potevano così essere facilmente pianificate.
L'assemblea giustamente intesa, come momento proselitistico e propagandistico, avrebbe dovuto essere inserita in una linea d'azione preparata dalla base cosciente del movimento studentesco, organizzata in gruppi di studio e di lavoro: gruppi di studio, tesi alla costruzione di una base ideologica e politica; gruppi di lavoro tesi a trasmettere alla massa studentesca e al popolo, attraverso la prassi organizzativa, il frutto delle commissioni politiche di studio (invece si sono truffate le masse studentesche dando loro l'impressione di assemblee con potere decisionale).
Questi difetti hanno portato a due conseguenze: da una parte si deve notare la mancanza di una base dottrinaria, di una piattaforma politica, e la conseguente mancanza di una linea, il che, sul piano pratico, si riscontra nell'azione slegata, frammentaria ed empiristica del movimento studentesco; dall'altra parte si deve notare la mancanza di collegamento con la massa studentesca e con il popolo, con conseguente frattura e delimitazione del movimento studentesco nei confronti degli studenti e completa perdita di credito presso il popolo.

La politica della cricca
La cricca dirigente, afferrato il potere di direzione allo interno del movimento studentesco, e sostenendovisi mediante l'esaltazione dello spontaneismo che tende a teorizzare la disorganizzazione permanente del movimento, per garantire al gruppo dirigente (minoranza organizzata) una larga possibilità di manovra e di pressione, ha seguito una linea d'azione all'interno del movimento studentesco che oggettivamente dimostra come l'obiettivo da raggiungere, per i componenti della dirigenza, non sia altro che quello di strumentalizzare il movimento per utilizzarlo poi come massa di manovra e come merce di scambio per le contrattazioni politiche delle forze del sistema.
Una delle preoccupazioni più costanti e più importanti della cricca al vertice è stata sicuramente quella di mantenere il movimento studentesco nella disorganizzazione più completa, e a questo si è ovviato dandogli una parvenza di articolazione in strutture quali l'assemblea ed i «comitati di base».
Dell'assemblea si è già detto; per quanto riguarda i comitati di base c'è da dire che essi sono l'ultima e più vergognosa trovata della cricca verticistica del movimento: il comitato di base come struttura organizzativa è un meccanismo basato sul parametro della specializzazione nello ambito del sistema universitario, come tale esso non può avere nessuna funzione di carattere ideologico-politico; la unica funzione è quella di settorializzare e sindacalizzare il movimento studentesco.
Il vero scopo dell'istituzione dei comitati di base, è ben preciso: con essi si può molto facilmente controllare lo sviluppo delle tematiche interne delle facoltà, mentre da altra parte essi sono facilmente controllabili da parte del vertice -inattingibile e mafioso- del movimento, costituito dalla cricca.
Questa, ricercando il potere decisionale e di manovra, abbisogna di organismi intermedi a carattere eminentemente burocratico-amministrativo, che si occupino di amministrare e di controllare le masse studentesche, settorializzandole e dividendole secondo gli schemi e le strutture del sistema, cioè in facoltà.
Ora, se è ovvio che un movimento rivoluzionario si divide organizzativamente per funzioni, le quali funzioni trovano poi esplicazione negli organismi intermedi, il comitato di base e l'assemblea come organismi intermedi abbisognano di una avanguardia rivoluzionaria, senza la quale si ha lo strapotere oligarchico della cricca.
Invece si è fatto del comitato di base un organismo centrale dell'organizzazione, garantendo così la settorializzazione delle lotte studentesche e la divisione tra gli studenti, necessaria per impedire una qualsiasi presa di coscienza unitaria del movimento che sarebbe molto pericolosa per la cricca al vertice.
Quale possibilità ha un operaio o anche uno studente di portare un contributo cosciente a quella che dovrebbe essere la lotta del movimento studentesco, se non quella di partecipare a quelle inutili assemblee che tutti conosciamo, o alle riunioni settoriali dei comitati di base?
La settorializzazione del movimento sul piano organizzativo si riverbera anche sul piano politico: da una parte si è avuta la limitazione della contestazione ai piani governativi e alle circolari ministeriali, dall'altra si è perpetuata la distinzione tra scuola e società, affermando a più riprese lo slogan taumaturgico del collegamento con gli operai per cui è implicita la distinzione tra studenti ed operai. Questa distinzione di carattere profondamente reazionario e particolaristico si è accentuata in occasione della partecipazione del movimento studentesco agli scioperi dei sindacati riformisti a cui il movimento ha partecipato come una distinta componente studentesca, che quindi si poteva limitare a salire in cattedra per dire frasi apolitiche, senza sentire il dovere di spiegarle e di porre delle alternative.
Per porre delle alternative, per fare un discorso serio agli operai, però, il movimento avrebbe dovuto svolgere prima al suo interno un lavoro di chiarificazione e di approfondimento sul piano politico-ideologico che non c'è stato; e non ci poteva essere dato il famoso equivoco spontaneista, incrementato e difeso dalla cricca.
Tutto ciò è servito ad isolare e circoscrivere il movimento, prima nei confronti del popolo, poi nei confronti delle stesse masse studentesche.
L'isolamento in cui sembra essere caduto il movimento studentesco è dovuto peraltro anche al fatto che la lotta degli studenti si è limitata all'angusto ambito universitario, anche in senso spaziale e cioè alla città universitaria e agli edifici universitari e scolastici (in Francia la lotta si era svolta in pubblico: l'Opera).
Quando si è usciti all'esterno lo si è fatto in maniera episodica, frammentaria e spesso banale, il che ha portato due sole conseguenze: spaventare i ceti borghesi più paurosi (quelli un po' meno paurosi hanno capito subito che non c'era da preoccuparsi gran che; si ricordino le prese di posizione di Restivo sulla non pericolosità del movimento studentesco) e screditare il movimento presso le masse, castrandone le notevoli possibilità di sviluppo.

La complementarizzazione del movimento studentesco nei riguardi delle forze del sistema
La mancanza di una organizzazione a carattere rivoluzionario che doveva scaturire dal movimento spontaneo degli studenti (e ciò sarebbe avvenuto se il gruppo opportunista del vertice non avesse preso il sopravvento, causa la ingenuità e la buona fede degli studenti) ha naturalmente avuto come conseguenza la complementarizzazione del movimento studentesco con i partiti, che facilmente possono strumentalizzare un movimento esclusivamente studentesco, così come i partiti utilizzavano il parlamentino studentesco.
Infatti, se il movimento studentesco si limitava agli studenti, ciò presupponeva che qualcun altro si interessasse del mondo del lavoro (CGIL), e altri ancora di tutti e due, coordinandoli ed inserendoli in un piano strategico più vasto (PCI). Si vedano al riguardo le esplicite affermazioni fatte da Longo nel discorso al Congresso del PCI di Bologna.
Il movimento studentesco diventava così massa di manovra utile per contrattazioni politiche al vertice del potere statale, e merce di scambio nelle mani della cricca che poteva costruirsi una posizione di potere all'interno del sistema.
Il movimento studentesco, privo di una organizzazione rivoluzionaria, di una ideologia rivoluzionaria, di una tematica politica rivoluzionaria, perdeva così quell'incisività che aveva all'inizio raggiunto per il fatto di essersi svincolato dalla strumentalizzazione dei partiti ed, in genere, dalle forze del sistema: si è giunti addirittura a fare le convocazioni, nei momenti di mobilitazione, attraverso giornali che, come "l'Unità" o "Paese Sera", rappresentano l'equivoco partitico nel movimento studentesco.
E così, invece di prendere posizione su tutti i fatti politici sui quali era possibile sensibilizzare l'opinione pubblica e raccogliere il credito degli ambienti politicizzati, sui quali si sarebbe dovuto puntare per dare una apertura ad altre categorie e classi sociali, il movimento studentesco, dominato da un gruppetto di opportunisti di dubbia fede rivoluzionaria. si limitava a qualche scapigliata manifestazione, che serviva solo a motivare l'immancabile repressione del sistema, in attesa di partecipare ad ogni manifestazione PCI, PSIUP e CGIL.
Il solito liberal-reazionario di turno ha acutamente osservato che, finite le manifestazioni per il Vietnam, il movimento studentesco ha visto scemare notevolmente la propria attività esterna: cosa rispondergli?
Non una sola parola sui fatti salienti di questi ultimi tempi (es. l'invasione sovietica della Cecoslovacchia), non una parola chiara contro la politica di potere dei partiti e dei sindacati, non un serio discorso sulle lotte operaie sviluppatesi in questi ultimi tempi nel meridione ed in Sardegna.
Questa politica suicida ha portato nel baratro il movimento, ridando fiato a quelle organizzazioncelle filo-partitiche che sembravano definitivamente scomparse; e soprattutto creando il presupposto per lo sviluppo di un movimento antimovimento studentesco, che nelle scuole è già ad un livello avanzato. (Si veda la recrudescenza dell'attività delle organizzazioni di destra).
Questa situazione voluta dalle forze del sistema per ricacciare il movimento studentesco su di una tematica sindacalista e meramente categoriale, è stata determinata con la complicità cosciente e colpevole della cricca opportunistica, che ha dimostrato così di essere al servizio delle forze del sistema.

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Questa analisi non vuole essere né completa né definitiva: essa vuole essere innanzitutto un contributo per l'inizio di quella chiarificazione all'interno del movimento studentesco sulla sua natura, sui suoi obbiettivi e sulle sue tematiche, che se ritardata ulteriormente rischia di distruggere la rivoluzionarietà potenziale del movimento stesso e di renderlo un elemento funzionale ed integrato nel sistema, come già è successo per partiti e sindacati.
Quello che la base del movimento studentesco deve capire è soprattutto che con la spontaneità non si fa la rivoluzione, si rifiuta solamente un sistema o un tipo di società; e la rivoluzione non si fa neanche con gli opportunisti di destra o con i massimalisti di sinistra. Per fare una rivoluzione ci vuole una ideologia rivoluzionaria ed una organizzazione rivoluzionaria che la verifichi nella realtà, costruendo quella coscienza rivoluzionaria che sola può definire l'uomo rivoluzionario. Perciò il movimento studentesco si riporti sulla strada così felicemente iniziata -e poi immotivatamente abbandonata- della ricerca e dello studio, dell'autonomia dal sistema e dai suoi ricatti, della prassi eversiva e cosciente, ma soprattutto emargini e rigetti da sé le cricche di qualsiasi estrazione.


Un trattato e molti servi

Quando sentiamo parlare di esplosioni nucleari il nostro pensiero corre istintivamente, per una sorta di riflesso condizionato, agli orrori di Hiroshima e Nagasaki. L'esistenza di tutta una serie di progetti che prevedono l'utilizzazione delle esplosioni atomiche per fini che nulla hanno a che vedere con quelli bellici, dimostra che quella istintiva associazione d'idee è frutto solo di un preconcetto.
Il Piano americano "Plow Share", ad esempio, prevede l'uso di esplosioni atomiche sotterranee in vista di fini molto diversi fra loro, ed uno più ambizioso dell'altro.(1)
Si pensa, inoltre, di ricorrere alla forza dirompente di un ordigno nucleare ogni qualvolta sia richiesto un grande spostamento di terre, come nel caso della costruzione di un porto, di un lago artificiale o di un canale e così via. Un'esplosione nucleare renderebbe possibile la realizzazione di opere colossali con un risparmio di tempo, di energie umane e di capitali la cui portata non sfugge certo a nessuno. La possibilità di sfruttare per fini del genere la forza distruttrice di un ordigno atomico dimostra che tale forza può in realtà diventare -seppure indirettamente- una forza costruttrice.
L'utilizzazione su vasta scala dell' energia atomica, in vista di fini simili a quelli sinora indicati, potrebbe rivoluzionare in profondità il destino di intere popolazioni, dando il suo contributo alla risoluzione di numerosi e gravi problemi. Queste prospettive rendono lecito pensare che noi si stia vivendo l'alba di un nuovo giorno, nel quale l'energia dell'atomo costituirà la base di ogni progresso industriale ed economico.

Dal petrolio all'uranio
Ci si è soffermati ad esporre alcune delle utilizzazioni meno conosciute dell'energia atomica perché vi è la sensazione che a troppi sfugga la sua reale importanza nel mondo moderno. È forse per questo, si è pensato, che persino elementi e gruppi in qualche modo sensibili al problema della libertà dei popoli si sono mostrati scarsamente interessati, se non proprio insensibili, di fronte alla restrizione di tale libertà legata al varo del cosiddetto Trattato per la non proliferazione nucleare.
Basterebbe pensare a ciò che una diga od un canale rappresentano per il miglioramento di vita di intere popolazioni (ed alle semplificazioni apportate dall'uso di un ordigno atomico nella realizzazione dell'opera) per comprendere fino a qual punto il futuro di tali popolazioni dipenda anche dalla possibilità o meno di servirsi anche loro -in massima libertà- dei nuovi ritrovati della tecnologia nucleare e delle infinite applicazioni pratiche dell'energia atomica (forza motrice futura delle centrali elettriche, dei mezzi di trasporto, dell'industria, etc).
Firmando il "Trattato anti-H", i popoli non nucleari mettono una grave ipoteca sul progresso futuro non solo della propria economia (il che sarebbe già tanto) ma anche sui destini stessi della loro vita in generale. La gravità di tale ipoteca potrebbe essere ampiamente trattata, ma a questo punto essa dovrebbe apparire così chiara che ulteriori considerazioni sarebbero del tutto inutili.
Con la possibilità di utilizzare il petrolio come fonte di energia, l'importanza sino allora rivestita dal carbone venne drasticamente ridimensionata. Tutto avvenne nel giro di pochi decenni. Il petrolio diventò presto una materia prima indispensabile, tanto che possederlo o meno poteva addirittura decidere -in alcuni momenti della storia- la sorte di un popolo: la sua importanza era tale da meritargli il soprannome di «oro nero». Non è lontano il giorno in cui l'energia atomica soppianterà a sua volta quella del petrolio, cosa che -sia pur lentamente- sta già accadendo.
La situazione dei popoli firmatari (non nucleari) è molto simile, per fare un esempio, a quella di un Paese che -in epoche in cui era invalso l'uso del carbone come fonte primaria di energia- avesse firmato un trattato col quale rinunziava a produrre per proprio conto petrolio raffinato, consegnandosi così, legato mani e piedi, ai capricci dei Paesi detentori del monopolio petrolifero.

«Westinghouse Treaty»
A prima vista, il "Trattato anti-H" sarebbe nato per scongiurare il pericolo di una guerra termonucleare: è stata questa la tesi (demagogica) sostenuta da USA ed URSS. Ma non ci si deve far ingannare dalle formule perché (a parte il fatto che la pace invocata dalle due super-potenze è una pace a loro uso e consumo in quanto è funzionale ai loro interessi imperialistici) esistono validi motivi per sospettare che il Trattato, piuttosto che «strumento di pace», sia in realtà uno strumento di sfruttamento e di sperequazione fra i popoli.
Se in Italia ci si è arroccati dietro gli eufemismi, per cui lo abbiamo conosciuto come "Trattato per la non proliferazione nucleare", come "Trattato anti-H", ciò è stato in vista di due motivi. Innanzitutto per restare fedeli, fino all'ultimo, a quella forma di ipocrisia che ci spinge a nascondere le brutture dell'affare più sporco avvolgendolo nella carta di princìpi etico-morali del tutto fasulli; eppoi perché -su «preghiera» dell'ambasciata di via Veneto- c'è stato il personale interessamento, a riguardo, di Nenni e di La Malfa, noti «pupilli» del Governo di Washington, del quale da tempo curano gli interessi in Italia.
Strano a dirsi, una tantum, gli americani sono stati molto più veritieri, perché -come vedremo presto- non vi è nome che meglio esprime la verità, di quello coniato dal "New York Times" in un momento di sincerità.
Con un'ovvia allusione alle due imprese-giganti nazionali interessate al settore nucleare, infatti, negli Stati Uniti il Trattato in questione lo hanno battezzato col nome di "Trattato Westinghouse" (o "Trattato General Electric"; il significato è identico).
Se l'allusione del "New York Times" ha attirato la nostra attenzione, è perchè essa conferma in pieno, quasi ufficialmente, la convinzione che in tutta la faccenda del Trattato -al di là delle giustificazioni pseudo-pacifiste portate dai suoi paladini stranieri e nostrani- c'è qualcosa che non quadra, che puzza sfacciatamente d'imbroglio, che lascia intravedere -nei progetti delle due superpotenze- tutt'altri fini rispetto a quelli «ufficiali»; quello, ad esempio, di accaparrarsi il controllo mondiale di tutto il settore nucleare, ossia di uno dei settori più vitali, se non il più vitale, dell'intera industria moderna.
A conferma di tali «sospetti», ecco cosa si poteva leggere, tempo fa, sul settimanale svizzero "Die Weltwoche", il quale è uno dei più diffusi in quel paese oltre ad essere generalmente stimato in tutt'Europa quanto ad attendibilità: «La società tedesca Degussa e l'americana General Electric concorrevano per la fornitura di un reattore nucleare alla Spagna. In base ad accordi bilaterali con gli Stati Uniti la Degussa impiegava materiali fissili di provenienza americana, epperciò era da tempo sottoposta ai controlli americani sull'uso pacifico di tali materiali. Ogni tanto capitava un ispettore americano. Ma appena corse voce che la società stava per fornire un reattore alla Spagna, l'autorità americana per l'energia nucleare trasformò improvvisamente il proprio Visiting Inspector in un Resident Inspector, il quale utilizzò le sue larghe disponibilità di tempo libero per ficcare il naso dappertutto e quindi anche sull'andamento delle trattative tedesco-spagnole. La società tedesca fu costretta a subire le vigenti norme sul controllo. Il secondo colpo contro la fornitura tedesca del reattore gli americani lo vibrarono a Madrid col seguente argomento: dopo il Trattato per la non proliferazione nucleare la Germania non potrà fornire combustibili nucleari alla Spagna e non sarà quindi in grado di garantire l'alimentazione del reattore. La fornitura è così passata alla General Electric».

Il monopolio atomico
La "General Electric", la "Westinghouse" e la "Union Carbide" formano il terzetto industriale americano che detiene in pratica il monopolio mondiale delle forniture nucleari (reattori, combustibili nucleari, etc). In campo nucleare, esse possono fare il bello ed il cattivo tempo. Sono esse, ad esempio, che stabiliscono il prezzo dell'uranio arricchito, materiale indispensabile in tutte le applicazioni dell'energia atomica. Naturalmente le tre imprese hanno tutto l'interesse di conservare il monopolio, anche perché esse impiegarono a suo tempo, per la realizzazione degli impianti, ingenti capitali, i quali potrebbero essere ammortizzati in un lasso di tempo piuttosto breve (circa 25 anni) solo se perdurasse la situazione di oligopolio di cui esse godono attualmente. Il numero degli anni crescerebbe a dismisura qualora la comparsa di altre imprese creasse una condizione di concorrenza. I guadagni favolosi che i business-men americani interessati si erano ripromessi, per di più, prenderebbero irrimediabilmente il volo.
Si era profilato all'orizzonte, negli ultimi anni, il pericolo di vedersi sfuggir di mano il monopolio ad opera -specialmente- dell'industria europea e di quella giapponese, sempre più agguerrite anche nel campo dell'energia nucleare.
Con il "Trattato anti-H", le tre industrie statunitensi si ripromettono di ritardare il più possibile l'avanzata europea e nipponica nel settore atomico, in modo da starsene con le spalle coperte per molti altri anni. Con la sua allusione, il quotidiano di Nuova York si riferiva appunto a questo.
Ancora una volta il Governo di Washington ha mostrato di essere poco più di un «comitato d'affari» della finanza e dell'industria americana; ma sarebbe un grave errore soffermarsi su questi aspetti meramente economici del problema, perché esso -è utile dirlo- è innanzitutto un problema politico.

I partiti italiani
In occasione delle discussioni parlamentari sulla firma italiana del Trattato parlò anche La Malfa, padrino spirituale del centro-sinistra e sua mosca cocchiera.
Per dare una giustificazione politica alla propria volontà di firmare a tutti i costi e subito, egli ebbe a dire che rifiutarsi di sottoscrivere il Trattato sarebbe stato un grave attentato alla pace, tale essendo ogni tentativo di incriminare l'ordine costituito internazionale (quello di Yalta), cosa che -a suo dire- ogni sincero democratico deve perciò guardarsi bene dal fare.
Una volta tanto, bisogna dare atto a La Malfa di essere nel vero, poiché è innegabile che il Trattato per la non proliferazione nucleare sia un fattore di mantenimento (anzi addirittura di consolidamento) dell'ordine di Yalta.
Esso equivale al riconoscimento giuridico, da parte dei Paesi non nucleari che lo sottoscrivono, di quella che finora era stata soltanto una realtà di fatto: la suddivisione del mondo in zone di influenza ad opera degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica.
Il fatto che i due padroni del mondo abbiano usato, per spingere i rispettivi satelliti alla firma, il tema della pace in pericolo, è in un certo senso sintomatico, Quali nefandezze non si sono compiute in nome della pace?
La Santa Alleanza di Metternich e di Alessandro I di Russia si mise al servizio della Reazione in nome di alti ideali, fra i quali capeggiava quello della pace.
In nome di questa pace si cercò di comprimere il fermento politico che animava il continente e di rigettare i popoli europei in un ordine politico che era ormai stato definitivamente sconfitto dagli eventi degli ultimi decenni.
La storia si ripete. È sempre in nome della pace che oggi la nuova Santa Alleanza russo-americana impone al mondo la sua volontà di dominazione colonialistica, tramite ima strategia di progressivo assoggettamento, della quale il "Trattato anti-H" è un solido ed efficace strumento.
Che il "Trattato anti-H" sia un elemento di consolidamento dell'ordine di Yalta è fuori discussione. In particolare, per quanto riguarda almeno noi del settore «occidente», esso si risolverà in uno strumento atto a rinsaldare il Patto Atlantico.
I servi che ieri hanno firmato il Trattato in nome della Dea Pace (non dimentichiamo che è pur sempre una «Pax americana») sostenendo che in fin dei conti i popoli aderenti alla NATO non hanno bisogno di essere armati perché a difenderli c'è pur sempre lo Zio Sam, sono gli stessi, identici servi che domani -di fronte alla volontà del popolo di scrollarsi di dosso il gioco statunitense e quindi uscire dalla NATO- risponderanno amabilmente che ciò non è possibile, perché noi non abbiamo un armamento nucleare, e chi non ne è provvisto non può in nessun caso permettersi il lusso di starsene al di fuori dei blocchi, in libertà, per cui è giocoforza rimanere attaccati alle sottane di Washington, ed anzi bisogna essere grati agli USA della «difesa» ch'essi ci garantiscono.

La pace imperialista
Il fatto che i partiti politici italiani abbiano assunto posizioni contrastanti e talora opposte nei riguardi del Trattato non deve meravigliare. Non vi è nessuna contraddizione effettiva fra l'esistenza di queste divergenze ed il fatto che tutti i partiti ufficiali siano indistintamente integrati nell'ordine costituito internazionale.
Se si è verificato che partiti ultra-atlantici come il PLI ed il MSI hanno assunto una posizione di polemica nei confronti del Trattato, mentre gli altrettanto filo-americani PSI, PRI e DC propendevano più o meno accanitamente per la sottoscrizione immediata, ciò è accaduto perché nell'ambito della Confindustria stessa le posizioni a riguardo erano tutt'altro che omogenee. Si è infatti verificata una discordanza di interessi e quindi di posizioni fra gli esponenti della grande industria (capitale monopolistico) da una parte, ed esponenti della media e piccola industria privata dall'altro.
Il capitale monopolistico, fedele alla sua natura internazionale (epperciò direttamente cointeressato al mantenimento dello status quo voluto dagli USA) era decisamente favorevole alla firma: non a caso è accaduto che Gianni Agnelli, in un congresso negli Stati Uniti al quale partecipavano tutti i «big» della finanza e dell'industria (Rockefeller in testa), ebbe parole molto compiaciute nei riguardi della firma ormai imminente del Trattato. Se si tiene presente che il centro-sinistra fu appunto sostenuto da Agnelli (e dal grosso capitale in generale) si comprende subito quali interessi abbiano spinto i partiti governativi ad essere tanto entusiasti di sottoscrivere il Trattato.
I partiti di destra, dal canto loro, hanno approfittato di questa contingenza per impinguare il più possibile le proprie casse con finanziamenti la cui origine non merita certo spiegazioni. Foraggiati da alcuni ambienti confindustriali, per lo più quelli della piccola e media industria, hanno continuato ad inveire contro il Trattato, senza d'altra parte smettere di prostituirsi nei confronti degli USA, «difensori del mondo libero». (La contraddizione, più lampante che chiara, non deve far credere che si tratti di deficienti. Sono soltanto dei servi).
II discorso è un po' diverso per quanto riguarda il PCI. Qualche periodico marxista-leninista ha interpretato la sua adesione al Trattato come una logica conseguenza della sua dipendenza dall'Unione Sovietica (che è interessata come e più degli USA al varo del Trattato).
In parte ciò è vero. Tuttavia non è sufficiente. Bisogna obiettivamente ammettere che non si può continuare ad interpretare la politica del PCI alla luce della sua dipendenza dall'Unione Sovietica, e ciò non solo perché così facendo non si andrebbe oltre le interpretazioni tipo "il Tempo" e "il Borghese", ma anche poiché si marcerebbe in direzioni in parte sbagliate. I fatti di Cecoslovacchia e le posizioni di dissenso verso la politica del Cremlino espresse dal PCI, dimostrano chiaramente come il Partito Comunista sia molto meno legato a Mosca di quanto non credano molti.

La scalata alla poltrona
Il motivo più importante che ha spinto il PCI a manifestare il più acritico ed entusiastico assenso alla firma del Trattato riguarda più la sua strategia nei confronti delle forze politiche italiane che non quella relativa ai propri rapporti con l'URSS.
Il fatto che la massima aspirazione del PCI sia ormai quella di entrare in un prossimo futuro nel Governo è ormai scontato. Il congresso di Bologna ne è una conferma. Altrettanto sicuro è però il fatto che il suo accesso alle poltrone non avverrà fin quando non lo vorrà chi di dovere: Stati Uniti, Vaticano e Confindustria. Quale occasione migliore di quella offerta dalla firma del Trattato di non proliferazione per fare un bel piacere a tutti e tre, dimostrando una volta per tutte che i comunisti italiani (del PCI) hanno definitivamente «messo la testa a posto»?

(1) Fra gli scopi di questo famoso Piano si possono enumerare i seguenti: trasformare schisti bitumosi (inservibili) in una forma estraibile (Progetto Bronco) — raggiungere nuovi depositi di gas naturale (Progetto Gas Buggy) — realizzare cave sotterranee destinate al raccoglimento di acque al fine di ovviare, in Paesi a clima siccitoso, alle forti perdite idriche per evaporazione (Progetto Ketch)
— gassificare strati densi di carbone povero (Progetto Thunderbird)
— estrarre rame da depositi a basso tenore (Progetto Sloop) — etc.

Ogni critica è costruttiva. la creatività nasce anche dalla critica

Creatività
non è compilata da una cerchia chiusa di dottrinari detentori di tutte le verità.

Creatività
ha bisogno della collaborazione di tutti.

Creatività
è aperta all'opinione di quanti, studenti e lavoratori, sentano i problemi in essa affrontati.

Chiunque non è in grado di comprendere venga a discutere con noi. Tutto si può spiegare a tutti (dalla Carta della Sorbona)


Documenti della Commissione "Scuola e Società"

In questo numero di "Creatività" iniziamo la pubblicazione dei documenti che vengono, e verranno, elaborati via via dalla commissione di studio "Scuola e Società".
La commissione "Scuola e Società" si interessa di studiare la struttura e i fini dei sistemi di istruzione in Italia e nei paesi dell'area occidentale e i rapporti che intercorrono tra la scuola e la società capitalista, e neocapitalista, evidenziando la funzionalità della scuola al sistema borghese.
Per chi si vorrà interessare al lavoro di questa commissione, che è aperta alla collaborazione di chiunque (le riunioni si tengono bisettimanalmente nei locali della sede del gruppo - via dei Marrucini, 8a), pubblichiamo il programma generale della commissione.

Programma della Commissione "Scuola e Società":
I
par. 1 - Analisi della scuola italiana odierna;
par. 2 - Direttrici di marcia della sua futura evoluzione in un sistema borghese neocapitalista.
II
par. 1 - Intercomunicabilità tra scuola e società;
par. 2 - Differente dimensionamento dei modi di intervento del sistema nella società;
par. 3 - Identità di postulati: autoritarismo, selezione, classismo, finalismo produttivistico.
III
par. 1 - Modi di intervento nella scuola e nella società;
par. 2 - L'educazione rivoluzionaria e la prassi rivoluzionaria.
IV
par. 1 - La scuola rivoluzionaria.
par. 2 - La funzione della scuola in una società senza classi.


Analisi della scuola italiana

I - Istruzione borghese al popolo

La scuola borghese o, più genericamente, la concezione borghese di istruzione si fonda su un postulato e su un imperativo che da esso discende:
Postulato:
«Il popolo è incapace di esprimere una cultura».
Imperativo:
«Il popolo deve essere istruito da chi possiede la cultura».

Il popolo è incapace di esprimere una cultura
Malgrado le ultime definizioni del concetto di cultura, radicalmente innovative ma sempre scaturite da ambienti culturalmente borghesi, l'accezione di questo termine ancora quasi universalmente accettata, più o meno consciamente, rimane quella che poggia su di una concezione affermata dall'illuminismo prima, e imposta poi vittoriosamente dalla rivoluzione borghese in Europa e nel mondo:
«Cultura come conoscenza intellettuale e non come esperienza vissuta, come conseguenza e non come creazione, come capacità di dominio e di sfruttamento sulla natura o della natura, sull'uomo o dell'uomo, e non come visione del mondo e della vita».

Basandosi infatti sull'affermazione del primato della ragione, l'Illuminismo, se da un lato smitizzò il concetto d'Autorità attaccandone le fondamenta emotive ed irrazionali, non fece dall'altro che razionalizzarne il contenuto: si sostituì al concetto tradizionale di Autorità il concetto di «Autorità scientifica». In parole povere «chi più sa ha il diritto di comandare».
Ma il sapere veniva indicato nella scienza, e per scienza veniva inteso l'insieme delle leggi e delle nozioni che si potevano ottenere da un esame razionale e meccanicistico della realtà.
La cultura andò sempre più identificandosi con l'astrazione, l'intellettualismo e lo scientismo: mancava una qualsiasi attinenza alla pratica esperienza quotidiana ed individuale.
Si approfondì sempre di più il baratro che separava «chi più sa» dal popolo.
Con il Romanticismo si cercò di contrapporre alla cultura borghese razionalistica scientista intellettualistica meccanicistica e oggettivizzante, o meglio disumanizzante, la cultura scaturente dal fecondo «humus» popolare, cioè una cultura pratica intuitiva e soggettivizzante, o meglio umanizzante.
Poi trionfò il positivismo; alla cultura venne dato un fine: il progresso materiale. Si era completata la confusione tra scienza e cultura.
Misurando così la cultura sulla base non già delle esperienze vissute e della pratica soluzione dei problemi esistenziali, ma sulla capacità maggiore o minore di produrre sempre nuovi «giocattoli» per il bambino-uomo o di fornirgli nozioni capaci di affinargli la capacità produttiva, rendendo così implicita l'accettazione acritica dei postulati fondamentali di convivenza in una società «bene ordinata», si condannava e si respingeva la cultura in senso popolare e si imponeva la cultura borghese.
La riduzione della cultura a fatto esclusivamente razionale ed intellettualistico, e quindi riservato a coloro i quali posseggono gli strumenti tecnici di apprendimento, diede in un primo tempo alla borghesia la possibilità di conservare il monopolio della cultura in prima persona; poi le esigenze della produzione cominciarono a determinare un allargamento dell'istruzione agli altri ceti.
A questo punto si rese necessario far sì che questi nuovi elementi non possedessero gli strumenti critici per poter conoscere la reale struttura del potere ed essere quindi in grado, appropriatisi di questi, di rovesciarla; di qui l'esaltazione della tecnica e della specializzazione, ecc.
Imposto il concetto borghese di cultura, per cui questa può essere raggiunta solo attraverso l'apprendimento di determinate nozioni in determinati modi con determinati strumenti, si è quindi giunti a costringere l'individuo ad autoconsiderarsi privo di cultura e a rivolgersi alla scuola borghese per essere istruito.

Il popolo deve essere istruito da chi possiede la cultura
L'individuo viene quindi ad essere istruito in una istituzione di carattere borghese, con procedimenti borghesi, per finalità borghesi.
Al concetto per cui il popolo è più utile se ignorante e superstizioso, perché più ubbidiente e sottomesso -concetto che giunse perfino ad essere teorizzato nel periodo della Controriforma e poi ancora più tardi- la borghesia sostituì il concetto per cui il popolo deve essere sì istruito ma dalla borghesia stessa.
La borghesia aveva infatti bisogno del popolo per ribaltare la piramide del potere assolutista che si reggeva appoggiandosi sul clero e su di una nobiltà retriva, che aveva ormai perso qualsiasi contenuto e funzione politica e culturale e quindi storica. Per far sì che il popolo rimanesse neutrale o addirittura scendesse in lotta al suo fianco la borghesia attaccò il concetto di autorità e lo smitizzò nei suoi contenuti emotivi e tradizionali.
A questo motivo di carattere squisitamente politico se ne aggiungeva un altro, prima sommessamente, poi sempre più pesantemente. Gli interessi della borghesia si evolvevano: non bastava più la manodopera non specializzata, di fronte alla rivoluzione industriale: servivano i tecnici e quindi le scuole di specializzazione.
Ma ciò non basta: per impedire che l'istruzione impartita nelle scuole provocasse, come effetto secondario e non voluto, una qualsiasi presa di coscienza a carattere critico nel discente:
1) l'individuo deve essere imbottito di nozioni di carattere anodino e prive di qualsiasi contenuto genuinamente realistico, ma astratte e tendenti a:
a) farlo pensare come il sistema vuole,
b) fargli fare ciò che il sistema vuole;
2) l'individuo deve essere abituato a ricevere l'istruzione dall'alto, come munifico dono concesso alla massa incolta e incapace di esprimere una qualsiasi cultura;
3) l'individuo non deve tentare, o peggio, essere incitato ad autoeducarsi attraverso una pratica che lo porti alla verifica immediata delle nozioni o delle leggi imparate.
La cultura si riduce quindi a mezzo di integrazione nel sistema e a strumento di conservazione delle strutture sempre più razionalizzantesi del potere borghese.

Il - Origini della scuola italiana odierna

La cultura italiana prima dell'illuminismo
Non esistendo una scuola italiana nel senso proprio del termine prima della riforma napoleonica, si può fare solo un parallelo tra quello che era il concetto di cultura in Italia prima dell'Illuminismo e l'odierno concetto di cultura che naturalmente determina il derivante concetto di istruzione.
Prima dell'Illuminismo in Italia il panorama culturale era ancora quello della Controriforma, che non aveva saputo esprimere alcunché di nuovo culturalmente, ma si era cristallizzata su vecchie posizioni; il principio di autorità, enunciato per ragioni di carattere religioso e politico, veniva fatto valere anche in campo letterario e filosofico. Si era attuata inoltre una trasposizione della stessa filosofia in forma applicata e laicizzata della teologia.
L'Italia, schiava politicamente e dominata dall'Inquisizione, viveva al margine della cultura europea e ignorava tutta la fioritura intellettuale e culturale che in Europa era stata avviata dalla riforma luterana.
La borghesia non si è ancora affacciata sulla scena culturale in Italia, ne mancano infatti le premesse: dopo l'esplosione rinascimentale, la reazione controriformista la aveva di nuovo ridotta in condizioni di soggezione mediante l'alleanza tra clero e nobiltà; la borghesia italiana non ha ancora raggiunto quelle posizioni di predominio economico che saranno poi la base per una sua esplosione sul piano culturale tesa ad affermare e a giustificare la propria supremazia sulle altre classi.
Cartesio arriva in Italia non prima del 1660, ma le sue idee, che affermano la libertà del pensiero e della ragione, cominciano a divenire il centro delle discussioni verso la fine del secolo, contrastate come erano dalla parte più retriva della reazione cattolica; nel 1713 arriva l'opera di Locke.
Al di fuori di tutti i fermenti innovatori sul piano culturale che si andavano svolgendo in Europa, laddove l'indipendenza politica dalla Chiesa e dal suo braccio secolare, la Spagna, dava almeno la possibilità di un certo dibattito culturale, l'Italia, rimaneva caratterizzata dall'identificazione tra cultura ed erudizione.
I caposaldi di questa erudizione rimanevano Aristotele e San Tommaso, ma ciò che è più interessante ai fini di questa analisi, è il fatto che lo studio, basandosi sulla conoscenza più o meno approfondita dei testi classici, dava luogo ad una erudizione tipicamente da biblioteca e avulsa da ogni realtà, come del resto era necessario per una società come quella pre-illuministica italiana, fondata sull'oscurantismo controriformista, sulla schiavitù nazionale e sul servilismo politico.
I «maestri antichi» insegnavano. Essi avevano detto tutto: bastava leggerli. Naturalmente li poteva leggere solo chi ne avesse la possibilità. Le biblioteche erano private o religiose, l'istruzione veniva impartita dai precettori, che potevano essere pagati solo dalle famiglie ricche, la scuola si identificava con la parrocchia, lo studio con il catechismo (o con il Vangelo) l'analfabetismo era la regola, rare le I eccezioni.
Dall'erudizione nozionistica ed accademica era quindi escluso il popolo che, fra l'altro, sentiva una istintiva diffidenza per quel tipo di sapere astratto ed arcaico, lontano dalla realtà viva e quotidiana, e si sentiva anche respinto, oltre che da oggettive preclusioni economiche, anche da un certo atteggiamento di disprezzo tipico dell'erudito nei confronti del volgo; erudito che poi si identificava con il signorotto o con il sacerdote di famiglia nobile.
Riassumendo:
a) istruzione riservata alle classi più potenti politicamente, cioè clero e nobiltà (la borghesia che vive solo del commercio di piccole proporzioni è insignificante numericamente ed è ancora esclusa da ogni forma di potere);
b) contenuti astratti ed arcaici dell'istruzione e della cultura (marinismo, arcadia, aristotelismo, tomismo, ecc.);
c) accademismo, per cui gli eruditi si riunivano fra loro per discutere con linguaggio iniziatico di problemi astrusi e di nessuna importanza, se non inesistenti addirittura (il fiorire delle Accademie); la mancanza, quindi, di un qualsiasi collegamento tra il mondo delle Accademie e la realtà viva ed operante, cioè il popolo e i suoi problemi;
d) oscurantismo culturale, determinato dalla stretta di mano tra clero e nobiltà (l'uno difendendo l'altra difende sé stesso e viceversa), che si evidenzia, da una parte, con la messa all'indice degli autori pericolosi, e dall'altra con la persecuzione politica degli stessi;
e) ignoranza popolare, determinata dall'inutilità pratica di quel tipo di sapere e dalla paura di una peraltro impossibile presa di coscienza del popolo stesso; oggettivamente mancanza quasi totale di scuole popolari e di un qualsiasi collegamento tra la «cultura» e il popolo.

La cultura e la scuola in Italia dopo la rivoluzione francese
La scuola italiana, come istituzione statale o meglio come servizio pubblico preordinato al fine di istruire il popolo, nasce in Italia a livello politico con la riforma napoleonica che può essere considerata, quindi, come l'anello di congiunzione tra la rivoluzione borghese illuminista e lo accademismo italiano.
In Italia, l'Illuminismo si era sviluppato in ritardo rispetto alla Francia ed era rimasto circoscritto a circoli intellettuali ristretti e privi di un effettivo legame con il popolo.
Le ragioni storiche di questo isolamento e di questo ritardo erano di ordine politico ed economico; politicamente l'Italia era soggetta al dominio di vari signorotti «longa manus», per lo meno in buona parte, di potenze straniere coordinate tutte dalla Chiesa, il che provocava una situazione di repressione politica e culturale; economicamente la borghesia, lungi dall'aver acquistato quella potenza che in seguito acquisterà, ha scarso peso visto il carattere prevalentemente agricolo ed artigianale dell'economia italiana; la cultura non era ancora diventata quello strumento di penetrazione e di dominazione che poi diventerà, quando la borghesia vorrà giustificare la propria supremazia sulle altre classi.
Con l'isolamento dei circoli illuministici nei confronti del popolo si possono spiegare i fallimenti dei vari tentativi rivoluzionari che si ebbero in Italia a seguito della rivoluzione francese o meglio delle campagne napoleoniche.
Quindi, anche se certi temi innovatori sul piano della cultura erano già recepiti da alcuni ambienti, bisognò attendere Napoleone perché se ne avesse una realizzazione concreta sul piano politico.
La Costituzione della Repubblica Cisalpina nel 1797 sancisce l'obbligo dell'istruzione popolare. Ma questa resta una affermazione di principio, data anche la poca vita che la repubblica stessa ebbe.
Nel 1802, insieme a tutte le riforme politiche, economiche, giuridiche che vengono emanate nell'ambito dei vari domini napoleonici, viene promulgata anche la legge sulla istruzione, la quale stabilisce la struttura della scuola riportandola secondo un criterio, che ancor oggi è seguito in linea di massima: cioè in Scuole primarie, secondarie (ginnasi), licei, università, scuole speciali (tecniche).
La scuola costa a qualsiasi livello ed è quindi riservata alle classi più abbienti; già si istituiscono le scuole tecniche che servono a sfornare manodopera specializzata che sia però priva di strumenti critici che potrebbero avere pericolosi sviluppi sul piano politico.
Si comincia così a instillare il concetto per cui la cultura si acquisisce sui banchi di scuola, imparando ciò che hanno detto e fatto gli altri e assimilando, attraverso l'opera del professore, i giudizi e le scelte della cultura ufficiale e quindi della classe dirigente; attraverso la rigida organizzazione burocratica del potere nella scuola si prepara il discente alla organizzazione classista della società e gli si instilla la convinzione di essere un oggetto da plasmare per divenire uno strumento utile alla società; attraverso la disciplina esteriore e formale si educa il discente all'ossequio incondizionato nei confronti dei superiori gerarchici e al disprezzo per i subalterni; dando la preminenza al metodo razionale e affermando genericamente il primato della ragione sull'intuizione si reprime ogni tendenza creativa e fantastica nell'individuo, educandolo a conoscere solo la dimensione della realtà e ad adeguarsi alla stessa senza porsi il problema di adeguare essa a sé stesso.
Dopo il congresso di Vienna, i principi restaurati dovettero, loro malgrado, fare i conti con la borghesia in ascesa: questa infatti, presa coscienza della propria funzione che va acquistando importanza sul piano economico, comincia a rivendicare il diritto al potere politico, servendosi" della cultura come arma contro i dogmi dell'autorità taumaturgica e come strumento di coesione all'interno della propria classe.
Durante tutto l'Ottocento la borghesia italiana avanza continuamente sul terreno dell'acquisizione di sempre nuovi diritti e poteri, riservandosi sempre il monopolio della cultura, sia sotto il profilo della gestione che sotto quello della acquisizione della cultura stessa, dato che l'istruzione scolastica viene impartita quasi esclusivamente a elementi di estrazione borghese (solo nel 1877 la legge Coppino stabilirà che l'istruzione, e soltanto quella primaria, è obbligatoria oltre che gratuita).
Nel 1848 Carlo Alberto oltre a concedere lo Statuto e tante altre cose (non certo per filantropia) promulga la cosiddetta legge Boncompagni (dal nome dell'allora ministro della Pubblica Istruzione).
Oltre ad essere la prima legge sulla scuola fatta da un governo indipendente in Italia dopo la rivoluzione borghese-illuministica, di notevole questa legge stabilisce che sulla carta è abolito ogni privilegio, mentre in realtà si sostituisce ad una discriminazione di casta una discriminazione censitaria in quanto la scuola non è gratuita.
Inoltre la legge Boncompagni sancisce l'autorità dello Stato per tutto ciò che riguarda l'istruzione; sarà quindi da ora in poi il governo, e quindi la classe di cui esso è espressione, a stabilire i contenuti e fini dell'istruzione.
È con la legge Casati del 1859, però, che si ha la prima strutturazione organica della scuola italiana: con successive modifiche essa rimarrà in vigore fino all'avvento del Fascismo e della riforma Gentile.
La riforma Casati poco innova alla legislazione precedente che essa rielabora e rende un tutto organico, attingendo alla legislazione del regno sardo e a quella del Lombardo-Veneto, ma impostando il tutto secondo lo spirito della riforma napoleonica.
L'importanza della legge Casati risiede nel fatto che la suddivisione della materia da essa attuata è, in linea di massima, la stessa di oggi.
Con essa nascono la scuola e l'istituto tecnico, riservato naturalmente alle classi meno abbienti, indirizzo questo che avrà sempre maggiori sviluppi man mano che la borghesia italiana si trasformerà da artigianale in industriale e da mercantile in commerciale.
Per questa legge i poteri del ministro sono praticamente illimitati: gli organi coadiutori del ministro (consiglio superiore, ispettorato, consigliere legale) hanno funzioni meramente consultive; gli organi periferici dell'istruzione sono ufficiali delegati dal ministro: si realizza così anche a livello burocratico l'accentramento del potere scolastico nelle mani del potere politico e della classe dirigente.
Laddove l'insegnamento potrebbe divenire polemico nei confronti della struttura del potere, cioè nelle Università, il controllo diventa ancora più rigido: tra i motivi di destituzione dei docenti, uno dice, per esempio, che il docente che tenti di scalzare con il suo insegnamento i fondamenti della costituzione dello Stato, viene destituito.
Per quanto riguarda i contenuti dell'insegnamento c'è da dire che essi sono estremamente spoliticizzati: lo studente deve fare le sue scelte «culturali» in un universo limitato di posizioni intellettualistiche ed astratte, provenienti tutte da filoni culturali tipicamente borghesi.
Le successive modifiche, che sono però parziali e non intaccano quindi la sostanza della legge Casati, sono, per citare le più notevoli, la legge Coppino e la legge Orlando.
La legge Coppino stabilisce che la istruzione primaria è obbligatoria: infatti la legge Casati aveva già sancito che l'istruzione primaria doveva essere gratuita, sperando così di attirare nella scuola le classi meno abbienti, ma questa si era dimostrata una mera illusione date le abissali forme di arretratezza culturale che caratterizzavano le classi inferiori in Italia. Anche la legge Coppino non risolse completamente il problema in quanto l'istruzione obbligatoria veniva considerata sullo stesso piano del servizio militare con l'inconveniente dell'automantenimento; d'altronde la gratuità si fermava all'istruzione primaria quando negli Stati Uniti -dove la rivoluzione industriale era già iniziata- si estendeva anche a quella secondaria fin dal 1850.
La legge Orlando sancisce l'obbligatorietà in linea di principio fino ai dodici anni ed istituisce la VI; ma la cosa più notevole è che nei programmi dell'anno successivo alla riforma si parla per la prima volta di «educazione morale e civile» come materia di studio; naturalmente però questa materia verrà insegnata in maniera tale che non crei nel discente problemi di carattere polemico sul piano politico, instillandogli anzi quel famoso terrore della politica che caratterizza tuttora il sistema di insegnamento in Italia.
Poi giunse il Fascismo.

(continua)

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