da "Rinascita" (sabato
14 aprile 2012)
Un'intensa riflessione sulla Socializzazione delle
imprese
Difendo la Socializzazione
Rutilio Sermonti
La
Socializzazione delle Imprese è stato un
autentico monumento di saggezza giuridica, economica e sociale,
eretto per l'avvenire e parzialmente realizzato nel 1944-45 |
Come studioso e appassionato di idea corporativa, come
combattente in armi della Repubblica Sociale Italiana, e infine come figlio ed
allievo di Alfonso Sermonti, che della rivoluzione socializzatrice fu uno dei
massimi artefici, devo difendere la Socializzazione delle Imprese: autentico
monumento di saggezza giuridica, economica e sociale, eretto per l'avvenire e
parzialmente realizzato nel 1944-45, sotto le bombe e i tradimenti, senza
provocare la minima flessione produttiva, e senza alcun apporto da parte degli
alleati germanici, che tale flessione paventavano.
Ma difenderla da chi?
Non certo dai suoi denigratori e soppressori! Non c'è tempo peggio sprecato che
quello a polemizzare con gli stupidi, gli ignoranti o la gente in malafede, come
quelli che definiscono la socializzazione un espediente per dissuadere i
lavoratori dalla lotta contro il "Tedesco invasore".
A parte simili lacrimevoli balle, non c'è mai stato, da quella parte, neppure un
grugnito degno di essere confutato.
Devo difenderla dagli amici, difenderla dai camerati che, parlandone e
scrivendone senza la necessaria cognizione di causa, ne sviliscono e travisano
finalità e metodo, secondo la mai abbastanza deprecata abitudine di pontificare
su checchessia, senza neppure aver letto i provvedimenti originali, e tanto meno
i lavori preparatori.
Molti di quei camerati sono miei amici, e io sono loro amico. Preferisco quindi
non fare nomi, e raggruppare i miei chiarimenti per argomento.
Alcune necessarie rettifiche in fatto:
Prima: si accusano unanimemente i cosiddetti "paladini dei lavoratori", giunti
al potere grazie alle nazioni capitaliste, di essersi affrettati, come prima
cosa, ad abrogare le norme socializzatrici della RSI.
È doppiamente falso.
Punto primo: il decreto del CLNAI contro la socializzazione fascista reca la
data del 18 aprile 1945, allorché il detto Comitato non era che un'accolta di
privati, non avente il minimo potere di decretare o abrogare checchessia.
Punto secondo: il cosiddetto decreto (lo si legga, perdio!) non abroga affatto
la socializzazione, anzi, la conferma. Si limita soltanto a sostituire i
Consigli di Gestione (allude, anche se non lo dice, al 50% di lavoratori) con i
c.l.n. rossi aziendali, ovvero consigli di fabbrica, in attesa dei nuovi
consigli, con membri da eleggersi entro tre mesi e che non fossero asserviti al
Tedesco Invasore che non invadeva più. Vi sembra un'abrogazione?
L'abrogazione c'era, ma senza alcun decreto. Ed era da parte degli industriali,
che non si sognavano nemmeno di concedere ai loro dipendenti la minima
ingerenza, neppure consultiva, e, data la risma di "lavoratori" che avrebbero
avuti fra i piedi, non avevano, tutti i torti. Peraltro, in armonia, col
bla-bla-bla demagogico proprio dei partiti rossi, nessuna elezione di consigli
di gestione rinnovati e redenti ebbe mai luogo.
Cominciò allora il tira e 1 molla. Da un lato i sindacati socialcomunisti che, a
mezzo dei relativi partiti, tentavano di ottenere dal parlamento una legge che
regolasse la socializzazione, secondo quanto promesso nel menzionato
pseudo-decreto; dall'altro Confindustria e singole Unioni Industriali, che
bombardavano governo e parlamento, cominciando da De Gasperi, di minuziosi studi
e relazioni con cui dimostravano che una qualsiasi forma di socializzazione,
introdotta in quella atmosfera, altro non avrebbe significato che l'introduzione
della lotta di classe all'interno delle aziende, con quale beneficio per la
ricostruzione era facile intendere. Due ministri socialisti, il D'Aragona e il
Mancini, giunsero perfino a redigere due progetti, poi unificati. Intendo
progetti di socializzazione, più o meno scopiazzati da quelli seri dell'anno
precedente. È perfettamente noto come andò a finire: col pietoso art. 46 della
nuova costituzione, generico e velleitario, posto immediatamente in un
barattolo, sotto formalina, ove tuttora giace. Avendo coscienziosamente letto,
come mio costume, tutta la produzione delle due parti in quel periodo, posso con
sicurezza attestare che le disamine e istanze da parte industriale (a parte la
condivisibilità) erano abilmente documentate ed articolate, mentre le
invocazioni partecipative delle sinistre non erano che un coacervo della solita
retorica demagogica. Falso, comunque, come si vede, che la socializzazione della
RSI sia mai stata abrogata. Solo vero che la R.A.F.L. (Repubblica Antifascista
Fondata (?) sul Lavoro) non è riuscita a realizzarne un'altra. Ma è forse mai
riuscita la seconda a realizzare qualcosa di utile, in oltre sessant'anni?
Altro grave errore che inficia i "socializzatori viscerali" che abbondano nelle
nostre file è la persuasione che i decreti fascisti del '44 abbiano
rappresentato una sterzata, un cambiamento di rotta, rispetto alla politica
corporativa del ventennio. Qualcuno parla persino di «ritorno alle origini»!
Invece, chi non comprende il nesso di continuità ininterrotta che unisce la
Legge 563 del 1926 sull'ordinamento sindacale di diritto e la Carta del Lavoro
21.4.27 del Gran Consiglio del Fascismo a quei meditati decreti della RSI sempre
nella stessa direzione, è condannato a non capire quasi nulla della portata e
finalità dei secondi, e sempre per il pessimo vizietto di pensare per ...
sentito dire. Quanti -chiedo io loro- di quei camerati si son presi la briga di
leggere interamente almeno il decreto istitutivo del Duce 12.2.1944, n°375 e le
mirabili Norme d'attuazione 12.X.1944, limitandosi solo alle fonti più
importanti? Quanti hanno riflettuto sulle parole con cui inizia il primo: «Vista
la Carta del Lavoro»? Quanti si sono accorti che i princìpi ispiratori della
socializzazione sono già in massima parte presenti nei nuovi codici civili
approvati nel 1941?
Si suole anche parlare di "compromessi" che avrebbero inficiato l'opera del
ventennio prebellico. Certo, chi scrive di politica sociale seduto davanti alla
tastiera di un computer può svolazzare come una farfalla tra ideologie e
sofismi, senza fare i conti con la realtà. Ma non chi si accolla la totale
responsabilità della guida di un grande popolo. Quest'ultimo, con la realtà deve
farci i conti ogni minuto. E, nel 1922, la realtà economica italiana era
interamente capitalistica. Con quale mai Mussolini avrebbe dovuto confrontarsi,
per arrivare al radicale mutamento previsto, senza arrestare i processi e i
meccanismi che permettevano di vivere a 40 milioni di persone? Ebbene, sotto gli
occhi sbalorditi del mondo intero, egli riuscì non solo a non arrestarli, ma a
migliorarli continuamente, a partire dal secondo giorno. Beh: se c'è in giro
qualcuno che si ritiene più bravo di Lui e in grado di dargli lezioni, abbia
almeno il senso del ridicolo e chiuda il becco!
Giunto a questo punto, mi accorgo di aver soltanto posto le premesse alla difesa
della Socializzazione, non dai suoi nemici ma dai suoi... amici più affezionati.
E ciò mi costringe a rinviare il prosieguo a un successivo articolo, che prego
la Redazione di "Rinascita" di pubblicare come numero due dello stesso
argomento. E se fosse necessario anche un terzo, spero di non tediarvi. Chiarire
certe idee infondate dei nostri è, a mio parere, più importante che cercar di
forare le zucche coriacee dei "pensatori" del pensiero unico. Ed è l'unica
funzione utile rimasta ai miei novant'anni e alla mia sedia a rotelle!
Rutilio Sermonti
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