È Gianfranco Fini la nuova
carta degli USA
Alberto Signorini
Una volta costretto a ritirarsi dalla scena
politica, Berlusconi potrà intitolare le sue memorie Come covarsi una serpe in
seno, inserire il libro nella nuova collana Mondadori "Chi è causa del suo
mal...”, e dedicarlo a Gianfranco Fini. Il 25/11 scorso, infatti, con una
significativa coincidenza, l’editoriale del Corriere della Sera celebrava il
tramonto del quindicennio berlusconiano, mentre La Stampa titolava in prima
pagina: «E ora gli americani puntano su Gianfranco», preannunciando che a
febbraio il Presidente della Camera è atteso negli USA «da interlocutore
privilegiato». Siamo dunque alla resa dei conti, e stavolta neanche un chirurgo
riuscirebbe a ricomporre una frattura ormai esposta alla luce del sole.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel dicembre ’93, quando l’allora
segretario missino sfidò Rutelli per la carica di sindaco di Roma e Sua
Emittenza dichiarò la propria preferenza per il primo. Lo "sdoganamento” era
iniziato, e al delfino di Almirante si offriva un’occasione insperata. Il 40enne
che aveva appena teorizzato il "Fascismo del 2000” fu lestissimo a fiutare il
mutar dei venti e a capire che, per sfruttarne la spinta, il vecchio veliero
erede della RSI -i cui marinai si chiamavano ancora camerati e si salutavano
romanamente- necessitava di un profondo restyling. La metamorfosi fu talmente
rapida che nel giro di un anno l’antifascismo divenne un valore fondante per gli
ex fascisti riverginati in AN. Le acque passate a Fiuggi (gennaio ’95) furono
attentamente esaminate a Washington, Londra e Gerusalemme, che certificarono la
perfetta riuscita dell’operazione: anziché l’antica ostilità all’imperialismo
anglo-americano, un atlantismo a prova di bomba; niente più destra sociale, e
avanti tutta col liberismo imposto da Wall Strett e dalla City; condanna
dell’antigiudaismo mussoliniano e virata di 180° verso il fascismo sionista
(l’antisemitismo rimaneva, virato però contro i palestinesi e gli arabi in
genere). L’ex nostalgico di Salò aveva insomma creato una destra "per bene”, e
il plauso dei perbenisti fu entusiastico. Miracolati dopo 50 anni di ghetto, ai
suoi non parve vero che si spalancassero le porte del potere e del sottopotere.
Grazie al Cavaliere, che l’ha insediato prima come ministro degli Esteri, poi
come vicepresidente del Consiglio e infine come terza carica dello Stato,
l’ambiguo e ambiziosisimo numero 2 è arrivato là dove forse puntava fin
dall’inizio. Ma il parricidio dev’essere inscritto nel suo destino come qualcosa
d’ineluttabile. E dunque, dopo l’abiura dell’eredità ducesca e almirantiana,
ecco giunta l’ora di detronizzare il sovrano di Arcore caduto in disgrazia. Da
qui l’accelerazione degli ultimi mesi, che vede mister Arrogance prendere ogni
giorno le distanze dal suo stesso governo, dal partito di cui pure è
co-fondatore, e soprattutto dal leader cui deve tutto.
Poco importa che l’uomo sia sfuggente come un’anguilla e rotante come una
banderuola: è abilissimo a recitare le ultime banalità del politically correct.
Non per nulla, ai tempi del Fronte della Gioventù, i suoi camerati l’avevano
soprannominato «dietro gli occhiali niente», e di lui Craxi diceva che è «un
vuoto incartato: dentro, non c’è il regalo». Un bluff ambulante, insomma, uno
zero ben confezionato. Ma, proprio per questo è quel che ci vuole per eseguire
fedelmente i desiderata d’Oltreoceano: uno che si può tenere saldamente al
guinzaglio facendogli pendere sul capo la spada di Damocle del suo passato. I
politici ricattabili sono infatti i più "fungibili”: il padrone che li ha
gratificati assumendoli come camerieri, nel caso si prendano troppe confidenze
può sempre rimetterli al loro posto. Cosa divenuta assai più difficile con un
soggetto anomalo come Berlusconi: straricco di suo, senza trascorsi politici da
farsi perdonare e con un seguito popolare tuttora vastissimo, non è ricattabile,
e dunque risulta inaffidabile.
L’assalto finale al Cavaliere, del resto, è stato candidamente preannunciato da
Paolo Guzzanti, che ha rotto col premier accusandolo di aver tradito Washington
per vendersi a Mosca. Sul suo blog, l’11/9 scorso, il senatore fuoriuscito dal
PDL scriveva testualmente: «L’ordine è arrivato dagli USA: Berlusconi va
eliminato. (...) A me già lo disse chiaro e tondo l’ambasciatore Spogli, che
andai a salutare quando lasciò l’ambasciata di via Veneto: "Vogliamo un’Italia
che non dipenda dalla Russia come una colonia e non vogliamo che la Russia
incassi una somma di denaro di dimensioni mostruose, che poi Mosca converte
direttamente in armamenti militari”. Da allora, un fatto nuovo di enorme gravità
si è aggiunto: l’Italia ha silurato il gasdotto Nabucco (che eliminava la
fornitura russa passando per Georgia e Turchia) facendo trionfare South Stream,
cioè l’oro di Putin. Contemporaneamente Berlusconi organizzava la triangolazione
Roma-Tripoli-Mosca associando Gheddafi nell’affare. (...) L’operazione è stata
preparata con cura attraverso una campagna mediatica di lavoro al corpo di
Berlusconi, basato sulle vicende sessuali, sulle inchieste di mafia e sulla
formazione, nell’area moderata, di un’alternativa politica a tre punte: Luca
Cordero di Montezemolo, Perferdinando Casini e Gianfranco Fini, ciascuno a suo
modo e con le sue vie, ma in una sintonia trasparente. (...) Lo scontro è
ravvicinato e mortale. La grande manovra è cominciata, le artiglierie già
battono il campo». Il giorno dopo, per i duri di comprendonio, Guzzanti
aggiungeva due particolari illuminanti: «Le grandi inchieste Mani Pulite sono
nate dalla polizia USA (non dalla Cia, ma dall’FBI)» e «Il nuovo ambasciatore
USA David Thorne, che davanti al Senato USA ha spiegato di essere consapevole
dei problemi che dividono USA e Italia (oltre al bla-bla-bla dell’amicizia
sempiterna), ieri ha reso visita per mezzora a Montecitorio a Gianfranco Fini» (www.paologuzzanti.it).
E infatti, puntuale come la morte, ecco avvicinarsi il botto definitivo: il 4
dicembre, ossia 17 anni dopo i fatti, il mafioso pentito Gaspare Spatuzza
testimonierà che Berlusconi è il mandante degli omicidi di Falcone e Borsellino,
nonché delle stragi del ’93 (degli assassinî del mostro di Firenze per ora no,
ma non si sa mai).
Ecco perché, algido come un blocco di ghiaccio, impettito come un tacchino,
sprezzante e pieno di sé come non mai, Fini è oggi sulla rampa di lancio per una
nuova e ben più importante investitura. Piace alla destra laicista e
tecnocratica, piace a una sinistra ormai incapace di distinguere una patacca da
una pepita, ma soprattutto piace agli USA, decisi a sbarazzarsi d’un miliardario
ch’è uscito dal seminato ed è diventato una pietra d’inciampo. E allora fiato
alle parolacce demagogicamente proferite di fronte ai giovani immigrati contro
chi osa definirli "diversi”, tanto non c’è nessuno a ricordargli che la legge
tuttora in vigore contro gli stessi si chiama Bossi-Fini.
Quando avrà fatto fuori il Cavaliere, Fini potrà coronare il suo sogno di
gioventù. Se infatti la sua scelta missina fu causata dai sessantottini
bolognesi che gli impedivano l’ingresso a un cinema dove si proiettava Berretti
verdi, avrà presto di che consolarsi: accolto a braccia aperte dai guerrafondai
yankee, per i quali John Wayne è sempre un mito, verrà forse ricevuto alla Casa
Bianca, dove siede uno zio Tom che raddoppia l’impegno militare in Afghanistan,
apre un nuovo fronte in Pakistan, non chiude Guantanamo e riceve perfino il
Nobel per la Pace. Campioni di coerenza, i due sono fatti per intendersi.
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Alberto Signorini |