Italia - Repubblica - Socializzazione

 

un libro importante
"Gli ultimi fascisti: Franco Colombo e gli arditi della Muti"

Luca Fantini
presentazione di Giuseppe Pieristè, del Centro Studi Franco Colombo,
prefazione di Gilberto Cavallini.

Selecta Editrice,   selecta@eutelia.com    € 15,00

 

Giorgio Vitali


«La rivoluzione è la rivincita della santità e della follia sul buonsenso»
Benito Mussolini


 

Che la guerra 1939-1945 non sia ancora terminata non siamo solo noi a sostenerlo. Certo, la guerra guerreggiata è finita da molto tempo, da mezzo secolo e qualcosa di più, (ma cos’è mezzo secolo di fronte ai tempi della storia?), sostituita da altre guerre, come le tante che sono state guerreggiate ai confini e nei dintorni delle due grandi potenze impegnate nella cosiddetta guerra fredda, eppoi le guerre per l’accerchiamento della Russia dopo l’implosione, ampiamente prevista dai pensatori fascisti, dell’Unione sovietica, quelle per l’affermazione dell’egemonia americana sul mondo e per l’occupazione di tutte le zone ricche di materie prime: minerali, fra cui l’uranio, petrolio, gas, e quant’altro. E quella in preparazione, di carattere squisitamente geopolitico che ci richiamano alla mente quelle del periodo napoleonico, uno scontro nel quale l’incidenza delle valutazioni geopolitiche è con grand’evidenza determinante nei programmi costantemente aggiornati dei centri d’elaborazione geostrategica di tutti gli Stati.
Tuttavia, lo scontro fondamentale, quello che con maggiore evidenza emerse nell’ultimo periodo del secondo conflitto mondiale, resta ancora in piedi. Cinquant’anni di studi analitici condizionati dalla propaganda politica, da una filosofia pragmatista di bassa consistenza morale ed avallati da atteggiamenti, come quelli del cattolicesimo ufficiale, impostati sull’opportunismo, non hanno permesso di sottoporre all’attenzione dei giovani interessati a conoscere ciò che è veramente accaduto durante quei sei anni di guerra totale, la reale consistenza delle forze in gioco. Che erano, come sono ancora oggi, forze umane, componenti essenziali di personalità umane che, rispetto allo standard odierno dobbiamo considerare eccezionali. Perché la guerra del " sangue contro l’oro" può diventare un facile slogan che oggi molti ripetono retoricamente e senza convinzione, ma quando questa sostanziale antitesi s’incarna nelle persone, la faccenda si fa seria.

Luca Fantini è un giovane storico laureato alla Sapienza che da qualche tempo si è cimentato in un compito non facile: dimostrare con le prove la sostanza delle persone impegnate in questo grande scontro. Egli non si ferma alla pura descrizione dei fatti, ma cerca al loro interno l'elemento psicologico e morale, lo stato d’animo costantemente in tensione, che ha indotto certe persone, molto più numerose di quanto i falsari della storia cercano di accreditare, ad impegnarsi fino in fondo in uno scontro senza quartiere in una vera e propria guerra di religione. Un suo primo libro è stato dedicato agli uomini della "Mistica fascista", questo è dedicato agli uomini della "Muti", personaggi sicuramente fuori del comune; un altro libro, già pronto ma in attesa di stampa, è dedicato alla storia della FNCRSI, organizzazione che durante tutto questo squallido dopoguerra ha tenuto duro. Cioè ha continuato a seguire senza tentennamenti la linea ideologico-politica del Partito Fascista Repubblicano. Si tratta di una posizione politica che al presente, pur non essendo vincente alla luce dei parametri di riferimento propri di questo Regime, dimostra giorno dopo giorno la propria lungimirante vitalità.
Gli uomini della "Muti" sono i vecchi squadristi milanesi, i loro parenti, vicini e lontani, i giovani entusiasti allevati dal regime fascista, mobilitati dall’energia instancabile di Franco Colombo dopo il tradimento dell’otto settembre. Il loro impegno sarà pieno e totale per tutto il periodo della Repubblica Sociale a dimostrazione che i fascisti hanno combattuto sempre e fino alla fine. E ciò sia detto, in modo definitivo, contro la retorica post bellica tendente a svalutare l’impegno dei fascisti durante il conflitto. Se in conseguenza dell’incredibile tradimento del Savoia e dei suoi generali il popolo italiano si è ragionevolmente e comprensibilmente sbandato, i fascisti non si sono sbandati ed hanno continuato la loro guerra del «sangue contro l’oro». I fascisti non rappresentavano né dovevano farlo, la maggioranza degli italiani, perché giammai si è verificato nella storia il caso d’adesione plebiscitaria di un popolo ad un pensiero politico, un’ideologia, un personaggio, per carismatico che fosse. Un conto è il regime mussoliniano ed un conto è il fascismo ed i fascisti, e tutto ciò indipendentemente dal fatto che, per gli arditi della "Muti" il duce fosse un mito. Anche su questo punto occorre essere molto chiari.
Significativamente l’autore riporta alcune considerazioni tratte da altro libro dedicato agli uomini della "Muti" (R. Occhi, "Siam fatti così. Storia della Legione Mobile Ettore Muti", Milano, 2002): «La storia degli arditi della Legione "Muti" potrà apparire cinica, negativa, tragica, disperata (…) Per i legionari della "Muti" la lealtà, l’onore, la fede nel fascismo erano considerate qualità cardine dell’individuo (…) La memorialistica resistenziale (…) dipingerà il loro coraggio e la loro determinazione come fanatismo. Tuttavia, al di là d’ogni enfasi retorica resistenziale (…) La stragrande maggioranza di loro fu testimonianza di una grande forza virile, di coraggio nel pericolo, di stoica serenità di fronte alla morte. Gli arditi della "Muti" furono spesso violenti e temerari, come del resto imponeva la situazione in cui agirono, ma furono soprattutto forti e fieri, destinati ad un crepuscolo che si consumerà in pochi mesi, come una candela che brucia troppo in fretta emanando tanta luce. La loro storia è tragica, anche perché i "vincitori" hanno voluto schiacciarla sotto un odio nato dalla paura, e gli storici accorsi al carro dei vincitori l’hanno sepolta nell’oblio».
Queste precisazioni ci permettono di affermare un concetto molto chiaro: nella storia dell’uomo non c’è mai stato spazio per la tranquillità ed i compromessi. La storia umana è narrazione di violenze e di conquiste, fin dai tempi nei quali si dovevano affrontare i dinosauri. Come ci ha ampiamente dimostrato questo lungo dopoguerra, i rapporti di forza sono alla base delle relazioni fra le nazioni e dentro le nazioni. Non ci sono vie di mezzo: o si comanda o si obbedisce, parafrasando il titolo del libro di un noto psicologo «O si domina o si è dominati».
Il regime che, per conto del capitale finanziario supernazionale gestisce l’Italia d’oggi è circondato solo dal disprezzo della stragrande maggioranza degli italiani, in nulla distinguendosi da quel regime prefascista che non ha lasciato alcuna traccia nel nostro passato. È un regime che gestisce la decadenza, che ha avuto uno dei suoi punti salienti a metà del secolo scorso con il tradimento e la menzogna, e la menzogna è sempre manifestazione di decadenza la quale non lascia tracce consistenti nella memoria storica, come quella degenerazione dell’Impero romano che però negli ultimi secoli della sua esistenza rimaneva ancora il cardine della vita civile e sociale del mondo civilizzato.
Ma il declino non è soltanto qualcosa d’imposto. Si ha decadenza quando gli uomini mancano di quell’energia virile e vitale che li costringe a reagire automaticamente a qualsiasi forma d’imposizione. Se oggi l’Italia è territorio di conquista d’altri popoli, che vi giungono per vie tortuose con l’intenzione di prenderne possesso, la ragione risiede soltanto nel fatto che la nostra gioventù è snervata, priva d’energie, corrotta, dove la memoria della guerra civile, che è sempre una forma di terribile vitalità, si stempera in un pretesco dibattito sulla moralità della resistenza, senza un’immagine forte del futuro, soverchiata dalla corruzione politica, sessuale, morale, ove una classe politica d’infimo livello riesce con escamotages vari a perpetuare il proprio potere nonostante la sua palese inefficienza, stretta nella morsa fra l’esibizione scandalistica che travalica nelle giovani generazioni anche l’orrore di terribili fatti di sangue, e le formali polemiche sui preti pederasti; ultima in investimenti nella ricerca scientifica fra i paesi cosiddetti "sviluppati", un’amministrazione pubblica zeppa di mezze tacche in bilico tra abuso di potere e corruzione, non è un caso che questo paese soggiaccia ad un governo che ha ai suoi vertici esponenti del post-comunismo, l’ideologia del sottosviluppo e del regresso; gli eredi di coloro che dopo la resa fecero una carneficina di fascisti, mentre a loro è contrapposta la leadership di Silvio Berlusconi, l’uomo che, con la risatina e con la barzelletta, s’inserisce nel vecchio sistema di potere democristiano senza nulla cambiare, ma attuando una sostituzione di persone. Tuttavia, la percezione della crisi si sta diffondendo, tant’è vero che un recente sondaggio, condotto su un’alta percentuale di intervistati, ha dato una risposta sorprendente. L’ottanta percento ha risposto di essere in attesa di un «uomo forte».

Eredi di un’antica tradizione di lotte
Non a caso l’autore, Luca Fantini, richiama l’attenzione su alcuni fattori importanti: la composizione sociale degli arditi della "Muti", la loro provenienza politica, il retaggio del mazzinianesimo, che li rende antitetici in tutto agli strumenti mentali e culturali che hanno animato fino ai giorni nostri il partito comunista italiano. A tal proposito c’è un documento scritto nel 1899 da Francesco Saverio Merlino, esponente di spicco del movimento anarchico e poi del socialismo e difensore dell’anarchico regicida Gaetano Bresci. Questo scritto è stato ripubblicato di recente in un opuscolo intitolato "La mia eresia", dall’editore Nonluoghi.
Contro l’allucinazione riduzionista del marxismo che riduce tutto a rapporti economici, Merlino scrive: «Se v'è qualcosa di veramente fondamentale e decisivo nella storia, questo è il concetto della vita, che varia non solo da individuo ad individuo, ma anche da una generazione all’altra e da un’epoca all’altra. Fra gli individui c’è chi vive per i godimenti materiali, chi consacra la sua attività alla scienza od all’arte, chi concentra i suoi affetti ed interessi nella famiglia, chi è tutto assorto nella lotta per un ideale sociale, e chi non pensa che a consolare i piccoli dolori, a fare del bene a quelli che gli stanno attorno (…) Possiamo noi assegnare al movimento unitario italiano il solo movente economico borghese? I seguaci di Garibaldi erano in gran parte popolani, ed erano mossi principalmente dall'idea della libertà e dell’indipendenza nazionale - come i giovani italiani accorsi recentemente in aiuto della Grecia».
Ma a proposito dei comunisti d’oltralpe ecco un altro atto di denuncia: «Infatuati di materialismo storico e di lotta di classe, essi non sospettavano che una questione di giustizia potesse agitare l’anima di un popolo più che una questione d’ore di lavoro e di salari».
Ecco tracciate in poche parole il grande dissidio che ha agitato il mondo italiano nel XX Secolo e che ha portato allo scontro cruento. Che non è lo scontro fra il marxismo ed il clericalismo, che sono, come abbiamo visto, complementari, ma tra due concezioni del socialismo, espresse chiaramente già alla fine del secolo precedente, e che ha portato moltissimi anarchico-socialisti la sindacalismo rivoluzionario prima ed al socialfascismo dopo, durante il momento più acuto dello scontro..
L. Ganapini ("La repubblica delle camicie nere") scrive: «Nel quadro della cultura e dell’ideologia della repubblica neofascista, l’eredità della Grande Guerra, con il suo patrimonio d’esperienze, di ricordi vissuti o raccolti dalla voce dei padri, di leggende e di miti, si materializza attraverso il canto e attraverso d’esso rappresenta un punto di riferimento essenziale per tutti gli aspetti della vita dei fascisti repubblicani, delle loro formazioni, della concezione stessa della lotta anche sul piano militare. In parte per la "leggenda del Piave", estrema difesa di una Patria che, nel 1917 come nel 1943, sarebbe stata vittima dell’insensibilità dei suoi figli, se un pugno d’eroi non si fossero buttati sul nemico e non avessero dato il segnale della riscossa. Ma soprattutto perché l’"arditismo" costituisce un modello d’aggregazione e di mobilitazione, uno stile di guerra che risponde in profondità all’ispirazione delle forze armate della Repubblica e soprattutto dei volontari (…) Il vero modello di formazione militare nella Repubblica Sociale non è l’esercito regolare di Graziani, ma la banda volontaria, irregolare, indisciplinata per definizione. Per lunghi mesi Mussolini vagheggia anche la costituzione di Compagnie della Morte, portando alla luce un modello di sapore medievale e rinascimentale prettamente "italico", che configura (…) l’idea di Compagnie di Ventura»; ed infatti nel numero speciale di "Siam fatti così" del 18 marzo 1945, Colombo scrive: «Noi arditi (…) coltiviamo nel cuore il culto dei nostri morti, i quali comandano: tutto e tutti per l’Italia, tutto e tutti per il Fascismo!». Scrive ancora L. Ganapini: «La "Muti" di Milano è paradigmatica perché erige a proprio modello un comportamento irregolare, violento, plebeo. È singolare che, per quanto il decreto di Mussolini del 30 giugno 1944 riservasse alla sola Brigata Nera di Ravenna di intitolarsi al ravennate Ettore Muti, la formazione milanese conservi quel nome, di per sé già foriero di violenza, vendetta e sangue».
Questa dichiarazione necessita di una nostra nota: nulla è più lontano dalla nostra sensibilità del falso buonismo che appesta l’apparentemente inarrestabile disfacimento di questo paese. Un buonismo melenso e di facciata che ignora sistematicamente e di proposito i genocidi, i massacri, lo sfruttamento integrale per opera delle truppe d’occupazione atlantiche in stretta combutta con le Multinazionali. "United Fruit", "Monsanto", "Royal Dutch/Shell", che estrae petrolio nigeriano, "Nike", degne eredi della "British East India Company", "British South Africa Company", "South Manchurian Railway", tanto per fare qualche nome. Noi riteniamo che in difesa dell’indipendenza e della libertà la violenza sia un sacro dovere oltre che un diritto.
Per lo scrittore fascista Nello Quilici, perito con Italo Balbo nei cieli della Tripolitania, il fascismo avrebbe dovuto rappresentare un momento di sintesi di una tradizione antica. Il momento di presa di piena coscienza di una precisa identità storica e culturale. Ebbene: gli uomini della "Muti", senza tanta retorica e letteratura hanno rappresentato proprio questo momento, e se nel dopoguerra sono stati fatti oggetto di calunnie nulla toglie al loro impegno. Giovanni Falcone, un patriota ucciso dal terrorismo atlantico (dalla mafia italo-americana) soleva citare una frase di John Fitzgerald Kennedy, presumibilmente fatto fuori dalle stesse mani e per gli stessi interessi (signoraggio monetario): «Un uomo fa quel che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli e le pressioni ricevute. Questa è la base di tutta la moralità umana».
È una frase indicativa di una mentalità che ben s'addice agli uomini della "Muti", i quali hanno fatto sempre il loro dovere, con i mezzi a loro disposizione, dovere che consisteva nella difesa ad oltranza dell’ultima trincea di una rivoluzione originale che si identificava con la difesa della loro Terra e della sua bimillenaria storia. E talmente alto è il valore della loro moralità che NOI SIAMO tranquillamente sicuri che se all’ultimo minuto, per un capriccio del destino, avessero vinto loro, l’Italia non sarebbe percorsa e dominata da quella che noi abbiamo chiamato MACANDRA (Mafia Camorra e Ndrangheta), proprio perché sappiamo bene che la malavita organizzata è il cordone ombelicale che unisce l’Italia alla madrepatria della Malavita: gli Stati Uniti, e per questa ragione intoccabile ed invincibile.

Autentico fenomeno rivoluzionario
L’autore cita, dal libro di M. Soldani, "L’ultimo poeta armato: Alessandro Pavolini", 1999.
«Se gli operai, sin dall’inizio, erano stati i primi ad esser chiamati a raccolta, ora si trattava di mantenere la promessa di uno Stato socialmente avanzato: e quale la dimostrazione migliore del dare le armi proprio a questa armata proletaria in lotta contro le demoplutocrazie, in nome della difesa di tutte le conquiste rivoluzionarie del Partito? La stessa uniforme delle squadre doveva testimoniare l’essenza di queste formazioni, vestite sì con la camicia nera, ma con la tuta blu da operaio ed il bracciale con la scritta Polizia Federale (…) Saranno le Squadre di Polizia Federale a presiedere il Congresso di Verona, eseguendo anche le prime azioni di rappresaglia legale come quella seguita all’uccisione di Ghisellini a Ferrara».
D’altronde era stato Mussolini a scrivere che «La repubblica in Italia verrà dal proletariato o non verrà», per evitare, come annota De Felice, che non sia un’ennesima mascheratura del potere borghese, com’è di fatto la cosiddetta repubblica clericale nella quale viviamo.
A conferma, c’è il Memoriale dei partiti interventisti di sinistra ai delegati dei Soviet nell’agosto 1917: «Noi abbiamo concepito la neutralità italiana prima, e l’intervento poi, come due diversi ma egualmente necessari strumenti di rivolta contro l’imperialismo di fuori e di dentro».
Tuttavia, non si può comprendere Mussolini e quindi i fascisti se non si legge questo passo del futuro duce su Nietzsche: «Il superuomo è un simbolo, è l’esponente di questo periodo angoscioso e tragico di crisi che attraversa la coscienza europea nella ricerca di nuove fonti di piacere, di bellezza, d’ideale. È la constatazione della nostra debolezza, ma nel contempo la speranza della nostra redenzione. È il tramonto, è l’aurora. È soprattutto un inno alla vita vissuta con tutte le energie in una tensione continua verso qualcosa di più alto, di più fino, di più tentatore …»
In altra occasione Mussolini scriveva: «Nella politica l’"uomo serio" è il personaggio dalle opinioni temperate; è reazionario ma non vuole la forca, è rivoluzionario ma non comprende il berretto frigio, rigetta la violenza, stigmatizza l’insurrezione (…) Nei momenti di crisi l’uomo serio si chiude in un dignitoso riserbo, in un prudente riserbo, e molto spesso in una cantina, salvo poi, quando le questioni siano risolte, ad uscir dai comodi nascondigli per imprecare ai vinti e celebrare i vincitori. Nella politica, l’uomo serio è l’eroe della sesta giornata».
Concetti tanto chiari quanto profetici, scritti da una persona che conosceva bene gli italiani. Un popolo d’uomini seri. Spesso con la tonaca. Mussolini non disdegnava ammettere la dipendenza della Rivoluzione fascista dalla Grande Rivoluzione. Ed aveva ragione. Nel corso di un’intervista concessa ad un giornalista dell’Associated Press così dichiarò: «Nessun paese sfuggì agli effetti della rivoluzione francese e nessuno potrà non sentire l’influenza del nostro risveglio. Le nostre innovazioni più importanti consistono nel nuovo concetto delle funzioni dello Stato e nell’avere incorporato nello Stato le forze della produzione. Il fascismo respinge l’idea che una nazione sia un raggruppamento accidentale e temporaneo d’individui e afferma che la nazione è un’entità organica e vivente, che continua, da generazione a generazione, con un intangibile patrimonio fisico, morale e spirituale».
Il fascismo pertanto si colloca nell’alveo delle rivoluzioni "nazionali", sviluppate dalla Grande rivoluzione, ma potenziate dal fascismo. Pertanto, possiamo tranquillamente collocare gli uomini della "Muti" tra quelle figure di rivoluzionari che seppero affrontare con spirito "romano" il sacrificio della vita, tramandateci dalle cronache di fine XVIII secolo e dall’epopea napoleonica.
Fra queste figure una spicca in modo particolare, alla quale Mussolini aveva dedicato un sonetto, da noi pubblicato in un numero del nostro bollettino. Gracco Babeuf.
Quest’uomo, in pieno riflusso, non rinunciò al suo ideale di giustizia sociale ed andò avanti per la sua strada fino alla fine. Condannato a morte nel 1796, tentò di suicidarsi in carcere assieme al suo sodale Darthé, ma non ci riuscì che in parte, e fu giustiziato dal Direttorio. Da notare che i suoi figli furono accesi bonapartisti perché avevano visto in Napoleone l’unica persona capace di sviluppare il progetto rivoluzionario, anche se con gli orpelli dell’imperatore. Non sono, infatti, le apparenze quelle che contano nella storia, ma ciò che vi si costruisce d’imperituro. I rivoluzionari autentici non sono coloro che utopizzano astrattamente ed a chiacchiere, come gli esponenti della sinistra pacifista che fino ad oggi ha mistificato con evidenza un ruolo usurpato, ma quelli che sanno riconoscere i veri capi ed assecondano quelli che garantiscono concretamente l’attuazione dei loro desideri. Non a caso Luca Fantini, riprendendo un mito cui i socialfascisti facevano riferimento, vale a dire Giuseppe Mazzini, cita alcune frasi significative del profeta della nostra rivoluzione nazionale.
Ne aggiungiamo altre noi: «… il progetto sia nazionale, perché senza nazione costituita il progresso non è che una menzogna, la forza un sogno, la civiltà un’illusione; sia altamente sociale, perché noi dobbiamo combattere non la schiavitù ma l’individualismo; sia umanitaria perché l’umanità sola crea la patria ed a lei sola spetta dare il battesimo e sostenerlo …».
«Ogni popolo, come ogni individuo, non esiste se non in quanto la sua esistenza segue una legge, ha uno scopo, rappresenta un elemento della grande vita comune dell’umanità. Dove ei non adempia a questa condizione, non è se non un ingombro inutile sopra la terra».
Superfluo, da parte nostra, ricordare che in una lotta senza quartiere tra chi si batte per la concreta sopravvivenza della nazione ha sicuramente più diritto di vincere contro chi dice di battersi per valori astratti e finora mai realizzati in Italia come in altri paesi come il comunismo o la democrazia liberale. E difatti i togliattiani, nel dare inizio alla guerra civile a base di assassinii a tradimento, ubbidivano soltanto agli ordini di Stalin, in guerra contro la Germania nostra alleata.

Profilo storico di Franco Colombo
Come uomo, Franco Colombo entra di diritto nel novero di quegli uomini che, sorti dal popolo e vissuti per il popolo, hanno costellato per tanti secoli la storia d’Italia. Il primo nome che ci viene alla mente è Filippo Corridoni, personaggio che sicuramente Colombo ha conosciuto in gioventù. Di Pippo così scriverà Curzio Malaparte, conoscitore non tenero di tipi italici: «Quest’uomo napoleonico, invano da Giorgio Sorel auspicato per la Francia, aveva in Italia preso un nome ed un viso in Filippo Corridoni. Nato dal popolo e partecipe di tutti gli istinti, di tutte le violenze e di tutte le passioni del popolo, irrigidito fisicamente, come in un osso, di volontà e di ribellione, consumato dalla tisi e bruciato dalla febbre delle sue persuasioni quasi istintive, ora insofferente ora paziente di tutto, ricco di sogni come un pastore e torvo di risentimenti come un servo della gleba, Filippo Corridoni aveva l’anima tumultuosa di un tribuno e gli occhi innocenti di un bambino (…) La sua forza era in quella sua tremenda innocenza, che domava le ciurme delle officine col peso di una fatalità, non di una volontà personale (…) Ma lo spirito rivoluzionario, nel popolo nostro, era morto, soffocato dallo spirito antirivoluzionario del socialismo (…) Il socialismo aveva intorpidito il popolo, ributtandolo a forza in quella sonnolenza borbonica, dalla quale gli uomini ed i fatti del nostro Risorgimento l’avevano tratto a fatica. Nelle annate che hanno di poco preceduto la guerra europea, il nostro popolo aveva raggiunto il più turpe stato di passività».
Sempre su Corridoni scrive Vito Rastelli: «Contrariamente al socialismo -ed anche alla borghesia del tempo- il sindacalismo eroico, guardato oggi, si presenta nel suo rapido svolgimento storico, dal suo insorgere fino allo sfociamento nella guerra, come la sola effettiva ripresa nazionale di quel tempo».
La seconda personalità che ci richiama alla mente la vicenda umana e nazionale di Franco Colombo è Francesco Ferrucci. A seguito del Sacco di Roma del 1527 il papa Clemente VII de Medici conclude un accordo a Bologna con Carlo V. Questo accordo prevede, more solito, la corona imperiale in cambio dell’aiuto per la riconquista di Firenze alla signoria medicea. Firenze resiste per dieci mesi all’assedio, Ferrucci respinge con sdegno le offerte di resa, arrivando perfino ad impiccare gli ambasciatori imperiali. La repubblica cade per il tradimento del Baglioni, capo delle truppe mercenarie. Ferrucci viene finito da Maramaldo dopo la battaglia di Gavinana del 3 agosto 1530. Non a caso il nome di Maramaldo, che non ebbe altra colpa se non quella di assassinare Ferrucci già mortalmente ferito («Tu dai a un morto!»), viene associato nella coscienza popolare ed anche per una certa assonanza dei nomi, a quello di Badoglio. Firenze, perla del Rinascimento italico, cade definitivamente nelle mani dei Medici, tributari dell’Impero, equivalente dell’epoca all’Impero atlantico d’oggi.
Fantini riporta dal libro di L. Ganapini, "La repubblica delle camicie nere", una frase efficace: «Il nemico inafferrabile, il partigiano, un uomo che non scende in campo aperto, che forse proprio per questo non merita nemmeno rispetto o che, se lo merita, non riesce ad emergere con tratti definiti nemmeno nella memoria …».
È chiaro pertanto che gli uomini di Colombo avevano tutto il diritto di reagire vigorosamente contro un pericolo sfuggente, mascherato, anonimo, diretta filiazione del tradimento come col tradimento e nottetempo la Firenze di Ferrucci era stata invasa dagli imperiali. Tanto anonimo da rimanere tale anche oggi, a distanza di oltre sessant’anni, nonostante una possente opera di mistificazione storica e di manipolazione cerebrale.
Su "Vita di Sandro e di Arnaldo", Mussolini, negli anni trenta, scriveva: «Ma tutto quello che fu fatto non potrà essere cancellato …».
Facile profezia. È quanto sta avvenendo oggi con un‘accentuazione indubbia dell’interesse internazionale su Mussolini e l’esperienza socialrepubblicana. E poiché la Storia dei popoli sfocia naturalmente nel mito, l’affannosa ricerca delle informazioni sugli ultimi momenti di vita del Duce configura una primordiale «ricerca del padre» che segue nel tempo all’altrettanto primordiale esposizione della vittima sacrificale sul non improvvisato (ora lo sappiamo!) golgotha di piazza Loreto.
«Sono un animale ferito. Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda. Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato» (Massimo Ferretti, "Polemica per un’epopea tascabile", in "Maledetti Italiani", Il Saggiatore, 2007)

Conclusioni
La storia e l’attualità ce l’insegnano. Esistono due Italie. Una delle due, per un’atroce destino, ha sempre in mano le redini del potere. Mentre mezz’Italia brucia in processo che è facile intuire come accelerazione della desertificazione, gli esponenti della partitocrazia discutono su chi deve essere il leader del prossimo pateracchio. Come ci descrive con ampia documentazione Ruggero Zangrandi nel libro "L’Italia tradita" dedicato all’otto settembre, alla sua preparazione ed alle conseguenze. A parte la figura d’un noto cialtrone come Badoglio, già responsabile di Caporetto, è una sarabanda di maschere del teatro dell’arte, intenti a tradirsi l’un l’altro, ad impartire ordini che loro stessi s’impegnano a rendere inefficaci, a buttare poveri ragazzi allo sbaraglio per coprire la loro falsa fuga, ad organizzare attentati ed omicidi, ad incitare attraverso la radio ad uccidere fascisti e loro famigliari. La menzogna è poi proseguita nel tempo col mito della resistenza, creato dapprima a tavolino per molteplici ragioni, a partire dall’interesse di Kesselring e dei comandi tedeschi, obbligati ad inventare il pericolo rappresentato dai partigiani per giustificare le loro inutili stragi di civili, o come il bisogno di gonfiare il numero degli amici degli "atlantici" per ottenere condizioni di pace meno umilianti.
Dall’altra parte abbiamo l’Italia che non si piega, che non accetta compromessi, che non s’arrende. È l’Italia di Vittorio Veneto, alla quale fanno palese riferimento gli uomini della "Muti". È l’unica Italia che conta, è l’unica Italia che ha un significato, l’unica che valga la pena di prendere in considerazione. C’è un’Italia dei Dalla Chiesa, dei Falcone, dei Borsellino, dei Cassarà, dei Livatino, Chinnici, per non dire dei Mattei, Moro e tanti altri, lasciati soli a farsi ammazzare dall’unico, solito inequivocabile nemico e dai suoi sicari. È l’Italia dei Ferrucci, degli Andrea Doria, Paolo Sarpi, Marcantonio Bragadin, Pasquale Paoli, dei Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei. Questa per noi è l’Italia. L’altra, semplicemente, non esiste. Pertanto, noi non abbiamo nulla da chiedere a nessuno, nessun riconoscimento postumo da chi non esiste.
Corrado Alvaro, già fascista di sinistra, scrisse nel 1944 un pamphlet ripubblicato nel 1986 da Sellerio, dal titolo "l’Italia rinunzia?" È una denuncia sconsolata, tipica di una mentalità piagnona e senza prospettiva per il futuro, della situazione italiana come si presentava e continua ad essere, governata da "loro". Egli scrive: «Seguiamo pure questo sistema ipocrita, e quello che pur era, malgrado le apparenze, l’ideale del regime, di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, rivoluzione e conservatorismo, sia ancora il nostro sistema. Sia ancora nostra la sua retorica che risolveva tutto sulla carta e nelle chiacchiere ed elucubrazioni dei suoi sciocchi teologi, come noi risolviamo tutto col nome di libertà e di democrazia, mentre il paese aspetta di vivere e di lavorare per il suo domani. Ma intanto il paese è immobile, segna il passo, non vive, non pensa, non agisce, è insicuro della sua interna e della sua vita domestica, e intraprende il suo ennesimo assalto allo Stato, agl’impieghi, ai benefici, essendo l’economia italiana distrutta ed essendo l’unico rifugio lo Stato».
Poiché non ci sembra necessaria altra aggiunta, con quest’intervento concludiamo la recensione di un libro da leggere in ricordo d’uomini da ammirare ed imitare.

Giorgio Vitali