un libro importante
"Gli ultimi fascisti: Franco Colombo e gli arditi della Muti"
Luca Fantini
presentazione di Giuseppe Pieristè, del Centro Studi Franco Colombo,
prefazione di Gilberto Cavallini.
Selecta Editrice,
selecta@eutelia.com € 15,00
Giorgio Vitali
«La rivoluzione è la rivincita della santità e della follia sul buonsenso»
Benito Mussolini
Che la guerra 1939-1945 non sia ancora terminata non siamo
solo noi a sostenerlo. Certo, la guerra guerreggiata è finita da molto tempo, da
mezzo secolo e qualcosa di più, (ma cos’è mezzo secolo di fronte ai tempi della
storia?), sostituita da altre guerre, come le tante che sono state guerreggiate
ai confini e nei dintorni delle due grandi potenze impegnate nella cosiddetta
guerra fredda, eppoi le guerre per l’accerchiamento della Russia dopo
l’implosione, ampiamente prevista dai pensatori fascisti, dell’Unione sovietica,
quelle per l’affermazione dell’egemonia americana sul mondo e per l’occupazione
di tutte le zone ricche di materie prime: minerali, fra cui l’uranio, petrolio,
gas, e quant’altro. E quella in preparazione, di carattere squisitamente
geopolitico che ci richiamano alla mente quelle del periodo napoleonico, uno
scontro nel quale l’incidenza delle valutazioni geopolitiche è con
grand’evidenza determinante nei programmi costantemente aggiornati dei centri
d’elaborazione geostrategica di tutti gli Stati.
Tuttavia, lo scontro fondamentale, quello che con maggiore evidenza emerse
nell’ultimo periodo del secondo conflitto mondiale, resta ancora in piedi.
Cinquant’anni di studi analitici condizionati dalla propaganda politica, da una
filosofia pragmatista di bassa consistenza morale ed avallati da atteggiamenti,
come quelli del cattolicesimo ufficiale, impostati sull’opportunismo, non hanno
permesso di sottoporre all’attenzione dei giovani interessati a conoscere ciò
che è veramente accaduto durante quei sei anni di guerra totale, la reale
consistenza delle forze in gioco. Che erano, come sono ancora oggi, forze umane,
componenti essenziali di personalità umane che, rispetto allo standard odierno
dobbiamo considerare eccezionali. Perché la guerra del " sangue contro l’oro"
può diventare un facile slogan che oggi molti ripetono retoricamente e senza
convinzione, ma quando questa sostanziale antitesi s’incarna nelle persone, la
faccenda si fa seria.
Luca Fantini è un giovane storico laureato alla Sapienza che da qualche tempo si
è cimentato in un compito non facile: dimostrare con le prove la sostanza delle
persone impegnate in questo grande scontro. Egli non si ferma alla pura
descrizione dei fatti, ma cerca al loro interno l'elemento psicologico e morale,
lo stato d’animo costantemente in tensione, che ha indotto certe persone, molto
più numerose di quanto i falsari della storia cercano di accreditare, ad
impegnarsi fino in fondo in uno scontro senza quartiere in una vera e propria
guerra di religione. Un suo primo libro è stato dedicato agli uomini della
"Mistica fascista", questo è dedicato agli uomini della "Muti", personaggi
sicuramente fuori del comune; un altro libro, già pronto ma in attesa di stampa,
è dedicato alla storia della FNCRSI, organizzazione che durante tutto questo
squallido dopoguerra ha tenuto duro. Cioè ha continuato a seguire senza
tentennamenti la linea ideologico-politica del Partito Fascista Repubblicano. Si
tratta di una posizione politica che al presente, pur non essendo vincente alla
luce dei parametri di riferimento propri di questo Regime, dimostra giorno dopo
giorno la propria lungimirante vitalità.
Gli uomini della "Muti" sono i vecchi squadristi milanesi, i loro parenti,
vicini e lontani, i giovani entusiasti allevati dal regime fascista, mobilitati
dall’energia instancabile di Franco Colombo dopo il tradimento dell’otto
settembre. Il loro impegno sarà pieno e totale per tutto il periodo della
Repubblica Sociale a dimostrazione che i fascisti hanno combattuto sempre e fino
alla fine. E ciò sia detto, in modo definitivo, contro la retorica post bellica
tendente a svalutare l’impegno dei fascisti durante il conflitto. Se in
conseguenza dell’incredibile tradimento del Savoia e dei suoi generali il popolo
italiano si è ragionevolmente e comprensibilmente sbandato, i fascisti non si
sono sbandati ed hanno continuato la loro guerra del «sangue contro l’oro». I
fascisti non rappresentavano né dovevano farlo, la maggioranza degli italiani,
perché giammai si è verificato nella storia il caso d’adesione plebiscitaria di
un popolo ad un pensiero politico, un’ideologia, un personaggio, per carismatico
che fosse. Un conto è il regime mussoliniano ed un conto è il fascismo ed i
fascisti, e tutto ciò indipendentemente dal fatto che, per gli arditi della
"Muti" il duce fosse un mito. Anche su questo punto occorre essere molto chiari.
Significativamente l’autore riporta alcune considerazioni tratte da altro libro
dedicato agli uomini della "Muti" (R. Occhi, "Siam fatti così. Storia della
Legione Mobile Ettore Muti", Milano, 2002): «La storia degli arditi della
Legione "Muti" potrà apparire cinica, negativa, tragica, disperata (…) Per i
legionari della "Muti" la lealtà, l’onore, la fede nel fascismo erano
considerate qualità cardine dell’individuo (…) La memorialistica resistenziale
(…) dipingerà il loro coraggio e la loro determinazione come fanatismo.
Tuttavia, al di là d’ogni enfasi retorica resistenziale (…) La stragrande
maggioranza di loro fu testimonianza di una grande forza virile, di coraggio nel
pericolo, di stoica serenità di fronte alla morte. Gli arditi della "Muti"
furono spesso violenti e temerari, come del resto imponeva la situazione in cui
agirono, ma furono soprattutto forti e fieri, destinati ad un crepuscolo che si
consumerà in pochi mesi, come una candela che brucia troppo in fretta emanando
tanta luce. La loro storia è tragica, anche perché i "vincitori" hanno voluto
schiacciarla sotto un odio nato dalla paura, e gli storici accorsi al carro dei
vincitori l’hanno sepolta nell’oblio».
Queste precisazioni ci permettono di affermare un concetto molto chiaro: nella
storia dell’uomo non c’è mai stato spazio per la tranquillità ed i compromessi.
La storia umana è narrazione di violenze e di conquiste, fin dai tempi nei quali
si dovevano affrontare i dinosauri. Come ci ha ampiamente dimostrato questo
lungo dopoguerra, i rapporti di forza sono alla base delle relazioni fra le
nazioni e dentro le nazioni. Non ci sono vie di mezzo: o si comanda o si
obbedisce, parafrasando il titolo del libro di un noto psicologo «O si domina o
si è dominati».
Il regime che, per conto del capitale finanziario supernazionale gestisce
l’Italia d’oggi è circondato solo dal disprezzo della stragrande maggioranza
degli italiani, in nulla distinguendosi da quel regime prefascista che non ha
lasciato alcuna traccia nel nostro passato. È un regime che gestisce la
decadenza, che ha avuto uno dei suoi punti salienti a metà del secolo scorso con
il tradimento e la menzogna, e la menzogna è sempre manifestazione di decadenza
la quale non lascia tracce consistenti nella memoria storica, come quella
degenerazione dell’Impero romano che però negli ultimi secoli della sua
esistenza rimaneva ancora il cardine della vita civile e sociale del mondo
civilizzato.
Ma il declino non è soltanto qualcosa d’imposto. Si ha decadenza quando gli
uomini mancano di quell’energia virile e vitale che li costringe a reagire
automaticamente a qualsiasi forma d’imposizione. Se oggi l’Italia è territorio
di conquista d’altri popoli, che vi giungono per vie tortuose con l’intenzione
di prenderne possesso, la ragione risiede soltanto nel fatto che la nostra
gioventù è snervata, priva d’energie, corrotta, dove la memoria della guerra
civile, che è sempre una forma di terribile vitalità, si stempera in un pretesco
dibattito sulla moralità della resistenza, senza un’immagine forte del futuro,
soverchiata dalla corruzione politica, sessuale, morale, ove una classe politica
d’infimo livello riesce con escamotages vari a perpetuare il proprio potere
nonostante la sua palese inefficienza, stretta nella morsa fra l’esibizione
scandalistica che travalica nelle giovani generazioni anche l’orrore di
terribili fatti di sangue, e le formali polemiche sui preti pederasti; ultima in
investimenti nella ricerca scientifica fra i paesi cosiddetti "sviluppati",
un’amministrazione pubblica zeppa di mezze tacche in bilico tra abuso di potere
e corruzione, non è un caso che questo paese soggiaccia ad un governo che ha ai
suoi vertici esponenti del post-comunismo, l’ideologia del sottosviluppo e del
regresso; gli eredi di coloro che dopo la resa fecero una carneficina di
fascisti, mentre a loro è contrapposta la leadership di Silvio Berlusconi,
l’uomo che, con la risatina e con la barzelletta, s’inserisce nel vecchio
sistema di potere democristiano senza nulla cambiare, ma attuando una
sostituzione di persone. Tuttavia, la percezione della crisi si sta diffondendo,
tant’è vero che un recente sondaggio, condotto su un’alta percentuale di
intervistati, ha dato una risposta sorprendente. L’ottanta percento ha risposto
di essere in attesa di un «uomo forte».
Eredi di un’antica tradizione di lotte
Non a caso l’autore, Luca Fantini, richiama l’attenzione su alcuni fattori
importanti: la composizione sociale degli arditi della "Muti", la loro
provenienza politica, il retaggio del mazzinianesimo, che li rende antitetici in
tutto agli strumenti mentali e culturali che hanno animato fino ai giorni nostri
il partito comunista italiano. A tal proposito c’è un documento scritto nel 1899
da Francesco Saverio Merlino, esponente di spicco del movimento anarchico e poi
del socialismo e difensore dell’anarchico regicida Gaetano Bresci. Questo
scritto è stato ripubblicato di recente in un opuscolo intitolato "La mia
eresia", dall’editore Nonluoghi.
Contro l’allucinazione riduzionista del marxismo che riduce tutto a rapporti
economici, Merlino scrive: «Se v'è qualcosa di veramente fondamentale e decisivo
nella storia, questo è il concetto della vita, che varia non solo da individuo
ad individuo, ma anche da una generazione all’altra e da un’epoca all’altra. Fra
gli individui c’è chi vive per i godimenti materiali, chi consacra la sua
attività alla scienza od all’arte, chi concentra i suoi affetti ed interessi
nella famiglia, chi è tutto assorto nella lotta per un ideale sociale, e chi non
pensa che a consolare i piccoli dolori, a fare del bene a quelli che gli stanno
attorno (…) Possiamo noi assegnare al movimento unitario italiano il solo
movente economico borghese? I seguaci di Garibaldi erano in gran parte popolani,
ed erano mossi principalmente dall'idea della libertà e dell’indipendenza
nazionale - come i giovani italiani accorsi recentemente in aiuto della Grecia».
Ma a proposito dei comunisti d’oltralpe ecco un altro atto di denuncia:
«Infatuati di materialismo storico e di lotta di classe, essi non sospettavano
che una questione di giustizia potesse agitare l’anima di un popolo più che una
questione d’ore di lavoro e di salari».
Ecco tracciate in poche parole il grande dissidio che ha agitato il mondo
italiano nel XX Secolo e che ha portato allo scontro cruento. Che non è lo
scontro fra il marxismo ed il clericalismo, che sono, come abbiamo visto,
complementari, ma tra due concezioni del socialismo, espresse chiaramente già
alla fine del secolo precedente, e che ha portato moltissimi
anarchico-socialisti la sindacalismo rivoluzionario prima ed al socialfascismo
dopo, durante il momento più acuto dello scontro..
L. Ganapini ("La repubblica delle camicie nere") scrive: «Nel quadro della
cultura e dell’ideologia della repubblica neofascista, l’eredità della Grande
Guerra, con il suo patrimonio d’esperienze, di ricordi vissuti o raccolti dalla
voce dei padri, di leggende e di miti, si materializza attraverso il canto e
attraverso d’esso rappresenta un punto di riferimento essenziale per tutti gli
aspetti della vita dei fascisti repubblicani, delle loro formazioni, della
concezione stessa della lotta anche sul piano militare. In parte per la
"leggenda del Piave", estrema difesa di una Patria che, nel 1917 come nel 1943,
sarebbe stata vittima dell’insensibilità dei suoi figli, se un pugno d’eroi non
si fossero buttati sul nemico e non avessero dato il segnale della riscossa. Ma
soprattutto perché l’"arditismo" costituisce un modello d’aggregazione e di
mobilitazione, uno stile di guerra che risponde in profondità all’ispirazione
delle forze armate della Repubblica e soprattutto dei volontari (…) Il vero
modello di formazione militare nella Repubblica Sociale non è l’esercito
regolare di Graziani, ma la banda volontaria, irregolare, indisciplinata per
definizione. Per lunghi mesi Mussolini vagheggia anche la costituzione di
Compagnie della Morte, portando alla luce un modello di sapore medievale e
rinascimentale prettamente "italico", che configura (…) l’idea di Compagnie di
Ventura»; ed infatti nel numero speciale di "Siam fatti così" del 18 marzo 1945,
Colombo scrive: «Noi arditi (…) coltiviamo nel cuore il culto dei nostri morti,
i quali comandano: tutto e tutti per l’Italia, tutto e tutti per il Fascismo!».
Scrive ancora L. Ganapini: «La "Muti" di Milano è paradigmatica perché erige a
proprio modello un comportamento irregolare, violento, plebeo. È singolare che,
per quanto il decreto di Mussolini del 30 giugno 1944 riservasse alla sola
Brigata Nera di Ravenna di intitolarsi al ravennate Ettore Muti, la formazione
milanese conservi quel nome, di per sé già foriero di violenza, vendetta e
sangue».
Questa dichiarazione necessita di una nostra nota: nulla è più lontano dalla
nostra sensibilità del falso buonismo che appesta l’apparentemente inarrestabile
disfacimento di questo paese. Un buonismo melenso e di facciata che ignora
sistematicamente e di proposito i genocidi, i massacri, lo sfruttamento
integrale per opera delle truppe d’occupazione atlantiche in stretta combutta
con le Multinazionali. "United Fruit", "Monsanto", "Royal Dutch/Shell", che
estrae petrolio nigeriano, "Nike", degne eredi della "British East India
Company", "British South Africa Company", "South Manchurian Railway", tanto per
fare qualche nome. Noi riteniamo che in difesa dell’indipendenza e della libertà
la violenza sia un sacro dovere oltre che un diritto.
Per lo scrittore fascista Nello Quilici, perito con Italo Balbo nei cieli della
Tripolitania, il fascismo avrebbe dovuto rappresentare un momento di sintesi di
una tradizione antica. Il momento di presa di piena coscienza di una precisa
identità storica e culturale. Ebbene: gli uomini della "Muti", senza tanta
retorica e letteratura hanno rappresentato proprio questo momento, e se nel
dopoguerra sono stati fatti oggetto di calunnie nulla toglie al loro impegno.
Giovanni Falcone, un patriota ucciso dal terrorismo atlantico (dalla mafia
italo-americana) soleva citare una frase di John Fitzgerald Kennedy,
presumibilmente fatto fuori dalle stesse mani e per gli stessi interessi
(signoraggio monetario): «Un uomo fa quel che è suo dovere fare, quali che siano
le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli e le
pressioni ricevute. Questa è la base di tutta la moralità umana».
È una frase indicativa di una mentalità che ben s'addice agli uomini della
"Muti", i quali hanno fatto sempre il loro dovere, con i mezzi a loro
disposizione, dovere che consisteva nella difesa ad oltranza dell’ultima trincea
di una rivoluzione originale che si identificava con la difesa della loro Terra
e della sua bimillenaria storia. E talmente alto è il valore della loro moralità
che NOI SIAMO tranquillamente sicuri che se all’ultimo minuto, per un capriccio
del destino, avessero vinto loro, l’Italia non sarebbe percorsa e dominata da
quella che noi abbiamo chiamato MACANDRA (Mafia Camorra e Ndrangheta), proprio
perché sappiamo bene che la malavita organizzata è il cordone ombelicale che
unisce l’Italia alla madrepatria della Malavita: gli Stati Uniti, e per questa
ragione intoccabile ed invincibile.
Autentico fenomeno rivoluzionario
L’autore cita, dal libro di M. Soldani, "L’ultimo poeta armato: Alessandro
Pavolini", 1999.
«Se gli operai, sin dall’inizio, erano stati i primi ad esser chiamati a
raccolta, ora si trattava di mantenere la promessa di uno Stato socialmente
avanzato: e quale la dimostrazione migliore del dare le armi proprio a questa
armata proletaria in lotta contro le demoplutocrazie, in nome della difesa di
tutte le conquiste rivoluzionarie del Partito? La stessa uniforme delle squadre
doveva testimoniare l’essenza di queste formazioni, vestite sì con la camicia
nera, ma con la tuta blu da operaio ed il bracciale con la scritta Polizia
Federale (…) Saranno le Squadre di Polizia Federale a presiedere il Congresso di
Verona, eseguendo anche le prime azioni di rappresaglia legale come quella
seguita all’uccisione di Ghisellini a Ferrara».
D’altronde era stato Mussolini a scrivere che «La repubblica in Italia verrà dal
proletariato o non verrà», per evitare, come annota De Felice, che non sia
un’ennesima mascheratura del potere borghese, com’è di fatto la cosiddetta
repubblica clericale nella quale viviamo.
A conferma, c’è il Memoriale dei partiti interventisti di sinistra ai delegati
dei Soviet nell’agosto 1917: «Noi abbiamo concepito la neutralità italiana
prima, e l’intervento poi, come due diversi ma egualmente necessari strumenti di
rivolta contro l’imperialismo di fuori e di dentro».
Tuttavia, non si può comprendere Mussolini e quindi i fascisti se non si legge
questo passo del futuro duce su Nietzsche: «Il superuomo è un simbolo, è
l’esponente di questo periodo angoscioso e tragico di crisi che attraversa la
coscienza europea nella ricerca di nuove fonti di piacere, di bellezza,
d’ideale. È la constatazione della nostra debolezza, ma nel contempo la speranza
della nostra redenzione. È il tramonto, è l’aurora. È soprattutto un inno alla
vita vissuta con tutte le energie in una tensione continua verso qualcosa di più
alto, di più fino, di più tentatore …»
In altra occasione Mussolini scriveva: «Nella politica l’"uomo serio" è il
personaggio dalle opinioni temperate; è reazionario ma non vuole la forca, è
rivoluzionario ma non comprende il berretto frigio, rigetta la violenza,
stigmatizza l’insurrezione (…) Nei momenti di crisi l’uomo serio si chiude in un
dignitoso riserbo, in un prudente riserbo, e molto spesso in una cantina, salvo
poi, quando le questioni siano risolte, ad uscir dai comodi nascondigli per
imprecare ai vinti e celebrare i vincitori. Nella politica, l’uomo serio è
l’eroe della sesta giornata».
Concetti tanto chiari quanto profetici, scritti da una persona che conosceva
bene gli italiani. Un popolo d’uomini seri. Spesso con la tonaca. Mussolini non
disdegnava ammettere la dipendenza della Rivoluzione fascista dalla Grande
Rivoluzione. Ed aveva ragione. Nel corso di un’intervista concessa ad un
giornalista dell’Associated Press così dichiarò: «Nessun paese sfuggì agli
effetti della rivoluzione francese e nessuno potrà non sentire l’influenza del
nostro risveglio. Le nostre innovazioni più importanti consistono nel nuovo
concetto delle funzioni dello Stato e nell’avere incorporato nello Stato le
forze della produzione. Il fascismo respinge l’idea che una nazione sia un
raggruppamento accidentale e temporaneo d’individui e afferma che la nazione è
un’entità organica e vivente, che continua, da generazione a generazione, con un
intangibile patrimonio fisico, morale e spirituale».
Il fascismo pertanto si colloca nell’alveo delle rivoluzioni "nazionali",
sviluppate dalla Grande rivoluzione, ma potenziate dal fascismo. Pertanto,
possiamo tranquillamente collocare gli uomini della "Muti" tra quelle figure di
rivoluzionari che seppero affrontare con spirito "romano" il sacrificio della
vita, tramandateci dalle cronache di fine XVIII secolo e dall’epopea
napoleonica.
Fra queste figure una spicca in modo particolare, alla quale Mussolini aveva
dedicato un sonetto, da noi pubblicato in un numero del nostro bollettino.
Gracco Babeuf.
Quest’uomo, in pieno riflusso, non rinunciò al suo ideale di giustizia sociale
ed andò avanti per la sua strada fino alla fine. Condannato a morte nel 1796,
tentò di suicidarsi in carcere assieme al suo sodale Darthé, ma non ci riuscì
che in parte, e fu giustiziato dal Direttorio. Da notare che i suoi figli furono
accesi bonapartisti perché avevano visto in Napoleone l’unica persona capace di
sviluppare il progetto rivoluzionario, anche se con gli orpelli dell’imperatore.
Non sono, infatti, le apparenze quelle che contano nella storia, ma ciò che vi
si costruisce d’imperituro. I rivoluzionari autentici non sono coloro che
utopizzano astrattamente ed a chiacchiere, come gli esponenti della sinistra
pacifista che fino ad oggi ha mistificato con evidenza un ruolo usurpato, ma
quelli che sanno riconoscere i veri capi ed assecondano quelli che garantiscono
concretamente l’attuazione dei loro desideri. Non a caso Luca Fantini,
riprendendo un mito cui i socialfascisti facevano riferimento, vale a dire
Giuseppe Mazzini, cita alcune frasi significative del profeta della nostra
rivoluzione nazionale.
Ne aggiungiamo altre noi: «… il progetto sia nazionale, perché senza nazione
costituita il progresso non è che una menzogna, la forza un sogno, la civiltà
un’illusione; sia altamente sociale, perché noi dobbiamo combattere non la
schiavitù ma l’individualismo; sia umanitaria perché l’umanità sola crea la
patria ed a lei sola spetta dare il battesimo e sostenerlo …».
«Ogni popolo, come ogni individuo, non esiste se non in quanto la sua esistenza
segue una legge, ha uno scopo, rappresenta un elemento della grande vita comune
dell’umanità. Dove ei non adempia a questa condizione, non è se non un ingombro
inutile sopra la terra».
Superfluo, da parte nostra, ricordare che in una lotta senza quartiere tra chi
si batte per la concreta sopravvivenza della nazione ha sicuramente più diritto
di vincere contro chi dice di battersi per valori astratti e finora mai
realizzati in Italia come in altri paesi come il comunismo o la democrazia
liberale. E difatti i togliattiani, nel dare inizio alla guerra civile a base di
assassinii a tradimento, ubbidivano soltanto agli ordini di Stalin, in guerra
contro la Germania nostra alleata.
Profilo storico di Franco Colombo
Come uomo, Franco Colombo entra di diritto nel novero di quegli uomini che,
sorti dal popolo e vissuti per il popolo, hanno costellato per tanti secoli la
storia d’Italia. Il primo nome che ci viene alla mente è Filippo Corridoni,
personaggio che sicuramente Colombo ha conosciuto in gioventù. Di Pippo così
scriverà Curzio Malaparte, conoscitore non tenero di tipi italici: «Quest’uomo
napoleonico, invano da Giorgio Sorel auspicato per la Francia, aveva in Italia
preso un nome ed un viso in Filippo Corridoni. Nato dal popolo e partecipe di
tutti gli istinti, di tutte le violenze e di tutte le passioni del popolo,
irrigidito fisicamente, come in un osso, di volontà e di ribellione, consumato
dalla tisi e bruciato dalla febbre delle sue persuasioni quasi istintive, ora
insofferente ora paziente di tutto, ricco di sogni come un pastore e torvo di
risentimenti come un servo della gleba, Filippo Corridoni aveva l’anima
tumultuosa di un tribuno e gli occhi innocenti di un bambino (…) La sua forza
era in quella sua tremenda innocenza, che domava le ciurme delle officine col
peso di una fatalità, non di una volontà personale (…) Ma lo spirito
rivoluzionario, nel popolo nostro, era morto, soffocato dallo spirito
antirivoluzionario del socialismo (…) Il socialismo aveva intorpidito il popolo,
ributtandolo a forza in quella sonnolenza borbonica, dalla quale gli uomini ed i
fatti del nostro Risorgimento l’avevano tratto a fatica. Nelle annate che hanno
di poco preceduto la guerra europea, il nostro popolo aveva raggiunto il più
turpe stato di passività».
Sempre su Corridoni scrive Vito Rastelli: «Contrariamente al socialismo -ed
anche alla borghesia del tempo- il sindacalismo eroico, guardato oggi, si
presenta nel suo rapido svolgimento storico, dal suo insorgere fino allo
sfociamento nella guerra, come la sola effettiva ripresa nazionale di quel
tempo».
La seconda personalità che ci richiama alla mente la vicenda umana e nazionale
di Franco Colombo è Francesco Ferrucci. A seguito del Sacco di Roma del 1527 il
papa Clemente VII de Medici conclude un accordo a Bologna con Carlo V. Questo
accordo prevede, more solito, la corona imperiale in cambio dell’aiuto per la
riconquista di Firenze alla signoria medicea. Firenze resiste per dieci mesi
all’assedio, Ferrucci respinge con sdegno le offerte di resa, arrivando perfino
ad impiccare gli ambasciatori imperiali. La repubblica cade per il tradimento
del Baglioni, capo delle truppe mercenarie. Ferrucci viene finito da Maramaldo
dopo la battaglia di Gavinana del 3 agosto 1530. Non a caso il nome di
Maramaldo, che non ebbe altra colpa se non quella di assassinare Ferrucci già
mortalmente ferito («Tu dai a un morto!»), viene associato nella coscienza
popolare ed anche per una certa assonanza dei nomi, a quello di Badoglio.
Firenze, perla del Rinascimento italico, cade definitivamente nelle mani dei
Medici, tributari dell’Impero, equivalente dell’epoca all’Impero atlantico
d’oggi.
Fantini riporta dal libro di L. Ganapini, "La repubblica delle camicie nere",
una frase efficace: «Il nemico inafferrabile, il partigiano, un uomo che non
scende in campo aperto, che forse proprio per questo non merita nemmeno rispetto
o che, se lo merita, non riesce ad emergere con tratti definiti nemmeno nella
memoria …».
È chiaro pertanto che gli uomini di Colombo avevano tutto il diritto di reagire
vigorosamente contro un pericolo sfuggente, mascherato, anonimo, diretta
filiazione del tradimento come col tradimento e nottetempo la Firenze di
Ferrucci era stata invasa dagli imperiali. Tanto anonimo da rimanere tale anche
oggi, a distanza di oltre sessant’anni, nonostante una possente opera di
mistificazione storica e di manipolazione cerebrale.
Su "Vita di Sandro e di Arnaldo", Mussolini, negli anni trenta, scriveva: «Ma
tutto quello che fu fatto non potrà essere cancellato …».
Facile profezia. È quanto sta avvenendo oggi con un‘accentuazione indubbia
dell’interesse internazionale su Mussolini e l’esperienza socialrepubblicana. E
poiché la Storia dei popoli sfocia naturalmente nel mito, l’affannosa ricerca
delle informazioni sugli ultimi momenti di vita del Duce configura una
primordiale «ricerca del padre» che segue nel tempo all’altrettanto primordiale
esposizione della vittima sacrificale sul non improvvisato (ora lo sappiamo!)
golgotha di piazza Loreto.
«Sono un animale ferito. Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo
intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una
stanza calda. Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi
crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato» (Massimo Ferretti, "Polemica per
un’epopea tascabile", in "Maledetti Italiani", Il Saggiatore, 2007)
Conclusioni
La storia e l’attualità ce l’insegnano. Esistono due Italie. Una delle due, per
un’atroce destino, ha sempre in mano le redini del potere. Mentre mezz’Italia
brucia in processo che è facile intuire come accelerazione della
desertificazione, gli esponenti della partitocrazia discutono su chi deve essere
il leader del prossimo pateracchio. Come ci descrive con ampia documentazione
Ruggero Zangrandi nel libro "L’Italia tradita" dedicato all’otto settembre, alla
sua preparazione ed alle conseguenze. A parte la figura d’un noto cialtrone come
Badoglio, già responsabile di Caporetto, è una sarabanda di maschere del teatro
dell’arte, intenti a tradirsi l’un l’altro, ad impartire ordini che loro stessi
s’impegnano a rendere inefficaci, a buttare poveri ragazzi allo sbaraglio per
coprire la loro falsa fuga, ad organizzare attentati ed omicidi, ad incitare
attraverso la radio ad uccidere fascisti e loro famigliari. La menzogna è poi
proseguita nel tempo col mito della resistenza, creato dapprima a tavolino per
molteplici ragioni, a partire dall’interesse di Kesselring e dei comandi
tedeschi, obbligati ad inventare il pericolo rappresentato dai partigiani per
giustificare le loro inutili stragi di civili, o come il bisogno di gonfiare il
numero degli amici degli "atlantici" per ottenere condizioni di pace meno
umilianti.
Dall’altra parte abbiamo l’Italia che non si piega, che non accetta compromessi,
che non s’arrende. È l’Italia di Vittorio Veneto, alla quale fanno palese
riferimento gli uomini della "Muti". È l’unica Italia che conta, è l’unica
Italia che ha un significato, l’unica che valga la pena di prendere in
considerazione. C’è un’Italia dei Dalla Chiesa, dei Falcone, dei Borsellino, dei
Cassarà, dei Livatino, Chinnici, per non dire dei Mattei, Moro e tanti altri,
lasciati soli a farsi ammazzare dall’unico, solito inequivocabile nemico e dai
suoi sicari. È l’Italia dei Ferrucci, degli Andrea Doria, Paolo Sarpi,
Marcantonio Bragadin, Pasquale Paoli, dei Giordano Bruno, Tommaso Campanella,
Galileo Galilei. Questa per noi è l’Italia. L’altra, semplicemente, non esiste.
Pertanto, noi non abbiamo nulla da chiedere a nessuno, nessun riconoscimento
postumo da chi non esiste.
Corrado Alvaro, già fascista di sinistra, scrisse nel 1944 un pamphlet
ripubblicato nel 1986 da Sellerio, dal titolo "l’Italia rinunzia?" È una
denuncia sconsolata, tipica di una mentalità piagnona e senza prospettiva per il
futuro, della situazione italiana come si presentava e continua ad essere,
governata da "loro". Egli scrive: «Seguiamo pure questo sistema ipocrita, e
quello che pur era, malgrado le apparenze, l’ideale del regime, di mettere
insieme il diavolo e l’acqua santa, rivoluzione e conservatorismo, sia ancora il
nostro sistema. Sia ancora nostra la sua retorica che risolveva tutto sulla
carta e nelle chiacchiere ed elucubrazioni dei suoi sciocchi teologi, come noi
risolviamo tutto col nome di libertà e di democrazia, mentre il paese aspetta di
vivere e di lavorare per il suo domani. Ma intanto il paese è immobile, segna il
passo, non vive, non pensa, non agisce, è insicuro della sua interna e della sua
vita domestica, e intraprende il suo ennesimo assalto allo Stato, agl’impieghi,
ai benefici, essendo l’economia italiana distrutta ed essendo l’unico rifugio lo
Stato».
Poiché non ci sembra necessaria altra aggiunta, con quest’intervento concludiamo
la recensione di un libro da leggere in ricordo d’uomini da ammirare ed imitare.
Giorgio
Vitali
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