Fonte: Peace Reporter
Ignobel per la pace
Enrico Piovesana (11/12/2009)
Mentre Obama ritira il Nobel per la pace, il suoi soldati in Afghanistan
continuano a uccidere civili innocenti
Amrul è un piccolo villaggio sulle montagne innevate di Laghman, un centinaio di
chilometri nordest di Kabul, abitato da poche centinaia di pastori e contadini.
Come ormai quasi tutti i villaggi dell'Afghanistan, Amrul è sotto il controllo
dei talebani.
«Perché gli danno una medaglia per la pace?». Lunedì notte, attorno alle
due, decine di soldati delle forze speciali statunitensi accerchiano le case di
argilla dell'abitato dove, secondo le informazioni raccolte, si nasconde un
'bombarolo' talebano ritenuto il responsabile di numerosi agguati dinamitardi
contro i convogli delle truppe USA.
I talebani, appostati sui tetti delle abitazioni, aprono il fuoco e in un
istante si scatena l'inferno. I soldati americani sparano contro tutto quello
che si muove, sparando fanno irruzione in alcune abitazioni, uccidendo sette
guerriglieri ma anche sei civili, tra cui una donna.
Il mattino successivo, partiti i militari USA, gli uomini di Amrul raccolgono i
loro morti e li portano a Mehtarlam, il capoluogo della provincia, per
protestare davanti al palazzo del governatore.
Dal corteo funebre di protesta si alzano urla contro l'America, contro Obama:
«Perché danno a Obama una medaglia per la pace? Dice di volerci portare
sicurezza, ma ci porta solo morte! Morte a lui!», urla un parente delle vittime
alle telecamere di Al Jazeera. «Morte ad Obama! Morte all'America!», gli fa eco
la folla attorno a lui alzando i pugni al cielo.
La rabbiosa processione degli abitanti di Amrul avanza tra i campi Mehtarlam, ma
alle porte della città trova la strada sbarrata dai soldati dell'esercito
afgano, il loro esercito. I militari aprono il fuoco contro il corteo, uccidendo
tre persone.
«Ci ha bombardato, ci ha tolto tutto! Non si merita quel premio». La
notizia che "il nuovo presidente dell'America" ha ricevuto un importante "premio
per la pace" lascia sgomenti la maggior parte degli afgani. Soprattutto quei
tanti che hanno vissuto sulla loro pelle il 'nuovo corso' di Obama.
Come i parenti delle vittime della strage di Bala Baluk: il villaggio in
provincia di Farah che lo scorso maggio è stato raso al suolo dai
cacciabombardieri americani. I morti civili, inizialmente negati dai generali
USA, furono 147.
I sopravvissuti di quel massacro vivono ancora tra le macerie delle loro case.
Una giovane donna se ne sta seduta sulla soglia di un’abitazione semidistrutta,
con suo figlio sulle ginocchia. Indossa un velo nero e un abito nero luccicante
di perline, ancora in lutto per la morte di un familiare. «Obama non si merita
questo premio! Ci ha bombardati e ci ha lasciati senza niente, nemmeno una
casa».
La rabbia del cobra. Nawzad è una piccola cittadina che sorge ai piedi
delle montagne rocciose dell'Helmand settentrionale, saldamente controllata dai
talebani. Da tre anni, prima i gurka nepalesi dell'esercito di Sua Maestà
britannica, poi i marines americani, hanno provato a riconquistarla a più
riprese, senza mai riuscirci: la città, semidistrutta dai bombardamenti alleati,
è ancora saldamente in mano ai talebani. Ora i generali statunitensi hanno
deciso di chiudere questo conto in sospeso.
Venerdì scorso è scattata la più grande offensiva militare mai sferrata dagli
alleati in questa zona: l'operazione 'Rabbia del Cobra'. Mille marines sono
piombati sulla Valle di Nawzad con centinaia di carri armati ed elicotteri,
ingaggiando l'ennesima battaglia con i talebani.
Secondo le prime notizie diffuse dalla Mezzaluna Rossa afgana, ci sono già nove
morti accertati tra la popolazione civile, fuggita in massa dalla zona dei
combattimenti: circa quindicimila persone hanno abbandonato Nawzad e i villaggi
vicini cercando rifugio più a sud, a Grishk e nel capoluogo provinciale,
Lashkargah. Un numero di sfollati sufficiente a creare un allarme umanitario,
visto che tutte le agenzie internazionali dell'Onu hanno abbandonato da tempo la
provincia di Helmand. Un problema che per le forze alleate, semplicemente, non
esiste: "In quell'area non c'erano più civili, quindi non c'è nessuno sfollato",
ha tagliato corto William Pelletier, un portavoce militare USA.
McCrystal, generale d'acciaio. Nei giorni scorsi, migliaia di cittadini
statunitensi erano scesi in strada a San Francisco, Seattle, Chicago, Boston,
Detroit e Minneapolis per protestare contro la decisione del presidente Obama di
inviare altri 30mila soldati a combattere in Afghanistan. Piccole manifestazioni
pacifiste, dietro le quali però c'è ormai una maggioranza, silenziosa, di
americani che non sostengono più questa guerra. Una maggioranza che,
all'annuncio dell'escalation, si era consolata con la promessa presidenziale di
un ritiro delle truppe USA da avviare nel giro di un anno e mezzo, a partire dal
luglio 2011. Ma anche questa prospettiva consolatoria pare già tramontata: il
generale David McCrystal, comandante delle truppe alleate in Afghanistan, ha
subito corretto il tiro della propaganda della Casa Bianca: «Luglio 2011 per me
non rappresenta un limite fissato, ma la data alla quale valuteremo come
procedere. Come potremo ritirarci se la missione non sarà compiuta!», ha
dichiarato il generale, chiarendo che, anzi: «Se la violenza dovesse aumentare,
rendendo necessarie rinforzi addizionali, li richiederò. Non permetterò che
considerazioni politiche influenzino la valutazione sul progresso della
missione». Per la serie: siamo in guerra, e in guerra decidono i militari, non i
politici. Guerra e democrazia, si sa, non vanno molto d'accordo. Né in
Afghanistan, né in America
.
Enrico Piovesana |