da
Il 28 aprile 1945 venne ucciso Benito Mussolini
Maurizio Barozzi ("RInascita",
venerdì 27 aprile 2010)
Avremmo voluto scrivere queste note tra qualche centinaio di anni, quando si
sarà lontano dai ricordi vivi, dagli interessi politici contingenti e dalle
passioni, cosicché si possa scrivere e leggere di Mussolini senza infatuazioni,
odi o interessi di parte.
Non essendo però questo possibile, procediamo lo stesso, cercando di mantenerci
nella pura rievocazione storica, anche perchè la valutazione su eventuali errori
o successi, disastri o trionfi, responsabilità nella guerra o altro, appartiene
più che altro alla dimensione soggettiva del pensiero ideologico e politico e
del resto la polemica e la diatriba fascismo-antifascismo ci sembra oramai fuori
luogo visto che, in un certo senso, il ciclo storico del fascismo si è chiuso
nel 1945.
Esattamente 65 anni addietro, il 28 aprile 1945 tra le 9 e le 10 del mattino,
Benito Mussolini, dopo essere stato ferito con un colpo di pistola al fianco,
nella stanza dove, inerme prigioniero, era rinchiuso, venne trascinato in
canottiera nel cortile della casa dei contadini De Maria in quel di Bonzanigo (Tremezzina),
ed ivi ammazzato come un cane con circa altri otto colpi di armi da fuoco.
È quanto risulta dalla testimonianza della signora Dorina Mazzola, al tempo
abitante a circa 150 metri da quella casa, una testimonianza (vedi anche M.
Barozzi: "Morte Mussolini: la testimonianza di Dorina Mazzola di Bonzanigo",
Rinascita 23 maggio 2009, presente anche nel sito Effedieffe:
http://www.effedieffe.com/content/view/4619/148/ ) che, a differenza di tante
altre versioni, strampalate e indimostrate, trova molti riscontri in alcuni
rilievi di ordine tanatologico, balistico e del vestiario indosso al cadavere,
nonchè è indirettamente confermata dall’incrocio di varie testimonianze tra cui
un racconto di Savina Santi, la vedova di Guglielmo Cantoni (Sandrino) uno dei
due partigiani che erano stati di guardia a Mussolini e la Petacci nascosti in
quella casa. Disse la signora Santi, a Giorgio Pisanò, che il marito gli aveva
riferito:
«Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al
cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si
trovava di guardia alla stanza dove c’erano i prigionieri, quando vide salire le
scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè
conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza
ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre
che diceva: "adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi", e un altro gridare: "No,
vi uccidiamo qui!". Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna
e colpi d’arma da fuoco..., ma non so dove li hanno uccisi con certezza...»
(vedesi G. Pisanò: "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini" il Saggiatore 1996).
Nel momento di essere ucciso l’ex Duce gridò in faccia ai suoi assassini "Viva
l’Italia" come fu, con doloroso e reticente parto, riferito nell’ottobre del
1990 dopo 45 anni di omertà e menzogne, da quel Michele Moretti (Pietro) il
partigiano comunista presente ai fatti (vedesi: Giorgio Cavalleri: "Ombre sul
lago" Ed. Piemme 1995).
Il Moretti, pur ribadendo la solita versione comunista di Walter Audisio (la
"vulgata" come la definì Renzo De Felice) oramai pienamente sconfessata, così
riferì al giornalista, scrittore e amico Cavalleri, quei momenti:
«...Mussolini non apparve troppo sorpreso e, quando ebbe l’arma puntata contro
di sé, gridò con foga: "Viva l’Italia!"».
E a domanda del giornalista aggiunse: «Mi ha disturbato il "Viva l’Italia!" del
duce?
No, Perchè, si riferiva alla sua Italia, non alla mia...».
E quel grido si accorda con tutta la vita umana e politica di Mussolini, un
rivoluzionario, un politico, un giornalista ed uno statista, che aveva speso
tutta la sua gestione del potere ai fini della grandezza dell’Italia. Si possono
elevare ogni genere di accuse, si può non condividere il suo operato di governo,
si può dire che la sua fu una politica errata e deleteria, ma si deve ammettere
che egli indirizzò ogni sforzo a fare dell’Italia una piccola, ma importante
potenza in Europa.
Non è esagerato affermare (basterebbe guardare i filmati Luce dell’epoca, sulle
grandi opere allora in essere) che senza il ventennio di Mussolini, l’Italia
sarebbe probabilmente rimasta come uno di quei paesi estremamente arretrati del
sud Europa e dei Balcani. E basterebbe dare una sbirciatina alle riforme
sociali, di cui la più rivoluzionaria di tutte, quella sulla socializzazione
delle aziende, rimase incompiuta a seguito delle note vicende belliche, per
rendersi conto che dal 1922 al 1945 agì nel nostro paese una volontà
riformatrice e rivoluzionaria, a volte palese, a volte nascosta, a volte
annacquata e distorta, spesso contraddittoria, ma sempre presente, nel pensiero,
nella prassi e negli atti di governo di Mussolini.
È indubbio che l’azione di governo di Mussolini è stata quella di un dirigismo
statale (così come normalmente dovrebbe essere) per il quale vige l’assunto che
nello Stato e per gli interessi dello Stato devono prevalere gli aspetti etici e
politici su quelli economici e finanziari.
Una costante questa che gli costò nel 1924 la vendetta delle cosche massoniche e
di un «putrido ambiente politico-affaristico di capitalismo e finanza corrotta»
(così come ebbe a definirlo lo stesso Mussolini), che per defenestrarlo gli
gettarono ai piedi il cadavere di Matteotti e venti anni dopo lo portò dritto a
Piazzale Loreto.
Altra costante dell’operato di governo di Mussolini è stata quella di anteporre
a tutto i supremi interessi della Nazione e le sue necessità geopolitiche.
Le contraddizioni apparenti, i tentennamenti e i sotterfugi che si riscontrano
nei suoi rapporti internazionali, derivano semplicemente dal fatto che Mussolini
era ben coscio che lo sviluppo, la grandezza e l’indipendenza della Nazione,
purtroppo una nazione estremamente povera di materie prime, ed economicamente e
militarmente debole, potevano essere garantite solo a patto che in Europa, una
delle due grandi forze antagoniste, quella della Gran Bretagna e quella della
Germania, non prevalesse definitivamente sull’altra e quindi non dominasse il
continente e neppure che si accordassero tra loro. Destreggiarsi in questo
contesto, essendo al contempo consci che il vero nemico del fascismo e
dell’Italia era la grande plutocrazia internazionale, non era certo facile.
La geopolitica di Mussolini quindi, da Locarno, a Stresa, a Monaco e fin nella
"non belligeranza", nonchè nella conduzione di una "guerra parallela" con la
Germania, fu sempre incentrata su questi presupposti. Era una geopolitica
sostanzialmente antibritannica, per il fatto che gli inglesi avevano i loro
interessi in contrasto con i nostri nel mediterraneo ed in Africa, ma questa
geopolitica, allo stesso tempo peninsulare e insulare, doveva anche fare i conti
con i tedeschi nel continente i quali, dopo il 1938 erano praticamente arrivati
al Brennero. Ed è così che, nel contingente, si ebbero non pochi atteggiamenti
anche antitedeschi.
Proprio nel numero corrente della rivista Storia in Rete, il bravissimo
giornalista storico Fabio Andriola ha pubblicato un articolo ("Dagli amici mi
salvi Dio che dagli amici mi salvo io") che riassume molti degli ambigui
atteggiamenti italiani nei confronti della alleata Germania, una storia che non
deve nè scandalizzare, nè sorprendere perchè risponde alle esigenze degli
interessi nazionali.
Il fatto è che le leggi della geopolitica non sempre seguono le ideologie e gli
ideali di partito, come del resto avveniva nella prassi politica e militare di
Hitler, dove il nazionalsocialismo era inteso soprattutto conforme agli
interessi della Germania e del popolo tedesco.
Oggi, a posteriori, gli storici o gli intellettuali possono anche considerare
quegli eventi da un punto di vista superiore, comprendendoli in un quadro
ideologico nel quale troviamo analogie tra il fascismo e il nazionalsocialismo,
anzi anche in un quadro metastorico dove troviamo la presenza nelle due
ideologie e nella stessa guerra del sangue contro l’oro da esse intrapresa, un
aspetto ricorrente della "Tradizione", ma la politica contingente,
internazionale è tutta altra cosa.
Insomma l’operato di Mussolini fu sempre ed esclusivamente dettato dalla massima
degli antichi romani per la quale: «la salvezza della Patria è la legge
suprema».
Come detto Mussolini fu certamente un "rivoluzionario" ed in effetti egli giunse
ad una determinata ed originale visione dello Stato, della politica e della
società attraverso le sue passate esperienze umane, politiche e culturali, che
lo portarono a superare il socialismo internazionalista nel più naturale e
praticabile "socialismo da realizzare nella nazione" non disgiunto dai valori
del combattentismo interventista e quindi arrivò, attraverso un costante e
spregiudicato pragmatismo e il sincretismo di tanti altri valori, al fascismo.
Da rivoluzionario seppe controllare vittoriosamente il processo politico e
insurrezionale che dalla costituzione dei Fasci di Combattimento nel 1919, lo
portò al potere.
Purtroppo dovette fare i conti con il materiale umano che questo paese gli
metteva a disposizione e spesso a chi gli rimproverava la mancanza di un più
energico intervento rivoluzionario, una cosiddetta "seconda ondata", rispondeva
che con il fango non si fanno le rivoluzioni, ma non usava la parola fango...
Nel 1943, dopo lo sfacelo e l’ignominia dell’8 settembre, sacrificò
letteralmente la sua persona al fine di evitare che la vendetta tedesca sul
nostro paese non assumesse le proporzioni che era facile prevedere, ma non fu
solo questo il motivo della sua ultima discesa in campo: egli volle infatti
cogliere la irripetibile occasione che gli si offriva nel momento in cui la
Monarchia, il Vaticano e la grande Industria non potevano più condizionare il
potere come in passato: il risultato fu la RSI con i suoi 18 punti del manifesto
di Verona.
Negli ultimi giorni di aprile dovette purtroppo fare i conti con le tante
defezioni, se non tradimenti o comunque remore, dei suoi seguaci. Basti
considerare che mentre egli si allontanava costantemente dalle zone dove stavano
per arrivare le truppe Alleate, rifiuta di trincerarsi nelle grandi città per
non esporle ad una sicura distruzione e per non cadere prigioniero del nemico,
altri gerarchi, uomini del suo governo, molti pur fedeli fascisti,
preferirebbero invece arrendersi al più presto agli Alleati, anche perchè
permeati da quella forma mentis, in definitiva filo occidentale, che gli faceva
magari sperare di potersi non solo salvare, ma anche riciclare nel dopoguerra
come anticomunisti e antisovietici. E molti speravano anche nell’ultima chance
di un rifugio in Svizzera, mentre Mussolini, rimase sempre caparbiamente fermo
nel proposito di restare sul suolo italiano, come la precisa e documentata
ricostruzione di Marino Viganò, un ricercatore storico non certo di parte
neofascista, ha dimostrato con il suo saggio: «Mussolini, i gerarchi e la "fuga"
in Svizzera (1944-’45), Nuova Storia Contemporanea" N. 3, 2001».
E così andò a finire che Mussolini restò letteralmente imbottigliato in quel di
Menaggio, senza poter consumare la sua ultima e minimale strategia
temporizzatrice, spostandosi verso la Valtellina o i confini del Reich, nella
speranza di giocarsi le importantissime ed esplosive documentazioni che portava
seco, al fine di trattare una resa, a piede libero, nella quale salvare la vita
ai fascisti e per la nazione mitigare le conseguenze della sconfitta.
Ma i comandanti fascisti con le residue milizie armate, rimasero scelleratamente
impantanati a Como, dove finirono per accettare una "resa" che ha
dell’incredibile e del vergognoso.
E pensare che se Mussolini lo avesse voluto si sarebbe potuto agevolmente
salvare.
Già il 20 aprile ‘45, con la imminente presa di Bologna da parte degli Alleati
(vi entreranno il giorno dopo) era oramai evidente che i tedeschi praticamente
non combattevano più. Mussolini, volendo, avrebbe potuto mettersi in salvo e
questo tanto più quando, il pomeriggio del 25 aprile all’Arcivescovado, venne
ufficialmente a conoscenza che i tedeschi avevano raggiunto una intesa,
all’insaputa degli italiani, per una imminente resa con gli Alleati, mettendo in
crisi il ripiegamento dei fascisti. Diveniva quindi evidente che l’unica
possibilità di salvezza sarebbe stata quella di prendere il volo verso l’estero
lanciando il si salvi chi può.
Il socialista Carlo Silvestri, suo acerrimo avversario ai tempi del delitto
Matteotti, che gli fu vicino fino all’ultimo, riferì che Mussolini non pensava
minimamente di mettersi in salvo, ma anzi il suo cruccio e il suo ultimo
desiderio era proprio quello di sacrificarsi in qualche modo, affinché questo
suo sacrificio personale potesse tornare vantaggioso per l’Italia.
Vediamo allora alcune vicende, quelle storicamente accertate, circa gli svariati
piani di salvataggio del Duce, ideati da autorità della RSI, da settori del
partito fascista o del suo entourage, dove si riscontra il ricorrente e totale
rifiuto di Mussolini di aderire ad uno qualsiasi di questi progetti, tanto che
c’era persino chi pensava di condurlo all’ultimo momento in salvo, narcotizzato
o contro la sua volontà.
Buffarini Guidi, l’ex ministro degli interni, per esempio, parlando con Piero
Cosmin, ex capo della provincia di Verona e Ugo Noceto, capitano
dell’Aeronautica (come ha raccontato quest’ultimo a Marino Viganò nel 1995) ebbe
a dirgli nel febbraio del 1945:
«Qui le cose si mettono male, ormai non c’è più niente da fare e bisogna cercare
di salvare Mussolini in qualche modo. Lui non vuole, ma bisogna cercare in modo
assoluto di salvarlo, perché se Mussolini è in salvo, o in Spagna o in
Argentina, può far del bene all’Italia. Lui non vuole, ma volente o nolente,
bisogna portarlo via».
Nel corso di questo colloquio sopraggiunse anche Vittorio Mussolini, il figlio
del Duce, il quale messo a parte di queste intenzioni si disse d’accordo, ma
aggiunse subito:
«Guardate che però mio padre non vuole».
Ed ancora, pur con qualche variante di dettaglio tra una versione e l’altra:
al figlio Vittorio, che proprio negli ultimissimi giorni gli propose di
nascondersi in una garçoniere, Mussolini rispose ironicamente: «Non ti pare che
le garçoniere servono per altri scopi?!».
Ma in altra occasione il padre, di fronte all’insistenza del figlio, ebbe anche
a rispondergli duramente: «Nessuno ti ha pregato di interessarti della mia
personale salvezza».
Noto è poi l’avanzatissimo progetto del generale Ruggero Bonomi, sottosegretario
all’aviazione RSI, che aveva predisposto sul campo di Ghedi (Brescia), dei
trimotori "Savoia Marchetti 79" (rimasti a disposizione fino agli ultimi giorni
di Milano) adatti a raggiungere località come la Spagna dove risiedeva la moglie
del segretario del Duce, Luigi Gatti, disposta ad accoglierlo. Al ché, saputolo,
Mussolini, più o meno, osservò con ironia: "È questa di Bonomi la soluzione
migliore per risolvere la nostra situazione? E tutti gli altri fascisti, poi,
dove li metteremmo in quell’aereo?".
Racconta Virgilio Pallottelli, tenente pilota, che ebbe modo di vedere Mussolini
il 25 aprile a sera in Prefettura dopo il ritorno dall’Arcivescovado:
«... di corsa salgo dal Duce, è pallido e nervoso. Imploro di andare subito a
Linate e volare verso la Spagna. Rifiuta gridandomi che lui non
scappa:"Virgilio, andremo anche noi sulle montagne, come i partigiani. No,
Virgilio non scappo in volo. Andiamo in Valtellina ad aspettare gli Alleati"».
Un complesso piano, invece, con un sommergibile atlantico e/o un aereo venne
studiato da Tullio Tamburini, capo della Polizia della R.S.I. fino al giugno '44
ed ex prefetto di Trieste. Lo riferì lo stesso Tamburini a Ermanno Amicucci nel
’50. Il progetto coinvolgeva anche Augusto Cosulich, l'amministratore dei
cantieri dell'Alto Adriatico di Monfalcone dove si fabbricavano navi e
sommergibili, ma anche aeroplani.
Come ricostruisce Marino Viganò, nell’articolo "Quell’aereo per la Spagna",
Nuova Storia Contemporanea N. 3, 2001, alla fine Tamburini portò al Duce carte
geografiche, progetti, cifre, disegni e gli espose il suo piano in ogni
particolare [...]. Mussolini stette ad ascoltarlo, fra l'interessato e il
divertito [...]. Fatto sta che il piano non lo mise di buon umore. Dopo aver
accennato, con riso amaro, a Verne e a Salgari, disse a Tamburini: "Queste
faccende non rientrano fra i vostri compiti. Non dovete più occuparvene. Ho il
mio piano e provvederò io al momento opportuno. Non me ne parlate mai più".
In questo progetto era stato coinvolto anche l’ufficiale sommergibilista Enzo
Grossi, medaglia d’oro RSI, che lo raccontò nel 1963, confermando i ricordi di
Antonio Bonino vice segretario del PFR per la sede di Maderno e di Tamburini.
Ricordò Grossi:
« ...[Tamburini] Mi spiegò che con il beneplacito dei Giapponesi sarebbe stato
allestito un grosso sommergibile che al mio comando doveva prendere il mare, al
momento opportuno, con a bordo la famiglia di Mussolini e i miei congiunti.
Tutto era stato previsto per mantenere il segreto e per soddisfare le esigenze
dei familiari dell'equipaggio; durata prevista della missione: un anno. Mi
impegnai in senso affermativo. Tamburini si propose di parlarne a Mussolini.
Qualche giorno dopo lo stesso Tamburini mi comunicava che tutto era andato a
monte poiché il Duce si negava perentoriamente a quella che considerava una
fuga. In occasione di un colloquio che ebbi nel mese di febbraio del 1945
Mussolini mi ringraziò per quanto ero disposto a fare e mi disse: comprendo
perfettamente quali sentimenti hanno indotto Tamburini a progettare la nota
missione sotto-marina e ringrazio anche voi su cui potrei fare il massimo
affidamento, ma io non ho nessun interesse a vivere come un uomo qualunque»
(vedesi: E. Amicucci, "", in: "Tempo" [Milano] 1950, N.. 19, e E. Grossi, "Dal
Barbarigo a Dongo", "Un sommergibile per Mussolini", in: "Il Secolo d'Italia" 25
gennaio 1958).
In ogni caso, anche se non facile, ma certamente praticabile sarebbe stata la
possibilità di porre in salvo il Duce sia in Spagna che in Sud America o forse
in Svizzera o nasconderlo in qualche località segreta in Italia, anche se poi
alquanto problematico sarebbe stato il "dopo" ovvero il "come" affrontare il
dopoguerra, ma oltre 20 anni di segreti di Stato ed un compromettente carteggio
con Churchill, gli avrebbero forse concesso la possibilità di salvare la pelle.
Ed invece, sul piano personale, si preoccupò unicamente di porre in salvo i suoi
familiari mentre egli, con tutte le restanti autorità del governo repubblicano
al seguito, andò incontro al suo destino.
Per concludere dobbiamo specificare, laddove sostenemmo che Mussolini era un
rivoluzionario, che egli era prevalentemente un "rivoluzionario politico", dove
la politica è anche l’arte del possibile, dell’inganno e del cinismo, e se pure
egli non era un santo ed anzi utilizzò la violenza squadrista, mai mise mano ai
plotoni d’esecuzione per il mantenimento del potere o fece ricorso
all’assassinio per eliminare gli oppositori.
Chi storce la bocca al fatto che Mussolini utilizzò nella gestione del potere,
gli Archivi dell’Ovra, spesso il ricatto, a volte la corruzione, per domare
nemici e avversari, interni ed esterni al fascismo, dovrebbe sempre ricordare
che, in alternativa, il monopolio del potere si può mantenere solamente con il
sangue. Ma per Mussolini non era nella sua indole la risoluzione cruenta dei
contrasti politici.
Ricorda la sorella Edvige come nel giugno 1934 egli inorridì alla notizia della
eliminazione in Germania di Röhm e delle SA, mentre donna Rachele, la moglie,
confidò che il Duce faceva la mascella feroce, ma era incapace di far del male
ad una mosca.
Italo Balbo, nel giugno del 1925, parlando con Carlo Silvestri in merito alle
conseguenze del delitto Matteotti, ebbe a fare una considerazione che si rivelò
esatta:
«Ora invece per le conseguenze del delitto Matteotti Mussolini sarà costretto a
fare il dittatore senza averne la stoffa. E saranno guai, perché un dittatore
non deve avere paura del sangue.».
Su Mussolini così si espresse intelligentemente lo storico Attilio Tamaro:
«Il carattere dell’uomo non era nè quello di Cromwell, né quello di Stalin,
perché non era né feroce, né inflessibile nella realizzazione delle sue idee.
Era coerente più di quanto apparisse nei fini: non nei mezzi, né nelle idee, che
stimava mezzi o strumenti».
Lo stesso Mussolini era conscio di questa sua inclinazione e debolezza ed ebbe a
scrivere:
«La politica è un'arte difficilissima tra le difficili perchè lavora la materia
inafferrabile, più oscillante, più incerta. La politica lavora sullo spirito
degli uomini, che è una entità assai difficile da definirsi, perchè è mutevole.
Mutevolissimo è lo spirito degli italiani. Quando io non ci sarò più, sono
sicuro che gli storici e gli psicologi si chiederanno come un uomo abbia potuto
trascinarsi dietro per vent'anni un popolo come l'italiano. Se non avessi fatto
altro basterebbe questo capolavoro per non essere seppellito nell'oblio. Altri
forse potrà dominare col ferro e col fuoco, non col consenso come ho fatto io.
(...) Tutti i dittatori hanno sempre fatto strage dei loro nemici. Io sono il
solo passivo: tremila morti (tra le camice nere – n.d.r.) contro qualche
centinaio. Credo di aver nobilitato la dittatura. Forse l'ho svirilizzata, ma le
ho strappato gli strumenti di tortura. Stalin è seduto sopra una montagna di
ossa umane. È male? Io non mi pento di avere fatto tutto il bene che ho potuto
anche agli avversari, anche nemici, che complottavano contro la mia vita, sia
con l'inviare loro dei sussidi che per la frequenza diventavano degli stipendi,
sia strappandoli alla morte. Ma se domani togliessero la vita ai miei uomini,
quale responsabilità avrei assunto salvandoli? Stalin è in piedi e vince, io
cado e perdo. La storia si occupa solamente dei vincitori e del volume delle
loro conquiste ed il trionfo giustifica tutto. La rivoluzione francese è
considerata per i suoi risultati, mentre i ghigliottinati sono confinati nella
cronaca nera».
Negli ultimi mesi della RSI Mussolini era più che altro intento a decruentizzare
la situazione, conscio che il vento sanguinario della guerra civile veniva da
Londra, Mosca e New York.
Firmava praticamente ogni domanda di grazia gli venisse sottoposta ed era
altresì intento a salvaguardare, impianti industriali, portuali, ecc. dalla
furia della guerra e dalle possibili distruzioni dei tedeschi in ritirata.
Sperava che l’Italia in qualche modo potesse sopravvivere come nazione moderna e
si augurava, espletandone anche un tentativo subito fallito, di poter tramandare
le sue riforme sociali e repubblicane ai socialisti e ai repubblicani, perchè,
come scrisse al Silvestri:
«Vi dico che il più grande dolore che potrei provare sarebbe quello di rivedere
nel territorio della Repubblica sociale i carabinieri, la monarchia e la
Confindustria. Sarebbe l’estrema delle mie umiliazioni. Dovrei considerare
definitivamente chiuso il mio ciclo, finito».
Proprio questa umiliazione postuma, invece, gli riservarono i vincitori della
guerra e i governi post ciellenisti, ma anche gli epigoni neofascisti, che nel
dopoguerra perseguirono anni e anni di conservatorismo, reazione, filo
americanismo e quant’altro e passo dopo passo, dopo averlo già sostituito nelle
loro sezioni con il più consono Pinochet e le bandiere della sua macelleria
cilena, finirono per rinnegarlo definitivamente definendo il fascismo il male
assoluto.
Purtroppo la storia non consola e non ripaga, tanto è vero che il suo agire che
lo portò, come attestò e dimostrò Carlo Silvestri (ma anche Piero Parini, Renzo
Montagna e altri collaboratori che lavorarono con lui) a salvare praticamente la
vita a quasi tutti i capi della Resistenza, catturati dai tedeschi o ben
individuati nei loro nascondigli, compresi Parri, Lombardi, Pertini, ecc., fu
"ripagato" con le parole di Sandro Pertini, il partigiano estremista che in quei
giorni di fine aprile ’45 sbraitò alla radio che Mussolini "doveva essere
ammazzato come un cane tignoso".
Proprio quello che avvenne.
È indubbio che Mussolini, non avendo una visione metastorica del suo momento
epocale, non era portato a fanatizzare una guerra totale, da fine del mondo,
come invece accadeva in Hitler.
Questa sottovalutazione, da parte di Mussolini, circa le vere e occulte cause
del conflitto mondiale, se da una parte gli determinava un evidente sdegno per
essere stato nel 1940 coinvolto in un immane conflitto, causato da altrui
volontà e interessi, gli faceva però anche sperare di riuscire a dimostrare la
sua buona fede e ragioni, gli faceva forse cullare l’idea, pur senza farsi
troppe illusioni, di poter quanto meno difendersi, ed al contempo difendere la
nazione, di fronte ad un ipotetico tribunale internazionale.
Tutte cose queste che forse sarebbero state possibili dopo gli esiti in una
guerra di altri tempi, non in un conflitto come quello del 1939-‘45 determinato
e condizionato prevalentemente da "forze occulte" che, sull’asse Londra-New
York, erano in grado di condizionare la politica mondiale.
E del pari Mussolini, coerente con la sua strenua difesa degli interessi
nazionali, era portato a proteggere la vita, le strutture ed il futuro del
popolo italiano.
Niente tabula rasa, quindi, niente distruzione totale, ma anzi una condotta
politica finalizzata a minimizzare gli odi e le passioni.
È in questo contesto che si comprendono gli atteggiamenti ultimi di Mussolini ed
i suoi interventi atti a salvare la vita ai suoi avversari, anche quelli che,
irriducibili, lo ripagarono poi con il suo assassinio.
È così, mentre Pertini, il partigiano estremista e di sinistra, che nel
dopoguerra divenne ligio interprete del "delicato" ruolo di Presidente della
Camera e poi fu il Presidente strenuo difensore dell’Italia liberista e
subordinata agli USA, contro i brigatisti rossi, coloro che praticavano quella
stessa guerriglia ex partigiana che fu dei Gap, ovvero lo sparare alle spalle e
poi scappare, mori nel suo letto d’ospedale a quasi 94 anni, Mussolini invece
finì ammazzato e appeso a Piazzale Loreto.
Questa è la storia, ma tra qualche centinaio di anni, come accennavamo
all’inizio, siamo assolutamente certi che di Mussolini se ne parlerà ancora, di
Pertini invece..., fate voi.
Maurizio Barozzi
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