Francesco Lamendola
(20/10/2013)
Il tribunale di Norimberga,
che processò e condannò non solamente dei ministri e dei generali
tedeschi, ma la loro stessa appartenenza al partito nazista (andato
legalmente al potere nel 1933) e all'esercito del Terzo Reich, operò in
spregio della giustizia, formulando capi d'accusa che non esistevano
nella legislazione internazionale, come i "crimini contro la pace", e
trattando tutti gli imputati come una banda di criminali, pur
rispettando una apparente correttezza formale; questa ormai è storia e
non occorre insistervi sopra.
Quello che ancora non è passato nelle coscienze e nell'opinione
pubblica, però, è il perché gli Alleati agirono in quel mondo; per quale
ragione vollero imbastire un processo-farsa nel quale i vincitori, fatto
mai accaduto prima, si arrogavano il diritto di giudicare i vinti con
una sentenza inappellabile e già scritta in partenza; né si è messo
abbastanza in luce l'elemento di continuità che lega il trattato di
Versailles -quando i rappresentanti della Germania dovettero
sottoscriver e un documento in cui si accollavano tutta intera la
responsabilità della guerra del 1914-, il processo di Norimberga del
1945-46, e tutta una serie di azioni militari e giuridiche attuate
successivamente dalla superpotenza americana, in parte con la copertura
delle Nazioni Unite, in parte senza di essa, come gli interventi in
Jugoslavia nel 1999 e in Iraq nel 2003, coronati dalla cattura e dal
processo spettacolare, per crimini di guerra, degli esponenti di quei
regimi sconfitti.
Il saggista francese Maurice Bardèche (1907-1998), del quale ci siamo
già occupati altra volta (cfr. l'articolo "Sparta e i Sudisti nel
pensiero di Maurice Bardèche"), con notevole lucidità intellettuale
aveva formulato la risposta all'interrogativo in questione fin dagli
anni immediatamente seguenti al processo di Norimberga, in un saggio
spregiudicato e non sempre condivisibile, ma indubbiamente coraggioso e
penetrante, intitolato "Nourembergou la Terre Promise" (tradotto in
italiano da Gianna Tornabuoni, con il titolo "I servi della democrazia",
pubblicato dalla casa editrice Longanesi & C. di Milano nel 1949), del
quale ci piace riportare alcuni passi particolarmente significativi:
«L'opinione pubblica e i mandanti delle potenze vincitrici affermano
di essersi eretti a giudici quali rappresentanti della civiltà! È la
spiegazione ufficiale, ed anche il sofisma ufficiale, giacché si prende
per principio e base sicura proprio ciò intorno a cui verte la
discussione. Soltanto alla fine del processo aperto tra la Germania e
gli alleati si potrà dire da quale parte la civiltà fosse. Non certo al
principio, e soprattutto non è certo una delle parti in causa che potrà
dirlo. […] La verità è tutt'altra. Il fondamento vero del processo di
Norimberga, quello che nessuno ha mai osato designare, temo sia la
paura: è lo spettacolo delle rovine, e il panico del vincitore. "Bisogna
che gli altri abbiano torto". È necessario, perché se per caso essi non
fossero stati dei mostri, quale peso immane avrebbero le città distrutte
e le bombe al fosforo! L'orrore, la disperazione dei vincitori è il vero
motivo del processo. Si sono velati il viso davanti alla necessità di
certe cose e, per farsi coraggio, hanno trasformato i loro massacri in
crociate. Hanno inventato "a posteriori" il massacro in nome
dell'umanità. Da assassini si sono promossi gendarmi. Si sa del resto
che, da una certa cifra di morti in su, ogni guerra diviene
obbligatoriamente una guerra del diritto. La vittoria è completa
soltanto quando, dopo aver forzato la cittadella, si conquistano le
coscienze. Da questo punto di vista il processo di Norimberga è un mezzo
di guerra moderna meritevole di essere descritto quanto un bombardiere
(pp. 14-16).
Le apparenze della giustizia furono salvaguardate in modo perfetto. La
difesa aveva pochi diritti, ma quei pochi furono tutti rispettati.
Qualche zelante ausiliario del pubblico ministero fu richiamato
all'ordine per essersi permesso di qualificare prematuramente gli atti
sui quali doveva fare il proprio rapporto. Il tribunale interruppe
l'esposto del pubblico ministero francese per il suo carattere sleale e
diffuso, e rifiutò di ascoltarne il seguito. Molti accusati furono
assolti. Le forme infine furono perfette e mai giustizia più discutibile
fu resa con maggior correttezza. Questo apparato moderno, infatti, come
si sa, ebbe per risultato di resuscitare la giurisprudenza delle tribù
negre. Il re vincitore si insedia sul suo trono e fa chiamare gli
stregoni: e lì, davanti ai guerrieri seduti sui talloni, i capi vinti
vengono sgozzati. […] Un tribunale che fabbrica le leggi dopo essersi
installato sul suo seggio, si riporta ai confini della storia. Nemmeno
al tempo di Chilperico si osava giudicare in questo modo. La legge del
più forte è un atto leale al confronto. Quando il Gallo grida: "Vae
victis", per lo meno non crede di essere Salomone. Quel tribunale invece
è riuscito ad essere un'assemblea di negri in colletto duro: è il
programma della nostra futura civiltà (pp. 26-27).
… nessuno può essere mai sicuro di non far parte di un'organizzazione
criminale. Il calzolaio tedesco, padre di tre bambini, vecchio
combattente di Verdun, che ha preso nel 1934 la tessera del partito
nazista, è stato accusato dal pubblico ministero di far parte di
un'organizzazione criminale. Cosa faceva di diverso il commerciante
francese, padre di tre bambini, vecchio combattente di Verdun, entrando
nel movimento "Croci di fuoco"? L'uno e l'altro credevano di appoggiare
un'azione politica atta ad assicurare il risorgere del proprio paese.
L'uno e l'altro hanno compiuto il medesimo atto: e tuttavia gli
avvenimenti hanno dato a ciascuno di quegli atti un valore diverso,.
L'uno è un patriota (se ha ascoltato la radio inglese, beninteso), ma
l'altro viene accusato dai rappresentanti della coscienza umana. Queste
difficoltà sono gravissime. Il terreno ci sfugge sotto i piedi. I nostri
sapienti giuristi forse non se ne rendono conto, ma vengono così ad
accettare una concezione del tutto moderna della giustizia: quella che
nell'URSS servì di base al processo di Mosca. La nostra concezione della
giustizia era stata sinora romana e cristiana romana, in quanto esige
che ogni atto punibile riceva una qualifica invariabile essenziale
all'atto stesso; cristiana, in quanto deve essere sempre considerata
l'intenzione, sia per aggravare, sia per attenuare le circostanze
dell'atto qualificato delitto. Esiste tuttavia un'altra concezione della
colpa, e per molti versi può chiamarsi marxista: essa consiste nel
pensare che un'azione qualsiasi, non colpevole in sé né per la sua
intenzione,al momento in cui fu commessa, può apparire legittimamente
colpevole in una certa visuale posteriore agli avvenimenti. Non faccio
paragoni. I marxisti sono senza dubbio in buona fede, giacché essi
vivono in una specie di mondo non euclideo ove le linee della storia
appaiono raggruppate e deformate o, se si vuole, armonizzate in una
prospettiva marxista. Mentre Shawcross e Justice Jackson, rappresentanti
inglese e americano, vivono in un mondo euclideo, ove tutto è sicuro,
chiaro o almeno dovrebbe esserlo, e dove i fatti dovrebbero essere fatti
e nulla più. Soltanto la loro malafede ci trasporta in un mondo
instabile; e là le nostre intenzioni non contano più, persino le azioni
non contano, "ciò che noi siamo in realtà non conta". […] Allora si
avanza il giudice e ci dice: "Voi non siete più un calzolaio tedesco o
un commerciante francese come credevate; siete un mostro, avete
appartenuto ad una associazione di malfattori, avete partecipato ad un
complotto contro la pace, come è chiaramente indicato nella prima
sezione del mio atto d'accusa" (pp. 34-35).
Questo permanente stare in guardia, ci prepara una forma di vita
politica che non dobbiamo ignorare e che d'altronde tre ani di
esperienza continentale non ci permettono di ignorare. La condanna del
partito nazionalsocialista va assai più lontano di quanto possa
sembrare. Essa colpisce in realtà tutte le forme solide, tutte le forme
geologiche della vita politica. Ogni nazione, ogni partito che abbiano
il mito della patria, della tradizione, del lavoro, della razza sono
sospetti. Chiunque reclami il diritto del primo occupante e attesti cose
evidenti come la signoria della città, offende una morale universale che
nega il diritto dei popoli a redigere la propria legge. Non soltanto i
tedeschi ma noi tutti veniamo così ad essere spogliati. Nessuno ha più
il diritto di sedersi nel proprio campicello e di dire: "Questa terra mi
appartiene". Nessuno ha più il diritto nella città di levarsi e di dire:
"Noi siamo gli anziani, noi abbiamo costruito le case di questa città;
colui il quale si rifiuta di obbedire alle leggi se ne vada". Ormai è
scritto che un concilio di esseri impalpabili ha il potere di sapere ciò
che avviene nelle nostre case e nelle nostre città. Delitto contro
'umanità': questa legge è buona, quella no. La civiltà ha il diritto di
veto (pp. 46-47)».
Bardèche osserva che, mano a mano che cresceva, già durante la guerra,
l'ideologia della guerra antifascista come una crociata, la Resistenza
diveniva il nuovi mito di essa e perfino i bombardieri che riducevano in
cenere le città tedesche venivano denominati "Liberatori": e questo
perché, dovendo lottare contro dei mostri, qualunque atrocità diveniva
legittima e anzi benemerita, poiché affrettava la fine del Male. È la
stessa logica che portò al bombardamento atomico di Hiroshima e
Nagasaki, non necessario dal punto di vista militare e deliberatamente
diretto su due città inermi, piene di donne, bambini e anziani, non su
obiettivi strategici.
Ma la parte più interessante della riflessione di Bardèche, che non
possiamo qui riportare per motivi di spazio e di cui consigliamo la
lettura integrale, è quella riguardante le conseguenze non solo
politiche e giuridiche, ma soprattutto economiche e finanziarie del
"nuovo ordine mondiale" inaugurato dal processo di Norimberga;
riflessione che, scritta più di sessant'anni fa, presenta aspetti di
straordinaria intuizione dei meccanismi futuri, e parla in un linguaggio
che appare di stupefacente attualità.
Si incomincia con la limitazione della libertà della nazione sconfitta:
ieri la Germania, oggi la Iugoslavia o l'Iraq. Prima di consentire il
ritiro delle truppe d'occupazione, si chiede al nuovo governo, nato
dalla disfatta, di firmare un trattato in cui ci si impegna solennemente
a non ripercorrere le strade di quello precedente e a rispettare tutti
gli impegni contratti col vincitore e con la comunità internazionale -
il vincitore si identifica con la comunità internazionale, ieri la
Società delle Nazioni, oggi le Nazioni Unite: in questo modo, si
identifica automaticamente con la "civiltà" e degrada a "barbarie"
qualunque forze gli si opponga o ardisca di resistergli.
Dalla limitazione della libertà politica si passa a quella economica:
bisogna tenere aperte le frontiere al commercio internazionale (cioè del
vincitore), aprire le porte al capitale internazionale (cioè del
vincitore): accettare di acquistare i prodotti esteri al prezzo
stabilito da altri e di vendere i propri secondo la loro convenienza. È
una truffa, ma perfettamente legale; di più: è un inno all'ideologia del
libero mercato, che si sposa con quella della democrazia. Dove c'è
democrazia, c'è libero mercato: ossia limitazione della sovranità
nazionale e imposizione di condizioni economiche che tornano a vantaggio
di altri.
La cessione di sovranità -cosa oggi evidente nell'Unione europea- reca
vantaggi alle banche, ma fa pagare ai cittadini costi altissimi e li
priva del diritto fondamentale di dire "no" a condizioni di vita
intollerabili: avete firmato un trattato, dovete attenervi ad esso. Nel
caso del debito pubblico, ciò significa che i cittadini dello Stato X si
vedono accollare la responsabilità di una voragine finanziaria di cui
non hanno alcuna colpa, ma che devono ripianare, lasciandosi legare alla
catena e imporre sacrifici durissimi da un organo extra-nazionale, per
esempio la Banca centrale europea. Uno Stato sovrano può decidere di
stampare moneta per dare respiro ai cittadini contribuenti, come fanno
Stati Uniti e Gran Bretagna; ma uno Stato che ha rinunciato alla
sovranità finanziaria non può farlo: ha infilato la testa nel cappio,
può solo piegarsi agli ordini.
Qualcuno non gradisce l'ingresso di milioni di stranieri, che provoca
insopportabili situazioni di disagio e di grave minaccia alla sicurezza
personale? Non c'è niente da fare: avete firmato un trattato, dovete
accettare e subire in silenzio; altrimenti verrete condannati dalla
corte di giustizia del Super-stato. L'Australia può respingere anche una
sola barca di immigrati clandestini, disinteressandosi del loro destino;
ma se l'Italia fa altrettanto, dopo averne accolte a migliaia e
migliaia, viene trascinata in tribunale e sommersa dalla marea
dell'indignazione mondiale: ma come, siete così crudeli da respingere
quella povera gente? E intanto le città e le periferie si riempiono di
spacciatori di droga, di prostitute, di ladri e stupratori: ma guai a
dirlo, si diventa razzisti. E non si può dire che le carceri scoppiano
perché sono piene di malfattori stranieri; se le carceri sono piene,
ebbene, basta svuotarle ogni tanto con un indulto, fino a che si
riempiono di nuovo, nel giro di qualche anno o qualche mese; e poi fare
un altro indulto, e così via.
L'idea di un Super-stato mondiale democratico nasce con il processo di
Norimberga, che è, al tempo stesso, un terribile monito a chi pensa
ancora di poter fare la politica dei vecchi tempi: a casa mia son
padrone io, questa società l'ho costruita io, questa casa, queste
fabbriche le ho costruite io, questi campi li ho creati e coltivati io;
ma adesso non lo si può dire: non si è più padroni in casa propria,
bisogna piegare la testa a quello che decide il capitale finanziario
mondiale. Dietro la maschera della democrazia, il totalitarismo
democratico; e, come sua inseparabile compagna, la dittatura mondiale
delle banche e delle multinazionali.
Tutto ciò viene accompagnato da una campagna capillare di
disinformazione e di lavaggio del cervello, in modo da persuadere i
cittadini-contribuenti che tutto quanto avviene è per il loro bene, per
la tutela della pace e della giustizia, per il rispetto dei diritti
umani; che non esiste altro Dio fuori della democrazia e del libero
mercato e che chi si oppone a tale dogma è un eretico meritevole di
essere bruciato sul rogo, beninteso dopo essere stato moralmente
denigrato sino a convincere tutti che la sua condanna è cosa giusta e
pia. Alle giovani generazioni viene insegnato che ab antiquo, ai tempi
della barbarie precedente la democrazia e il libero mercato, l'umanità
viveva in condizioni intollerabili sotto ogni punto di vista; mentre
adesso si sta dirigendo verso i paradisi del Progresso e della Felicità,
e non ha nulla da rimpiangere e tutto di cui rallegrarsi. Prima c'erano
i nazionalismi, fonte perenne di tensioni e di conflitti (il che è vero,
ma è solo una parte della verità); oggi ci sono il cosmopolitismo, le
frontiere aperte, la libera circolazione delle merci, delle persone e
delle idee; prima c'erano le società chiuse, brutte e cattive,
intolleranti e oscurantiste; oggi ci sono le meraviglie della società
aperta, multietnica e multiculturale; del mondo divenuto un villaggio,
dove tutti sono a casa dappertutto, dove tutti si vogliono e bene e si
rispettano, purché bevano Coca-Cola, mangino le bistecche di McDonald's
e guardino le stesse idiozie alla televisione.
Oddio, c'è ancora qualche piccolo difetto in questa straordinaria e
luminosa costruzione; ci sono ancora tensioni e incomprensioni, interne
e internazionali; ci sono, ogni giorno, attacchi e massacri ai danni dei
cristiani che vivono in Africa e in Asia; ci sono milioni di aborti nel
mondo "sviluppato" e milioni di bambini che muoiono di fame in quello
"in via di sviluppo"; ci sono popoli e classi sociali che devono
accontentarsi di vivere con le briciole che cadono dalla tavola di altri
popoli e di altre classi sociali. Ma via, bisogna avere ancora un po' di
fiducia e di pazienza, e tutto finirà per aggiustarsi, come in un
trionfale "happy end" alla Walt Disney.
Certo, c'è anche un altro piccolo particolare che non passa del tutto
inosservato, per chi abbia ancora un minimo di facoltà giudicante: che
dall'abiura solenne del nazionalismo restano esclusi Stati Uniti e Gran
Bretagna, i vincitori della seconda guerra mondiale; che, mentre nel
resto del mondo il nazionalismo è considerato poco meno di un delitto,
da combattere in ogni modo e da criminalizzare con film, libri, siti
internet e perfino giornalini a fumetti, nei due Paesi anglosassoni il
nazionalismo è tuttora preservato e coltivato, anzi, è il collante della
vita sociale, anche nelle sue forme più aggressive e truculente: e il
principino Harry che uccide un capo talebano in Afghanistan viene
applaudito in patria, così come il generale Kitchener quando portò in
omaggio alla regina Vittoria la testa del Mahdi, disseppellita dalla
tomba dopo la riconquista britannica del Sudan.
Ma che importa? Certo, quella che viviamo è una "pax americana": però si
tratta di dominatori straordinariamente generosi e moderati; ci hanno
liberati dai peggiori incubi della storia, come il nazismo e il
comunismo -non importa se furono proprio essi, con il loro egoismo
finanziario, ad alimentarli, se non a crearli-; ci hanno liberato, a
suon di bombe, dalla parte cattiva di noi stessi ("Liberator" era il
nome dei loro aerei, che ridussero l'Europa in cenere fra il 1943 e il
1945); i loro ragazzi diedero la vita, sulle spiagge di Anzio e su
quelle della Normandia, per restituirci la libertà, benché non ne
fossimo del tutto degni, visto che l'avevamo disprezzata e gettata via
come fosse stata carta straccia; dunque dobbiamo loro eterna
riconoscenza, ed è ben giusto che essi facciano la parte del leone nel
mondo così generosamente liberato e saggiamente pacificato.
E se poi, per caso, qualcuno osasse avanzare dei dubbi sul "nuovo ordine
mondiale", non già per nostalgia del fascismo o del comunismo, ma per
amore di verità e giustizia, allora non potrebbe trattarsi che di un
nemico pubblico, indegno di far parte del consorzio civile: di un
mostro, appunto, da trascinare solennemente in giudizio, affinché la sua
condanna risulti esemplare…
Francesco Lamendola