INTRODUZIONE
Giorgio Vitali
«… un grande condottiero è al
tempo stesso un capo d'idee …»
V. Hugo, "Novantatre"
«Scrivere un libro di chimica senza saperla non riesce. Ma scrivere
un libro sulla democrazia per darsi lustro seguendo le parole
d'ordine di moda riesce benissimo»
Giovanni Sartori
«In democrazia nessun fatto di vita si sottrae alla politica»
Mohandas Gandhi
«Fa scaturire la vittoria dalla
giustizia, impedisci al forte di prevalere ingiustamente sul debole,
e persegui il Bene di tutto il popolo»
Shamash. Dio del Sole babilonese, a Hammurabi, 1700 Aev. |
Un raro esempio di coerenza: dalla R.S.I. alla
F.N.C.R.S.I.
«Esistono due storie: la storia
ufficiale, menzognera… e la storia segreta, in cui si rinvengono le
vere cause degli accadimenti. Una storia vergognosa»
Honoré de Balzac
«Modificare il passato non è modificare un fatto isolato; è
annullare le sue conseguenze, che tendono ad essere infinite»
J. L. Borges, "L'Aleph"
«Dopo un tempo di declino viene il punto di svolta. La luce intensa
che era stata scacciata ritorna. C'è movimento, ma non è determinato
per violenza…»
F. Capra, "Il punto di svolta"
«La lotta politica non si arresta mai, e la propaganda non può mai
scioperare»
S. Tchakhotine, "Lo stupro delle folle"
«Ex fructibus eorum cognosetis eos» [«Dai loro frutti dunque li
potrete riconoscere»]
Mat, 7, 16.
«La guerra ed il coraggio hanno operato cose più grandi dell'amore
del prossimo»
F. Nietzche, "Così parlò Zaratustra", "Della guerra e dei guerrieri"
«Ma se un Re può diventare un ex-Re, è escluso comunque
che un buffone possa diventare un ex buffone»
V. Vassilikos, "Il Monarca"
«Già dal tempo della Resistenza avevo capito che i giochi erano
ormai fatti, e fatti molto male. Quello che accadde dopo, (ovvero la
cacciata della monarchia, che fu l'unico successo della Resistenza;
la democrazia fondata su una Costituzione, che conteneva un articolo
assolutamente inaccettabile, l'art. 52, che rimetteva saldamente in
sella la casta militare quasi tutta monarchica e reazionaria), mi
deluse ma non mi sorprese:
il fallimento della Resistenza lo avevo previsto già da tempo»
Carlo Cassola, "Conversazione su una cultura compromessa". Antonio
Cardella (a cura di)
«La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore ed il nuovo non
può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi
più svariati»
Antonio Gramsci
«Le idee degli economisti come quelle dei filosofi politici, sia
giuste che sbagliate, sono più potenti di quanto generalmente si
pensi. In verità il mondo è governato da poco d'altro. Uomini
pratici che si credono esenti da qualsiasi influenza intellettuale,
sono di solito gli schiavi di qualche economista defunto»
John Maynard Keynes
«Uomini di parte saremo. Perché ci ripugnano tutte le neutralità e
tutti gli eclettismi.
Partitanti come ci insegnò l'Alighieri, come ci piacque amare il
Maremmano
nella sua maschia virilità e il nostro Pascoli nella sua prima
giovinezza.
Avremo non una tessera, ma un pensiero ed una fede»
Aldo Spallicci, medico romagnolo, poeta, mazziniano, volontario
della Iª guerra mondiale
«I sovrani legittimi non possono mai trovarsi in seno alle armate
straniere»
Napoleone. |
La Repubblica Sociale Italiana (1943-1945) fu, come sanno anche gli storici seri
ed i nostri avversari, un fenomeno di massa. Non spetta a noi, in questo
contesto, citare numeri e dati statistici. Si trovano ovunque. Basti ricordare
che l'Esercito della RSI era composto di quattro Grandi Unità: "Italia", "San
Marco", "Monterosa" e "Littorio"; battaglioni costieri e del genio, reparti
autonomi di volontari, reparti territoriali comandi, etc.. per un totale di
143.000 uomini; la Marina contava su 26.000 uomini (tra cui la divisione Decima:
6.000), l'Aeronautica 79.000 (tra cui Folgore e Nembo, 4.000), 100.000 i
volontari in ausilio di forze tedesche, non contando i 10.000 della Legione
Italiana SS. Infine, 150.000 della Guardia Nazionale Repubblicana (Carabinieri,
Guardia di Finanza, Milizia, Milizia Confinaria, etc.), nonché le Brigate Nere.
Il noto card. Schuster, nel suo noto libro bianco, elencava un totale di
1.500.000 uomini in armi fra italiani e tedeschi. Sulle cifre c'è sempre da
discutere, perché l'esagerazione e la minimizzazione fanno parte integrante di
qualsiasi esposizione storica che si compiace di definirsi "scientifica" o,
peggio, "religiosa" come dimostrano certi resoconti "biblici" che molti fedeli
continuano a considerare veritieri. Tuttavia è logico partire da queste cifre,
anche facendo riferimento ad opere di largo respiro come "Gli ultimi in
grigioverde" di Giorgio Pisanò, o all'altrettanto noto "La resa degli 800.000"
di Ferruccio Lanfranchi per avere un'idea approssimativa del fenomeno RSI,
contro le molte insinuazioni ed omissioni tendenti a minimizzarlo.
Premesso pertanto che un esercito di quest'entità non si può improvvisare in
pochi mesi se non c'è unanimità di consensi nella società a cominciare dalle
famiglie, un esempio penoso di pratiche mistificatorie che denotano un
inevitabile complesso di inferiorità è l'espressione "Repubblica di Salò"
inventata ed usata per indurre un riflesso condizionato e far pensare ad un
territorio di dimensioni ridotte, mentre la repubblica amministrava, alla
fondazione, un territorio pari ai due terzi dello stivale.
Altra parola utilizzata a tal fine è "repubblichini" per significare i
combattenti e gli aderenti alla Repubblica «Sociale».
Poiché però le parole assumono il significato che la realtà loro assegna, questo
termine, escogitato con intenti spregiativi, ha perso in breve tempo questa
connotazione per esprimere una realtà umana e numerica a se stante, da tutti
accettata. Al contrario, il tentativo messo in atto nell'immediato dopoguerra di
chiamare "patrioti" gli italiani dell'altra parte è subito fallito, per cui oggi
si continua a chiamarli "partigiani", parola che esprime inequivocabilmente un
contenuto "di parte". Ed infatti costoro rappresentavano e continuano a
rappresentare "una parte", peraltro molto ristretta, della popolazione italiana,
anche perché fra di essi erano in molti i non-italiani, oltre a quelli che,
italiani di nascita, facevano professione di antitalianità in quanto, illusi, si
identificavano con l'internazionalismo comunista. Pertanto, sistemate le parole
dentro il loro significato, a noi spetta invece il compito di mettere in chiaro
alcuni concetti sui quali molti autori dei due schieramenti, hanno il vezzo di
sorvolare. Altrimenti non avrebbe alcuna ragion d'essere la prefazione ad un
testo che si spiega da solo, costituendo la storia di una realtà sociale e
politica che durante tutto il dopoguerra e fino ad oggi ha seguitato ad
esprimere una «linea ideologico-politica rigorosamente lineare oltreché
inequivocabile».
A tal fine, poiché non dobbiamo scrivere un trattato, anche perché
sull'argomento si è scritto e si continua a scrivere molto, concentreremo alcuni
elementi conoscitivi in piccoli capitoli utili a fare il punto della situazione
attuale, cioè della vita politica della nostra nazione.
La Repubblica Sociale fu una Forma-Stato compiuta
Stupisce come, leggendo le tante opere sull’argomento, per lo più autobiografie
di personaggi più o meno importanti che si trovarono implicati in quella storia,
pochi abbiano pensato di illustrare un fenomeno per lo meno inconsueto. Non
soltanto l’altissimo numero delle adesioni al Partito Fascista Repubblicano
l’altrettanto alto numero dei volontari, giovanissimi e persone mature, la
sostanziale fedeltà della Milizia, ma anche la piena copertura delle posizioni
della tradizionale autorità dello Stato a livello provinciale: prefetti,
questori, presidenti di tribunale, magistrati d’ogni grado e livello.
Un miracolo, se si pensa che, come si dice, l’Italia era allo sbando,
paragonabile ai cento giorni di Napoleone, ed all’estrema dedizione degli
uomini, già provati dalle campagne precedenti, durante l’ultimo enorme sforzo
conclusosi a Waterloo. Ma ciò che maggiormente si cerca, forse inconsciamente,
di celare è il fatto incontestabile che tutto il sistema funzionò egregiamente
durante l’anno e mezzo di esistenza della Repubblica, nonostante le innegabili
difficoltà di approvvigionamento, aggravate dai bombardamenti angloamericani e
dall’interferenza dei tedeschi. Un miraggio se si pensa ai disservizi che siamo
costretti a subire oggigiorno. Tutto ciò ha comportato la sostanziale tenuta
dell’apparato statale e della popolazione, invano intaccata da attentati ed
omicidi di uomini politici, per lo più fascisti "moderati" e disponibili al
dialogo, perpetrati con l’intento di creare scompiglio e disordine.
Sull’argomento si è scritto poco anche perché gli storici ed i cronachisti si
sono finora interessati più a magnificare l’estensione e la gravità di questi
omicidi o a sottolineare l’atrocità della "guerra civile". Va colta l’occasione
per ricordare un’identica tenuta dimostrabile anche nella Francia del Presidente
Pétain, a dimostrazione che tanto in Italia quanto in Francia l’atteggiamento
antinglese non è mai stato minoritario né è mai venuto meno, avendo per di più i
francesi non poche ragioni storiche per questo sentimento che riemerge sempre
quando i tempi ne ricreano la possibilità d’espressione. Fra i tanti francesi
occorre ricordare il caso di Pierre Laval, presidente del Consiglio di Pétain,
eletto inizialmente nelle file del Fronte Popolare, socialista da sempre, (come
Mitterrand peraltro), non a caso fucilato nell’immediato dopoguerra.
Ci rendiamo conto, peraltro, che è molto difficile per i posteri, cioè per le
giovani generazioni, la comprensione dei fenomeni complessi del passato se non
vissuti personalmente. Goethe scriveva che «nessuno può giudicare la storia se
non chi ha vissuto la storia in se stesso».
È sicuramente per questa ragione che spesso le tragedie, se si vuole riviverle
senza le stesse passioni, si trasformano in farse. D’altronde il particolare
impedimento alla comprensione viene proprio dalla polarizzazione ideologica, per
cui risulta difficile associare un evento ad una motivazione che non si riesce
ad interpretare per i propri limiti culturali. È per questa ragione che spesso
il comportamento di molti repubblichini può apparire contraddittorio o anche
conflittuale, com’è stato facile constatare negli ultimi decenni studiando i
«fascisti senza Mussolini».
Inoltre non possiamo ignorare l’ignobile campagna di diffamazione contro il
fascismo, tentata fin dalla nascita del movimento stesso e subìta dalla
maggioranza degli italiani dal dopoguerra ad oggi. Questa operazione è stata
illustrata magistralmente da Augusto Del Noce. Secondo lo storico d’estrazione
cattolica, il fascismo è stato rappresentato, di volta in volta, come una sorta
di barbarie irrazionale ed oscura, poi come esito della coalizione di tutte le
forze conservatrici e reazionarie a difesa d’interessi particolari. In questa
prospettiva il fascismo è identificato come un’entità a se stante e, nel
contempo, caratterizzato come male assoluto, mitizzato come un abisso di
negatività al di fuori di qualsiasi analisi critica e storica. Da ultimo,
trasformato in una sorta di essenza, il fascismo diviene la categoria alla quale
ricondurre tutti gli aspetti legati alla tradizione, alla metafisica, al tema
dell’autorità etc. secondo uno schema per cui non si può affermare la tradizione
senza essere nel contempo, almeno incoativamente, fascisti e repressivi.
Ovviamente a noi interessa solamente sottolineare gli aspetti di infantilismo
correlati con l’uso indiscriminato dell’offesa gratuita. Solo i bambini,
infatti, si offendono reciprocamente ricercando affannosamente e compulsivamente
l’epiteto che ritengono possa ferire maggiormente l’avversario. Va da sé che
qualsiasi movimento politico che si affaccia come autenticamente innovativo
sullo scenario storico, incontra inevitabilmente l’ostilità di coloro, e sono i
più, che temono qualsiasi cambiamento. È quindi proprio dalla massa di offese
acrimoniose che il fascismo riceve dai soliti nemici che noi deduciamo la sua
intrinseca positività. Naturalmente, è bene chiarire che se la RSI è stata
costituita da fascisti, non tutto il fascismo si identifica nella Repubblica,
anche se questa ne rappresenta gli aspetti più innovativi e rivoluzionari.
Natura giuridica della RSI
«Nessun progetto politico nasce
in laboratorio, ma è il frutto di percorsi storico-culturali fondati
sulle identità storiche. (...) Così capita spesso nella storia dei popoli:
c'è un savio, ed i mediocri lo chiamano pazzo, e si reputano savi
perché mediocri. Prendono un'idea del savio e per farla propria la
tagliano a metà: dimezzata, la trovano della propria statura. Ma
quando non esce bene danno la colpa al savio, che la pensò intera,
alta, viva, e dicono che era l'idea di un pazzo
e non poteva andar
bene»
Giuseppe Prezzolini, "Vita di Niccolò Machiavelli", Mondadori, 1948
«Non sono esploratori coloro che negano
l’esistenza di una terra quando vedono solo il mare»
Francesco Bacone |
Un principio fondamentale della società civile sostiene che la legittimità di un
Istituto pubblico proviene dai suoi atti.
L’autorità si esprime attraverso la capacità di elaborare leggi entro un quadro
normativo in precedenza accettato, e soprattutto di far rispettare queste leggi.
Questa è la realtà fattuale costituita dall’azione di governo della RSI.
Inoltre, occorre non dimenticare che erano pronte per essere votate anche due
differenti versioni della Costituzione, preparate da Carlo Alberto Biggini e da
Vittorio Rolandi Ricci. Ne abbiamo una compiuta documentazione nel saggio di
Franco Franchi: "Le Costituzioni della Repubblica Sociale Italiana" edito da
Sugarco nel 1987.
Queste Costituzioni non furono votate per una sorta di debolezza istituzionale.
Si preferì delegare l’aspetto innovativo, ma consequenziale con l’evoluzione
dottrinaria del fascismo, al Congresso del Partito Fascista Repubblicano, il
quale però rappresentava solo una parte della Repubblica. Non era la "Repubblica
Sociale". Con il senno del poi, ma anche alla luce dell’esperienza storica, noi
riteniamo che una volta che si è dato vita ad un’iniziativa politica, questa
vada eseguita fino in fondo, come molto opportunamente l’insegnamento della
Repubblica Romana del 1849, Stato che non esitò a definire i propri connotati
pur avendo ormai in casa i francesi intenti a restaurare il potere dei papi.
Quella costituzione rappresenta una pietra miliare nella storia dei popoli. E,
d’altronde, sulla base del numero dei votanti rispetto a quello degli esclusi
contro la propria volontà, la costituzione dell’attuale repubblica, brogli a
parte, è da considerarsi del tutto illegittima.
Se si considera che oggi, con un governo di centrosinistra in carica ma
controllato direttamente, come già tante altre volte, dal potere finanziario, il
lavoro in tutte le sue manifestazioni è sempre più penalizzato e spesso
ignorato, come dimostra l’azione dei cosiddetti "Sindacati di Regime" che non
trattano più il lavoro ma gli interessi di sopravvivenza di pensionati o
disoccupati, ignorando del tutto il lavoro dei Quadri, espressione quanto mai
evidente dell’evoluzione intellettuale del lavoro dipendente, risulta piuttosto
indicativo quanto scrive Franco Franchi: «C’è assoluta linearità e coerenza
nell’evoluzione di quest’idea: dagli "Orientamenti teorici e postulati pratici
dei Fasci Italiani di Combattimenti" (1920), al "Programma del Partito Nazionale
Fascista" (1921), alla "Disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro"
(1926), alla "Carta del Lavoro" (1927), alla "Dottrina del Fascismo" (1932),
alla "Costituzione e funzione delle Corporazioni" (1934), ai 18 Punti del
"Manifesto di Verona" (1944), al decreto legislativo del Duce per la
"Socializzazione delle Imprese" (1944), alla "Premessa fondamentale per la
creazione di una nuova struttura dell’economia italiana" (1944)»
Ma la sovranità si esprime anche e soprattutto dal possesso (signoraggio) sulla
moneta. Così, mentre il governicchio del sud doveva vedersela con le "AM-lire",
moneta d’occupazione priva di valore reale, BASATA SU UN CAMBIO LIRA/DOLLARO uno
a 100, che provocò aumenti dei prezzi fino a 40 volte il livello del 1943, il
costo della vita aumentò del 750% a fronte di salari aumentati solo del 30%,
secondo una tecnica applicata agli italiani fino ad oggi, la Repubblica Sociale
Italiana "socializzava" in primis la moneta, grazie all’operato del Ministro
delle Finanze Pellegrini Giampietro, chiudendo in attivo il bilancio dello
Stato, si tratta di 20 miliardi e 900 milioni «vecchio conio» ceduti al
sopravveniente e parassitario governicchio del sud, tanto che nell’aprile 1945
la lira repubblicana valeva tre volte di più di quella sudista, situazione
impensabile anche nell’Italia attuale, governata direttamente ed in prima
persona dagli uomini al servizio della finanza internazionale.!
Le AM-lire (Allied Military Lire Currency), stampate da due aziende americane,
cessarono di essere moneta d’occupazione dal dicembre 1946 e furono equiparate
alle emissioni normali fino al 3 giugno 1950, quando, avendo svolto egregiamente
la loro funzione inflattiva, furono ritirate dalla banca d’Italia. Per la
verità, anche le truppe inglesi avevano messo in circolazione le loro monete
d’occupazione, che furono prontamente ritirate di fronte ai preminenti interessi
economico-finanziari statunitensi.
Il Pellegrini fin dall’inizio del suo mandato, aveva espresso questo programma
essenziale: a) Ripresa dell’attività finanziaria dello Stato nell’interesse
esclusivo dell’Italia unitaria con il ripristino delle Intendenze di Finanza.
b) Difesa ad oltranza del potere d’acquisto della lira.
c) Controllo della circolazione monetaria.
d) Tutela assoluta degli interessi economici e finanziari dell’Italia, in ogni
settore ve con tutti i mezzi.
Gli americani, nell’immediato dopoguerra, così si esprimevano in una loro
relazione ufficiale: «La situazione economica dell’Italia settentrionale è molto
migliore non solo rispetto alle altre regioni dell’Italia centrale e
meridionale, ma anche in confronto di altri paesi europei come Norvegia, Olanda,
Belgio e certe zone della Francia».
Questo dato di fatto dovrebbe far riflettere per una serie di ragioni, fra le
quali non è un caso che il Sud costituisca, Mafia a parte, un peso economico
apparentemente insuperabile per tutto il paese e che se è esistita una
"Ricostruzione" detta anche "miracolo italiano" è probabile che tutto sia
derivato dall’«avanzo di cassa» donato dalla RSI alla repubblica antifascista.
Una piccola digressione. Jean Bodin, (1530-1596) giurista francese fiorito fra
il Rinascimento e l’Illuminismo di cui fu un precursore, per una significativa
coincidenza fu colui che pose con grande rigore giuridico le basi teoriche dello
Stato di Diritto e fissò il concetto di sovranità come summa in cives ac
subditos legibusque soluta potestas. La questione è piuttosto semplice, ed
attiene ad un principio universalmente riconosciuto: il potere risiede ove viene
di fatto esercitato.
Il discorso è ovviamente complesso e non riguarda questa prefazione, tuttavia è
necessario fornire ulteriori informazioni in merito, visto che non si trovano
facilmente nei testi in circolazione. D’altronde, l’elaborazione concettuale più
completa alla luce di una riflessione sui nuovi concetti di diritto
costituzionale per la futura ineluttabile società della NUOVA EUROPA, proviene
da un pensatore come Carl Schmitt, le cui opere più importanti sono state
ripubblicate di recente ("La Dittatura", Settimo Sigillo, 2006; "Il Nomos della
Terra", Adelphi, 1991) che non appartiene di certo al mondo intellettual
burocratico delle democrazie d’importazione anglosassone.
Anche a voler considerare legittimo il governo fellone del sud, sta l’evidenza
che: «dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, la sovranità di fatto, o
meglio l’autorità del potere legale nella parte d’Italia ove tale governo
risiedeva, fu esercitata dalle potenze alleate occupanti, come dimostrato
dall’immediata messa in circolazione delle AM-lire. E ciò non poteva essere
altrimenti dal momento che, durante il regime d’armistizio permaneva lo stato di
guerra e l’occupante era sempre giuridicamente "il nemico". Alexander, già a
Cassibile, era stato chiarissimo e soprattutto giusto: "Avendo combattuto per
tanto tempo contro gli anglo-americani gli italiani non avrebbero mai potuto
essere trattati come alleati". Infatti, tutte le leggi e tutti i decreti,
compresa la legge sulle sanzioni contro il fascismo (ordinanza n. 2 della
Commissione alleata in data 27 aprile 1945) ricevevano piena forza ed effetto di
legge a seguito di ordine degli alleati. Pertanto, quello del cosiddetto (N.d.R.)
re era un governo che esercitava il suo potere sub condicione, nei limiti
assegnati dal comando degli eserciti nemici». Sentenza n. 747 del 26 aprile 1954
del Tribunale Supremo Militare (ora: Procura Generale Militare presso la Corte
Suprema di Cassazione).
In tal modo era evidentemente negata la funzione insita nella parola "rex", che
sottintende una "potestas" ormai, per il Savoia, priva di significato. Tant’è
vero che la monarchia è facilmente precipitata nel discredito, sostenuta
soltanto dal discredito ancora superiore che la popolazione italiana sentiva nei
confronti del comunismo.
Ciò significa che, in ogni caso, tale governo, sempre se supposto legittimo, non
poteva avere alcuna giurisdizione nel territorio controllato dalla RSI, che
peraltro sovrintendeva buona parte del territorio nazionale, non avendo il
minuscolo reame giurisdizione nemmeno sul contado costituito da alcune province
controllate sotto mandato alleato. E poiché il governo di detta Repubblica,
(governo di fatto sia pure a titolo provvisorio), che oltretutto manteneva
relazioni diplomatiche con non pochi Stati, emanava leggi senza la preventiva
autorizzazione del governo tedesco e spesso contro di esso; e non solo
esercitava de facto la sovranità ma i suoi combattenti, che indossavano una
specifica divisa, devono essere considerati a tutti gli effetti belligeranti. Si
tratta di una "presa d’atto" che l’opinione pubblica ha sempre fatto, sia pure a
malincuore, quando ha dovuto pubblicare (pressoché costantemente, visto che di
questi argomenti si scrive ogni giorno) malgrado pressioni politiche e
disinformazioni varie.
Si potrebbe obiettare che certe disposizioni erano funzionali all’alleanza
strategica col potente apparato militare germanico, ma nella sostanza i trattati
furono rispettati, gettando nel ridicolo qualsiasi pretesa dei regimi
postbellici di rappresentare un’ipotetica "Italia Libera".
Lo stesso Decreto Legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1944 n. 249, emanato in
regime di sudditanza ma nella previsione della vittoria alleata, pur
discriminando le leggi emanate dal governo repubblicano con contenuto politico,
cioè le norme relative alla "socializzazione", riconosce implicitamente la
validità e l’efficacia degli atti d’ordinaria amministrazione della RSI, in
quanto attuati sulla base della legislazione preesistente la quale, pur se
controfirmata dal sovrano, in realtà era stata elaborata dagli esponenti
giuridici del Regime.
Su questo argomento, e sul persistere delle leggi fasciste a decenni della
cosiddetta fine del Regime, sarebbe lecito esprimere qualche opinione, che non
può che essere negativa sulla "reale consistenza" dell’attuale repubblica, (è
sufficiente il solo articolo primo della Costituzione, che esprime lo «scopo
dello Strato italiano»), ma essa esula da questa trattazione.
Bastino in questo caso due considerazioni.
1) La Storia non è mai stata creata, per ovvie ragioni, da "governi legittimi".
Al contrario, il progresso è sempre avvenuto grazie ad atti rivoluzionari, più o
meno mascherati di legittimità. Infatti, ci si richiama ad ipotetiche
legittimità solo quando si deve rispondere a qualche padrone, mentre un atto
considerato a posteriori come rivoluzionario non può essere percepito come tale
dai contemporanei, che ne colgono con molta difficoltà le componenti innovative.
2) Un caso esilarante (ed umiliante per tutti gli italiani) è costituito dalla
dichiarazione di guerra presentata dal governo Badoglio a Germania e Giappone.
Indagando di recente sulla questione, uno storico italiano ha scoperto che mai è
stato firmato un trattato di pace fra l’Italia post 1945 e queste due Nazioni.
La ragione, pochissimo recondita, consiste nel fatto che il governo del
regnicolo non aveva l’autonomia sufficiente per fare passi diplomatici di tale
importanza e quindi queste velleitarie dichiarazioni, peraltro accettate con
disprezzo dai destinatari, risultano inesistenti. Per ulteriori informazioni è
utile consultare di Roberto Bonini, docente universitario, "La Repubblica
Sociale Italiana e la socializzazione delle imprese dopo il Codice Civile del
1942", Giappichelli Editore, Torino, 1993.
Legittimità etica e storica della RSI
«Eppure dalla storia non
possiamo aspettarci che delle sorprese. Sorprese sordide e nello
stesso tempo magnifiche. Magnifiche perché l'imprevisto arricchisce
spiritualmente. Sordide perché, per ottenere novità, la storia crea
legami illeciti, scandalosi, fra elementi che sembravano
inconciliabili. Lo spirito aveva fatto alcuni piani che adesso
vengono mandati all''aria nella misura in cui si sono realizzati su
strade impreviste ed un po' complesse»
Pierre Drieu La Rochelle, "Socialismo fascista", 1934
«Si sa bene che ci vorrebbe una maggiore dose di
coraggio a svincolarsi dagli obblighi morali; quantunque non sia
mancato chi nel furore dionisiaco dell’estro poetico e filosofico
pretendesse di stare per suo conto al di sopra del bene e del male.
Che era poi un equivoco, perché questo collocarsi al di sopra dei
correnti criteri morali era, e sarà sempre, se effetto di
riflessione e di bisogno d’elevazione spirituale, esso stesso una
risoluzione morale per attuare più alto regno dello spirito in una
forma di moralità superiore»
Giovanni Gentile, "Genesi e struttura della società", Le Lettere,
2003 |
Nel 1530, in mezzo al decadimento generale del patriottismo e d’ogni grande
sentimento in Italia, la strenua opposizione dei fiorentini a Carlo V,
opposizione che fu detta dai contemporanei «da matti» salvò l’onore italiano.
Succede spesso, pertanto, che avvenimenti apparentemente privi di significato,
rappresentino invece un alto valore aggiunto per la sopravvivenza del legame
sociale e nazionale. Tanto più che la politica estera d’Italia, fin prima del
secondo conflitto mondiale, fu determinata da una totale assenza di
pregiudiziali ideologiche. Ma fu dopo l’avvento di Roosevelt al potere negli USA
che la strategia geopolitica di quel paese fu modificata, essendo il capitalismo
americano interessato per ragioni di sopravvivenza identicamente a quanto sta
accadendo oggi, a scatenare una guerra, per cui passò del tutto inosservata o fu
volutamente ignorata l’importanza dell’Italia come garante di stabilità politica
in Europa.
Questa ineccepibile strategia, che si riflette anche nel comportamento
mussoliniano durante il conflitto e nei rapporti con i responsabili della
politica inglese, è messo in evidenza nel recente libro di Manfredi Martelli,
"Mussolini e l’America", edito da Mursia.
A tal proposito è interessante, soprattutto per sfatare i troppi luoghi comuni
che ci affliggono, un libro non nuovo edito dalle Edizioni di Cultura Sociale
nel 1953. Si tratta di "Così si fanno le guerre!". L’autore è Albert Norden. In
questo libro sono documentate, almeno fino al 1952, le interconnessioni fra il
capitalismo anglo statunitense e quello mitteleuropeo, causa non ultima dello
scatenamento del primo e del secondo conflitto mondiale, al quale, invano
cercarono di opporsi personaggi come Mussolini e papa Pacelli (vedi: Edgardo
Sulis, "Storia della seconda guerra mondiale"). Una conferma a queste tesi ci
viene anche dal recente libro di Antonella Randazzo, "Dittature. La storia
occulta". Il Nuovo Mondo ed.
Pochi, anche se lo sanno teoricamente percepiscono il significato del fatto che
la causa prima del secondo conflitto mondiale deve esser fatta risalire alla
crisi del 1929. Cioè alle speculazioni finanziarie che avevano sede negli USA e
che sottintendevano alla politica di liberalizzazione imposta da Wilson, a sua
volta sostenuta dalle 200 multinazionali protese alla conquista del mondo e già
influenti sui partiti, soprattutto il democratico da cui proveniva Roosevelt.
(Vedi: di Vincenzo Caputo, "Da Sarajevo a Pearl Harbour. Gli angloamericani alla
conquista del mondo". Settimo Sigillo, 1999 e Lionel Robbins, "Le cause
economiche della guerra", Einaudi, 1944).
Difficilmente l’italiano medio di oggi, frastornato dalla filmica hollywoodiana
veicolata in Italia dalle emittenti berlusconiane, può immaginare quale fosse il
livello di povertà (alla quale si stanno nuovamente avvicinando tante
popolazioni), degli strati più deboli della popolazione statunitense dopo quella
grande crisi, ma un libro scritto da un noto autore, pubblicato in Italia nel
1939, ce ne rende edotti. Il libro s’intitola "Dobbiamo salvarli? La
sopravvivenza dei fanciulli negli USA. Contrasto tra progressi della scienza ed
interessi economici". L’autore è nientemeno che quel De Kruif, autore del famoso
"Cacciatori di microbi". Sembra di leggere uno dei tanti appelli che oggi si
riferiscono ai bambini africani!
Scrive il generale Alexander nel suo memoriale: «L’Italia era nel 1943 in una
posizione militare diversa da quella in cui si trovava la Germania nel 1945,
completamente battuta sul terreno delle armi. Questo non era il caso
dell’Italia… La resistenza certamente era ancora possibile… e l’esperienza del
Governo Fascista Repubblicano dimostrò che un governo italiano avrebbe potuto
continuare a funzionare ed a esercitare la propria autorità sulla maggior parte
dell’Italia per un lungo periodo. (…) Dopo la fuga di Badoglio e del Re le
difficoltà dei tedeschi non furono aggravate e lo furono in modo insignificante
dalle forze italiane della resistenza».
Rincara la dose Eisenhover: «La resa dell’Italia fu uno sporco affare, tutte le
nazioni elencano nella loro storia guerre vinte e guerre perdute, ma l’Italia è
la sola ad aver perduto con questa guerra anche l’onore, riscattato in parte
solo dal sacrificio dei combattenti della Repubblica Sociale».
Tuttavia, se i militari non hanno difficoltà a bollare i felloni per quello che
sono, la linea politica atlantica per tutto il lungo dopoguerra (ed ora stiamo
vivendo in un’altra lunghissima guerra chiamata eufemisticamente: guerra al
terrorismo), non ha certo esaltato i badogliani, dovendo tutelare un minimo di
prestigio militare alle truppe italiane inserite nella NATO, ma gli storici
americani "accreditati" non hanno mai pubblicato documenti definitivi su quel
periodo.
Geopolitica e geostrategia della RSI. Funzione politica dell'otto
settembre
«Annientare le plutocrazie
parassitarie e fare del lavoro, finalmente, il soggetto
dell'economia e la base infrangibile dello Stato. La nostra volontà,
il nostro coraggio, la nostra fede, ridaranno all'Italia il suo
volto, il suo avvenire, la sua possibilità di vita ed il suo posto
nel mondo»
Radiodiscorso da Monaco di Baviera, 18 settembre 1943.
«Si ricorda cosa si dice dei Principi che lasciano il loro paese?
Partire, quando il paese è in pericolo, è il disonore e l'onta per
sempre. Se parto, non abbiamo più che da nasconderci.
Nei momenti gravi bisogna avere energia e coraggio»
(Maria Clotilde di Savoia al padre Vittorio Emanuele II, il 25
agosto 1870,
da Parigi, dopo la grande sconfitta francese)
«Nel gioco delle drastiche contingenze, la RSI prese corpo nel mio
spirito non come un'improvvisazione, ma come una conclusione. Dove
non era riuscito il regime, doveva riuscire la repubblica».
O. Dinale, "Quarant'anni di colloqui con Lui", Ciarrocca ed. |
Un elemento essenziale per il giudizio storico sulla RSI è la sua geopolitica,
cioè il sistema delle alleanze e le strategie elaborate con i governi degli
Stati alleati. Sarebbe logico pensare che, in quelle condizioni, le alleanze
fossero per così dire obbligate; tuttavia, se teniamo conto delle linee
strategiche dell’ideologia mussoliniana, chiunque dovrebbe convenire che questa
è stata coerente per tutto l’arco della conduzione della vita pubblica
nazionale, compreso il periodo della campagna per l’entrata in guerra d’Italia
contro gli Imperi Centrali, spesso contro la maggioranza degli esponenti della
classe dirigente economico-politica, monarchica e fascista che fosse. Infatti,
se leggiamo con attenzione i discorsi di Mussolini, e non solo i più importanti
pubblicati di recente da "l‘Espresso", vi troviamo difficilmente un attacco
diretto al regime comunista russo (il ché non significa che egli approvasse il
marxismo o la sua applicazione bolscevica), mentre in ogni occasione utile il
Duce si sforza di esplicitare, spesso con intenti educativi per le masse, la sua
chiarissima posizione antiliberale, o per meglio dire, antioccidentale.
D’altronde… «L’intento dell’élite anglosassone non era quello di sradicare la
mentalità nazifascista, ma di costruire un dopoguerra utile ai loro intenti di
dominio sul mondo intero: non era importante che emergesse come la gente inerme
fosse stata massacrata ovunque, ma che la Germania di Hitler fosse considerata
l’unica responsabile, e che gli angloamericani fossero visti come i liberatori
dei popoli. (…) Gli inglesi speravano di distruggere la potenza sovietica
attraverso una guerra scatenata dalla Germania mentre gli americani volevano una
grande guerra per destabilizzare l’Europa ed acquisire un maggior controllo
attraverso le ricostruzioni successive» (A. Randazzo, op. cit.)
Sul tema delle "linee guida" di politica nazionale che hanno improntato lo
scontro politico interno del nostro paese dall’unità (1848-1896, data della
sconfitta di Adua) ad oggi, occorre avere le idee chiare, perché la ragione
essenziale che portò alla divergenza ed alla rottura definitiva fra la FNCRSI ed
il partito egemone di uno specifico movimento politico, con proprie connotazioni
ideologiche ed operative del neofascismo: il MSI, fu proprio la scelta
atlantista di quest’ultimo.
Dal netto rifiuto della scelta atlantica da parte della nostra Federazione
nacque quella scissione che ridusse di molto la nostra capacità di manovra, non
riuscendo tuttavia ad intaccarne i princìpi informatori e lo spirito
d’indipendenza, il quale, sia detto per inciso, non poteva esercitarsi che
contro i detentori del potere in quest’area del globo. Ma sarebbe del tutto
superfluo argomentare ulteriormente sull’atlantismo, in un momento quanto mai
drammatico per l’intero pianeta che permetterebbe a chiunque di costatare fin
dove può trascinare un’alleanza giugulatoria, della quale non si conosce bene
l’origine. Infatti, siamo ancora in attesa di conoscere, in nome della tanto
decantata trasparenza, la forza coercitiva dei patti segreti sottoscritti dal
governo italiano nel famigerato "trattato di pace". Superfluo, inoltre,
ricordare che un partito come Alleanza Nazionale trae la sua legittimazione
oltre al suo ipotetico diritto al governo del nostro paese, proprio da quella
strana cosa che molti definiscono «libera scelta».
Dobbiamo al libro postumo di Franco Bandini, "1943: L’estate delle tre
tavolette" edito da Gianni Iuculano la conferma di molte ipotesi, mai
riscontrate in documenti ufficiali ma giustificate da testimonianze raccolte nel
tempo. Invero, i fatti effettivamente accaduti nell’ultimo conflitto mondiale
trovano una spiegazione che è molto lontana da quanto è abitualmente raccontato
ed accettato come conseguenza logica di certe particolari premesse peraltro del
tutto supposte. (Sarebbe meglio scrivere: immaginate). Non solo per la
copresenza d’interessi ideologici, geopolitici, nazionalistici, egemonici,
economici, di approvvigionamento energetico, di produzione industriale,
demografici… e ci limitiamo a quelli maggiormente evidenti.
Franco Bandini è stato lo storico che, anche grazie alla sua attività
giornalistica, ha avuto durante l’arco dell’attività professionale la
possibilità di esporre il frutto delle sue investigazioni del tutto libere da
condizionamenti, potendo anche raggiungere un largo pubblico. Resta in ogni caso
scontato che una storiografia indipendente può incidere sull’opinione pubblica,
ma non può scalfire la storiografia ufficiale alla quale si è costretti ad
attingere e che, per quanto riguarda il nostro paese, rimane saldamente ancorata
agli interessi di carriera degli "studiosi" universitari i quali, a loro volta,
valutano non la verità cosiddetta storica, ma ciò che può far comodo al loro
individuale percorso accademico. Il caso sollevato dallo storico Moffa
dell’Università di Teramo sulla reale esistenza dei "campi di sterminio"
nazisti, sui quali ormai è molto più abbondante la letteratura negazionista di
quella filosionista, (mancano solo gli aspetti più spettacolari come i film e le
fiction), ne è un esempio.
Come ci comunica Bandini attraverso il suo libro, nel 1943 la situazione
bellica, dal punto di vista geopolitico, era statica. Tutto era fermo e tutto
era possibile. Gli schieramenti erano, essi stessi, modificabili. La conferma ci
viene da alcuni libri ancora in circolazione che qui è necessario citare. Si
tratta di "D-Day", di Stephen Ambrose, Rizzoli; "Un esercito all’alba" di Rick
Atkinson, Mondadori; "Salerno" di Hugh Pond, che ci illustrano in maniera
impietosa le difficoltà degli angloamericani nell’impatto con la "Fortezza
Europa".
Di fronte ad uno scontro, che si presentava con estrema chiarezza agli occhi dei
responsabili come un bagno di sangue sempre più crudo, tale da comportare
sacrifici enormi per le popolazioni, i governi erano totalmente liberi nelle
loro decisioni, in ogni caso giustificabili. A posteriori. Nessun’autorità
superiore avrebbe potuto condannare alcun uomo politico per il proprio
comportamento. Solo i vincitori del conflitto avrebbero avuto il diritto di
giudicare i perdenti. Ed infatti, in questo totale vuoto di autorità morale i
vincitori hanno usato il massimo della violenza per tacitare i vinti, anche allo
scopo di non fa trapelare i contatti tenuti tra i loro emissari al di fuori ed
al di sopra delle fazioni in lotta. Vedasi la documentazione esposta da
Antonella Randazzo nel libro in precedenza citato.
In questo contesto era ovvio che in ogni paese fra quelli coinvolti nel massacro
si sarebbe reso concreto uno scontro frontale fra linee di tendenza divergenti
ed a volte confliggenti… L’intento dell’élite anglosassone non era quello di
sradicare la mentalità nazifascista, ma di costruire un dopoguerra utile ai loro
intenti di dominio sul mondo intero. Non era importante che emergesse come la
gente inerme fosse stata massacrata ovunque, ma che la Germania di Hitler fosse
considerata l’unica responsabile, e che gli anglo-americani fossero visti come i
liberatori dei popoli… Gli inglesi speravano di distruggere la potenza sovietica
attraverso una guerra scatenata dalla Germania, mentre gli USA volevano una
grande guerra per destabilizzare l’Europa ed acquisire un maggior controllo
attraverso le ricostruzioni successive. In questo contesto inoltre si verificano
alcuni avvenimenti significativi: la nascita del contingente russo filo tedesco
comandato da Vlassov, e quello tedesco filo russo, comandato da Von Paulus. Due
comandanti prestigiosi ed una strana coincidenza. Evidentemente si stavano
preparando le premesse per un repentino cambiamento di fronte. Che a guerra
finita i perdenti abbiano pagato con la vita l’iniziativa intrapresa, anche per
farli tacere, è un dato scontato. Che gli stessi attori conoscevano in
precedenza.
A noi in ogni modo interessa maggiormente lo scontro latente da qualche tempo ma
molto vivace in Germania fra la linea del partito nazista e delle SS, favorevole
ad un accordo con gli inglesi (vedi, di C. Leibovitz e A. Finkel: "Il Nemico
comune", Fazi editore, 2005) e rappresentato con solare evidenza dal viaggio di
Rudolf Hess nel 1941 che fu molto meno segreto di quanto finora ci sia stato
fatto credere, ed il cui fallimento è strettamente correlato alla ridotta
influenza della vecchia aristocrazia inglese sul governo e nella società,
(dimostrato anche dalla "abdicazione" di Edoardo VIII, come risulta evidente dai
diari di Rochus Misch usciti di recente anche in Italia (R. M., "L’ultimo",
Castelvecchi, marzo 2007), e quello favorevole alla collaborazione con la Russia
degli Junkers, d’antica tradizione ostpolitik prussiana (E. Crankshaw, "Otto Von
Bismarck e la nascita della Germania moderna", Mursia), che porterà
all’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, represso con particolare ferocia
dalle SS di cui magna pars sarà quello Skorzeny che ritroviamo negli anni
settanta in Spagna nelle vesti d’agente della CIA cooperante al cosiddetto
"golpe Borghese".
È interessante anche la sorte di un altro personaggio piuttosto importante, il
generale SS Hans Kammler, responsabile di tutte le attività di ricerca sulle
armi segrete agli ordini diretti di Hitler, sparito dalla circolazione a guerra
finita, va infatti prendendo sempre più piede l’ipotesi che le due bombe
atomiche fatte scoppiare dagli USA contro il Giappone siano di ideazione se non
proprio di costruzione tedesca. Va inoltre ricordato che anche Valerio Borghese
riparerà in Spagna, dove troverà una morte scontata di quelle per le quali il
dubbio resta, ma non può essere comprovato, dopo il fallimento del predetto
presunto e molto chiacchierato "golpe" a lui intitolato. (Daniele Lembo, "La
guerra nel dopoguerra in Italia", MARO Ed; Fasanella-Pellegrino, "La guerra
civile", BUR, 2005)
Ma in Italia il quadro è, da molto tempo, più semplice. Perché la linea
anglofila è rappresentata dalla Monarchia sabauda, che deve all’Inghilterra
l’allargamento del "Regno di Sardegna" all’intero territorio nazionale, e che si
avvale di persone del calibro di un Pietro Badoglio, responsabile di Caporetto
per conto della Massoneria francese (Carlo De Biase. "Badoglio Duca di
Caporetto" e "L’otto settembre di Badoglio", "Il Borghese", 1968) nonché da
buona parte della classe dirigente fascista formatasi nelle trincee della guerra
antigermanica.
Mussolini è apparentemente isolato in questa profetica battaglia geopolitica,
nonostante la personale avversione per i tedeschi, ma i fatti dimostreranno che,
una volta spazzata letteralmente via la vecchia, statica e stanca classe
dirigente del regime, ministri, deputati, senatori, vertici del partito e della
milizia e quant’altro, sarà possibile ricreare uno Stato con uomini nuovi
animati da una visione geopolitica del tutto divergente dalla vecchia anglofilia
d’origine massonica e post-risorgimentale. Per la comprensione di quest’aspetto
apparentemente eccentrico è utile il libro di Fulvio e Gianfranco Bellini:
"Storia segreta del 25 luglio 1943" edito da Mursia nel 1993. Si tratta di un
libro che disgraziatamente non ha lasciato la traccia che meritava. Per la
precisione, lo scontro fra esponenti dell’esercito e partito nazista ha, anche
in Russia un equivalente braccio di ferro, che Stalin seppe brillantemente
prevenire con lo spettacolare attacco dalle parti di Kiev contro il generale
Nicolaj Federovic Vatutin ucciso in una "imboscata" assieme ai seicento uomini
della sua scorta, peraltro composta dai duri dell’NKVD.
Pertanto la resa dell’otto settembre e la fuga della monarchia da Roma,
appoggiata e facilitata da Kesselring (Albert Kesselring, "Soldato fino
all’ultimo giorno", Libreria Ed. Goriziana), rappresentano un atto politico
"autonomo", messo in atto non per ragioni incombenti d’interesse nazionale, che
ne costituiscono la giustificazione a posteriori, ma per assecondare una linea
politica antimussoliniana di pure ragioni geopolitiche, equivalente a quella
emersa durante il voto del 25 luglio precedente. Scrive infatti Silvio Bertoldi
("Il Regno del Sud", BUR, 2003): «… In cambio della rinuncia ad ogni resistenza
e ritorsione, addirittura in cambio dello scioglimento dell’esercito, Albert
Kesselring gli lascia libera la via Tiburtina per trasferirsi al Sud. Com’è
intuibile, dopo la guerra non si trovò nessuno dei protagonisti di quegli
avvenimenti disposto ad avallare la tesi di Zangrandi (R. Zangrandi: "1943, l’8
settembre", Feltrinelli, 1967). Meno che mai Kesselring o il suo capo di Stato
Maggiore, Siegfried Westphall, o i responsabili italiani di quel verosimile
pastrocchio. Avevano tutto l’interesse a star zitti.
Rimane il fatto che negli ultimi momenti, nell’affannata confusione del panico,
Badoglio ebbe il tempo e la calma per trasferire proprio alla sede di Bari della
Banca d’Italia 162 milioni di lire, perché va bene arrivare nudi alla meta (o
con una matita soltanto, come dirà il maresciallo), ma un po’ al riparo dagli
imprevisti è meglio. Ma ora occorre illustrare come si è arrivati a questo
spartiacque della politica nazionale.
Quanto detto non può certamente nascondere l’ignominia di una capitolazione che
resterà citata nei testi di storia di tutto il mondo come il massimo della
cialtroneria. (vedi: Gino Bambara, "Non solo armistizio. Tragico sfacelo
dell’Armata italiana in Jugoslavia").
Il danno creato all’immagine degli italiani come popolo è immenso e va anche
ricordato l’effetto deleterio sul morale di tutti i connazionali che si fecero
internare dai tedeschi, oltre alla crisi creata nell’animo di tutti quelli che
erano da qualche tempo prigionieri degli alleati, ed al quale reagirono con gran
coraggio i soli non collaborazionisti, soffrendo angherie ed umiliazioni. Come
ci ricorda un sociologo molto noto, Ron Hubbard, in un suo libretto dal titolo
"Integrità ed onestà", ogni comportamento tanto individuale quanto collettivo
che non attiene all’esecuzione di uno o più codici morali, decreta la "morte"
dei gruppi e dei singoli. Che anche se non è fisica, ci si avvicina molto.
La crisi del "sistema Italia", la crisi dei costumi e delle classi dirigenti, la
decadenza civile, l’assenza di una Giustizia capace di garantire le convivenza,
qualsiasi convivenza, la proliferazione delle mafie e delle camorre sono tutte
conseguenze dell’equivoco morale generato dall’aver voluto giustificare se non
esaltare l’otto settembre. Se esiste la depressione, malattia esiziale che
riguarda l’immagine esistenziale che ciascun individui ha de sé, a maggior
ragione esiste e si propaga per decenni una "depressione civile" che si
sostanzia nel cinismo delle giovani generazioni, nel fallimento dei processi
educativi pubblici, nell’impotenza delle precedenti generazioni di fronte a
manifestazioni d’anarchismo inconcludente dei giovani, ma anche nella crisi
delle vecchie credenze religiose, con una particolare caduta della Chiesa,
incapace ad affermare parole di verità tanto su quei due tragici anni quanto
sugli avvenimenti dell’attualità.
C’è un altro aspetto che ci preme rilevare. Leggendo la letteratura
internazionale, gli autori non italiani che hanno sempre avuto ammirazione per
il passato del nostro paese, che hanno visto con un senso di sollievo per i
destini dell’umanità, il fascismo come una forma di rinascimento nazionale e di
potenziamento delle indiscusse qualità del nostro popolo, hanno ampiamente
dimostrato nelle loro creazioni post belliche una cocente delusione.
La guerra rivoluzionaria. Ragioni geopolitiche della guerra del
sangue contro l'oro
«Si è detto che la guerra è la
levatrice delle rivoluzioni: è anche la levatrice delle nazioni.
La guerra mondiale del 1914-1918 permise ai due nazionalismi
arabo ed ebraico di compiere entrambi un passo decisivo»
Maxime Rodinson, "Israele ed il rifiuto arabo", Einaudi, 1969
«Per quanto scandaloso sia dirlo, in un'Italia che ama le favole più
che la verità, Mazzini mai ebbe tanti onori postumi e tentativi di
farne penetrare la figura nell'immaginario quanto nel tempo e nello
spazio geopolitico in cui si consumò l'avventura della "Repubblica
di Mussolini"»
Sandro Consolato, "Politica Romana" 6/2000-2004. |
Tutto il "Secolo breve" discende in maniera diretta dal primo conflitto
mondiale, contrariamente a quanto avvenuto nel secoli precedenti con eccezione
di quello precedente dipanatosi quale conseguenza delle conquiste napoleoniche.
Come scrive Antonio Gramsci, tanto la rivoluzione russa quanto quella italiana
nascono e si sviluppano in conseguenza della guerra, anche in funzione di un
rallentato precedente sviluppo sociale rispetto a quanto avvenuto in altri paesi
d’Europa nei quali la rivoluzione industriale aveva provocato, anche e
soprattutto a scapito delle categorie più deboli cioè delle masse proletarie,
trasformazioni che imponevano un pronto adeguamento nei paesi ritardatari.
Esattamente come accade al giorno d’oggi nel processo di integrazione europea
nel quale dobbiamo registrare diversi gradini di adeguamento in una graduatoria
nella quale l’Italia non fa certamente un’ottima figura. Sappiamo com’è andata
con la cosiddetta rivoluzione leninista. Invece il processo d’evoluzione sociale
dell’Italia postbellica si pone fin dall’inizio, proprio per l’immanenza della
cultura mazziniana nel pensiero rivoluzionario nazional popolare elaborato dopo
la conclusione deludente del processo risorgimentale (vedi l’intera opera di
Alfredo Oriani e gli scritti politici di Giovanni Gentile), il progetto della
trasposizione dell’uomo nel cittadino ed il cittadino nello Stato. E ciò avviene
certamente non in collaborazione con la politica liberale, necessariamente
a-morale, espressa dalla vecchia classe dirigente del notabilato, ma contro di
essa, perché questo processo può avvenire solo attraverso l’etica secondo
l’insegnamento di Mazzini e prima di lui di Kant.
Di qui il necessario compromesso, che impone la dittatura mediatrice
mussoliniana (dittatura di sviluppo) tra le forze rivoluzionarie
post-risorgimentali che rivendicano la vittoria nella terribile prova della
guerra, anche attraverso gli scritti dei più importanti scrittori italiani del
secolo fra i quali Papini, Prezzolini, Soffici e soprattutto Malaparte, e la
borghesia capitalista che vede nella monarchia e nell’esercito sabaudo lo stesso
baluardo che aveva frenato cinquant’anni prima la rivoluzione garibaldina, non
arretrando nemmeno di fronte alla progettazione dell’assassinio di Mazzini e di
Garibaldi stessi.
Tra parentesi, è evidente che Mussolini poté sentirsi liberato dall’abbraccio
mortale solo dopo la presunta fuga della monarchia e dei suoi scagnozzi (non
potremmo definire diversamente l’accozzaglia d’alti gradi dell’esercito che si
accalcano e sgomitavano nel tentativo di sfuggire ai tedeschi) i quali avevano
confermato a tutto il popolo italiano l’ormai abituale ed acclarata incapacità
sabauda a gestire una guerra (tradimenti massonici a parte). Tuttavia, poiché
non temiamo i confronti, vogliamo riportare alcuni giudizi di Gramsci, che fu
vittima più del comunismo che del fascismo, improntati sulla falsariga della
pura concezione classista.
Secondo Gramsci il fascismo, per un verso è considerato il continuatore del
blocco protezionista e nordista che ha dominato l’Italia dall’unità in poi, per
un altro esso presenta una grande novità nella base di massa del Partito
Nazionale Fascista, costituita dalla piccola borghesia inquadrata per la prima
volta in una formazione politica unitaria, e nella necessità di procedere ad una
trasformazione autoritaria dello Stato, basata sulla identificazione di Stato,
governo e partito unico. Sempre secondo Gramsci, lo strato intellettuale
intermedio, che fornisce a tutta l’Italia il personale statale, proviene
principalmente dalla piccola borghesia rurale ed assolve il ruolo di subordinare
le masse contadine al blocco agrario, ma… la piccola borghesia intellettuale
assolve una funzione reazionaria nella faccia rivolta verso lo Stato, ma è anche
influenzata dalle pulsioni radicali che percorrono il mondo contadino e gli
strati popolari poiché è legata ad essi dalle sue funzioni professionali e
politiche.
Non abbiamo difficoltà ad accettare questo quadro per una serie di ragioni. La
prima può benissimo rappresentare l’aspetto rivoluzionario della RSI, dove la
supposta faccia radicale della piccola borghesia di provincia (dei borghi
direbbe Alessandro Pavolini) decide di prendere in mano la situazione elaborando
uno Stato su misura di una realtà sociale anticipatrice e chiaramente
antiglobalista ante litteram.
Sull’importanza della RSI e di Mussolini in particolare possiamo portare molte
prove, fra cui il fatto che il territorio della RSI era pieno di spie di tutti i
servizi segreti di questo mondo, come dimostrazione dell’interesse generale per
l’esperimento mussoliniano, nonché il programma roosveltiano d’esibizione
pubblica di Mussolini, una volta consegnatogli dai felloni. Una missione
militare degli USA avrebbe preso sotto la sua protezione Mussolini alla presenza
di operatori cinematografici, fotografi, radiocorrispondenti e giornalisti, ed
infine trasportato via aerea a New York indi a Washington. Roosvelt intendeva
accogliere come prigioniero Mussolini alla Casa Bianca, alla presenza di
Churchill, il 16 settembre. (Marco Patricelli: "Liberate il Duce", Mondadori,
2001)
Come noto, l’operazione mediatica fu anticipata dai paracadutisti tedeschi, con
una controperazione di valore mediatico uguale e contrario, a dimostrazione,
ancora una volta, dell’importanza che il mondo intero dava a Mussolini,
interpretato come autentico genio politico italiano a dimensione rinascimentale.
Ed una seconda è costituita dall’azione politica del partito togliattiano nel
dopoguerra. Togliatti, nell’impostare una politica basata sulla "egemonia
culturale" che abbiamo ben conosciuto anche nei suoi effetti reali,
apparentemente mutuata dal pensiero di Gramsci, il quale invece era preoccupato
di portare avanti un’improbabile rivoluzione proletaria propiziata dal pensiero
gentiliano, non può che rivolgersi ad una piccola borghesia acculturata che è il
vero tessuto del nostro paese, dove le grandi masse operaie sono state portate
alla ribalta solo all’interno dell’economia industriale di guerra e nel periodo
della "ricostruzione", che ne è stata la diretta conseguenza, come negli USA,
peraltro. Tale forza sociale è però destinata a dissolversi nel breve spazio di
qualche decennio a causa del progresso tecnico e della modernizzazione
conseguente degli impianti di produzione industriale.
Togliatti, la cui abilità nel cogliere gli aspetti evolutivi della società è
indiscussa, conscio del fallimento imminente dell’internazionalismo proletario,
si muove durante il lungo dopoguerra nell’ambito di un comunismo che non
rinuncia mai agli aspetti nazionali. Non a caso in un comizio egli aveva
affermato che «con la liberazione si restituiva la nazione al popolo», mentre
non a caso un fratello di Gramsci era stato gerarca fascista arrivando al
livello di federale nientemeno che di Varese, volontario in guerra e prigioniero
degli inglesi, mentre anche il fratello di Alceste De Ambris fu coerentemente
fascista fino alla fine.
Durante la guerra civile tanto spagnola che italiana preoccupazione del partito
togliattiano è sempre stata l’eliminazione fisica oltreché politica dei
trotzkisti e degli anarchici, in Italia rappresentati dal partito della
"Bandiera Rossa" come documentato dal lavoro molto dettagliato dello storico
Roberto Gremmo. ("I partigiani di Bandiera Rossa. L’opposizione rivoluzionaria
del Movimento Comunisti d’Italia", 1944-1947. "Edizioni di Storia Ribelle",
Biella)
Gli avvenimenti, pertanto, sono molto diversi, una volta conosciuti a fondo, da
come sono descritti ed inculcati. Gramsci stesso, come documentato in un recente
libro di Rossi e Vacca, i nomi più qualificati per trattare l’argomento,
"Gramsci fra Mussolini e Stalin", Fazi, si è trovato a svolgere sia pure in
condizioni piuttosto ristrette, un ruolo di mediazione interrotto solo con la
morte, certamente non voluta da Mussolini. Sostituito, con molta probabilità, da
Nicola Bombacci.
Il partito Liberal-DS di Fassino, Veltroni, D’Alema, e Napolitano costituisce la
logica evoluzione del PCI di Togliatti, contiguo al sottosviluppo
turbocapitalista e degna compagine di un paese integrato nella globalizzazione
turboliberale americanocentrica, mentre i rimasugli dei partiti prefascisti,
assieme a quelli storicamente "antifascisti" hanno continuato a vegetare fino ad
oggi all’ombra del potere clericale. Per ulteriore conferma e per una
documentazione sufficientemente credibile dei passaggi che hanno caratterizzato
quest’integrazione, leggere di Pier Giuseppe Murgia, "Il Vento del Nord. Storia
e cronaca del fascismo dopo la resistenza, 1945-1950", Kaos Edizioni, 2004,
nonché di Franco Bandini, "Le ultime 95 ore di Mussolini", Sugar editore, terza
edizione, 1963.
L’ambiguità che ha sempre accompagnato il PCI è ulteriormente dimostrata dal
libro di Berselli e Bigazzi, "PCI, la storia dimenticata", Mondadori. Un degno
compendio può essere rappresentato anche dal noto ma introvabile: "Politica
occulta. Logge, lobbies, sette e politiche trasversali nel mondo", Castelvecchi,
1998.
E, d’altronde, anche Lejba Bronstein, in arte Trotzky, aveva formulato la teoria
della "rivoluzione permanente" (ripresa poi, con altre parole, dai
post-trotzkisti Theocons) secondo la quale al proletariato spettava il compito
di realizzare la rivoluzione borghese e democratica nei paesi arretrati,
semplicemente perché in quei paesi la borghesia era giudicata troppo debole.
(Enciclopedia Biografica Universale Treccani)
Come epitaffio definitivo al ruolo politico e storico dei "compagni" occorre
citare alcuni recenti commentatori.
Si tratta di Giuliano Da Empoli, de "Il Riformista", secondo il quale: «Tutte le
forze che cercano di innovare sono strangolate, dopo essere state munte, perché
rappresentano l’unica fonte di guadagno e di reddito …».
Virgilio Ilari, storico della Cattolica: «Le forze vitali sono represse perché
non prendano coscienza di sé. La società si regge ancora sul patto fondato da
Agnelli nel 1992, la pax sociale tra i ceti garantiti che sono i Sindacati di
regime e la Confindustria dominata dalle grandi famiglie».
Lucio Caracciolo, direttore di "Limes", «La mancanza di coscienza geopolitica
deriva dalla scarsa attitudine, propria della Seconda Repubblica, ad articolare
i propri interessi nel quadro globale. Non esistono più sponde internazionali e
non siamo riusciti ad organizzare il nostro gioco. Ci sono anche problemi
interni, di insufficiente pedagogia nazionale, che hanno il loro peso».
Quale differenza con la vitalità sempre dimostrata a livello interno ed
internazionale anche in condizioni tutt’altro che felici, dalla RSI! Il fascismo
repubblicano è pertanto caduto, anche se per noi si tratta solo di un’eclissi,
indossando la veste rivoluzionaria, e RISULTA DEL TUTTO PATETICO IL TENTATIVO DI
DECRETARNE UNA FINE NON VERA ATTRAVERSO UNA PAROLA OPPORTUNAMENTE STUDIATA MA
APPARENTEMENTE IMPROVVISATA: «I VINTI», attribuita con falso pietismo ai
Repubblichini, e molto spesso utilizzata da untuosi "intermediari" del potere
costituito per vellicare l’emozionabilità infantile degli italiani.
Per inciso, un conto è il vittimismo funzionale degli ebrei, che copre
mediaticamente, se non riesce a giustificare, quanto loro commettono nel mondo
con le armi e con i soldi, ed un conto è un vittimismo fine a se stesso, anzi la
cui funzione dovrebbe servire per tacitare definitivamente qualsiasi
rivendicazione. In realtà i vinti sono proprio i nostri governanti, che eseguono
passivamente le imposizioni provenienti dai potentati economici e politici
mondialisti.
Come scrive Sergio Romano, in un articolo sconsolato dedicato alla "Ragion di
Stato", «il ceto politico rimane sostanzialmente indifferente al ruolo del Paese
nel mondo…». Secondo il nostro giudizio, una vera iscrizione sepolcrale.
Infatti, l’assenza di una geopolitica è sinonimo d’assenza di politica, di ruolo
politico, in sostanza di qualsiasi ruolo, perché se una classe dirigente non ha
presente il quadro entro il quale inserire un progetto, la classe politica non
esiste. Pascal Lorot, in "Storia della geopolitica" Asterios 1997, scrive: «Se
dopo la seconda guerra mondiale la tradizione geopolitica italiana fu messa in
disparte dal dominante clima di sovranazionalismo ed antifascismo che aveva
anche comunque lo scopo di "rilegittimare" il paese in sede internazionale, la
scelta dell’Occidente e le aree geografiche in cui il paese si è in seguito
trovato ad agire possono quindi rispondere al criterio della formulazione
geopolitica». Un bel modo per giustificare l’inesistenza di una geopolitica
italiana.
Luciano Lucci Chiarissi ("Esame di coscienza di un fascista", IRSE) descrive più
appropriatamente la situazione. Scrive infatti: «… un sistema ed un regime che
rappresenta istituzionalmente la negazione del valore e del principio di una
comunità nazionale», e prosegue: «… qui c’è un regime che è sorto, si mantiene e
può sopravvivere esclusivamente perché ha rinunciato alla sovranità nazionale ed
all’autonomia politica della comunità italiana, e che ritiene normale che le
decisioni di fondo per la nostra vita collettiva siano assunte in sede esterna
agli istituti politici italiani. La ribellione a tutto ciò potrà avvenire quando
si sarà compreso che la sudditanza politica della nazione implica una formale
abdicazione alla dignità umana e civile di tutti gli italiani».
Da queste premesse discende inevitabilmente la sostanza di tutto il discorso sul
fascismo, la RSI e sul post-fascismo dei "neofascisti".
È Mussolini nel momento cruciale della sua esistenza l’interprete dell’essenza
del fascismo movimento. Egli coglie l’opportunità della guerra, (che non ha
voluto, che anzi ha cercato di evitare), per colpire il vero nemico: il
liberalcapitalismo atlantico. Con il comunismo russo ha cercato a lungo un
accordo, forse grazie alla mediazione di Nicola Bombacci , che pagherà con la
vita questa funzione. Un libro documenta dettagliatamente contatti italo-russi
andati a vuoto per l’interferenza della politica estera tedesca, (Mario Toscano,
"Una mancata intesa italo-sovietica nel 1940 e 1941". Sansoni, Firenze, 1955),
mentre è uscito di recente un altro libro (M. Martelli, "Mussolini e la Russia.
Le relazioni italo-sovietiche dal 1922 al 1941", Mursia, pag. 408).
La stessa invasione dell’URSS a fianco dei tedeschi è chiaramente finalizzata al
raggiungimento delle fonti petrolifere mediorientali. E, tanto per chiarire il
vero ruolo della Turchia in un contesto geopolitico realista contro le polemiche
strumentali che ci tocca leggere di questi tempi, basterebbe sottolineare che
Ankara aveva approntato nel maggio 1941 ben 10 divisioni per invadere l’Irak in
aiuto degli iracheni di Rashid Alì, che stavano combattendo la guerra
d’indipendenza contro gli inglesi ed a supporto delle truppe e dell’aviazione
italotedesca. Tale operazione venne soppressa a causa della sconfitta dei
nazionalisti iracheni, del rapido sgombero dei reparti aerei dell’Asse e della
conquista da parte inglese della Siria e del Libano di Vichy.
Scrive Ugo Spirito ("Guerra Rivoluzionaria", Fondazione Ugo Spirito, 1989): «…
con la guerra d’Etiopia la prima sfida concreta all’Inghilterra era stata
lanciata, e quando l’Home Fleet uscì dal Mediterraneo sconfitta ed umiliata,
un’epoca storica si chiudeva per sempre. Il mito dell’onnipotenza inglese era
finito. Ma se il processo della rivoluzione fascista era per questo verso
chiarito ed approfondito, il suo carattere ibrido, dovuto all’originario
intreccio del motivo conservatore con quello rivoluzionario, continuava a
rivelarsi in mille modi e a non consentire un deciso orientamento spirituale… I
due elementi contrastanti della rivoluzione fascista, ai quali abbiamo
ripetutamente accennato, vennero a trovarsi in un contrasto ancora più
esplicito, ed anzi parve addirittura che l’ideologia borghese, naturalmente
anglofila e francofila, dovesse finire per avere il sopravvento. Essa si rivelò,
quasi senza ritegno, decisamente antirivoluzionaria ed auspicò per mesi il
ritorno alle vecchie alleanze e la fine dei nuovi regimi. Ma fu proprio in
questo drammatico momento della storia del fascismo che le sue radici
dimostrarono di aver fatto presa nel terreno più profondo e di saper reggere
alla forza della tormenta. La borghesia fu sconfitta dalla realtà stessa delle
cose e quel tanto di volontà rivoluzionaria che era rimasta bastò a condurre
l’Italia alla guerra accanto alla Germania. La prova decisiva era stata
superata».
Ciò significa, inoltre, che il tentativo escogitato da Giolitti d’imbrigliare il
fascismo nell’«arco costituzionale» d’allora, con lo scopo di battere
l’estremismo socialista attraverso le elezioni e la nascita di "blocchi
nazionali" per le elezioni del 1921, andato fallito per la crisi inarrestabile
dello Stato Liberale, viene riproposto nel 1940 ma è nuovamente superato
dall’azione lungimirante di Mussolini, talché il Sistema liberale è costretto a
sfruttare gli eventi bellici per realizzare il 25 luglio, che è atto
politicamente compiuto, non un attacco alla dittatura mussoliniana, ed il
definitivo inserimento del neofascismo nel lungo dopoguerra. Quello che non
riuscì al grande navigatore parlamentare Giolitti fu facile per gli esponenti
del potere clericale collusi con gli Atlantici.
Attilio Tamaro ("Venti anni di storia", Editrice Tiber, 1954, vol. III, pag.
431) scrive: «… In un discorso alla radio lanciato alla fine del 1940, Churchill
lo accusava (Mussolini ovviamente) di essere stato l’unico in Italia a volere la
guerra con questa parole: "un uomo, un uomo solo, contro la Corona, contro la
Famiglia reale, contro il Papa, contro il desiderio del popolo" l’aveva
scatenata. Churchill, come sappiamo, era male informato, e l’accusa aveva il
valore che le si voleva dare, anche di Roosevelt si dirà fra un anno che solo
contro tutti aveva voluto gettare l’America nel conflitto. Ma il premier
inglese, con quelle parole, proiettava la figura di Mussolini verso l’avvenire
con vera grandezza, presentandolo come il vero antagonista dell’Impero
britannico».
È evidente, viene spontaneo commentare, che l’ipotesi defeliciana della morte
del Duce per mano inglese, dopo queste asserzioni e nonostante i documentati
contatti che Mussolini ebbe col dittatore inglese durante tutto l’arco del
conflitto, è ben giustificata.
Ma l’azione politico-diplomatica tesa a distogliere Hitler da un’ostpolitik
aggressiva non si è mai attenuata. Intanto, l’attacco alla Grecia, che costrinse
a ritardare l’inizio delle ostilità contro l’URSS, ed al quale Hitler attribuì
la causa della sconfitta (Franco Bandini, "Tecnica della sconfitta", Longanesi),
poi i tentativi di convincerlo ad un accordo con Stalin, al quale il dittatore
russo era consenziente, almeno fino a quando l’iperproduzione bellica americana
non lo convinse del contrario, nella prospettiva di poter invadere parte
dell’Europa. Vecchio sogno imperiale. Le proposte mussoliniane furono esposte di
sicuro durante gli incontri di Klessheim, nei pressi di Salisburgo, il 7 aprile
1943 ed a Feltre il successivo 19 luglio, giorno del bombardamento di Roma, che
farà precipitare la situazione. È necessario aggiungere che la decisione
staliniana di confermare la partecipazione alla guerra atlantica contro le
Nazioni centroeuropee si è avvalsa delle garanzie ottenute alla Conferenza di
Mosca (19/10/1943), Teheran (28/11/1943), Dumbarton Oaks (URSS, USA, GB, Cina
del 21/8-7/10 1944) e Yalta (1/11/1945).
Va peraltro fatto notare che la rinascita e lo sviluppo dei movimenti politici
prefascisti ed antifascisti, preludio al cambio di regime imposto dalla
monarchia dopo il 25 luglio si va orientando secondo una demarcazione
geopolitica essenziale: filoatlantica o antiatlantica, che è la reale posta in
gioco. Tale demarcazione rimarrà fino ai giorni nostri, e condizionerà tutta la
politica nazionale costringendo i partiti a costruire una falsificazione
mediatica per ottenere il consenso, cioè indurre gli italiani al voto e con ciò
assegnare un valore di "partecipazione civile" a questo "Sistema", che è
sostanzialmente falso proprio perché, come dimostrato dalle vicende parlamentari
di questi anni, il posizionamento apparentemente ideologico di un partito è
vanificato nell’atto stesso di prendere decisioni governative. La barca va dove
vuole il padrone d’oltre oceano.
Per concludere, è d’uopo citare un autore francese morto nel 1875, uno storico
che ha amato l’Italia e gli italiani ma è poco conosciuto nel nostro paese,
Edgar Quinet: "Le Rivoluzioni d’Italia", Laterza, 1970. Secondo Quinet, l’Italia
offriva (nell’ottocento) il triste spettacolo di un popolo che aveva lasciato
estinguere la propria vita nazionale… Il trionfo della Controriforma aveva
portato nella sua scia un triste elenco di vittime: Giordano Bruno, Cesare
Vanini, Campanella, Sarpi… Ecco un popolo murato nella tomba di una religione… e
quel che è peggio, perfino nel momento della sconfitta e dell’umiliazione più
terribili, gli italiani non s’erano quasi neppure accorti che qualcosa andasse
male; sembravano accettare lietamente il proprio destino e consideravano persino
l’assenza di una coscienza nazionale come un segno di grandezza. Il grande
spartiacque correva tra Machiavelli e Guicciardini: il primo aveva almeno
propugnato una qualche resistenza, mentre il secondo era passato al nemico ed
aveva accettato la morte del patriottismo con cinica indifferenza…Ne consegue,
aggiungiamo noi, che l’unico periodo nel quale la coscienza nazionale ha
determinato i comportamenti ed i modi d’agire degli italiani è stato quel breve
tratto della storia del XX Secolo che ha visto rifulgere le NOSTRE idee.
Natura esistenziale della componente
"rivoluzionaria" e divergenza col "neofascismo"
Il Neofascismo è solo una componente e tra le meno
rappresentative del Postfascismo
«E quando Marat gli risponde:
"Allora la rivoluzione sarà perduta", Saint Just replica "Sarà salva
negli animi. È meglio salvare l'anima della Rivoluzione che il suo
corpo. Il suo corpo sono i nostri corpi, cose che non contano. A che
serve conservare il potere se diventa una semplice caricatura delle
nostre idee, un mostro di sangue, contratto dalla paura e dalla
violenza? Se noi cadiamo al momento giusto, l'idea sarà raccolta da
altri uomini e grazie a noi se ne andrà avanti pura. Dare agli
uomini un'idea è una bella cosa" (…) Quando Carlotta Corday ha
assassinato Marat, Saint Just va a trovarla in prigione. Ed i due
giovani votati alla morte si riconoscono come fratello e sorella,
perché sono della stessa razza, "della razza di coloro che uccidono
e saranno uccisi… della razza dei rivoluzionari che hanno bisogno di
tutta l'Europa e di tutta la terra per far sentire le loro urla"»
Jean Mabire, "Drieu La Rochelle, Socialismo, Fascismo, Europa".
Volpe, 1964.
«Sono stati proprio gli aventiniani, i quali hanno fatto tutto il
possibile per trasformare un rivoluzionario nato in un dittatore
artefatto»
Mussolini in "Quarant' anni di colloqui con lui" di Ottavio Dinale,
Ciarrocca ed. 1953 |
Un libro uscito di recente ci permette di tracciare un confine fra gli aspetti
umani dei fascisti e le peripezie esistenziali dei neofascisti. Il libro è «T.A.Z.
Zone Temporaneamente Autonome», scritto da Hakim Bey, Shake Edizioni, 2007.
Indubbiamente l’ultimo autore citato, con autentica sensibilità di storico, è
riuscito ad individuare una tipologia umana, che troviamo intatta da Fiume alla
RSI. Ma non dopo.
«… Dal nostro punto di vista, il punto principale di fascino è lo spirito delle
"Comuni"… Certi anarchici di tendenza stirneriana-nietzchiana giunsero a
considerare questa attività come un fine in sé, in modo di occupare sempre una
zona autonoma, l’interzona che si apre nel mezzo o al seguito di guerra o
rivoluzione… D’Annunzio ed uno dei suoi amici anarchici (De Ambris) scrissero la
Costituzione (di Fiume) che dichiarava la Musica essere il principio centrale
dello Stato… Artisti, bohemiens, avventurieri, anarchici, (D’Annunzio
corrispondeva con Malatesta), fuggitivi e rifugiati apolidi, omosessuali, dandy
militari (l’uniforme era nera con teschio e tibie pirata, più tardi rubata dalle
SS) e strambi riformatori d’ogni tipo, compresi buddhisti, teosofisti,
vedantisti, iniziarono ad arrivare in massa a Fiume. La festa non finiva mai.
Ogni mattina D’Annunzio leggeva poesie e proclami dal suo balcone, ogni sera un
concerto, poi fuochi d’artificio… D’Annunzio, come molti anarchici italiani,
s’indirizzò più tardi verso il Fascismo, Mussolini stesso, l’ex sindacalista,
sedusse il poeta lungo questa strada».
Non stupisce pertanto se alla nascita del fascismo troviamo in abbondanza questa
tipologia umana, che ottiene un facile consenso tra i reduci anche se non
aderenti, per lo più giovani (i vecchi erano stati spazzati via dalla guerra)
mentre durante tutto l’arco della storia del fascismo italiano la componente
autenticamente rivoluzionaria non sia mai venuta meno, anche nei momenti di
maggiore sclerotizzazione del regime, e quando i nodi, sotto la pressione delle
sconfitte militari, vengono al pettine in madrepatria mentre i fascisti, spesso
volontari, sono dispersi sui tanti fronti (G. B. Guerri, "Rapporto al Duce",
Mondadori).
È ampiamente documentato dalla letteratura diaristica che i volontari
social-repubblicani erano animati da questo spirito ribelle e vivevano la loro
avventura giocandosi la vita con lo sprezzo tipico di chi sa di lottare per un
ideale di giustizia e di libertà ispirato al pensiero mazziniano ed all’azione
d’impronta garibaldina. («Quand’io dico che proponendo come scopo della vita la
felicità, il benessere, gli interessi materiali, corriamo il rischio di creare
egoisti, non intendo che non dobbiate occuparvene, dico che gli interessi
materiali, cercati soli, proposti non come mezzi ma come fine, conducono sempre
a quel tristissimo risultato». "I Doveri dell’Uomo")
Potremmo chiamarne a testimoni Malaparte, che nel suo famoso "La pelle" descrive
l’atteggiamento beffardo con cui i giovani fascisti fiorentini affrontano il
plotone d’esecuzione, ed Enrico De Boccard di "Donne e mitra" del 1950 e di "Il
passo dei Repubblichini", e poi tanti altri memorialisti di successo, come
Gandini, Castellacci, Bollati, Bolzoni, Mazzantini.
Appare pertanto con solare evidenza la fondamentale antitesi fra il neofascismo,
frutto integrale della politica e della "cultura" missista e di una lettura
piuttosto affrettata e superficiale di J. Evola, che da certi ambienti aveva
sempre preso le debite distanze (vedi, a riprova: J. Evola, "Il Cammino del
Cinabro", Scheiwiller, 1963) [Miti incapacitanti, avrebbe dedotto Franco Freda,
riferendosi anche al mito resistenziale], ed il vissuto umano e sociale dei
combattenti per la Repubblica Sociale come si manifestò essenzialmente nei
furiosi anni 43-45.
Un altro libro uscito di recente (Luca Fantini, "Gli ultimi fascisti. Franco
Colombo e gli arditi della Muti", Selecta Editrice) ci permette di comprendere
quale fosse lo spirito che animava queste persone che rischiavano la vita
giornalmente nella convinzione di battersi sull’ultima trincea. E Malaparte
scrive di Filippo Corridoni: «Quest’uomo napoleonico, invano auspicato da Sorel
per la Francia… nato dal popolo, partecipe di tutti gli istinti e di tutte le
violenze e di tutte le passioni del popolo... ricco di sogni come un pastore e
torvo di risentimenti come un servo della gleba». Ecco di cosa erano impastati i
fascisti repubblicani, discendenti diretti (lo erano quasi tutti i mutini) dei
sindacalisti rivoluzionari del primo novecento, fondatori dei fasci di
combattimento. Questo sostanziale contrasto, non solo generazionale, era stato
già evidenziato da Luciano Lucci Chiarissi nel suo "Esame di coscienza di un
fascista" e da Pacifico D’Eramo in: "La Liberazione dall’Antifascismo".
Oggi ne abbiamo la riprova leggendo i molti libri già distribuiti o in via di
pubblicazione contenenti le memorie, a volte molto drammatiche, degli esponenti
di punta del neofascismo. Si tratta per lo più di memorie rivissute in chiave
esistenziale, dove il quadro politico fa solo da sfondo, e dove non è mai citata
la nostra Federazione. E ciò non perché questa fosse assente; al contrario era
molto presente in proporzione alle disponibilità, con opuscoli e fogli di
commento politico e geopolitico alla situazione italiana nel suo divenire, come
si può leggere nelle pagine che seguono. Fogli d’analisi e di chiarimento,
indirizzati per lo più ai giovani, che a quanto ci risulta li leggevano, ma sui
quali avevano una presa minima, rappresentando un universo culturale e politico
nel quale, evidentemente, essi non s’identificavano. Il clima che quei giovani
vivevano era plumbeo e l’ideologia che li sosteneva assumeva caratteri di una
tragicità atemporale che ci chiariscono meglio anche perché sia stato
relativamente facile ai tecnici dei condizionamenti mentali la programmazione
degli "anni di piombo"; e poiché non è questo il caso di dilungarci sul tema, va
ricordato per inciso, e richiamando quanto in precedenza scritto sulla
definizione pavoliniana di fascismo come movimento nato nei borghi, che illumina
sulla provenienza sociale dei suoi primi componenti, la specificità italiana e
la funzione di modernizzazione efficace perché graduale svolta durante la prima
metà del secolo scorso, un noto romanzo di Ardengo Soffici, che lo stesso autore
definiva precursore del fascismo. Si tratta di "Lemmonio Boreo", l’allegro
giustiziere, una specie di giovane e scanzonato picaro che percorre borghi e
campagne in difesa dei più deboli.
Sono stati consultati anche i libri seguenti: "La Fiamma e la Celtica", "Cuori
Neri", "La destra ed il 68", "Noi Terza Posizione", "Fascisti Immaginari",
"Centri Sociali di destra", "Occupazioni e culture non conformi", "A destra
della Destra", "I rossi e i neri", "Fascisteria", "Io non scordo".
Lo sbarco in Sicilia. Da diversivo a possedimento permanente
(portaerei nel Mediterraneo) e strategia geopolitica nazista impropriamente
chiamata «Tradimento di Wolff»
Curiosamente, pochi testi di storia documentano l’esatta entità delle forze da
sbarco angloamericane. La ragione potrebbe essere la poca consistenza delle
medesime, assemblate con fini più diversivi che per una progettata invasione
della penisola, molto per accontentare Stalin, che chiedeva con insistenza
l’apertura di un secondo fronte (ma intendeva la Francia, che gli Alleati,
atterriti dalle nuove armi tedesche, esitavano ad invadere), in alternativa ad
un accordo con gli italotedeschi per un rovesciamento del fronte. Tuttavia
l’invasione del "continente" avverrà proprio a causa dell’improvviso aiuto
costituito dalla resa dell’otto settembre che in questo contesto acquista, come
abbiamo già evidenziato, un atto geopolitico autonomo e controrivoluzionario da
parte delle forze della borghesia rappresentate dalla monarchia e dall’esercito
sabaudo, con il concorso efficace dei venticinqueluglisti quali esponenti della
medesima all’interno del partito fascista. (Vedi anche Alfio Caruso, "Arrivano i
nostri", Longanesi, pp. 345: Una vicenda che incomincia nell’estate del 1932,
dentro gli accaldati saloni dell’Hotel Drake a Chicago, i cui effetti durano in
Italia ancora oggi).
Per l’esattezza, come riporta Emilio Canevari in "La Guerra Italiana, Retroscena
della disfatta", Tosi editore, 1949, si tratta di due forze da sbarco: la
Settima Armata, al comando del generale Patton pari ad una forza di sei
divisioni, che sbarca a sud, fra Gela e Licata, e parte dell’Ottava Armata di
Montgomery rinforzata col Secondo Corpo canadese, che sbarca ad est fra Capo
Passero e Cassibile.
Su questi avvenimenti è più che sufficiente la lettura del resoconto di
Mussolini: "Storia di un anno - Il tempo del bastone e della carota".
La conquista dell’Italia non era nei programmi degli Alleati, limitandosi essi a
progettare quella della Sicilia per la sua fondamentale posizione geografica,
che aveva nei secoli sollecitato le attenzioni dell’Inghilterra. Le cose poi si
sarebbero cristallizzate per la concorrenza di una serie di circostanze, fra cui
la diretta collaborazione della Mafia siculo-americana al mantenimento del
potere nell’isola per cui a tutt’oggi, proprio grazie agli apporti delle
organizzazioni mafiose internazionali, la Sicilia può costituire un caposaldo
atlantico nel cuore del Mediterraneo, in un asse siculo-israeliano molto
difficile da scalfire, supporto al potere democristiano e post-democristiano,
come dimostrano i fatti degli ultimi decenni.
Va aggiunto, per la precisione, che il Regno Unito ha sempre avuto una
consuetudine con l’Italia del Sud, alla quale è stato sempre legato, come
dimostrato dalla partecipazione diretta alle insorgenze antifrancesi d’inizio
secolo diciannovesimo e relativa conoscenza dettagliata del territorio, fino al
momento in cui ha dovuto cedere il diritto di accesso e di controllo ai cugini
americani.
Ma, mentre le truppe tedesche e parte di quelle italiane si svenavano nella
difesa dell’Italia del sud, c’era chi agiva dietro le quinte, nell’ambito del
progetto geopolitico nazista che aveva in Himmler la mente strategica. Infatti è
Karl Wolff, capo supremo delle SS di Polizia e generale delle FF.AA. germaniche
in Italia. Costui viene da più parti accusato di tradimento o, almeno di doppio
gioco, mentre è evidente che esegue letteralmente e con la massima fedeltà gli
ordini ricevuti.
Infatti, come documentato, i contatti con gli inglesi, naturali partner della
destra germanica, vengono da lui presi e tenuti tramite il Vaticano già negli
anni 43, culminati nella vendita dell’ambasciata tedesca a Roma. Si tratta
sicuramente di una serie di comportamenti contro il progetto geopolitico
mussoliniano. Tant’è che ormai la storiografia si va orientando verso la tesi
che sostiene una sostanziale collaborazione fra SS ed inglesi nell’eliminazione
di Mussolini quale elemento scomodo nel nuovo assetto europeo. ("Mussolini, un
testimone scomodo", di Alberto Bertotto, su "Rinascita" n. 32 del 14/02/2007,
che riporta anche una vasta bibliografia sull’argomento).
Che Wolff non abbia agito per proprio conto, sia pure a difesa delle truppe ai
suoi ordini, è dimostrato dai suoi movimenti negli ultimi tempi. Il 17 febbraio
1945 si incontra in Germania con Himmler, il 3 marzo emissari delle SS si
incontrano in Svizzera con agenti dei Servizi americani; l’8 marzo Wolff si
incontra a Zurigo con Allen Dulles, il 19 dello stesso mese si incontra con
alcuni generali americani ed inglesi, il 17 aprile si incontra ripetutamente con
Hitler.
Vedi anche il libro "Il tradimento tedesco" di Erich Kuby, edito da Rizzoli nel
1983. Di recente è stato pubblicato anche in Italia un nuovo studio (Fabrizio
Calvi, "I nazisti che hanno vinto. Le brillanti carriere delle SS nel
dopoguerra", Piemme)
Evidentemente non è pensabile che, dopo la criminalizzazione del nazismo in toto
portata avanti durante la guerra, dopo i processi di Norimberga e le tante
esecuzioni più o meno sommarie, ci sia stata da una parte e dall’altra una tale
collaborazione con l’arruolamento anche di centinaia di "criminali di guerra",
in assenza di una confluenza di interessi ideologici e politici. In tal senso è
utile anche il recente "Cospirazioni" di Kate Tuckett, Castelvecchi. Oggi
possiamo contare anche sulla pubblicazione di documenti che dimostrano
l’uccisione di Himmler, avvenuta il 24 maggio 1945 da parte di agenti
britannici, al fine di non farlo conferire con gli americani. (Martin Allen,
Warlord, "Himmler’s secret war" Robson Books, Londra, 2005).
Per concludere, il mistero della morte di Mussolini, invano indagato da tanti
giornalisti e storici, si collega, in buona sostanza con lo scontro tuttora
aperto fra due sostanziali strategie politiche, fra le quali chi si trova a metà
strada senza le proverbiali difese è inesorabilmente stritolato, come dimostrano
tante strane morti, anche di personalità non espressamente qualificate sul piano
politico, bensì su quello economico e finanziario. Da questi avvenimenti trarrà
origine in seguito quella vasta operazione di destabilizzazione che va sotto il
nome di strategia della tensione alla quale dedicheremo in seguito qualche
considerazione.
Il tradimento dei chierici ed i fascisti senza Mussolini. Le
sette anime del Fascismo.
Ruolo antisistema della FNCRSI.
«Forti della coscienza del
nostro diritto, discuteremo con animo imperturbato, mentre il
cannone ci tuonerà d'attorno; lanceremo le nostre Leggi dal
Campidoglio al Popolo nel fragore della battaglia… e la nostra
Costituzione Repubblicana suggellata con il sangue dei martiri, che
la Francia repubblicana ci uccide, starà eterna come Legge di Dio»
Aurelio Saliceti, Presidente della Costituente della Repubblica
Romana, 1 luglio 1849 «Il
problema essenziale, però, resta il medesimo. È il problema di
qualsiasi impresa storica: si può cogliere, contemporaneamente, in
un modo o nell’altro, una storia che si trasforma in fretta, che sta
alla ribalta proprio in ragione dei suoi stessi cambiamenti e dei
suoi spettacoli - ed una storia sottostante, piuttosto silenziosa,
certamente discreta, quasi insospettata dai suoi testimoni e dai
suoi attori e che si conserva, alla meno peggio contro l’usura
ostinata del tempo? Questa contraddizione decisiva, sempre da
spiegare, si manifesta come un grande mezzo di conoscenza e di
ricerca»
Fernand Braudel, "Civiltà e Imperi del Mediterraneo", Einaudi, 1953. |
Morto Mussolini in circostanze misteriose il 28 aprile, probabilmente a causa
d’infantili macchinazioni ed intrighi di Claretta Petacci e del fratello,
trafficanti fra inglesi e tedeschi su questioni più grandi di loro; fucilati
proditoriamente a Dongo quasi tutti gli esponenti del Governo repubblicano,
(«eroi di una missione più grande delle loro forze ma non meno degna di esser
vissuta nel pensiero e nella sconfitta… sono figure smarrite sullo sfondo
d’eventi grandiosi che danno la misura del loro animo e del loro puro amore:
ideali di un sogno che splende in tenebrose lontananze e che s’ avviva quanto
più l’ombra s’incupisce intorno» come fu scritto per altri grandi quali Federico
II e Machiavelli) la situazione nel territorio repubblicano è ferma, immobile.
Su quest’argomento è essenziale l’ultimo libro di un noto esperto, Fabio
Andriola, "Carteggio Churchill-Mussolini", Sugarco, maggio 2007.
Un episodio finora rimasto nell’ombra è indicativo della situazione. Il 25
aprile sera, la colonna con Mussolini ed i gerarchi si ferma alla Prefettura di
Como. Qui si viene a sapere della sparizione del camioncino contenente la
documentazione alla quale il duce tiene di più. La moglie del ministro Mezzasoma
che, assieme a quella del ministro Zerbino assiste all’andirivieni dei presenti
ed alle loro concitate esclamazioni, sente il ministro Zerbino dichiarare che il
camioncino era stato consegnato dalla Petacci a Wolff. Dichiarazioni di questo
stampo uscite dalla bocca del ministro dell’interno, solitamente molto ben
informato, non lasciano dubbi. Ed i troppi morti di quelle giornate non
permettono ulteriori chiarimenti. «La morte di Claretta -ha osservato Dino
Campini, segretario del ministro Biggini ed autore di pregevoli saggi pubblicati
nel dopoguerra, relativi proprio al comportamento di Mussolini- non ha dunque un
senso se non alla luce del mistero della linea d’ombra, del segreto dei
carteggi. La donna sapeva o poteva sapere e quindi doveva sparire».
Ma torniamo al quadro generale. Tutti gli attori, grandi o piccoli, stanno
attendendo qualcosa, non essendo ancora chiaro quale potrebbe essere lo sviluppo
della situazione politica mondiale, destinata peraltro a sfociare nella "Guerra
Fredda". Solo di recente alcuni documenti pubblicati su "ACTA" dell’Istituto
Storico RSI, maggio-giugno 2007, permettono di confermare le nostre ragionate
supposizioni. Ne tratteremo nel paragrafo dedicato alla resa. Ad esempio, a
Milano il 25 aprile 1945 le forze armate della RSI ed i tedeschi assommano alla
non banale cifra di 30.000 contro 700 partigiani armati (testimonianza del
generale Cadorna). Nelle principali città del nord, come già a Firenze, si
sviluppa la resistenza fascista con una guerriglia che si protrarrà per molto
tempo, mentre le FFAA repubblicane restano in attesa degli ordini. Finalmente
entrano in funzione gli accordi presi da Wolff con gli esponenti di una
specifica linea ideologica statunitense operativi nella OSS. L’aspetto della
guerra segreta svolta sul territorio italiano è quanto mai interessante, anche
se per lo più sconosciuto, e dimostra quanto fosse importante il ruolo svolto
dalla RSI negli ultimi due anni di guerra, anche in relazione alla situazione
nel Vicino Oriente. Quanto gli archivi segreti italiani interessassero le
autorità alleate, è dimostrato dall’art. 35 del cosiddetto Armistizio Lungo del
29 settembre 1943, secondo cui il governo italiano si impegnava a mettere a
disposizione degli Alleati tutti i documenti richiesti, con divieto di
distruzione. La situazione italiana, anche per la presenza di un partito
comunista diretto da Togliatti, aveva interessato anche le famose "spie di
Cambridge": Philby, Maclean, Burgess. Né va dimenticato il ruolo sicuramente
complesso recitato dagli esponenti dell’OVRA, Guido Leto in testa, sempre
presenti sia pure sullo sfondo, e sempre interpellati al momento necessario. In
un recente libro, "Dalla Russia a Mussolini", Editori Riuniti, l’autore Aldo
Giannuli documenta i molti negoziati segreti avvenuti durante il conflitto e
rileva l’elevatissimo livello professionale di una rete d’informatori ampia,
ramificata, e di preparazione raffinata.
In ogni caso, è bene ricordare soprattutto a quelli che si stupiscono quando
scoppia qualche scandalo di particolare intensità politica, che tra settembre e
novembre 1945 furono trasportati a Roma gli archivi di tutti gli Enti
governativi, caricati su 11 treni speciali di 35 vagoni ciascuno. Inoltre è
utile tenere presente che nell’albergo Pasubio, a Valdagno, in provincia di
Vicenza, erano custodite 1.000 casse contenenti gli atti del SIM e della Polizia
Politica. [Vedi: Dana Lloyd Thomas, "MI5, SIM e OVRA. Antony Blunt e gli archivi
segreti italiani", in Nuova Storia Contemporanea anno VIII, n. 5, 2004].
Il Maresciallo Graziani, nella sua veste di Ministro delle FFAA repubblicane
assegna i pieni poteri a Karl Wolff per la firma della resa che entra
definitivamente in funzione il successivo 2 maggio, mentre sul fronte balcanico
si continua a combattere fino ed oltre il 15 maggio. È in conseguenza di queste
disposizioni che le truppe repubblicane depongono le armi ed iniziano le stragi,
che si protraggono a lungo, come dimostra un manifesto del Quartier Generale
Comando Militare Alleato firmato John Lund, contenente l’Ordine di
smobilitazione e la cessazione delle fucilazioni, e datato 1 giugno. (Pubblicato
su: "La guerra degli Italiani, 1940-1945", di Piero Melograni, DeAgostini-Libero,
2007).
Secondo i documenti pubblicati da ACTA (TNA, WO 204/405-6699-10107-11533 e
244/129 ottenuti tramite la collaborazione da Londra di Paolo Minucci Teoni) si
può avere un’idea delle linee guida del Supreme Allied Commander, Harold
Alexander, in accordo con AGWAR di Washington e con AMSSO di Londra (Stati
maggiori britannici). Secondo questi documenti, emerge con chiarezza il piano
alleato di creare una situazione difensiva anticomunista con la collaborazione
delle forze tedesche e repubblicane, come evidentemente programmato in anticipo
assieme a Wolff e sicuramente con la collaborazione e l’assenso dei vertici
repubblicani. È solo in seguito alla ferma posizione presa da Mosca che gli
alleati sono costretti a firmare la pace con le truppe di stanza in Italia,
delle quali le italiane sono consegnate, di fatto, ai partigiani comunisti in
cambio della salvezza di quelle tedesche che devono poter proseguire verso la
Germania a difesa della zona da preservare all’influenza occidentale.
Ci si trova spesso a dover polemizzare su questioni apparentemente superficiali
relative al fascismo ed alla repubblica.
Poiché gli atti dell’uno e dell’altra sono pubblici con eccezione, come
precedentemente scritto, di quanto operato dai Servizi Segreti, è evidente che è
mancato nel nostro paese un sereno confronto fra le diverse e divergenti tesi
interpretative del fenomeno. Questa gravissima lacuna può essere attribuita ad
un comportamento del tutto anomalo, ma evidentemente specifico, degli
intellettuali italiani i quali, come dimostrato nel più recente libro dedicato
alla questione (Pierluigi Battista, "Cancellare le tracce. Il caso Grass ed il
silenzio degli intellettuali italiani dopo il fascismo", Rizzoli, 2006) hanno
con estrema disinvoltura nascosto il loro passato di sostenitori entusiastici
del regime. Ma per fare ciò, hanno dovuto necessariamente nascondere,
falsificare, edulcorare, le loro scelte più recenti, creando una base ideologica
sostanzialmente infantile al supporto culturale dell’azione di qualsiasi governo
di questo lungo dopoguerra. Per questa ragione il mito dell’antifascismo e della
resistenza resta infantile e sostanzialmente falso, o meglio, si presta a
qualsiasi mistificazione. Dove le singole voci, i singoli elementi, mancando di
sistemazione critica che può nascere solo da un dibattito serio e competente,
non possono offrire nemmeno una sicura informazione. Pertanto è molto divertente
assistere allo stupore ed alla malinconia di tanti antifascisti (per lo più
giornalisti ed intellettuali di formazione post bellica, appollaiati nelle
redazioni "ufficiali"), di fronte a casi come quelli di Grass o di Vivarelli,
ritenuti maestri di un antifascismo che, come dimostrato, non può essere che
mitico. Per inciso, è utile e doveroso il paragone con un momento storico che
apparentemente ha espresso un similare comportamento d’opportunismo
intellettuale che oggi preferiscono definire da voltagabbana (da annotare che
esistono anche i voltagabbana esperti in contestazione chic ) utilizzando per
diminuirne la carica negativa il titolo di un libro scritto a suo tempo da un
esponente di questo squallido mondo.
Ci si riferisce, doverosamente, alla storia controversa dei rapporti fra gli
uomini della Rivoluzione Francese, Napoleone ed il suo regime. Ma, come ha di
recente scritto Eugenio Di Rienzo ("Historica", n.19, 2006) i deputati della
Convenzione, fedeli accoliti di Robespierre tra il 1793 e il 1794, nel 1799
erano tutti schierati, con rarissime eccezioni, ad appoggiare il Colpo di Stato
del Buonaparte, il quale, non dimentichiamolo, aveva corso il serio rischio di
cadere lui stesso sotto la mannaia durante il colpo di Stato di Termidoro. «Per
questi uomini il mutamento avveniva dopo matura e compiuta riflessione ed era
funzionale al desiderio di conservare l’essenziale delle conquiste della
Rivoluzione, contro le derive estremiste della destra e della sinistra dello
schieramento politico». Uomini come Benjamin Constant, attivo principalmente
negli ultimi tempi dell’Impero, tradirono il proprio partito per rimanere fedeli
alle proprie idee. Gli stessi figli di Gracco Babeuf, ultimo fra i grandi
rivoluzionari francesi al quale Mussolini aveva dedicato un celebre sonetto,
furono accesamente bonapartisti. Uno dei due giunse a suicidarsi all’ingresso
degli "Alleati" in Parigi nel 1814.
I risultati sono evidenti dopo centocinquanta anni di storia nei quali
l’influsso del bonapartismo, nel bene e nel male, si è dispiegato in Europa e
nel mondo influenzandone intimamente ogni scelta individuale e collettiva.
In Italia, al contrario, e dopo ben sessant’anni dalla fine del conflitto, nulla
resta che possa in qualche modo giustificare i voltafaccia così palesemente
stupidi o, peggio melensi e manichei alla Bobbio. Lo stesso Giorgio Bocca, che
si è esibito di recente in accuse gratuite contro Gianpaolo Pansa, resta nella
pubblicistica post bellica più per i libri in cui giustifica l’operato di
Mussolini che per altro. Ma l’aspetto più grottesco è rappresentato proprio
dalla politica di "egemonismo" instaurata dal partito togliattiano con lo scopo
di dominare il mondo della cultura e quindi la società tutta. Assecondando tale
politica, furono reclutati artisti ed intellettuali a prescindere dalle idee da
costoro effettivamente coltivate. Ne risultò una "nuova classe" che poté
usufruire di innumerevoli vantaggi con l’esibire una tessera, senza la quale
l’esclusione dal mondo delle lettere e delle arti sarebbe stata certa. La
conclusione è sotto gli occhi di tutti. Pur potendo contare ancora oggi sul
dominio formale degli apparati, delle case editrici, della RAI, mezzi di
comunicazione vari, giornali, banche (Monte dei Paschi di Siena), il messaggio
che ne viene è quello della putredine, dell’assenza di idee, della decadenza,
della falsificazione ideologica come forma di automistificazione.
Un esempio per tutti è rappresentato dal sempre presente Umberto Eco, il quale
scrive: «C’è una componente dalla quale è riconoscibile il fascismo allo stato
puro, dovunque si manifesti, sapendo con assoluta certezza che da quelle
premesse non potrà venire che il "fascismo" ed è il culto della morte».
Tale prodotto dell’intelligenza antifascista è stato posto a premessa di un
libro anch’esso significativo. Si tratta di "Fascismo Islamico" di un noto
israeliano di complemento, il giornalista del "Foglio" Carlo Panella.
Ora, se c’è un momento nel quale l’Italia, notoriamente considerata "terra di
morti" ha dato la vivida impressione al mondo intero d’esplosione di vitalità,
questa è l’Italia fascista. E questo fatto incontestabile è stato registrato da
tanti viaggiatori e commentatori, oltreché dal noto Robert Brasillac, che visse
e scrisse di Fascismo "immenso e rosso" e che morì fucilato testimoniando fino
in fondo se stesso, la sua epoca ed una Francia che, fortunatamente per noi e
nonostante gli esiti delle recenti elezioni presidenziali, ancora oggi non
tramonta.
Di recente, la manipolazione è arrivata al punto di accreditare come
"intellettuali indipendenti" proprio quelli che maggiormente continuano a
prestarsi ad operazioni di basso regime. Sono stati pubblicati alcuni libri
utilizzabili in tal senso. Si tratta di "Politicamente scorretto" di Gianni Minà,
edito da Sperling & Kupfer, di "Il dubbio. Politica e società in Italia nelle
riflessioni di un liberale scomodo", Rizzoli, e "Quello che non si doveva dire",
di Enzo Biagi.
Questa esibizione di ruderi morali è tanto più evidente quanto più si esprime e
circola, in Internet e tramite Media convenzionali, una pubblicistica di
denuncia della crisi in atto. I libri di riferimento non mancano di certo.
Pubblicati di recente infatti, possiamo annoverare quello di Mario Giordano,
"Senti chi parla", Mondadori, che tira fuori molti scheletri dagli armadi. I
libri di Oliviero Beha, ultimo in ordine di tempo: "Italiopoli", Chiarelettere,
"Le libertà negate" di Michele Ainis, Rizzoli, che esplora la realtà della
società nazionale soprattutto come riferimento all’amministrazione della
Giustizia; "Post Italiani" di Edmondo Bertelli, che mette allo scoperto
un’Italia euforica e brutale, in cui contano le logiche di clan e di cordata,
dove il potere è esibito ed il denaro le donne e gli amori sono trofei
d’obbligo; "Volevo solo vendere la pizza" di Luigi Furini, Garzanti, 2007,
prefazione di Marco Travaglio. Ma potremmo continuare a lungo col successo
incontrastato del recente "La Casta" scritto nientemeno che da un giornalista
del Corsera.
«L’Italia è disseminata di zone franche dalla storia che sono attraversate da
masse rumorose ma inerti» scrive Aldo di Lello su "Imperi", anno 4, n. 10.
Ma che la cosa sarebbe finita così si capiva anche ai primordi. Basterebbe
citare un pezzo preveggente di Corrado Alvaro, intellettuale meridionale, che
così nel 1944, sotto il governo degli alleati, scriveva: «… Ma intanto il paese
è immobile, segna il passo, non vive, non pensa, non agisce, è insicuro della
sua vita interna e della sua vita domestica, ed intraprende il suo ennesimo
assalto allo Stato, agli impieghi, ai benefici, essendo l’economia italiana
distrutta, e l’unico rifugio essendo lo Stato». [Ripubblicato in: "l’Italia
rinunzia?", Sellerio, 1986]
Un personaggio indicativo: James Jesus Angleton.
La guerra fredda e gli opposti estremismi
(Arcana Imperii, da Tacito, è usata nel pensiero politico europeo del sedicesimo
e diciassettesimo secolo per designare le motivazioni reali e le tecniche del
potere statale, in contrasto con quelle presentate al pubblico).
Angleton nasce negli USA nel 1917. Dal 1943 al giugno 1944 presta servizio nell’OSS
a Londra. Arriva in Italia dopo il 4 giugno 1944 ed assume il comando della X-2,
il controspionaggio OSS. Dal febbraio 1943 è il coordinatore del
controspionaggio in Italia. Dirige di fatto i servizi segreti italiani fino al
1949, quando nasce il SIFAR, che continuerà a subire la sua influenza. Dal 1946
stabilisce rapporti di collaborazione con gruppi neofascisti. Nel 1947
contribuisce alla nascita del Mossad. Se ne deduce che il Mossad è consapevole,
a dir poco, della struttura dei servizi segreti italiani e delle sue pedine.
Diventa infine uno dei capi della CIA fino allo scandalo Watergate nel 1974, che
quindi costituisce un tassello nella storia del mondo molto più importante di
quello che è lasciato credere, costretto a dimettersi, muore nel 1987, ma la sua
azione nel contesto italiano continua a permanere indisturbata, anche per la
permanenza alla ribalta politica di uomini presenti nell’immediato dopoguerra.
Nota: nessun’organizzazione può fornire prestazioni più di quanto non consenta
il livello intellettuale di chi è interessato ad utilizzarne le informazioni.
Ciò vuol dire: capacità intellettuale di ricavare conclusioni, ammaestramenti,
suggerimenti. Evidentemente, anche menti sopraffine falliscono il fine
essenziale (che dovrebbe essere libertà e giustizia sociale), quando manca il
carattere.
Una dimostrazione di quanto poco abbiano contato o continuino a contare le
organizzazioni "antifasciste per definizione" è fornita dal brano che segue, di
Carlo Levi, acuto pittore ed osservatore politico del dopoguerra:
Scrive infatti Sergio Luzzatto in "La mummia della Repubblica", Rizzoli, 2001,
in un capitolo significativamente intitolato "Piazzale Loreto alla rovescia"…
Memorabile nel suo racconto autobiografico: l’orologio, la pagina sul passaggio
di consegne governative da Ferruccio Parri ad Alcide De Gasperi, presentato non
soltanto come una svolta politica -la fine dell’utopia resistenziale- ma anche
come un tournant corporale: l’avvento, o il ritorno al potere dei «visi
teologali e cardinalizi», ed insieme l’eclissi degli uomini impastati con la
«materia impalpabile del ricordo», costruiti con il «pallido colore» dei «caduti
per la libertà». Lo stesso Luzzatto, in un’arditissima sintesi
storico-antropologica dell’italianità, giunge a collegare alcuni elementi a suo
dire esemplificativi di una vocazione (condivisibile peraltro) corporale degli
italiani. Secondo questo storico, infatti, «Il ventennio fascista era stato
dominato, nella mentalità collettiva, dalla contrapposizione di due simboli: il
corpo vivo del Duce ed il corpo morto di Matteotti. E la guerra civile del
1943-1945 era stata anche una guerra intorno all’esposizione della morte… E la
Genova laureata della resistenza era una città altrettanto vogliosa di dare
pubblica esposizione del corpo imbalsamato di Mazzini di quanto Milano lo era
stata -un anno prima- di mostrare alla folla il corpo sfregiato di Mussolini …».
E l’autore così conclude, condivisibilmente, il suo scritto: «Quella dell’Italia
moderna è una storia tragica: è storia di sangue, di cadaveri e di lutti.
Dall’Unità in poi, ogni quarto di secolo una generazione di italiani ha
conosciuto lo shock di una tragedia corporale. Dopo la pietrificazione di
Mazzini, il regicidio di Umberto I nel 1900, dopo di questo, nel 24, il delitto
Matteotti; vent’anni più tardi l’assassinio di Mussolini e la pubblica
esposizione del suo cadavere in piazzale Loreto, infine il delitto Moro nel
1978».
Ci fa piacere riportare questa frase che esprime una concezione tragica della
storia e soprattutto sottolinea che, di contro all’aria spaesata ed infantile
che traspare dall’immagine oleografica degli italiani d’oggi, la Storia
d’Italia, cioè la storia politica del nostro paese, e senza citare gli aspetti
degli omicidi di massa come quelli della strage dei fascisti e del genocidio
delle genti dalmatiche ed istriane, è sempre e comunque una STORIA TRAGICA
perché in tragedia si è risolta la lotta politica nel nostro paese. Come
espresso con massima maestria dal nostro maestro Alfredo Oriani ("La Lotta
politica in Italia", "Rivolta Ideale", "Fino a Dogali", "Matrimonio", "Sì":
«Oggi il popolo si è abituato come gli antichi Re alle lusinghe dei cortigiani,
che gli carpiscono la delegazione del comando per abusarne nell’insaziabilità
della propria piccolezza, mentre il popolo se ne accorge nell’istinto di
fanciullo senza potervisi sottrarre. Quindi, presuntuoso perché ignorante,
timido perché ingannato… finisce per sdraiarsi nel fango della strada aspettando
l’appello di una nuova voce …»).
Gli opposti estremismi e la strategia della tensione, che sembra un espediente
di basso profilo per il controllo sociale rimesso in funzione di questi tempi,
pur costituendo un aspetto frequente della storia dei popoli, dimostrano
tuttavia quanto sia stato facile interferire nelle faccende interne del nostro
paese con la cosciente complicità di tanti italiani prestatisi al gioco
sotterraneo altrui per, a nostro avviso, puro istinto di servilismo.
È evidente che, di fronte a questi intrighi ed alle morti provocate, la guerra
civile del 1943-45 è stato un leale (assassinii dei GAP e dei SAP a parte)
scontro frontale fra concezioni politiche antitetiche talmente contrastanti da
provocare azioni e reazioni feroci.
Ma su quest’argomento occorre essere chiari. In un recente articolo pubblicato
sul quotidiano "Rinascita" del 2-3 giugno 2007, Gabriele Adinolfi, prendendo lo
spunto da alcune ammissioni di Adriano Sofri, che denunciava la sua
collaborazione con la CIA (peraltro ampiamente intuita da chiunque conoscesse i
retroscena di "Lotta Continua"), tenta di giustificare il comportamento di
quanti, appartenenti alla cosiddetta Destra Radicale, chiedendosi se
«comportarsi come uomini di stato e confrontarsi quindi consapevolmente con gli
apparati di potere, oltre ad essere velleitario come lo fu e disastroso come si
rivelò, comportava davvero una colpa etica in sé».
A nostro avviso, ovviamente, la risposta è affermativa, anche perché da parte
della nostra Federazione arrivavano avvertimenti a non comportarsi da bambini
sottosviluppati. L’Adinolfi poi, in conclusione, scrive: «È facilissimo essere
agenti inconsapevoli il che, funzionalmente parlando, non è affatto meglio
dell’esserlo consapevolmente… Oggi che siamo ad una terza fase della nostra
storia, oggi che non si compete più per il potere e che non si costruisce, se
non in rarissimi casi il contropotere, oggi che si recita e si rivendica senza
perseguire alcun obiettivo concreto nella virtualità spettacolare ed ammantati
da una mentalità democratica totale, oggi che si è pura nullità, cionondimeno le
infiltrazioni sono all’ordine del giorno, le provocazioni altrettanto, la nostra
strumentalizzazione è capillare e, qual che è peggio, non c’è alcuna
consapevolezza dei meccanismi avversi e delle manovre nemiche».
Anche questa frase deve essere commentata, perché Adinolfi, autorevole e seguito
esponente di un certo ambiente umano, esprime una denuncia che non si sa bene a
chi indirizzata. C’è un NOI dietro ai concetti espressi, ma in realtà chi
conosce la materia sa che si tratta di una nebulosa definita più da altri che da
un senso d’appartenenza che nel tempo si è dimostrato inconsistente, ovvero,
come dice l’autore stesso, inquinato da infiltrazioni e compromessi troppo
facili.
Come nell’altro versante, peraltro, quello dei Lottacontinua che, come riconosce
l’autore, stanno a Forza Italia e a Mediaset. Una bella conclusione per la
resistenza!
Ma Noi, e qui il Noi ci sta bene perché si tratta di noi della FNCRSI, queste
cose le abbiamo non solo pensate, non solo ne abbiamo parlato, ma le abbiamo
sempre scritte. E d’altronde…
Su "Nexus", edizione italiana di aprile-maggio 2007, un bell’articolo
dell’inglese Philip Collins, redattore capo di Conspiracy Times,
(www.conspiracy-times.com) è dedicato alla pratica degli Stati di scatenare
direttamente il terrore attraverso agenti provocatori reclutati dai servizi
segreti per indurre nella popolazione la paura e la disinformazione. Si tratta
di un bel quadro panoramico. Per quanto riguarda l’Italia, notevole importanza è
assegnata alle rivelazioni di Vincenzo Vinciguerra, ai libri del quale rinviamo
chiunque voglia approfondire il tema rendendosi conto della reale entità dei
fatti trattati.
Nascita della FNCRSI
La nascita della FNCRSI, avvenuta il giorno 5 settembre 1947 presso il notaio
Arcuri di Roma, è la risposta all’esigenza di rappresentare un patrimonio umano
ed insieme combattentistico, necessario in un momento di particolari tensioni e,
diciamolo subito, sbandamenti. Al 30 aprile 1949 la Federazione comprendeva. 10
ispettorati, 79 gruppi provinciali, 135 sezioni comunali, 2 sezioni estere
(Barcellona e Madrid) e 5 corrispondenti da Argentina, Brasile, Cile, Canada,
Uruguay.
La nascita del MSI è di poco antecedente: 26 dicembre 1946, nello studio romano
di Arturo Michelini, anche se anticipata da incontri avvenuti a Milano nello
studio dell’avvocato Redenti. In ambedue i casi, l’impronta fu decisamente
"anticomunista".
Anche se, per ovvie ragioni, è possibile registrare almeno per i primi decenni,
una costante comunicazione fra gli uomini delle due organizzazioni, la
Federazione è sempre stata fedele ad una linea politica che discende
direttamente da quanto stabilito nelle disposizioni dal Partito Fascista
Repubblicano. Questo fatto ha portato ad una sua lenta ma costante emarginazione
ed isolamento, ad opera soprattutto degli esponenti della linea "entrista" del
MSI che hanno sempre avuto una notevole possibilità di "convincimento". Come
documentato nel libro che presentiamo.
Nel suo recente "Fascisti senza Mussolini", lo storico Giuseppe Parlato racconta
dettagliatamente la storia del fascismo italiano dalla defenestrazione di
Mussolini nel 1943 fino al 1948. In un’intervista a Fabio Andriola, pubblicata
sulla rivista "Storia in Rete" gen/feb 2007, Parlato accenna ai contatti
coordinati nel 1944 da James Angleton con Borghese, Romualdi ed i coniugi
Pignatelli in funzione anticomunista. Secondo lo storico, ma anche secondo noi,
«... in sedicesimo nel MSI si riproposero le stesse dinamiche del Regime, con
una destra ed una sinistra unificate dalla figura mitica di Mussolini».
Tuttavia, fermo restando che un partito che raccogliesse i fascisti,
immobilizzandoli al di fuori dell’"Arco Costituzionale" o attraverso la "Legge
Scelba", faceva comodo a tutti, il MSI si muoveva nell’ambito di un atlantismo
ideologicamente corretto fin dalla sua nascita.
Per Andrea Ungari, che su "Nuova Storia Contemporanea", marzo-aprile 2007,
commenta la stessa opera, l’interpretazione è leggermente diversa. Infatti, «di
fronte allo schiacciamento dell’elettorato moderato sullo scudo crociato in
funzione anticomunista, solo un partito dai chiari connotati ideologici, pur
nostalgici e di per se antisistemici ed autoghettizzanti, e con riferimenti
valoriali ben precisi poteva salvarsi in occasione di una competizione politica
avvertita come uno scontro di civiltà. In tal modo, la strategia di Almirante
permise bene o male al partito di sopravvivere e quella riserva elettorale ed
ideologica consentì negli anni successivi a De Marsanich e a Michelini di
portare avanti quel processo d’inserimento nel sistema, inizialmente pensato dal
gruppo Romualdi, che si protrasse per tutti gli anni cinquanta concludendosi
nell’estate del 1960 a Genova …».
Per quanto ci riguarda, nessuno intende negare che il fascismo come qualsiasi
movimento politico in fase nascente, avesse molte anime. Secondo il conte
Ambrogino Lolli Ghetti, che fu strappato dalle grinfie partigiane dagli inglesi
grazie al loro innato rispetto per le famiglie nobiliari, il fascismo ne aveva
sette. Quella del fascismo regime, quella repubblichina, la monarchica, la
nazionalista, la cattolica, la massonica e la liberale. Lungi da noi pertanto un
giudizio negativo sui contenuti ideologico politici del MSI, oggi AN. Non
accettiamo però il reiterato tentativo di presentare il neofascismo, sotto
qualsiasi veste questo intenda presentarsi, come erede della RSI, che aveva, pur
nelle sue molte sfaccettature anche conflittuali come tutti gli organismi vitali
(vedi il recente "Intransigenti e moderati a Salò: i casi di Borsani e
farinacei", di Alessio Aschelter) un’inconfondibile linea di politica interna ed
estera. Per un’idea ancor più completa del dibattito interno può essere utile
anche l’ottimo libro di Luigi Emilio Longo: "RSI, antologia per un’atmosfera",
Edizioni dell’Uomo Libero.
Ma proseguiamo nella lettura dell’intervista. Secondo Parlato, «… alcuni
personaggi del neofascismo riuscirono a costituire il partito a soli venti mesi
dalla conclusione della guerra civile: costoro -i Romualdi, i Pignatelli, i
Buttazzoni, i Puccioni, solo per citare i più significativi- avevano vissuto la
fine della tragedia bellica e della sconfitta con una sorta di "carta di
riserva" che era costituita dall’anticomunismo. I contatti dei neofascisti ora
citati con ambienti più o meno rappresentativi dei servizi segreti americani,
con ambienti ecclesiastici, con settori massonici, con gruppi monarchici, con
rappresentati dei servizi israeliani non portarono ad una divisione interna del
mondo neofascista solo perché su tali contatti calò una spessa coltre di
silenzio; se la base avesse saputo con quali ambienti i capi del neofascismo
avevano trattato, probabilmente non ci sarebbe stato il MSI. Tutto è rimasto,
per sessant’anni nell’ambito delle voci e dei ricatti, inconfessati ed
inconfessabili, utilizzati soltanto per la delegittimazione politica di qualche
capo missino; il primo a farne le spese fu proprio Romualdi che, nella sua lunga
vita, non riuscì mai a diventare segretario del partito che aveva costituito».
Lo storico prosegue precisando che «è ovvio che coloro che trattarono non lo
fecero per interesse personale o, peggio, per tradire la causa fascista». Su
questo conveniamo anche noi, che rappresentiamo l’unica forza politica che "non
stette al gioco", non assecondò in alcun modo i molti tentativi di "uscita dal
tunnel del fascismo" portati avanti da intellettuali più o meno legati a quel
mondo, pagandone però le conseguenze, ma rilevando in ogni caso che in Italia
esistono più "Servizi" che segreti, e questi ultimi non sono certamente pochi.
In politica è necessario valutare i fatti, e questi ci dicono che la scelta
atlantica, anche se può essere legittimata in quanto legata ad una logica
contingente, nonché ad un’ideologia, l’anticomunismo, falsa e strumentale perché
l’Italia a seguito degli accordi di Yalta era stata posta sotto il protettorato
atlantico, non è mai stata una proiezione della RSI né tampoco dell’ideologia
fascista presa nel suo insieme.
Va aggiunto, come compendio, che la posizione esistenziale di "Esuli in patria"
secondo la felice definizione di Marco Tarchi, alla fine non ha dato altro
risultato che una "tenuta" del sistema centralistico democristiano che,
paragonato all’ideologia ed alla prassi di Alleanza nazionale resta pur sempre
un modello di virtù civiche.
Riportiamo, sempre di Tarchi, alcune considerazioni pubblicate su "Diorama",
gen-feb 2007, nell’articolo dedicato al libro di Parlato: «… Su questo
frammentato panorama prese poi a stendersi, dai primi mesi del 1946, l’ombra del
timore di un colpo di forza comunista sostenuto dalla Yugoslavia che su molti
ex-militi di Salò fece presa. All’insegna dell’anticomunismo gli ex-fedeli di
Mussolini s’imbarcarono nelle avventure più sconcertanti: molti intensificarono
l’abbraccio con i nemici di solo pochi mesi prima -statunitensi e monarchici in
testa- offrendo disponibilità per qualunque progetto controrivoluzionario, da
chiunque diretto, mentre in qualche caso si andò addirittura oltre, come quando
(le carte scovate da Parlato non lasciano dubbi) un gruppo di ex-marò della X
Mas collaborò con l’Irgun Zwai Leumi per far giungere di soppiatto imbarcazioni
italiane ad attivisti sionisti, affondare una nave egiziana, realizzare un
attentato contro l’ambasciata britannica a Roma e poi fornire armi detenute
clandestinamente ai servizi segreti del neo costituito Stato di Israele, atti
non esattamente scontati da parte di alleati fino all’ultimo giorno del Terzo
Reich. In un panorama così ricco di spioni, avventurieri, doppiogiochisti,
millantatori e sognatori, non mancavano comunque le persone serie e
disinteressate. Fu grazie a loro, ed a volte ai loro danni che l’aggregazione
politica del neofascismo poté realizzarsi, nei modi descritti nel libro di cui
ci stiamo occupando. Puntando su alti richiami ideali, di cui si facevano eco in
modo articolato ed in qualche caso contraddittorio le prime pubblicazioni
dell’area, come "Rivolta Ideale", "Rataplan", "Rosso e Nero", "Meridiano
d’Italia", "Fracassa", Romualdi ed i suoi s’impegnarono nella costruzione di un
movimento che, come Parlato a ragione sottolinea, nasceva borghese ed
anticomunista perché il suo obiettivo primario era "difendere lo stato borghese
che il fascismo aveva validamente contribuito a rafforzare, pur con
caratteristiche proprie e peculiari che lo rendono dissimile dalla società
liberale classica". D’altronde, in un recente libro "Il principe nero" di Jack
Greene e Alessandro Massignani, Mondadori, la conclusione è questa: l’unica cosa
certa è il rapporto ininterrotto del principe con i servizi italiani e
americani, accomunati dalla convinzione che l’Italia non poteva uscire dalla
sfera occidentale e disposti per questo anche ad agitare il fantasma del vecchio
comandante, come commenta A. G. Ricci su "Storia in Rete" di aprile 2007.
L’obiettivo non poteva essere condiviso dai sostenitori del fascismo di
sinistra, come Giorgio Pini, Concetto Pettinato, Ernesto Massi, che opponevano
alla vocazione al compromesso del neofascismo romano una posizione intransigente
condivisa soprattutto dai simpatizzanti residenti al Nord, ma ad onta dei
distinguo e dei dubbi il progetto di Romualdi, in una prima fase, prevalse, ed
il 26 dicembre 1946, nello studio di A. Michelini, dopo frenetiche trattative
fra singoli, gruppi e direttori di testate giornalistiche, il Movimento Sociale
Italiano vide la luce».
La premessa di tutto il daffare romualdiano era proporre il movimento
neofascista come il più dinamico dei movimenti anticomunisti, al fine di
ottenere l’approvazione ed il voto degli italiani moderati. Ma così aggiunge
Tarchi: «Peccato che prima ancora di radicarsi nel paese la parola d’ordine
anticomunista avesse fatto breccia fra i fondatori del neofascismo, spingendoli
a mettere in soffitta una gran parte delle idealità del passato e ad
accontentarsi di una formazione ben decisa a collocarsi nell’area nazionale e
moderata con la benedizione di ambienti vicini al Vaticano, di servizi segreti
americani ed anche degli stessi democristiani, che speravano così di arginare le
tentazioni di avvicinamento di molti reduci della RSI alla sinistra».
Commento irreprensibile e veritiero, al quale occorre aggiungere alcune
considerazioni da parte nostra, anche se apparentemente a posteriori. Non
crediamo di dichiarare qualcosa di strano se affermiamo che il momento che sta
passando l’Italia è caratterizzato da una grande crisi politica e morale. Questa
crisi non giunge, ovviamente, per caso, ma da lontano. E viene proprio a causa
dell’abdicazione dalla tensione degli ideali nati e vissuti nella prima metà del
secolo ventesimo attuata da tutti i partiti politici dell’Italia post-bellica,
presumibilmente sullo stimolo programmatico dell’americanismo.
Interessanti, per un’idea complessiva della vastità e della non casualità del
fenomeno, i libri di Massimo Cacciari, "Geo-filosofia dell’Europa", Adelphi e
Maurizio Blondet, "I fanatici dell’Apocalisse", Il Cerchio, nonché l’intera
opera di Augusto Del Noce. Nei due libri citati gli autori pongono l’accento
sulla coincidenza del Nuovo Ordine Tecnocratico col Capitalismo
Internazionalista delle Multinazionali supportati dal fondamentalismo
giudeo-cristiano, mentre Del Noce, vox in deserto, ha sempre sostenuto fino alla
morte che il comunismo sconfitto si sarebbe trasformato in un elemento della
società borghese, dominata da una classe che tratta ogni idea come strumento di
potere. Di questa realtà si è fatto di recente portavoce anche un personaggio
ambiguo come Achille Occhetto, il quale, all’indomani della decisione dei DS di
dar vita al Partito Democratico, ha rilasciato un’intervista ("E Polis", 18
aprile 2007) nella quale dice testualmente: «I grandi avvenimenti non finiscono
mai a causa delle degenerazioni successive (…) questo è momento estremamente
basso che nasce dal fatto che una parte di coloro che avevano partecipato alla
svolta hanno poi snaturato il processo politico che si era aperto (...) prevalse
la linea degli inciuci interni, delle continue compromissioni che molto
probabilmente erano già dentro il DNA del vecchio Partito Comunista».
A noi sembra che una grande responsabilità incombe proprio sulla classe
dirigente neofascista che avrebbe potuto farsi portavoce di una categoria di
persone decise a tener duro proprio sui princìpi di fondo. E proprio contro i
cedimenti di tutto il mondo circostante, ad iniziare da quello cattolico, che
aveva trescato con l’americanismo, il protestantesimo, la massoneria
americanocentrica, ricordiamo il viaggio in USA di Pacelli nel 1936 su cui
pochissimo si scrive, e l’"amicizia" di Roosevelt con l’arcivescovo di Chicago,
card. Mundelein, per finire coi comunisti che hanno innescato la guerra civile
nell’interesse esclusivo degli alleati.
Si tratta solo di compromessi e di piccole o grandi viltà. Noi ci rendiamo conto
che dopo una guerra devastante come quella finita apparentemente nel 1945 il
disorientamento fosse generale, ma è proprio per questo che noi affermiamo che è
mancata una classe dirigente adeguata al momento storico.
Inutile aggiungere che il naturale corollario di questa situazione è costituito
dalla possibilità di inventare impunemente e far vivere l’intera popolazione
italiana in una farsa come quella della Guerra Fredda. Nessuno, eccettuata la
nostra Federazione, ha denunciato sistematicamente questo insulto
all’intelligenza degli italiani. Solo ora qualcuno si sveglia. In un libro edito
di recente, un giornalista esperto in storia militare e spionaggio, Giorgio
Boatti ("C’era una volta la Guerra Fredda", Baldini & Castoldi, 1994) scrive:
«Talvolta la Guerra Fredda porta con sé un sospetto: e se fosse stata tutta
un’illusione? Se tutta questa interminabile vicenda popolata di spie, di soldati
senza divisa, di maestri di trucchi e inganni, fosse solo, a sua volta,
un’invenzione delle spy-story? Se tutto questo conflitto, mai trasformatosi in
guerra guerreggiata, e tuttavia scandito da spietati duelli tra organizzazioni
di spionaggio votate al silenzio come antiche trapperie, dedite a violenze fuori
da ogni regola come moderne gangsterie, fosse un miraggio? Se tutta
quest’epopea, anziché essere la realtà vera, fosse la quinta monotona ed opaca,
frapposta fra la realtà stessa e mezzo secolo di storia? Se questa fissità che
batte e ribatte sempre sullo stesso chiodo -lo scontro fra il Comunismo ed il
Capitalismo, tra Est ed Ovest- avesse voluto far scordare gli imprevisti e gli
accadimenti di una realtà mozzafiato e cangiante, in contraddizione totale con
gli scenari, dispiegati dalle due superpotenze, di controllo globale sull’ordine
e sui disordini del pianeta?»
Attualità della geopolitica socialrepubblicana
«Tutto ciò che è esagerato è
insignificante»
Klemens di Metternich |
Come noto, l’elaborazione classica della geopolitica vede uno scontro costante
dell’Oceano contro il Continente. [Vedi: K. Haushofer, "Geopolitica delle idee
continentaliste", Nuove Idee ed. e André Vigarié, "Economia marittima e
geostrategia degli oceani", Mursia, 1992]
«Qualsiasi spazio ha il suo valore politico», diceva Ratzel, ed anche in un
momento in cui alcune trasformazioni propiziate dalla tecnologia (Internet,
aeronautica e missilistica, dominio spaziale) hanno cambiato la vecchia
concezione dello spazio, occorre tener sempre presente il determinismo della
geopolitica. Ci sono scelte obbligate alle quali non ci si può sottrarre.
«La storia mondiale -diceva Carl Schmitt- è la storia della lotta delle potenze
marittime contro le potenze continentali e delle potenze continentali contro le
potenze marittime».
Anche se il mare è stato rimpiazzato dallo spazio, è facile costatare che la
politica di potenza dei Theocons si basa ancora sull’uso delle flotte, sia pure
ricche di portaerei. Secondo Lyndon LaRouche, l’attuale quadro politico che vede
contrapposto il potere mondialista statunitense a quello continentale
rappresentato dai due assi: Madrid, Parigi, Berlino, Mosca e Mosca, Teheran,
Nuova Delhi, sarebbe la manifestazione di un perdurante asservimento della
dirigenza nordamericana nei confronti della vecchia geopolitica imperiale
britannica, che avrebbe anche oggi il suo centro a Londra. Si tratta di una tesi
sostenibile. Non a caso il teatro delle operazioni è sempre il grande gioco che
opponeva fin dalla nascita dell’imperialismo inglese, il Regno Unito alla
Russia: Asia Centrale, Mesopotamia, Iran, Afganistan.
Volendo, tutta la storia dell’umanità potrebbe essere racchiusa in questo
contrasto. In particolare il mondo moderno e contemporaneo ce ne danno una
visione plastica, con le potenze marine (Regno Unito ed USA) tese ad impedire
qualsiasi processo di unificazione del Vecchio Continente. In quest’ottica la
storia d’Italia, a causa della sua posizione geografica è la storia di
un’oscillazione. Quella posizione strategica che fu la forza di Roma, oggi ne
rappresenta la debolezza. Che tali oscillazioni sotto la forma di possedimenti
di altre potenze o di scelte autonome in questo contesto importa poco. Resta il
fatto certo che l’unità nazionale, ottenuta sul finire del XIX secolo ed anche
dopo una lenta e contrastata maturazione durata oltre cento anni, è stata resa
possibile dal complesso gioco delle potenze egemoni.
Se esuliamo dai fattori personali e ci soffermiamo sulla nostra storia
guardandola dal punto di vista geografico, possiamo con facilità notare che
esistono almeno tre Italie. Queste tre Italie hanno differenti poli
d’attrazione. Non ci sembra che finora, nel dibattito politico, sia emersa la
necessità di tenere conto di queste differenze che potrebbero portare, un domani
piuttosto vicino, a pericolose lacerazioni. Se, ad esempio, il movimento padano
(Lega Nord) si è momentaneamente invischiato nel pantano della «politica
romana», non è detto che in futuro, di fronte a pressanti richieste
eurocentriche non trovi il modo di sviluppare scelte economico-politiche più
legate alla propria collocazione geografica. Similmente, il Sud potrebbe
stancarsi di essere mantenuto dai contributi romani e fare scelte autonome che
riflettano la posizione di privilegio nel cuore del Mediterraneo.
Un dato che potrebbe far riflettere, ma non sembra che qualcuno finora ci abbia
posto l’attenzione necessaria, è la storia della Padania durante il periodo
bonapartista, che non fu poca cosa per una serie di ragioni (Vedi: Matteo Angelo
Galdi, "Necessità di stabilire una repubblica in Italia", Salerno ed. pubblicato
per la prima volta nel 1796):
1) Il genio ordinatore di Napoleone, valido ancor oggi, visto che le leggi
napoleoniche sono il riferimento ordinativo per tutti i paesi europei, nella
visione generale di una nuova Europa unita ed imperiale, della quale la Padania
non poteva che essere il cardine.
2) La storia secolare della Padania, almeno fin dal Regno Ostrogoto d’Italia,
che l’ha vista gravitare verso il baricentro europeo più che verso il sud.
3) L’attuale concentrazione dell’attività industriale ripartita in macro zone
contigue ed integrate con le confinanti regioni di altre nazioni. In un processo
d’integrazione europea accentuato, vi si formeranno unità territoriali destinate
a gravitare verso le capitali delle nazioni preesistenti e c’è poco da sperare
che tali zone possano gravitare più su Roma che su Parigi, Vienna, Berlino.
4) Il sud d’Italia esposto da sempre alle scorribande inglesi (vedi la storia
delle insorgenze siculo-calabresi 1799-1815 circa ed il brigantaggio
post-unitario).
5) La Marcia su Roma del 1922 che parte dal Nord e la conquista d’Italia degli
Atlantici che inizia dal Sud.
6) Il fatto che, contrariamente ad altre formazioni governative italiane, già
feudatarie dell’Impero, solo la Padania, tanto come Repubblica Cispadana, poi
Cisalpina, infine come Regno Italico seguì il destino imperiale.
7) Il ruolo di portaerei statunitense della Sicilia, dal 1943 ad oggi.
Geopolitica imperialista degli USA e geopolitica dell'Unione
Europea
«La politica estera di un paese rispecchia gli interessi di
coloro i quali di esso controllano il sistema politico»
S. R. Shalom, "Alibi Imperiali", Synergon
«Qual è il vantaggio delle manovre e delle esibizioni di forza se non le usi
mai?»
Gwertzman, "Steps to invasion"
«Quando, dall'alto della sua opulenza, l'America predica il Vangelo della
democrazia a paesi che non hanno alcuna possibilità di giungere all'opulenza, il
messaggio non assume il significato che dovrebbe avere. Mai l'America ha dovuto
registrare tanti fallimenti, così massicci, duraturi, come da quando ha tentato
di "esportare" la democrazia»
David Potter, 1954
«Il vero problema non è solo l'avidità degli individui, ma l'intera
deregolamentazione del settore bancario e delle imprese, la natura speculativa
dell'economia degli Stati Uniti»
Casadio, Petras, Vasapollo.
«… un secolo prima, Cromwell ed il popolo inglese avevano preso a prestito dal
Vecchio Testamento le parole, le passioni, le illusioni per la loro rivoluzione
borghese. Raggiunto lo scopo reale, condotta a termine la rivoluzione borghese
della società inglese, Locke dette lo sfratto ad Abacuc (Karl Marx) (…) i
costituenti americani a loro volta trassero da una costola della "Gloriosa
Rivoluzione", le parole, le passioni e le illusioni per le battaglie cruciali
con cui s'emanciparono dalla monarchia di Londra. (…) Da allora, trasformate nei
contenuti ma trascinate lungo i decenni, quelle immagini politiche sono rimaste
a far parte delle fonti ideologiche dell'americanismo»
"Lotta Comunista", anno XXXIX, n. 398 (Organo dei gruppi leninisti della
sinistra comunista)
«In tutto il mondo, in un giorno qualsiasi, un uomo, una donna o un bambino
verranno probabilmente deportati, torturati, uccisi o scompariranno ad opera di
governi o gruppi politici armati. Nella maggior parte dei casi, tra i
responsabili di quegli atti, ci saranno gli Stati Uniti»
Rapporto Amnesty International 1996, riportato da Antonella Randazzo in
"Dittature, la storia occulta". Il Nuovo Mondo ed, febbraio
2007.
L'imperialismo americano non era la naturale estensione di un espansionismo
cominciato con le origine stesse dell'America. Né era il naturale risultato di
un sistema mondiale capitalistico di mercato che l'America aiutò a rinascere
dopo il 1945.L'imperialismo americano, quali che fossero i mezzi assunti
dall'America per dominare, organizzare e dirigere il "mondo libero" era il
prodotto della corrente rooseveltiana del New Deal. Le due convinzioni di base
del New Deal erano che il sistema capitalistico concorrenziale non era più in
grado di assicurare il pieno impiego, condizione indispensabile per la stabilità
sociale, attraverso il suo normale funzionamento, e che le crescenti esigenze
dei poveri e degli oppressi avrebbero potuto creare un caos un caos
rivoluzionario. Da queste due convinzioni se n'affermò una terza con conseguenze
operative: solo un governo nazionale potente poteva salvare il capitalismo
concorrenziale dalle contraddizioni sue proprie (…) La seconda guerra mondiale
dimostrò ai liberali rooseveltiani che il ND poteva produrre miracoli e che quei
miracoli accadevano soltanto quando la gente si sentiva minacciata da nemici
esterni criticabili dal punto di vista ideologico: il fascismo in sue varie
forme, era chiaramente un "nemico ideologico" della corrente radicale del New
Deal»
F. Schurmann, "La Logica del Potere", Il Saggiatore, 1980
«Il militarismo e l'interventismo si sono rivelati utili anche ai presidenti
americani. Quando le politiche interne sono volte sistematicamente alla
riduzione degli standard di vita del cittadino medio ed alla ridistribuzione del
benessere ai ricchi, un diversivo per chiamare a raccolta la gente attorno alla
bandiera può fornire un aumento salutare degli indici di popolarità del
presidente. Un pantano come il Vietnam può rivelarsi la rovina di
un'amministrazione, ma non c'è niente di meglio di un'operazione lampo, contro
un avversario più debole senza speranza, per rilanciare la popolarità di un
presidente: come testimoniano le aggressioni a Grenada, alla Libia, a Panama,
all'Iraq»
S. R. Shalom, "Alibi Imperiali", Synergon |
Per chiarire meglio le lungimiranti scelte mussoliniane e le conseguenti scelte
della nostra Federazione, occorre un rapido excursus sugli avvenimenti recenti,
e per escludere qualsiasi possibilità di interpretazione unilaterale degli
avvenimenti ci limiteremo a quanto scritto su testi facilmente reperibili.
L'imperialismo statunitense nasce e si sviluppa assieme alla sua potenza
economica.
Le tappe dell’ascesa a grande potenza economica degli USA non sono un mistero,
meno noto è il fatto che in questa grande "democrazia", nel 1913 il 2% degli
americani guadagna il 60% del reddito nazionale. Si tratta pertanto di
un’oligarchia del denaro che ha sempre piegato la geopolitica di quel paese ai
propri interessi. L’acquisto dell’Alaska, una chiara indicazione delle strategie
d’espansione che privilegiano il Pacifico, avviene nel 1867, appena dopo la fine
di una guerra intestina che avrebbe dovuto provocare un disastro economico (che
evidentemente lo fu solo per i sudisti perdenti).
Che quella statunitense sia stata una storia di violenze e di sopraffazioni
anche intestine, è documentato non solo dal genocidio dei nativi, si tratta di
non meno di cinque milioni di persone, (a cominciare dalle battaglie combattute
da Washington stesso, 1757-63, nell’ambito della guerra coloniale
anglo-francese), sed etiam da quello che accadde durante le battaglie per
l’indipendenza combattute per lo più da francesi e tedeschi (1775-83), con
stragi, impiccagioni di coloni lealisti, uccisioni di prigionieri di guerra,
come documentato da un recente libro. D. H. Fischer, "Washington’s Crossing",
Oxford University Press, 2006.
E neppure il termine tanto utilizzato dal presidente Bush per qualificare i
paesi che si difendono dall’egemonia a stelle e strisce, "Stati canaglia", è
concettualmente nuovo. Infatti, il presidente Jefferson già nel 1816 aveva
espresso ampie minacce contro i "Barbarian States".
Nel 1895, l’esplosione di una nave da guerra, il Maine, davanti all’Avana
provoca la guerra contro la Spagna che entra in una crisi secolare. Seguono le
conquiste di Cuba, Guam e Portorico, l’annessione delle Hawaii e delle Filippine
(1897-1901), Samoa (1899), Canale di Panama (1903-1914); segue poi la Prima
Guerra Mondiale e l’ingerenza statunitense nelle cose d’Europa, non prima di
aver fatto dissanguare le popolazioni europee.
In questo periodo comunque, abbiamo un enorme arricchimento del capitalismo
statunitense con le forniture di materiale bellico e di petrolio, con
l’imposizione di tariffe commerciali che permangono tuttora. Segue il
finanziamento della rivoluzione russa, ma anche della contro rivoluzione per
gestire il conflitto e l’imposizione al mondo dei 14 punti di Wilson creati con
evidente astuzia per mantenere una situazione di conflittualità latente fra le
popolazioni europee. Lo stesso dicasi per la nascita del "focolare ebraico" in
Palestina deciso a due con il Regno Unito e destinato a permanere nel tempo come
stimolo permanente di conflittualità nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, per
il controllo delle rotte delle materie prime industriali ed energetiche. Questo
focolare, che insanguina la cosiddetta «terra santa» da quasi un secolo,
finanziariamente dipende in larga misura dalla comunità ebraica statunitense,
che è ben integrata nel sistema americano. Mentre, per il suo livello di vita,
per le sue possibilità tecniche si colloca nell’area dei paesi sviluppati (al
prezzo della povertà e dello sfruttamento integrale della componente
palestinese). È proprio come voleva Herzl, una testa di ponte del mondo
industrializzato capitalistico in mezzo ad un mondo sottosviluppato. (M.
Rodinson, "Israele ed il rifiuto arabo", Einaudi)
Seguono il secondo conflitto mondiale e la guerra fredda, utili per giustificare
uno stretto controllo nelle zone d’influenza e per giustificare le spese
militari, cioè l’arricchimento dell’industria pesante. A questo punto ciò che
maggiormente stupisce è il silenzio dei Media sugli argomenti testé trattati,
che invece dovrebbero essere ricordati da qualsiasi giornalista onesto in ogni
articolo che tratti delle guerre in corso.
Per la verità abbiamo trovato un solo indizio di denuncia del comportamento
americano in una rivista del 1921, "Il Nuovo Patto", diretta da G. Provenzal,
che contiene l’articolo di G. Racca dal titolo significativo: "L’ingerenza
americana nelle cose d’Europa".
Il mito amerikano, diffuso ad arte e favorito dalla cinematografia (film di
guerra e film rosa) e dalla letteratura (edita in Italia ancor prima del
conflitto) agirà prepotentemente anche durante il conflitto e la graduale
occupazione dell’Italia. L’uso spregiudicato della propaganda psicologica è una
delle armi che prendono sempre alla sprovvista. Ad esempio, solo per citare un
caso, il terrorismo atomico viene esercitato non solo col possesso della
"bomba", ma col reclutamento di ogni altro strumento di comunicazione.
Un esempio è rappresentato dal coinvolgimento degli "scienziati" che, fingendosi
pacifisti seminano il terrore. Un libro edito in Italia nel 1946 è indicativo.
Si tratta di un testo dal titolo emblematico: "Il mondo unito o il caos", che
coinvolge personalità come Bohr, Compton, Einstein, Oppenheimer, e con
un’appendice di G. Giorgi sull’opera di Fermi. Per nostra fortuna, la
proliferazione della bomba e dell’energia atomica ha reso gli USA piuttosto
guardinghi sul suo uso indiscriminato, facilitando la colossale sconfitta del
Vietnam.
Tuttavia, è proprio dopo l’oscuramento dell’URSS e la scomparsa di un probabile
antagonista che la smania di potere si impossessa delle classi dirigenti
americane che da tempo avevano progettato la globalizzazione.
«… La finanziarizzazione dei processi economici è anche l’indice di un
sostanziale spostamento del potere. Il complesso dei fenomeni analizzati, la
crescita delle disuguaglianze e della concentrazione del reddito e della
ricchezza, il venir meno del bilanciamento del potere all’interno delle grandi
imprese rispetto al potere del capitale finanziario con il formarsi di una sorta
di oligarchia, il cambiamento della natura delle imprese e la loro
finanziarizzazione con il crescente esclusivo ruolo del Top Management, lo
spostarsi del potere di decisione verso istituzioni finanziarie sempre più
concentrate, insomma l’evidente spostamento del potere nel complesso dei sistemi
economici, sta avendo una ricaduta inevitabile sul funzionamento dei sistemi
politici e della democrazia. Il rapporto tra capitalismo e democrazia è tornato
ad essere problematico …» secondo il supplemento del giugno 2003 di "The
Economist", «Le imprese pongono un problema per la democrazia con la loro stessa
esistenza, a causa del loro comando sulle risorse, potere di persuasione e molti
privilegi legali….».
Così Silvano Andriani nel libro: "L’ascesa della finanza. Risparmio, banche,
assicurazioni: i nuovi assetti dell’economia mondiale", Donzelli ed. Questo è il
ritratto della Globalizzazione e la fotografia dell’Italia di Prodi. Possiamo
anche aggiungere che si tratta del prodotto della "civilizzazione americana". È
l’americanizzazione del mondo, dentro la quale l’Europa dovrebbe svolgere il
ruolo di provincia dell’impero. Quel tipo di società che Noi abbiamo sempre
combattuto.
Ne da un’inequivocabile descrizione l’intervento alla Commissione Esteri del
Senato statunitense il 17 febbraio 1950 di James Paul Warburg, figlio
dell’ideatore della Federal Reserve Bank, già direttore dell’Office of War
Information, adepto del Council of Foreign Relations: «La grande questione del
nostro tempo non è se si possa o non si possa arrivare ad un governo mondiale,
ma se si possa o non si possa arrivare ad un governo mondiale con mezzi
pacifici. Lo si voglia o no, arriveremo ad un governo mondiale. La sola
questione è se ci arriveremo con un accordo o con la forza». (Tratto da:
Gianantonio Valli, "Holocaustica Religio", Effepi ed. 2007)
Ma queste verità, per noi lapalissiane, sono negate negli States dagli esponenti
di punta dei neocon ed in Italia dai Radicali ("I più vicini a noi sono Emma
Bonino and Company", M. Ledeen, 2003).
«C’è una profonda differenza tra una grande potenza ed un paese che cerca di
esercitare il proprio dominio su altri paesi, che è poi la vera essenza di un
impero. L’espansione del libero mercato non rappresenta una forma di
imperialismo (!), a meno che non si seguano le teorie marxiste. L’America non è
un impero anche se, per certi aspetti, ha esercitato un’influenza maggiore di
qualsiasi altro impero (!)» Robert Kagan, "American As a Global Hegemon", ("The
National Interest", 23 luglio 2003), tratto da Christian Rocca, "Esportare
l’America", "I libri del Foglio", 2003.
C’è anche un altro libro dal quale trarre alcune informazioni. Si tratta di
"Alibi imperiali" di S. R. Shalom, edito in Italia da Synergon nel 1995.
«Interferire negli affari degli altri Stati, scrisse Charles Krauthammer,
redattore di "New Republic", è l’insieme degli scopi della politica estera.
L’appello alla pace, Krauthammer lo interpreta come disarmo unilaterale. Gli
Stati Uniti devono mantenere un grande esercito, tecnologicamente avanzato,
presente ovunque nel mondo. Anche se la minaccia sovietica è scomparsa, fa
notare Krauthammer nel marzo del 1990, c’è sempre la minaccia della Russia, e se
questo non bastasse, semplicemente non sappiamo quali progetti di lungo periodo
perseguono Germania, Cina, Giappone… "Gran parte di questo repentino accorrere
per far rispettare la legge o per mantenere l’ordine ad ogni costo -afferma un
famoso editorialista conservatore come W. Safire del "New York Times"- serve
soltanto a giustificare la continuità agli enormi bilanci militari". "Nessun
altro paese dispone di una potenza militare neppure lontanamente paragonabile
alla nostra -ha scritto il generale Colin Powell- Siamo noi che dobbiamo guidare
il mondo e non potremmo assolvere questo gravoso compito se non avessimo forze
armate tanto poderose". "Solo gli Stati Uniti -disse Bush al popolo
americano-dispongono di una potenza globale in grado di sbarcare una massiccia
forza di intervento nelle località più lontane ed inaccessibili, con la rapidità
e l’efficienza necessarie per salvare la vita a migliaia di innocenti" (Peccato,
aggiungiamo noi, che nel caso dell’invasione di Santo Domingo, della Cambogia,
per cui il caso della nave mercantile Mayaguez ricorda molto da vicino la
recente provocazione inglese nelle acque territoriali iraniane… il deputato Pat
Schroeder dichiarò per l’occasione: "Non abbiamo provato nulla al mondo tranne
che questo Presidente vuole, come volevano i suoi predecessori, utilizzare
affrettatamente l’esercito degli Stati Uniti contro i piccoli paesi, senza
badare al diritto"; di Grenada, di Panama, ed il sostegno indiretto ai massacri
in Guatemala, Indonesia, Timor Est, Uganda, per non citare che i più
raccapriccianti, dimostrino che mai sono stati effettivamente salvati degli
innocenti). Nel marzo del 1991, il segretario alla Difesa Dick Cheney dichiarò
che "gli Stati Uniti, sulla scia della guerra all’Iraq avrebbero venduto più e
non meno armi al Medio Oriente". Come scrisse il "Washington Post", "analisti
dei servizi segreti americani ed israeliani imputano alla guerra Iran-Iraq
(provocata dagli USA e da Israele, n.d.r.) la maggior parte degli sviluppi
destabilizzanti l’equazione militare in Medio Oriente, l’impiego generalizzato
dell’uso di missili contro le popolazioni delle città, l’utilizzo d’ingegneria
locale per estendere maggiormente la portata dei missili e l’acquisizione di
testate chimiche».
Robert Kagan e William Kristol, tra i più autorevoli esponenti teocon (con
Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz), hanno scritto il 25 agosto 2003 su "The Weekly
Standard": «Ci sono più cose in gioco in Iraq che la semplice visione di un
Medio Oriente migliore e più sicuro. Sono in gioco il futuro della politica
estera americana, la leadership americana nel mondo e la sicurezza americana. Un
fallimento in Iraq sarebbe un colpo devastante per tutto quello che gli Stati
Uniti sperano di realizzare e devono realizzare nei prossimi decenni». (Tratto
da "Affari Esteri", n. 140, ottobre 2003)
Per non dilungarci ulteriormente su un argomento arcinoto, ci limitiamo a citare
alcuni fra i tanti libri pubblicati sull’argomento che dimostrano
inequivocabilmente la volontà di dominio degli USA sul mondo intero, per
mantenere costante il tenore di vita degli americani, come dichiarò Reagan,
laddove per "americani" deve intendersi la sola classe dirigente.
Mario Calvo Blatero, "Il modello americano. Egemonia e consenso nell’era della
globalizzazione", Garzanti, 1996.
G. Valdevit, "I volti della Potenza", Carocci, 2004.
G. Bertolizio, "Breve storia degli USA e getta", Ed. Clandestine, 2006.
R. B. Stinnet, "Il giorno dell’inganno. Pearl Harbor: un disastro da NON
evitare", Il Saggiatore.
W. Blum, "Con la scusa della libertà", Marco Tropea, 2003.
Claude Julien, "L’impero americano", Il Saggiatore, 1969.
Casadio, Petras, Vasapollo, "Clash! Scontro tra le potenze. La realtà della
Globalizzazione", Jaka Book, 2003.
Antonio Donno, "Gli Stati Uniti, il sionismo ed Israele 1938-1956)", Bonacci ed.
1992.
Jean Prassard, "Dominio", Capire ed. 2002
Robert Kagan, "Paradiso e Potere. America ed Europa nel Nuovo Ordine Mondiale",
Mondadori.
Mike Davis, "Cronache dall’Impero", Manifestolibri, 2004.
Christopher Hitchens, "Processo a Henry Kissinger" Fazi ed. 2003.
Marianne Debouzy, "Il capitalismo selvaggio negli Stati Uniti (1860-1900)",
Arianna ed. 2002.
AA.VV. "Iraq. Dalle antiche civiltà alla barbarie del mercato petrolifero", Jaca
Book, 2003.
Bertani-Buttarelli, "L’Impero colpisce ancora", Malatempora, 2003.
Z. Brzezinski, "La grande scacchiera: la supremazia americana ed i suoi
imperativi geostrategici", Longanesi, 1998.
Brisard-Dasquié, "La verità negata. Una voce fuori dal coro racconta il ruolo
della finanza internazionale nella vicenda Bin Laden", Tropea ed. 2002.
N. Hertz, "La conquista silenziosa. Perché le multinazionali minacciano la
democrazia", Carocci ed. 2003.
E. Laurent, "Il potere occulto di G. W. Bush. Religione, affari, legami segreti
dell’uomo alla guida del mondo", Mondadori, 2003.
B. Li Vigni, "Le guerre del petrolio", Ed. Riuniti, 2004.
G. Santoro, "Il mito del libero mercato", Barbarossa ed. 1997.
W. I. Cohen, "Gli errori dell’Impero americano", Salerno ed. 2007.
F. Zavaroni, "USA, Occidente, Libertà. Egemonia americana tra economia,
informazione, repressione, "Ed Riuniti, 2007.
Per concludere, quindi, appena finite vittoriosamente nel 1865 le guerre
d’indipendenza dall’Inghilterra, (la guerra di Secessione fu in realtà una
guerra contro il Regno Unito la cui economia si basava essenzialmente sul cotone
prodotto negli Stati Confederati), l’imperialismo statunitense si è sviluppato
fino ad oggi con impressionante cadenza ritmica senza incontrare ostacoli
efficaci, mentre l’Inghilterra si è gradualmente trasformata in una propaggine
dell’asse atlantico ed una scheggia nel fianco dell’Unione Europea. Ma le cose
stanno cambiando.
Il riscatto europeo
«L'Europa non può vivere senza
patrie e, certamente, morirebbe se osasse distruggerle, perché sono
i suoi organi essenziali; ma le patrie non possono più vivere senza
l'Europa. L'hanno dilaniata nel periodo della loro crescita
meravigliosa, come ragazzi che si emancipano crudelmente dalla madre
per divorare la loro parte di destino, ma oggi devono rifugiarsi e
riprendere energie dentro di lei»
P. Drieu La Rochelle, "Le francais d'Europe", 1941
«Quale deve essere oggi la parola d'ordine, il grido di guerra del
Partito: azione, azione una, europea, incessante, logica, ardita, di
tutti, per tutti, per ogni dove»
G. Mazzini, 1850 |
Lungi da noi voler fare una storia dell’Unione Europea. Ci limitiamo soltanto a
documentare alcuni passaggi che dimostrano la volontà di riscatto dei popoli
d’Europa.
È curioso come, dopo il gran bagno di sangue del primo conflitto mondiale, la
prima voce in senso europeista sia di un nobile nippo-ungherese:
Coudenhove-Kalergi, che nel 1923 fonda l’Unione Paneuropea in senso federalista.
Nel 1947 promosse la costituzione dell’Unione Parlamentare Europea, di cui fu il
primo presidente onorario (1952-1965). Evidentemente, aver vissuto la gioventù
il Giappone gli aveva dato la possibilità di vedere le cose d’Europa in
prospettiva.
La spinta all’unificazione era però sentita in molti ambienti. In quello
sindacale, ad esempio. Abbiamo come riferimento il libro del noto sindacalista
francese Gaston Riou, "Europe, ma patrie", edito a Parigi nel 1928 proprio
nell’ambito di una Biblioteca Sindacalista. Dal 14 al 20 novembre 1932 si tenne
il famoso Convegno di Scienze morali e storiche indetto dalla Fondazione
Alessandro Volta della Reale Accademia d’Italia, sul tema dell’Europa,
pubblicato negli Atti dell’Accademia nel 1933. La lettura di questi atti è
illuminante. Per riferirci ad un tema d’attualità, le radici culturali del
nostro continente, l’intervento di Pierre Gaxotte è molto chiaro. Secondo il
noto scrittore francese «La parola Europa non può essere usata legittimamente
che nel senso di Civiltà Europea».
E questa è composta da tre elementi.
1) La Scienza greca. Creazione della ragione umana. Ordine intelligibile delle
cose. Riflessione sull’esperienza.
2) Il Diritto romano. Definizione della nozione astratta dello Stato. Posto
dell’individuo nello Stato.
3) La Religione cristiana. Credenza nell’infinito. Nozione dell’immortalità.
Morale della bontà e della pietà.
Nostra postilla: basterebbe questa minima citazione per rendersi conto della
pretestuosità e della mistificazione insite nella recente battaglia per la
Costituzione europea, dove le forze in gioco hanno cercato di imporre un loro
punto di vista del tutto particolare ed unilaterale, e proprio per questo
sostanzialmente antieuropeo. Cogliamo l’occasione per chiarire che per noi la
forma con cui si sta organizzando l’unione europea è del tutto insignificante.
Importante è la nascita e lo sviluppo di questa unione, seguendo un’evoluzione
più naturale che artificiale, come insegna la storia delle aggregazioni
geopolitiche degli ultimi secoli, anche perché, come ci ricorda Carl Schmitt,
l’identificazione politica avviene sempre contro qualcosa. Non siamo in linea di
principio contro una struttura federale, anche se a suo tempo avevamo condiviso
il progetto di "Europa Nazione" di Jean Thiriart perché, come ci ricorda Giano
Accame riferendosi ad uno scritto di Giovanni Gentile ("I profeti del
Risorgimento Italiano"), fu la visione federale di Vincenzo Gioberti ed il
consenso che ottenne nel 1848, che aprì la strada all’azione unitaria e
rivoluzionaria del mazzinianesimo, che per noi che non siamo né guelfi né
moderati, resta un preciso punto di riferimento, anche perché, a dispetto di
qualsiasi estremismo verbale, gli eventi della storia umana si dipanano a tappe
molto lente.
In ogni caso, la nostra visione di un’Europa futura è allineata su quanto ha
scritto di recente Franco Cardini con Sergio Valzania in "Le radici perdute
dell’Europa", Mondadori.
L’Europa tra il XVI ed il XVII secolo può essere definita una vera e propria
superpotenza mondiale, caratterizzata dal policentrismo del potere politico e da
un diffuso multiculturalismo. L’unico tentativo di integrazione di popoli
diversi che abbia ottenuto un esito positivo in tutta la storia. Spaziava da
Praga all’America del Sud, sebbene il suo cuore rimanesse il bacino occidentale
del Mar Mediterraneo ed i suoi punti di forza la Castiglia, il Viceregno di
Napoli e la Lombardia. E proprio dalla penisola, con la sola eccezione dello
Stato della Chiesa, furono profusi i maggiori sforzi militari ed economici per
sorreggere la monarchia nelle altalenanti vicende dell’epoca.
Primi passi dell'unificazione europea.
A distanza di mezzo secolo possiamo valutare con maggiore precisione quanto
avvenuto nel tempo a favore dell'unificazione europea:
1949, l'Italia è tra i fondatori del Consiglio d'Europa, «per la salvaguardia
del patrimonio tradizionale della civiltà europea e del progresso sociale» ed i
parlamentari italiani danno un contributo notevolissimo all'elaborazione di
questo testo rivoluzionario, in seno a quella che allora si chiamava "Assemblea
Consultiva" dell'organizzazione di Strasburgo. La Convenzione, poi, vede la luce
proprio a Roma, dove è aperta alla firma, a Palazzo Barberini, il 4 novembre
1950. L'idea, sulla quale la Convenzione s'impernia, di una Corte Europea
chiamata a giudicare delle violazioni dei diritti fondamentali perpetrate dagli
Stati, è un primo elemento unificante, come spesso accade nella storia dei
popoli, a dimostrazione che prima viene il diritto e poi la politica. Alla
ratifica della Convenzione, peraltro, l'Italia pervenne nel 1955, dopo il Regno
Unito e la Germania.
La Francia ratificò soltanto nel 1974. Per quanto riguarda questo paese,
politica "isolazionista" gollista a parte, occorre ricordare due elementi di non
poco conto, che restano nei recessi della memoria storica di tutti i cittadini:
il primo è costituito da Giovanna D'Arco, una protettrice della nazione che
caratterizza la Francia in senso antinglese, e il secondo è l'affondamento a
tradimento il 3 luglio 1940 della flotta ancorata ad Orano. Nella memoria
collettiva, quest'atto si somma alle grandi tragedie navali d'Abukir e Trafalgar.
Sono tragedie che scandiscono momenti di una costante ostilità popolare nei
confronti d'Albione, molto più dell'avversione per i tedeschi provocata da Sedan
e da Waterloo. È possibile trovarne una chiara dimostrazione in un libro
ovviamente non tradotto in italiano: "Vivre avec l'ennemi. La France sous deux
occupations:1914-18 et 1940-44" di Richard Cobb, Sorbier, 1985. (Significativa
la nazionalità inglese dell'autore!).
Importante in questo processo è anche la nascita della CECA, Comunità Europea
Carbone ed Acciaio, firma degli accordi di Parigi del 1951.
Trattati di Roma: firma a Roma il 25 marzo 1957, ricordati solennemente proprio
in questi giorni, a dimostrazione che la città di Roma resta sempre un punto
ideale di riferimento molto forte per tutti i popoli europei. Per inciso,
proprio nel 1957 inizia la corsa alla conquista dello spazio, esplosione della
prima bomba H inglese nel Pacifico, armi atomiche ed a razzo assegnate alla
NATO. È evidente che i promotori di queste iniziative, Adenauer, De Gasperi,
Schuman (Piano Schuman, redatto da Jean Monnet), tutti cattolici, si muovevano,
sia pure con molte precauzioni, nell'ambito di un modello di riferimento che è
inutile far finta di ignorare. L'Europa cattolica si stava difendendo dal
comunismo ma anche dal liberismo protestante. Robert Schuman è stato di recente
definito "il monaco con la giacca" da un foglio cattolico, il "Messaggero di
Sant'Antonio", maggio 2007. Non a caso, come scrive Sergio Romano ("Affari
Esteri", n. 140, ottobre 2003), «I primi ministri britannici non furono mai
europeisti. Accettarono la Comunità e fecero molto seriamente la loro parte, ma
nella convinzione che soltanto dall'interno dell'organizzazione avrebbero potuto
frenare le sue tendenze supernazionali e federali».
Un imprevisto documento. Sul numero 19 dell'anno primo, del 2 aprile 1948 del
quotidiano del MSI, "l'Ordine Sociale", abbiamo trovato una sorprendente
notizia. Sotto il titolo: "Se la prendono con Nenni e vogliono la Federazione
Europea", è reso noto l'arrivo di due deputati laburisti inglesi, Cristopher
Showcross e Ivor Thomas, nonché del ministro del lavoro francese Meyer, ricevuti
dal vice presidente del Consiglio, Saragat e dal ministro D'Aragona. I due
deputati inglesi hanno dichiarato ai giornalisti di avere recentemente
costituito un gruppo parlamentare per realizzare l'Unione Europea. Ad esso
avrebbero già aderito 150 deputati di tutti i partiti inglesi. I due deputati
hanno poi aggiunto di esser venuti in Italia, considerata, da questo punto di
vista, il Paese più importante nel momento attuale.
Questo documento è significativo, aggiungiamo noi col senno del poi, perché
documenta che lo sviluppo dell'idea di Unione Europea deve attribuirsi già
dall'immediato dopoguerra, alle forze cattoliche ed a quelle della Sinistra, non
comunista, ovviamente.
«L'adozione dell'euro, d'altronde, ha soddisfatto una condizione necessaria, ma
al tempo stesso non sufficiente per innescare definitivamente il motore
dell'armonizzazione delle leggi e della costruzione del mercato unico» scrive
Enrico Cisnetto ("Charta Minuta", sett. 2006). E su questo punto anche noi siamo
d'accordo, pur consci che anche la contestazione all'euro, in quanto espressione
di signoraggio bancario ha una sua precisa funzione. Tuttavia, in questo momento
riteniamo che la funzione della moneta europea sui mercati globalizzati abbia
importanza strategica fondamentale per contrastare il signoraggio del dollaro,
autentico veicolo del potere finanziario statunitense e delle multinazionali che
ne sono il braccio armato.
L'Europa unita alla base della caduta dell'URSS
Su "Nuova Storia Contemporanea" n. 2/ 2007, un articolo molto interessante di
Carlo Civiletti, "L'atto finale di Helsinki o l'eterogenesi dei fini. Come il
regime sovietico accettò i germi del proprio disfacimento", ci documenta sulla
nascita e lo sviluppo della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa.
«Nella CSCE l'Europa comunitaria svolse un ruolo di primo piano. La Conferenza
fu anzi un banco di prova per il collaudo di politiche comuni. Nel 1973 infatti
aveva fatto i suoi esordi la Cooperazione politica europea, inoltre la posizione
dei Nove doveva assumere rilievo preminente in una conferenza in cui gli USA non
credevano. Kissinger guardava con scettico fastidio ad una deviazione
multilaterale dalla sua visione bipolare dei rapporti Est-Ovest. Ciò portò ad
una (salutare) assenza della componente statunitense nelle trattative. Spettò
dunque alla Comunità Europea assumere il ruolo di contrappeso all'URSS ed al
Patto di Varsavia, catalizzando in tal modo l'attenzione del piccolo ma attivo
gruppo dei neutrali non allineati. Sul piano formale va ricordato che Aldo Moro
firmò l'Atto finale nella sua duplice capacità di capo del Governo italiano e di
presidente in esercizio della CEE».
La letteratura politica documenta abbondantemente lo scontro in
atto fra USA ed UE
«Gli Stati Uniti devono
mantenere un grande esercito, tecnologicamente avanzato, presente
ovunque nel mondo. Anche se la minaccia sovietica è scomparsa, c'è
sempre la minaccia della Russia, e se questo non bastasse,
semplicemente non sappiamo quali progetti di lungo periodo
perseguono Germania, Cina e Giappone»
Charles Krauthammer, "New Republic", marzo 1990 |
I libri più interessanti da questo punto di vista sono:
Mario Zagari, "Superare le sfide. La risposta dell'Italia e dell'Europa alle
sfide mondiali. Perché non possiamo non dirci europei", Rizzoli, 1975. Lo Zagari,
socialista, ingiustamente dimenticato, autore nell'assemblea costituente
dell'articolo 11 relativo al ruolo dell'Italia nella politica internazionale, fu
anche autore del libro "La sfida europea" pubblicato nel lontano 1968. Fu più
volte sottosegretario agli Esteri, ed anche ministro di Grazia e Giustizia.
Giuseppe Vacca (a cura di), "Dilemma Euratlantico" (primo rapporto annuale
sull'integrazione europea.), edito nel 2004 dalla Fondazione Istituto Gramsci
con il contributo della Fondazione Monte dei Paschi di Siena.
Louis Armand e Michel Drancourt, "Scommettiamo sull'Europa. Di fronte alla sfida
americana, organizzarsi su scala planetaria", Mondadori, 1969.
Lester Thurow, "Testa a testa. USA, Europa, Giappone. La battaglia per la
supremazia economica nel mondo", Mondadori, 1992. L'autore, professore
d'economia al M.I.T. è una delle teste pensanti cui dare ascolto. Ancorché
sviluppate nell'interesse degli Stati Uniti, le sue tesi sono importanti proprio
per questa ragione. Egli evidenzia gli elementi d'attrito e di conflitto.
Presenti e latenti.
Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, ISPI, "L'Impero riluttante.
Gli Stati Uniti nella società internazionale dopo il 1989", a cura di Sergio
Romano, Il Mulino ed. 1992. In questo libro, un intervento di David P. Calleo,
della John Hopkins University di Washington, ci chiarisce che «per comprendere
l'influenza che la NATO tuttora esercita sul pensiero politico americano,
bisogna vederla non solo come un'interessante alleanza militare, oppure come
un'istituzione familiare e comoda, retaggio del predominio americano, bensì come
la realizzazione concreta dell'atlantismo, una delle principali idee-guida che
hanno contribuito a plasmare l'Europa post-bellica ed il sistema globale in
genere".
Rita di Leo, "Lo strappo atlantico. America contro Europa", Laterza ed. 2004. La
Di Leo, ordinario di Relazioni Internazionali alla Sapienza, ci dimostra
ampiamente con quest'agevole libro, che non sono gli europei ad agire contro gli
States, bensì questi ultimi che hanno approntato da qualche tempo una serie
d'interventi atti a bloccare qualsiasi sviluppo europeo che possa contrastare la
supremazia globalista delle multinazionali americanocentriche. Tesi da noi
sostenuta da sempre.
Marcello Pamio, "Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale". Macro ed.
Costanzo Preve, "L'ideocrazia imperiale americana".Il Settimo Sigillo. Secondo
la tesi del noto politologo, quello americano è un impero ideocratico,
legittimato da un'idea politica con cui s'identifica, dove la nazionalità è
ricavata da un'ideologia di tipo biblico che lo rende una comunità elettiva.
Tesi anche questa da noi sostenuta da sempre.
Un altro libro di notevole interesse è "Germanizzazione. Come cambierà l'Italia"
di Federico Rampini, Laterza, 1996, Il libro è un'eco delle preoccupazioni
italiane per un'egemonia tedesca peraltro inevitabile. Tuttavia l'autore si
chiede: «Se il problema vitale per l'Europa è di non farsi schiacciare tra
America ed Asia, se per questo il vecchio continente deve trovare un polo
egemone che superi le divisioni delle ex potenze coloniali, l'integrazione fra
Germania e Francia può essere una risposta adeguata»? La nostra risposta,
ovviamente, è affermativa perché l'evoluzione dei tempi conduce inesorabilmente
a quel traguardo ed anche perché, dopo decenni di appassionate dichiarazioni
antinazionaliste ci ritroviamo di fronte a persone che, pur di ritardare,
nell'interesse di potenze extraeuropee, il processo di integrazione, rimestano
tra vecchie preoccupazioni di carattere sciovinista.
EURASIA, le speranze e la fondazione
Sull'argomento Europa, Jacques Attali, nel "Dizionario del XXI Secolo", Armando
ed. 1999, scrive: «L'Europa diverrà un Continente-Venezia, visitato da milioni
di asiatici ed americani, popolato da guide turistiche, guardiani di musei ed
albergatori. Per scansare una simile prospettiva ci sono quattro soluzioni
possibili:
1) Una Unione Europea Federale;
2) Un allargamento rapido e senza condizioni dell'UE verso est tranne Russia e
Turchia;
3) UE allargata come nell'ipotesi precedente ed associata all'America del Nord,
in uno spazio economico, culturale e politico comune, che raccoglie tutti i
paesi membri dell'Alleanza Atlantica;
4) La creazione di una Unione Continentale che raccolga economicamente e
politicamente tutti i paesi del Continente»
Lasciamo ai lettori interessati i commenti dell'autore alle singole soluzioni,
peraltro improcrastinabili. Di queste quattro possibilità le più probabili sono
le ultime due e su di queste si sta svolgendo una battaglia dai contorni
abbastanza chiari. Noi siamo in ogni modo per la quarta soluzione per una serie
di ragioni che abbiamo già ampiamente illustrato, tenendo ben presente che le
scelte improntate su valutazioni di carattere geopolitico sono vincenti perché
naturali ed appropriate, anche se gli avversari delle nostre tesi sostengono che
la geopolitica è un'idea che nasce da una cultura deterministica che risorge
ogni volta che crollano le ideologie politiche e costituisce una minaccia contro
le libertà individuali a favore dello Stato, come scrive A. Corneli in
"Geopolitica è. Leggere il mondo per disegnare scenari futuri", Fond. A. e G.
Boroli, 2006.
Ed anche se «siamo semplicemente di fronte ad un vero e proprio fondamentalismo
culturale e politico che fa a meno del confronto con l'altro ed allo stesso
tempo pretende di sapere invece dell'altro cosa è meglio per tutti, ed in nome
di questa presunzione bandisce ogni espressione di una reale differenza» (Marco
Deriu, Dizionario critico delle nuove guerre, EMI, 2005).
Come ha scritto l'intellettuale sloveno Slavoj Zizek, «tutti i termini
principali per designare il conflitto attuale (guerra al terrorismo, democrazia
e libertà, diritti umani), sono termini falsi che distolgono la nostra
percezione della situazione invece di consentirci di pensarla. Esattamente in
questo senso, le nostre stesse libertà servono a mascherare e sostenere la
nostra soggiacente illibertà… Ci sentiamo liberi perché ci manca addirittura il
linguaggio per articolare la nostra illibertà».
Il ruolo di Putin ed il progetto di sviluppo economico
eurasiatico
Il momento attuale vede in primo piano il ruolo preminente del leader russo in
un braccio di ferro fondamentale per la nascita del nuovo grande soggetto
continentale e per l'inizio di un forte rilancio economico-produttivo non
finanziario.
Pur sintetizzando al massimo gli avvenimenti, seguiamo il recente libro di
Maurizio Blondet, "Stare con Putin?", Effedieffe, 2007 di cui raccomandiamo
vivamente la lettura.
La politica degli USA nei confronti della Russia continua ad essere improntata
dalla dottrina Brzezinski elaborata nel suo testo fondamentale: il grande
scacchiere, che consiste nel soffocare la Russia circondandola di paesi ostili
(Ucraina, Paesi baltici, Polonia) per impedire il contatto fisico con l'UE. A
tale scopo è sostanziale l'apporto delle "democrazie colorate" finanziate da
Soros, come ampiamente documentato da una recente trasmissione di "Report",
agenzia giornalistica di RAI3. Di recente, Putin è riuscito a scavalcare
l'accerchiamento assieme alla Germania con il gasdotto del Baltico. Un altro
passo importante di Putin è stato fatto nei confronti del Fondo Monetario
Internazionale, al quale ha saldato il debito precedentemente contratto,
liberandosi in tal modo dal giogo dell'usura mondialista. Un altro recentissimo
ed importante accordo che faciliterà i rapporti Cina-Russia-Repubbliche
centroasiatiche è quello relativo al gasdotto attorno al Caspio in opposizione a
quello Baku-Ceyan fortemente voluto dagli Stati Uniti, mentre il rapporto
Russia-Cina si sta trasformando in alleanza militare. La Russia, infatti, ha
ceduto alla Cina missili velocissimi (due volte la velocità del suono) capaci,
volando a bassa quota, di colpire le portaerei americane. Contemporaneamente è
in atto un avvicinamento con le Chiese Ortodosse le quali a loro volta si stanno
riunendo. Un segnale molto significativo è stato dato con due convegni svoltisi
di recente a Roma dedicati al monte Athos ed all'esicasmo. A questi convegni
hanno partecipato i rappresentanti delle Chiese di Cipro, Bulgaria, Grecia,
Romania, Russia, Serbia ed Ucraina.
Potremmo continuare a lungo nella descrizione di un braccio di ferro che ha già
fatto molte morti eccellenti. Basterebbe ricordare l'assassinio d'Andrei Kozlov,
vice presidente della Banca Centrale Russa seguito dall'assassinio il 10 ottobre
2006 di Aleksander Plokhin, direttore della branca moscovita della Vneshtorgbank,
la banca che aveva appena acquisito il 5% di EADS, il gruppo eurospaziale
europeo proprietario di Airbus. Questa banca, del resto, è di proprietà dello
Stato ed è il braccio finanziario del Cremlino.
Ma noi ricordiamo bene che il secondo conflitto mondiale è scoppiato proprio
quando era in atto un processo di integrazione russo-tedesco e
contemporaneamente il processo di occupazione giapponese di parte della Cina e
del sud-est asiatico. Cioè quando si stavano creando due spazi di assoluta
autosufficienza che avrebbero escluso gli USA dai grandi interessi globali ed
espulso l'Inghilterra dai suoi vecchi possedimenti.
Com'è dimostrato dagli eventi storici, le infrastrutture nascono e si sviluppano
autonomamente, sulla base d'esigenze economiche improcrastinabili. La nascita
dell'UEO è stata, infatti, punteggiata dallo sviluppo di progetti e di
realizzazioni nel campo della viabilità che una volta installate non potranno
più essere cancellate. È quanto accaduto per le strade costruite dai romani, che
tutt'oggi garantiscono quelle fondamentali comunicazioni che hanno di fatto
creato l'Europa Imperiale. Ne costituisce una valida dimostrazione il libro di
Favaretto-Gobet: , "L'Italia, L'Europa centro-orientale ed i Balcani. Corridoi
paneuropei di trasporto e prospettive di cooperazione", Laterza, 2001.
Pertanto, qualora per grande disgrazia forze isolazioniste dovessero prevalere
nel nostro paese, la preesistenza di questi corridoi ne renderebbe vano
qualsiasi intervento. E ci riferiamo a quel «Ceto politico verde, uno dei ceti
politici più gregari e fallimentari della recente storia del continente» come lo
definisce Costanzo Preve nel recente "Il paradosso De Benoist. Un confronto
politico e filosofico", Settimo Sigillo, 2006.
Se a queste strutture preesistenti si riesce a sovrapporre un grande progetto
geopolitico, allora potremmo assistere, lo vivranno, speriamo, i nostri posteri,
ad un nuovo Rinascimento economico-politico-culturale. Quale sognato dai nostri
padri del XX secolo.
È quanto prospettato dal progetto illustrato di recente a Roma da Lyndon
LaRouche, che è sempre stato un grande anticipatore di progetti geniali. Solo
attraverso l'Eurasia, infatti, è possibile dare avvio a grandi progetti nei
settori dell'energia, delle comunicazioni, della gestione dei grandi sistemi
idraulici e degli insediamenti urbani. Il progetto ferroviario, infatti,
unirebbe via terra con un sistema di ponti e tunnel ed utilizzando treni a
levitazione magnetica già approntati in Germania, l'Europa centrale (ed
eventualmente la Turchia) con la Siberia settentrionale e con l'Asia centrale
favorendone lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo ed eludendo il blocco
navale atlantico.
Come scrive LaRouche «… grazie ad un ruolo di mediazione della Russia, che
storicamente merita più d'ogni altra il nome di nazione eurasiatica (…) è
possibile per l'Europa unirsi alla Russia ed alle nazioni asiatiche nella
realizzazione di un sistema che, invece di concentrarsi sui mercati del consumo
e degli investimenti finanziari, si proponga lo sviluppo a lungo termine delle
capacità produttive di queste nazioni ...»
È in sostanza, quanto si proponeva Mussolini invadendo la Russia, come abbiamo
cercato in precedenza di dimostrare, nell'ambito della lotta contro la
speculazione finanziaria e l'usura.
Ma non è tutto, per quanto riguarda l'Italia, LaRouche propone anche il
ripristino del credito pubblico con l'emissione di euroequivalenti in moneta
sovrana dello Stato Italiano, garantita dal credito pubblico e protetta dagli
attacchi speculativi, come quello a suo tempo attuato da Soros assecondato da
Ciampi, con i quali finanziare infrastrutture su larga scala capaci di trainare
una ripresa generale. Ma per far ciò, prosegue LaRouche, «La banca centrale va
tolta dalle mani delle banche e delle oligarchie private e ricondotta in ambito
costituzionale, cioè pubblico».
Come si può costatare, il conto torna.
Commiato
Quanto fin qui scritto costituisce solo la prefazione ad un'esposizione di
articoli selezionati che hanno costellato un'epoca. Nessuno di Noi, che ci
sentiamo i pochi rimasti di una stagione inimitabile, vuole proporsi come
maestro di chicchessia, anche perché conosciamo i nostri polli. Tuttavia, ci
confortano alcuni dati. L'interesse che la Repubblica Sociale Italiana suscita
nel mondo è impressionante. Ovunque si elaborano teorie politiche e si studia
con intenti seri la Storia, la RSI è sempre presente.
Ma c'è qualcosa su cui mi piace soffermarmi. Un qualcosa del tutto insolito. Si
tratta della vita di M. J. L. Adolphe Thiers. Un uomo notevole. Attore di primo
piano nello scacchiere internazionale per conto di coloro che governavano la
Francia dell'ottocento. Invito a leggerne la biografia, interessantissima e
piena di fatti rilevanti. Scrittore di storia ("Storia del Consolato e
dell'Impero" in 20 volumi). Presidente della Repubblica dal 1871, fu costretto
alle dimissioni dal potente schieramento monarchico nel 1873. Un uomo da citare
in ogni momento. Invece la Storia l'ha completamente dimenticato. E c'è una
ragione: ha represso nel sangue la Comune di Parigi, che era comunarda, e quindi
criticabile da un punto di vista ideologico, certamente non da Noi, ma che si
era costituita, similmente alla Repubblica Romana del 1849, come reazione contro
l'ignominia della capitolazione. Il popolo di solito ha un senso dell'onore e
della dignità naturale molto superiore alla classe dirigente borghese, che vede
solo i propri affari.
Quanto al sottoscritto, mi piace chiudere con una frase di un grande maestro:
Lucio Anneo Seneca «Laudari a turpibus infamia vera est. Maxima est hominis laus
displicere pravis» che tradotto significa: «La vera infamia consiste nell'essere
lodati dalle persone turpi. La massima lode per un uomo è dispiacere ai
malvagi», mentre un altro grande, che tentò di reagire alla decadenza, Rutilio
Namaziano, scrive: «Materies vitiis aurum letale parandis, auri caecus amor
ducit in omne nefas» che significa «L'oro mortale: materia per ogni perversione!
L'amore cieco dell'oro trascina ad ogni empietà».
Chi vuole intendere intenda..
Giorgio Vitali
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