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L’incarico

 

Libero Tronocozzo  (29 ottobre 2017) 

 

Anche gli ultimi avventori -molti dei quali più che alticci- avevano lasciato l’infimo bar vicino casa nel quale mi rintanavo spesso la sera; seduto ad un tavolino traballante posto nell’angolo più remoto del locale e nascosto da una confortevole penombra ero rimasto solo io, in compagnia dei miei fantasmi e del giovane barista, che dietro il bancone finiva frettolosamente di sistemare le sue cose prima della chiusura; costui lanciava nella mia direzione rapidi sguardi –col suo unico occhio, avendo perso l’altro in una rissa- con tale insistenza da apparire, sebbene tacesse, oltremodo eloquente: mi affrettai perciò a tracannare l’ultimo sorso dal mio bicchiere, gli feci segno di addebitare il costo della consumazione sul mio conto, lo salutai con un cenno della mano e mi diressi barcollando -a causa d’una gamba intorpidita- verso l’uscita. Un gelido vento autunnale, che faceva turbinare vorticosamente le foglie nell’angusto vicolo, malamente rischiarato dalla debole luce di un unico lampione, mi spinse ad affrettarmi verso il mio portone, rasentando i muri fradici per la pioggia recente e cercando accuratamente di evitare le pozzanghere d’acqua fangosa che interrompevano con eccessiva frequenza la pavimentazione sconnessa.
Quando mi richiusi la porta di casa alle spalle ed accesi la luce notai un grosso scarafaggio marrone, che si affrettò a nascondersi sotto la cassettiera metallica contenente il mio archivio prima che riuscissi a schiacciarlo; con la netta sensazione di essere osservato mi accorsi subito dopo di quei due, seduti sul mio divano consunto, che mi fissavano in silenzio, con un’espressione piuttosto divertita sui volti immobili. Sebbene indossassero entrambi delle pesanti e logore tute di colore verde scuro non si sarebbero detti fratelli: uno era magro e nervoso, con i capelli rossi tagliati a spazzola ed un fiammifero penzolante ad un angolo della larga bocca; l’altro, quasi completamente calvo e con dei sottili baffetti neri, era un tipo corpulento, che s’intuiva dotato di una forza considerevole nonostante gli abbondanti strati di grasso che ricoprivano la massa muscolare. Io ci tengo ad apparire un duro; per cui, senza battere ciglio, mi tolsi lentamente il soprabito e lo appesi con deliberata calma ad uno dei chiodi piantati nella parete, mentre, infilata la mano destra all’interno del giubbotto, aprivo furtivamente il gancio di sicurezza della mia fondina ascellare; quindi mi rivolsi agli intrusi col tono di voce più indifferente che riuscii a scovare nel mio repertorio: «Ci dev’essere un errore» dissi. «Qui stasera non c’è una festa, e se anche ci fosse i vostri nomi di sicuro non comparirebbero sulla lista degli invitati». Quello grosso rise sommessamente, battendosi ritmicamente le mani sulle ginocchia e piegandosi in avanti per quanto glielo consentiva il ventre prominente; l’altro si limitò a spostare con un rapido movimento della lingua il fiammifero all’angolo opposto della bocca, rimanendo impassibile.
«Signor Bernini, la prego a nome di entrambi di scusarci» disse quello forzuto quando ritenne d’aver riso a sufficienza, alzandosi in piedi con un’agilità insolita per un individuo della sua stazza e cominciando a passeggiare incessantemente tra me ed il divano. «Voglia scusarci per essere piombati così, all’improvviso, in casa sua e di aver approfittato della sua ospitalità». Soltanto allora mi accorsi che sul tavolino posto davanti al divano c’erano, oltre al perenne strato di polvere ed al posacenere straripante come sempre di mozziconi di sigaretta, due bicchieri e la bottiglia della mia grappa preferita, il cui livello era sceso in maniera considerevole. «Dalle nostre parti non se ne trova di così buona» si giustificò, avendo seguito il mio sguardo ed intuito il mio pensiero. «Noi sappiamo tutto di lei, caro signor Libero Bernini…» continuò. «Grande invenzione il cronoscopio… Già! Proprio una grande invenzione! Per cui, signor Bernini, mi faccia ricapitolare…» - disse premendosi un indice sulla fronte e strizzando gli occhi in un apparente supremo sforzo di concentrazione: «L’università interrotta, una promettente carriera da pugile rovinata a causa della droga, l’ingresso nei Corpi Speciali della Polizia, la successiva espulsione per insubordinazione, l’apertura di un’agenzia investigativa insieme a quel Filippi, un poco di buono, anche lui ex poliziotto: "Bernini e Filippi Investigazioni", che vanta il proprio punto di forza nel redditizio ramo delle corna coniugali… Poi un bel giorno Filippi scompare nel nulla… "Cherchez la femme!" consigliavano i saggi investigatori di un tempo… La solita vecchia banale ed abusata storia di delitto passionale… Tanti fondati sospetti, ma senza uno straccio di prova per incolpare chicchessia gli inquirenti brancolano nel buio, lamentando soprattutto la mancanza della prova principe, il cadavere, sepolto sotto un paio di metri di terra a diversi chilometri da qui… Ed il cronoscopio, in effetti, non era ancora stato inventato. Il caso viene pertanto coscienziosamente archiviato. La mia sintesi è stata esaustiva, signor Bernini? O forse ho dimenticato qualcosa?» concluse con evidente soddisfazione.
Incassai il colpo. Il mio cervello lavorava a ritmo frenetico: chi erano quei due e cosa volevano? Come facevano ad essere a conoscenza di particolari che credevo fino a quel momento noti a me soltanto? Avevano forse qualche tipo di legame col mio ex socio, che avevo fatto fuori più di un anno prima? Erano dei volgari ricattatori? Ed in tal caso cosa speravano di ottenere? Perché farsi vivi dopo tanto tempo? Sarebbe stato prudente cercare di eliminarli subito od avrei agito più saggiamente aspettando di saperne di più? Ed infine: cosa diavolo era il cronoscopio?
Il tipo corpulento aveva probabilmente deciso che era il caso di rispondere alle mie inespresse domande, perché mi si piazzò davanti e dopo avermi posto le sue mani enormi sulle spalle mi disse: «Ora, signor Libero -posso chiamarla Libero, non è vero? Lei se crede può chiamare noi Stanlio ed Ollio, a mio parere due insuperati giganti della comicità… Ollio, naturalmente, sarei io-, mi ascolti attentamente: il Comitato, che noi indegnamente abbiamo l’onore di rappresentare in quest’affare, dopo lunghe ricerche ed attente valutazioni ha deciso che lei è l’individuo adatto per portare a termine la missione che vogliamo affidarle; in cambio riceverà una generosa ricompensa ed eviteremo di fare pubblicità a quel suo piccolo incidente di circa un anno fa… Si tratta di eliminare un problema; il problema è costituito da una persona… Un lavoretto facile e senza grossi rischi, glielo assicuro».
La prima cosa che mi venne in mente fu: «Se è un lavoretto così facile e senza grossi rischi, perché non ve lo sbrigate da soli?». Glielo chiesi. «Vedi, caro Libero» disse Ollio grattandosi la sommità del cranio ed apostrofandomi intenzionalmente con maggiore familiarità, dopo avermi preso sottobraccio e trascinandomi nel suo incessante andirivieni attraverso la stanza «da noi non è così semplice… Una società da schifo. Una cosa orribile, difficile anche da immaginare per uno che non sia costretto a viverci. Hai mai sentito parlare di sistemi totalitari? Di quella mostruosità che chiamano psicoreato? Dell’ininterrotta sorveglianza che è quasi impossibile eludere?… Puah! Che schifo! Tutto sotto controllo! Orwell, Huxley e Zamjatin erano dei miseri dilettanti al confronto… Riescono ad intercettare le trame più segrete ed hanno metodi d’interrogatorio che persuaderebbero chiunque a collaborare… Una vera indecenza! Inoltre noi siamo tutti indistintamente microchippati sin dalla nascita, con conseguente tracciabilità di ogni nostro spostamento, che renderebbe suicida qualsiasi azione di contestazione violenta». Mentre mi sforzavo di capire a quale tipo di società si riferisse e se era uno di quei pazzi esaltati appartenenti a quelle sette che vedono fantomatici complotti dappertutto, continuò: «Tutto sotto controllo, a meno che non s’introduca una variabile che è praticamente impossibile gestire per il sistema: un killer proveniente dal passato… Già, perché il lavoretto che ti proponiamo deve essere fatto nel futuro; anzi: in quello che per te è il futuro, mentre per noi è il presente. Sono stato chiaro?».
Lo osservai a lungo e con attenzione, chiedendomi se fosse pazzo o se intendesse solo prendermi in giro; il suo socio continuava con impegno a succhiare il suo fiammifero e non sembrava per nulla interessato alla conversazione. Presi quindi la mia decisione: estrassi fulmineamente la pistola e piantandogli la canna in mezzo alla fronte lo costrinsi a retrocedere fino al divano, nel quale affondò tra un atroce cigolio di molle; poi tenendo entrambi costantemente sotto tiro indietreggiai di qualche passo: «Ora mi direte da quale manicomio siete scappati» annunciai.
«La prego, la prego, metta via quell’arnese!» implorò Ollio, tornato ad un tono meno confidenziale, agitando convulsamente le mani verso di me. «Nessuno può sapere cosa succederebbe se le partisse un colpo! Non ci sono dati sperimentali sufficienti per elaborare una teoria scientificamente valida! Di certo non morirei, dal momento che esisto nel futuro, ma per risolvere in modo razionale il paradosso lo spazio ed il tempo potrebbero deformarsi, con conseguenze imprevedibili per tutti noi. La prego, non faccia sciocchezze!».
«Faglielo vedere» disse allora Stanlio rinunciando al suo mutismo, dopo aver sputato con noncuranza in aria il fiammifero che ricadde, con geometrica precisione, al centro del posacenere.
«Certo, certo; è la cosa migliore» disse Ollio il quale, dopo essersi assicurato, a seguito di un mio cenno d’assenso, che non ci fossero obiezioni da parte mia, si mise a frugare in una grossa sacca cavata da sotto al divano; ne estrasse una valigetta in pelle che depositò sul tavolino e che, quando venne aperta, mostrò il suo contenuto: tanti bei bigliettoni di banca suddivisi in mazzette ed in quantità così ingente che non avevo mai avuto occasione di vedere prima d’allora. «Ecco, qui c’è un milione di euro» disse Ollio con un sorriso.
Non sono affatto insensibile a certi argomenti e valutai anche rapidamente la possibilità di eliminare quei due seduta stante, prendere i soldi e sparire. Ma prima dovevo capire chi c’era dietro a loro e con quale tipo di organizzazione avrei dovuto eventualmente regolare i conti in futuro. Inoltre ho sempre avuto una certa considerazione per l’etica professionale e non ritengo giusto accettare un compenso senza aver portato scrupolosamente a termine il lavoro. «La cosa comincia a farsi interessante» convenni, sperando di cavare da loro qualcosa di più concreto delle precedenti deliranti farneticazioni. «Andiamo Avanti».
Ollio rimise la mani nella sacca e ne estrasse un oggetto cilindrico, lungo circa mezzo metro e largo una trentina di centimetri, fatto di un materiale trasparente, all’interno del quale si scorgevano fili, bobine, circuiti elettronici ed altri innumerevoli elementi di cui ignoravo la funzione; su una delle basi del cilindro erano montate decine di manopole ed interruttori, sull’altra una sorta di piccolo schermo piatto. Mi avvicinai per vedere meglio.
«Il cronoscopio!» disse Ollio presentandomi il misterioso oggetto con entusiasmo infantile. «Ora finalmente mi crederà…». Si mise ad armeggiare sulle manopole impostando dei dati secondo criteri per me incomprensibili; nel corso di quest’operazione osservai sul visore spezzoni di vari filmati: un oratore che davanti ad una lavagna luminosa piena di formule matematiche teneva una conferenza di carattere scientifico, alcuni individui a cavallo con una muta di cani impegnati in una battuta di caccia, un bambino piccolissimo, seduto in terra e con le dita sporche di marmellata, che piangeva disperatamente. Infine sullo schermo apparve -tanto improvviso quanto, per me, inaspettato, ma salutato da un grugnito di soddisfazione di Ollio- un individuo che somigliava in modo incontestabile a me, vestito con gli stessi abiti che indossavo circa un anno prima: paralizzato dalla sorpresa mi vidi mentre colpivo ripetutamente con furia cieca, usando l’attizzatoio del camino, il mio socio; poi mi vidi mentre lo trascinavo fuori avvolto in un telo e lo depositavo nel bagagliaio della mia automobile; mi vidi infine mentre scavavo una fossa sul greto del fiume, occultando accuratamente il suo cadavere.
«Tutto questo è assurdo» balbettai. Riposta la pistola nella fondina mi precipitai in bagno dove, aperto il rubinetto della doccia, cacciai risolutamente la testa sotto il getto d’acqua fredda, nella speranza di evadere da quell’incubo. «Devi andarci piano con gli alcolici» raccomandai poi alla mia immagine riflessa nello specchio sopra il lavandino, la quale non mi prestò la minima attenzione, intenta com’era a sfregarsi energicamente gli occhi. Quando tornai nel salone constatai con rammarico che quei due erano sempre lì, occupati a gustare l’ennesima grappa che si erano serviti con liberalità.
«Allora, Libero, ti è piaciuto il cronoscopio?» celiò Ollio appena mi vide, vuotando d’un fiato il suo bicchiere. «Magnifica invenzione -il cui uso, ovviamente, non è consentito a tutti-, che parte da un’idea piuttosto semplice: tutta la realtà può essere immaginata come un flusso di onde elettromagnetiche, che naturalmente lasciano tracce fisiche del loro passaggio; se appositi filtri riescono ad individuare selettivamente le tracce relative ad un dato elemento, risulta un gioco da ragazzi captare e riprodurre immagini e suoni provenienti dal passato. Tutto chiaro ora?» chiese infine sfoggiando un sorriso smagliante.
«Certo, tutto chiaro; ma sbrighiamoci, si sta facendo tardi» rispose al posto mio Stanlio.
«Ma non l’ho chiesto a te, ed il nostro amico necessita di ulteriori informazioni…» protestò Ollio.
«E tu dagliele» convenne Stanlio. «Ma non perdiamo altro tempo».
«Vedi, Libero» mi disse Ollio col tono di voce che si usa con un ritardato mentale «quando hanno deciso che tu facevi al caso nostro ho scelto proprio la tua casa come stazione di arrivo e di partenza per i nostri viaggi nel tempo; è infatti necessario un ambiente sufficientemente ristretto per avere la garanzia che il tunnel spazio-temporale centri con assoluta precisione il suo bersaglio. A trasferimento concluso riceverai ulteriori informazioni da altri emissari del Comitato, che ti forniranno le necessarie modalità operative: chi devi eliminare, in che modo, dove e quando; nessuno dei congiurati conosce l’intero piano, per evitare un fallimento se qualcuno di noi dovesse incappare nelle reti della psicopolizia. A faccenda conclusa qualcuno s’incaricherà di rispedirti qui, dove potrai goderti i frutti del tuo lavoro» concluse Ollio ammiccando ed indicando la valigetta con i soldi.
«Digli anche che, se prova a fare il furbo, un rapporto dettagliato sulla morte del suo socio verrà recapitato entro domani al Nucleo Investigativo della Polizia Criminale» disse Stanlio.
«Già, dimenticavo» disse Ollio battendosi una mano sulla fronte. «Se provi a fare il furbo, un rapporto dettagliato sulla morte del tuo socio verrà recapitato entro domani al Nucleo Investigativo della Polizia Criminale. Vogliamo andare?» chiese poi porgendomi una tuta verde, identica alle loro, che aveva tirato fuori dalla sua sacca.
Ero in uno stato di confusione totale e sebbene non potessi affatto dare credito alla loro pazzesca storia, anche se mi risultava impossibile, per quanto mi sforzassi, trovare soluzioni razionali a molti interrogativi, di fronte alla minaccia di una denuncia decisi che per il momento sarebbe stato meglio assecondarli, guadagnando altro tempo in attesa di avere un quadro più chiaro della situazione. Facendo violenza al mio temperamento m’imposi pertanto di eseguire senza fiatare quanto mi chiedevano ed acconsentii a sedermi su uno dei tre sgabelli che Ollio aveva posizionato in un punto preciso della stanza, mentre loro occupavano gli altri due senza nascondere un intimo compiacimento. Per circa un minuto non accadde nulla, rafforzando la mia convinzione di trovarmi in compagnia di due alienati o, nel migliore dei casi, di due buontemponi dal comportamento al momento indecifrabile; poi un sibilo rintronante ed una luce accecante mi torturarono per un tempo indefinito, sebbene tentassi un’inutile difesa premendomi alternativamente la mani sulle orecchie e sugli occhi.
Mentre tutto quello che mi era capitato fino a quel momento veniva registrato dalla mia coscienza come un oppressivo incubo angosciosamente reale -con l’unica nota positiva e certamente non trascurabile di un insperato e più che soddisfacente guadagno-, i miei ricordi da quel momento in poi hanno i contorni imprecisi e sfumati di un sogno confuso, dove la percezione della successione temporale degli avvenimenti ho potuto ricostruire solo in base alla logica piuttosto che per averne conservato precisa memoria cronologica.
Ripresi coscienza di me sotto un cielo plumbeo senza astri, mischiato ad individui vestiti, come me, con tute di colore verde scuro; incolori casermoni di cemento ad uso residenziale, dalla sommità dei quali potenti riflettori rotanti sferzavano il paesaggio con frequenti sciabolate di luce, costituivano gli elementi architettonici dominanti, uniformemente allineati lungo il bordo della strada, priva di qualsiasi forma di vegetazione e di traffico veicolare; numerosi poliziotti, facilmente individuabili dalla divisa nera, il casco ed il manganello, mescolati alla folla o posizionati in punti d’osservazione privilegiata, controllavano costantemente il territorio. I miei due compagni di viaggio si erano eclissati ed ero pertanto ignaro su cosa fare; iniziai a camminare senza una direzione precisa, cercando di mettere ordine nei miei pensieri e proponendomi di individuare in fretta il modo migliore per uscire da quella situazione assurda; una donna, passandomi accanto, m’indicò col braccio una traversa laterale sussurrandomi: «Hotel Kalergi». Mi avviai da quella parte ed al successivo incrocio un moccioso carico di giornali me ne porse uno: «Prenda una copia gratuita de "La Verità", il quotidiano del Partito» suggerendomi poi: «Legga a pagina cinque, signore». Sullo sfondo del mio orizzonte intravvidi una mastodontica costruzione cilindrica, posizionata al centro di un sistema di strade radiali, una delle quali era quella che stavo percorrendo; un’insegna verticale al neon che s’illuminava ad intermittenza mi confermò che si trattava dell’hotel Kalergi. Giunto ai piedi dell’edificio sostai presso una fonte di luce per sfogliare il quotidiano; a pagina cinque un articolo celebrativo informava il lettore sugli sforzi costanti del governo per migliorare le condizioni della popolazione; metà della pagina era occupata da una fotografia che mostrava numerosi membri del gruppo dirigente del Partito e la cui didascalia faceva riferimento ad una conferenza presso l’hotel Kalergi, annunciando che uno di costoro avrebbe parlato in quell’occasione; qualcuno aveva tracciato con una matita rossa una freccia che indicava il conferenziere; memorizzai la sua fisionomia: circa mezz’età, capelli biondi probabilmente tinti, faccia da gangster con abbronzatura artificiale, sorriso falso da pubblicità del dentifricio ed abbigliamento così sgargiante da sconfinare nella volgarità; appallottolai il giornale e lo gettai in terra. Un poliziotto, che non avevo notato, uscì da una zona d’ombra dirigendosi risolutamente verso di me; mi afferrò per un braccio e stavo già pensando al modo migliore per renderlo inoffensivo quando sollevò la visiera del casco, mi strizzò un occhio e disse: «Lei sembra un tipo sospetto, amico… Mi segua senza fare storie». Entrammo nell’immenso atrio dell’hotel, al centro del quale era già stato approntato il palco per il comizio, e c’infilammo dentro un ascensore. Giunti al terzo piano, prima di dileguarsi il poliziotto m’indicò un corridoio in fondo al quale avrei trovato un ripostiglio; seguendo le sue indicazioni raggiunsi il minuscolo locale, ingombro di secchi, detersivi, scope ed altri attrezzi per la pulizia dei pavimenti, con una piccola finestra che affacciava direttamente sull’area della manifestazione, essendo l’intero edificio strutturato come un enorme cilindro cavo; per terra, in un angolo, c’era tutto l’occorrente per eseguire il lavoro: un fucile di precisione silenziato, munito di mirino ottico telescopico e di un treppiedi per garantire maggiore stabilità. Mi misi subito all’opera, posizionando l’arma nel modo più appropriato e mi disposi all’attesa, mentre nella sala sottostante iniziava l’afflusso di un pubblico numeroso; un rumore di passi proveniente dal corridoio mi fece trasalire e quando la porta si aprì ero già pronto ad accogliere l’intruso a colpi di manico di scopa, ma la donna delle pulizie che entrò parve non fare affatto caso alla mia presenza, come se non ci fossi; si limitò a prendere un secchio ed un paio di stracci ma, prima di uscire, bisbigliò: «A lavoro finito diciottesimo piano, camera duecentonovantanove». Poco dopo un fragoroso applauso accolse l’arrivo del membro del Partito; regolai al massimo l’ingrandimento del mirino ed inquadrai il mio uomo, che agitando le braccia in aria ricambiava sorridendo i saluti della folla; quando il centro del reticolo del mirino coincise col centro della sua fronte trattenni il respiro e lasciai partire il colpo. Ero già in prossimità degli ascensori quando urla ed ordini concitati provenienti dal piano terra m’informarono che si erano resi conto della presenza di un cecchino ed era di conseguenza iniziata una serrata caccia all’uomo; stavo per entrare in un ascensore -il primo arrivato, avendoli chiamati tutti- quando un poliziotto mi bloccò, ponendomi una mano sulla spalla; mi voltai di scatto e l’abbattei con una scarica di pugni al volto e nello stomaco, poi balzai nella cabina e premetti il pulsante del diciottesimo piano; attraverso la porta a vetri vidi che altri poliziotti erano sopraggiunti: alcuni mi rincorrevano lungo le scale, altri si servivano degli ascensori; potevo contare solo su una manciata di secondi di vantaggio, in considerazione del fatto che quelli a piedi erano più lenti e quelli in ascensore ignoravano a quale piano fossi diretto. Quando l’ascensore si fermò corsi a precipizio lungo il corridoio, leggendo la numerazione della varie camere ma, non riuscendo a frenarmi in tempo, finii letteralmente tra le braccia di un inserviente che stava spazzando il pavimento proprio di fronte alla camera numero duecentonovantanove, il quale mormorò al mio orecchio: «Cabina della doccia, signore. Buon viaggio, signore». Mentre entravo nella camera, vidi con la coda dell’occhio in fondo al corridoio un poliziotto che stava sopraggiungendo di corsa; chiusi la porta a chiave e m’infilai nella doccia, confidando nel perfetto tempismo di quelli del Comitato; udii dei colpi d’arma da fuoco, poi il rumore della porta che veniva abbattuta ed infine, attraverso il vetro smerigliato, la sagoma indefinita del poliziotto che si accingeva a spararmi addosso. Ma una frazione di secondo prima che premesse il grilletto, fui investito dall’atteso lampo di luce abbagliante, unito al consueto rumore assordante.
Con un forte senso di nausea, un terribile mal di testa e persistente dolore in tutte le articolazioni, mi ritrovai in un giardino, popolato come tutti i giardini da bambini che giocano, pensionati che oziano sulle panchine, giovani mamme con i passeggini, coppie d’innamorati ed individui che portano a spasso il cane; quando riuscii a riacquistare un minimo controllo di tutti i miei sensi balbettai ad uno di questi, fornendogli il mio indirizzo, se sapeva dove fosse la strada che cercavo: mi sentii rispondere che era proprio quella in cui ci trovavamo. Del tutto incapace di orientarmi ed attribuendo tale circostanza all’indiscutibile disordine mentale provocato dalle mie recenti vicissitudini, decisi di chiedere informazioni in un bar poco distante, dall’aspetto vagamente familiare; la cassiera, una ragazza gentile e carina, mi confermò che la strada che cercavo era quella, ma che non sapeva nulla di un edificio rispondente alla descrizione che le avevo fatto. Poi aggiunse: «Provi a domandare a quel tizio, è uno del posto e lavorava qui prima che cambiasse gestione» e m’indicò un individuo, che aveva l’aspetto di un barbone, accovacciato su un basso muretto di pietra dalla parte opposta della strada, a godersi l’ultimo raggio di sole che riusciva a filtrare attraverso i tetti. «Mi scusi, amico» gli dissi quando lo raggiunsi «sto cercando un edificio dove abita una persona, un investigatore privato… Bernini si chiama; abita qui da diverso tempo e mi ha incaricato di recuperare le sue cose, ma non riesco ad individuare il posto. Sa dirmi per caso dove si trova l’edificio dove abita?»
L’uomo mosse impercettibilmente le dita di una mano, come per riannodare gli esili fili di una memoria da tempo sbiadita: «Bernini… Certo, me lo ricordo, veniva spesso al mio bar; abitava nella palazzina che è stata demolita per far posto ai giardini, ma già da un pezzo non si faceva più vedere; lui aveva oltrepassato la quarantina quando io non avevo ancora vent’anni» affermò, scrutandomi col suo unico occhio che scintillava nella rugosa faccia di vecchio decrepito. «A quest’ora sarà sicuramente morto… Lei lo conosceva?»
 

 Libero Tronocozzo  (29 ottobre 2017)