Italia - Repubblica - Socializzazione

 

La fine.

Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani

 

Maurizio Barozzi  (19 novembre 2010) 

 

«Un libro inutile, basato su un effimero documento americano neppure troppo segreto e spacciato per rivelatore della fine di Mussolini, ma di fatto è un ultimo tentativo per avallare la "vulgata"»


Lo scorso anno, per i tipi della Garzanti, è stato pubblicato un libro, pomposamente definito come esaustivo per la soluzione del mistero della morte di Mussolini.

Ne sono autori due giornalisti scrittori storici: Giorgio Cavalleri e Franco Giannantoni (da sempre vicini agli ambienti "resistenziali") e il ricercatore storico Mario J. Cereghino: "La Fine - Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945 1946)", Garzanti 2009.

Questo testo, a nostro avviso, non è altro che un ultimo disperato  tentativo "revisionista" teso a mantenere in vita la "storica versione" ovvero la "vulgata" tramandata ai posteri dal 1945 da Walter Audisio e il PCI, modificandola in parte, ma mantenendo fermi i suoi elementi più essenziali  ovvero una fucilazione attestata il pomeriggio davanti al cancello di Villa Belmonte in località Giulino di Mezzegra. Una "vulgata" a cui, oggi come oggi, non crede più nessuno, specialmente dopo che alcuni rilievi emersi negli ultimi anni ne hanno dimostrato l'infondatezza (vedesi: F. Andriola: "Morte Mussolini Una macabra messa in scena", su Storia in Rete Maggio 2006).

La decisiva testimonianza poi, del famoso teste al tempo residente a Bonzanigo, la signora Dorina Mazzola, che rilasciò una attendibilissima testimonianza pubblicata da Giorgio Pisanò nel suo "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", il Saggiatore 1996, ha definitivamente chiarito buona parte delle modalità della morte di Mussolini avvenuta in Bonzanigo poco dopo le nove di mattina e di Claretta Petacci, assassinata intorno al mezzogiorno in un prato lì vicino.

A questo proposito vedasi anche i nostri articoli, pubblicati in questo stesso Sito: "Morte di Mussolini: Fine di una vulgata", e "Morte Mussolini: Ecco come è andata"

La "vulgata" però è ben dura a morire. Essa, infatti, non solo già di per sè stessa, nei plurimi e contraddittori racconti di Walter Audisio alias colonnello Valerio, presenta tali e tante contraddizioni per le quali non si sa con precisione a quale versione riferirsi, ma ecco che adesso, visto che oramai i particolari balistici e le modalità di quella esecuzione raccontati dalla "vulgata" non reggono più a una critica ragionata e comprovata, visto che quel giaccone indosso al cadavere di Mussolini e totalmente privo di fori o strappi quali esito di una fucilazione attesta chiaramente che venne fatto indossare ad un cadavere poi gettato in terra davanti al cancello di Villa Belmonte per simulare una fucilazione, si percepisce la sensazione che si voglia far rientrare dalla finestra, sia pure apportando qualche modifica, la stessa inattendibile "storica versione".

Con questo testo, infatti, gli autori tirano fuori un documento di fonte americana che a nostro avviso  consiste in un effimero Memorandum, dicesi fino ad oggi inedito, inviato il 30 maggio 1945 ad Allen Dulles direttore della centrale del centro Europa dell'OSS americano a Berna, dal suo agente "441" arrivato in Italia cioè Valerian Lada-Mocarski.

In pratica questo memorandum attesterebbe la fucilazione di Mussolini alle 16,20 di fronte al cancello di Villa Belmonte (particolare determinante per avallare la "vulgata"), ma innesta anche alcuni particolari completamente difformi che, tutto sommato, risultano però di secondaria importanza e lasciano la sostanza della "vulgata" inalterata.

Come noto il Lada-Mocarski, avvocato, ufficiale americano di discendenza russa, al tempo agente cinquantenne dell'OSS, fin dal 29 aprile 1945 e per circa sei mesi, aveva condotto, nonostante la precaria conoscenza della nostra lingua, una sua inchiesta attraverso la raccolta a largo raggio di svariate testimonianze, sulle ultime ore di Mussolini da Como fino a Giulino di Mezzegra.

I rapporti di Lada Mocarski, su quegli avvenimenti, in realtà erano già conosciuti anche attraverso la pubblicazione di un saggio dello stesso agente pubblicato a dicembre 1945 a Boston sulla rivista americana Atlantic Monthly e altre documentazioni che erano conservate dallo storico Renzo De Felice e sono recentemente venute alla luce. Quello che in quest'altro inedito rapporto vi è di nuovo è ben poca cosa, forse la descrizione dei momenti dell'uccisione di Mussolini con una serie di particolari che poi, anche questi, tanto nuovi non sono, perché ricalcano un altro "rapporto" stilato all'epoca per il CLN di Como e steso, verso la metà di maggio del '45, dalla partigiana Angela Bianchi, maestra a Griante, su incarico di suo zio il comandante partigiano Martino Caserotti (Comandante Roma) che operava nella Tremezzina.

Prima di andare avanti, infatti, dobbiamo premettere che in realtà, questo famoso e decantato "memorandum" di Lada-Mocarsky, ricalca sostanzialmente la famosa relazione del 1945 di Angela Bianchi [1] e la successiva testimonianza di Martino Caserotti rilasciata al giornalista Franco Serra per una sua inchiesta su la Settimana Incom Illustrata" del 1962 [2].

Anzi, se andiamo a ben guardare, l'ulteriore "testimonianza scritta" che il Mocarski dice di aver avuto da un comandante partigiano locale presente alla fucilazione e che gli autori, a nostro avviso sbagliando, presumono di indicare nel Capitano Neri, ovvero Luigi Canali, il che costituirebbe la "novità" in questo memorandum del 30 maggio 1945, rispetto ai precedenti e successivi noti rapporti del Mocarski, in realtà non è azzardato supporre che venne invece fornita all'agente americano proprio dal Caserotti, visto che molti elementi combaciano con quanto il Caserotti ebbe a riferire al giornalista Franco Serra. Il Canali, comunque, per i motivi che vedremo, è sicuramente da escludere come colui che informò per iscritto l'agente americano.

 

La "relazione" di Angela Bianchi

Angela Bianchi partigiana, nipote di Martino Caserotti alias Arturo o comandante Roma, capo partigiano da quelle parti, una ventina di giorni dopo la morte di Mussolini, aveva mandato al CLN di Como una: «Relazione che la partigiana Angela Bianca, maestra a Griante ha steso in collaborazione con il Rag. Fernando Luzi per il CLN di Como, d'incarico dello zio Martino Caserotti il quale fu testimone oculare dell'esecuzione di Benito Mussolini».

Questo documento forse avrebbe dovuto costituire una importante pezza di appoggio per la "storica versione" che, come noto,  era stata appena accennata con un breve e sintetico articolo dell' Unità del 30 aprile 1945 con il quale un anonimo estensore del giornale aveva raccolto il racconto di un altrettanto anonimo "giustiziere di Mussolini. La "relazione" della Bianchi, invece, che pur venne stampata forse verso la fine di maggio '45, in poche copie che girarono nel comasco, fu successivamente scavalcata e quindi smentita e accantonata dalla versione del colonnello Valerio  pubblicata a puntante sull'Unità a partire dal novembre 1945 e avallata da Luigi Longo.

A nostro avviso il PCI non intese avallare la versione contenuta nella "relazione" della Bianchi - Caserotti forse anche perché riportava alcuni particolari poco credibili (vi si sosteneva, per esempio, che il giustiziere di Mussolini giunto a Bonzanigo – Mezzegra era niente meno che il figlio di Matteotti).  Cadde così nel dimenticatoio.

In quel mese di maggio '45, probabilmente il Caserotti ebbe o si prese, a ridosso degli avvenimenti, la briga di puntellare in loco la prima e troppo scarna versione dei fatti apparsa sull'Unità del 30 aprile 1945, e quindi chiese alla nipote di riportare alcuni particolari che si volevano attestare al CLN di zona (per esempio la notata passeggiata dei prigionieri sulla piazzetta del Lavatoio, la fucilazione al cancello di Villa Belmonte, ecc.), sempre sul canovaccio delle brevi informazioni date dall'Unità il 30 aprile, ma  infilandoci  però anche un suo personale ruolo pur senza nominarsi).

Come detto però, i contenuti di questa "relazione" non furono avallati dai dirigenti comunisti. Vediamo alcuni stralci della  "relazione" della Bianchi del 1945:

«Alle 15,30 circa del 28 aprile arrivò un signore alto in abito borghese e soprabito chiaro. Raggiunta la persona di Mussolini lo sconosciuto disse ad alta voce: "Siamo venuti a liberarti"... Imboccarono la viuzza del Riale e poi la via Mainoni d'Intignano...

In testa al corteo procedeva un patriota armato di mitra... dietro venivano la Petacci e lo sconosciuto in borghese armato di revolver... (non è  dato sapere se per "revolver" si intende correttamente una pistola a tamburo, oppure genericamente una qualsiasi pistola, n.d.r.».

La Bianchi aggiunse poi che Mussolini indossava un pastrano grigio e aveva in testa un casco da lavoratore. Lui e la Petacci portavano stivaloni da cavallerizzo e quest'ultima osservazione (atipica per la Petacci) è fornita per Mussolini senza il particolare dello stivale aperto (come sappiamo lo stivale destro aveva la chiusura lampo rotta, ovvero saltata verso il tallone, per cui non ci poteva camminare normalmente), come invece avrebbe dovuto essere se si trattava effettivamente del Duce.

Si fa inoltre intendere che nel corteo c'era anche il capitano "Neri", stranamente lo si suppone in quello con la divisa color cachi  armato di "parabellum", quindi:

«A metà della via Mainoni d'Intignano, si vede chiaro che Mussolini aveva uno sbandamento, ma si riebbe tosto. Sul ponte di via Ventiquattro Maggio attendeva un' auto nera, targata Roma. Il luogo era appartato e pareva prestarsi per la bisogna. Ma la presenza di alcune persone indusse la comitiva a proseguire. Ai curiosi tuttavia non sfuggì la disperazione con la quale la Petacci abbracciò Mussolini, durante la breve sosta. Tutti salirono in macchina. Questa si fermò davanti al cancello della villa Belmonte, al numero 14 della via Ventiquattro Maggio.

Qui la strada fa gomito e nasconde una cappelletta dedicata alla Vergine del Rosario...

Erano le 16,20. Si vuole che la Petacci dicesse al suo amante: "Sei contento che ti ho seguito fino in fondo?"

... Il comandante letta la condanna, fece spostare di qualche metro Mussolini che quasi subito ricevette due colpi di pistola al lato sinistro e una scarica di mitra, (l'autopsia però indica che semmai i colpi di pistola poterono arrivare al lato destro, non quello sinistro, n.d.r) cadde in ginocchio addossandosi al muro. La Petacci ebbe la seconda scarica, sollevò le braccia in atto disperato, strinse i pugni e si abbatte riversa ai piedi dell'amante ... Un capo dei partigiani sopraggiunto gli assestò il colpo di grazia (a Mussolini, n.d.r.)».

Più o meno questa era stata la "relazione" della Angela Bianchi, un relazione dalla quale aveva attinto alcuni particolari anche il giornalista Ferruccio Lanfranchi per i suoi articoli del maggio-autunno 1945 sul Corriere d'Informazione.

Il Martino Caserotti poi, nel 1962 concesse una intervista al giornalista Franco Serra ed apportò altri particolari più o meno simili a quelli di questa "relazione".

Nel 1962 il Caserotti aveva circa 62 anni ed era ancora un uomo vigoroso, ma burbero. Al tempo dei fatti narrati, egli faceva il bello e cattivo tempo dalle parti della Tremezzina, nei cui monti sopra Azzano si era precedentemente dato alla macchia.

Sicuramente fornì i suoi uomini (pare che la sua banda si chiamasse Primula Rossa) per coadiuvare tutta l'operazione di Mussolini portato in casa dei coniugi De Maria all'alba del 28 aprile e in realtà  ucciso alcune ore dopo, poi per divulgare la falsa notizia che il pomeriggio, sulla strada provinciale sarebbe passato il Duce ammanettato e ancora, si può star certi, nei giorni successivi, per imbeccare e controllare quanto avrebbero raccontato o meglio non avrebbero dovuto raccontare i coniugi De Maria e altri abitanti di quei posti. Il clima di omertà e di paura che per decenni avvolse tutti quei posti è un fatto riscontrato e oramai acquisito e, da solo, dimostra che pur c'era un "altra" verità che non si voleva far uscir fuori.

Nel dopoguerra il Caserotti visse e lavorò sull'altra sponda del Lago. Nell'intervista al Serra egli confermò il fatto della voce da lui messa in giro nel circondario circa il passaggio di Mussolini prigioniero e confidò anche di essere stato il  solo e il primo ad essere informato dell'arrivo di Mussolini in casa De Maria, il che aggrava i dubbi su questo espediente visto che il Caserotti sapeva bene dove stava Mussolini, mentre all'ora di pranzo nè a Dongo, nè da quelle parti era ancora giunto Walter Audisio e quindi si deve dedurre che l'espediente della "falsa voce", che mandò i pochi abitanti di quei posti al bivio con la provinciale via Regina ad assistere ad un inesistente passaggio del Duce prigioniero, venne sicuramente architettato per avere la massima discrezione al pomeriggio quando si doveva mettere in atto la messa in scena di una finta fucilazione al cancello della Villa.

Sui particolari della fucilazione il Caserotti affermò di essersi trovato a circa 20  passi dal cancello e un poco più avanti c'era Lino (il Frangi, uno dei guardiani di Mussolini, n.d.r.); confermò la frase della Petacci, detta all'ultimo momento a Mussolini ("sei contento... ecc.,)  riportata sulla "relazione" della nipote (del resto a suo tempo imbeccata proprio da lui), e il fatto che, il civile, ovvero l'uomo con l'impermeabile (Valerio, che però il giornalista  Serra, anche su questi racconti e in base al vestiario, indicò non in Audisio che invece doveva indossare qualcosa di militare, ma in Lampredi notoriamente vestito con un impermeabile chiaro) pronunciò alcune parole, una specie di condanna e disse alla Petacci di tirarsi in là.

La donna fece un salto di fianco e anche Mussolini si allontanò di poco.

Poi lo sconosciuto con l'impermeabile sparò due colpi di rivoltella contro Mussolini che crollò sulle gambe. L'altro partigiano in divisa che era venuto da Milano (il Serra lo indicò in Audisio) aveva il mitra in mano, ma non aveva sparato. E poi ci furono le raffiche che buttarono giù sia Mussolini che la Petacci.

Su chi avesse esploso queste raffiche, il Casarotti disse che, dopo tanti anni non lo ricordava, anche perché, disse, teneva gli occhi su Mussolini e la Petacci e al contempo controllava la strada. Nell'intervista rimase quindi questa incertezza sul mitragliatore o i mitragliatori, incertezza che poteva far sospettare la presenza di qualche personaggio importante o poteva essere riferita al Michele Moretti e/o Giuseppe Frangi ivi presenti.

Il Caserotti aggiunse di ricordare che l'uomo con l'impermeabile chiaro chiamò Moretti che arrivò di corsa dalla curva di sopra (Moretti testimonierà che invece si trovava alla curva di sotto, quella verso Azzano, n.d.r.). Disse quindi testualmente:

«Mussolini era ancora vivo, dieci minuti dopo che gli altri se ne erano andati. Forse anche un quarto d'ora dopo (strano che se ne andassero senza controllare se il Duce era morto, n.d.r.). Mussolini per terra tirava una gamba e muoveva gli occhi. Ho preso la mia pistola e gli ho sparato. Mi sembrava umano farlo».

Come si vede, la testimonianza di Caserotti e la "relazione" della Bianchi, sono sostanzialmente un tutt'uno, una "versione" che però, a suo tempo, non venne avallata dal PCI che preferì tramandare la storica versione di Audisio ritagliata tutta attorno al ruolo e la figura del "colonello Valerio" e facendo definitivamente uscir di scena il Luigi Canali cioè il capitano Neri.

In effetti il PCI aveva l'esigenza, di fronte a tutti gli altri partiti ciellenisti, al governo del Sud e i suoi impegni per la consegna di Mussolini agli Alleati, agli Alleati stessi e alla Storia, di presentare una versione dei fatti con al centro il famoso colonnello Valerio che aveva agito per nome e per conto del CLNAI e del CVL e non aveva fatto altro che eseguire una (presunta) sentenza ciellenista di morte.

La versione Caserotti-Angela Bianchi, invece, se la si legge con attenzione, appare descrivere, più che una classica fucilazione quale atto giustizialista in "nome del popolo italiano", una esecuzione in stile gangsterico! Non meraviglia che il PCI intese non avallarla.

E veniamo ora al "memorandum" di Lada Mocarsky.

 

Il memorandum di Lada Mocarsky

 E veniamo al memorandum del Mocarski, stilato il 30 maggio 1945, recentemente desecretato e dicesi trovato dal ricercatore Cereghino nel Maryland in USA.

Leggendo questo Memorandum, ci si rende subito conto di come l'agente americano non fece altro che raccogliere superficialmente tutta una serie di racconti, spesso imprecisi, che circolavano in quei giorni  nel comasco ai quali va aggiunta, appunto, la versione che già dai primi di maggio girava da quelle parti su una uccisione di Mussolini eseguita da un paio di tiratori di cui uno con revolver e l'altro con il mitra (si indicava il Michele Moretti Pietro). Versione che, più o meno, era stata attestata dalla Angela Bianchi e venne anche riportata nei vari articoli inchiesta che Ferruccio Lanfranchi pubblicò sul suo Corriere d'Informazione in quel periodo.

Premettiamo intanto un particolare che è bene chiarire subito.

Il Mocarsky nel memorandum, di fatto ricalcando la versione della Angela Bianchi – Caserotti, parla di un "comandante partigiano di una unità locale" che, uditi i colpi presso il cancello di Villa Belmonte, incuriosito si avvicinò al luogo. Da queste stesse parole, si comprende (diversamente da quanto affermano gli autori del libro in questione) che tale particolare non si addice al ruolo del Luigi Canali capo di Stato Maggiore della 52a Brigata Garibaldi, ma molto di più a quello di  Martino Caserotti, comandante partigiano nella Tremezzina).

Che il Canali fosse presente a Giulino di Mezzegra, forse sia al mattino quando venne ucciso il Duce che al pomeriggio quando venne messa in scena la finta fucilazione in qualche modo descritta da queste "relazioni", è probabile, ma che svolse il ruolo indicato dagli autori del libro non è sinceramente credibile e dà l'impressione di essere un espediente per aumentare l'interesse del libro stesso mettendo al centro del racconto il celebre capitano Neri.

Ma oltretutto bisogna considerare che il Canali venne sequestrato la mattina del 7 maggio 1945 e poi soppresso ed è alquanto difficile che, prima di allora, il Mocarski abbia potuto ricevere da lui un rapporto scritto e la prova, se ce ne fosse bisogno, sta nel fatto che ai primi di maggio l'agente inviò ad Allen Dulles un precedente rapporto in cui non si faceva menzione di quest'altra versione che probabilmente venne a conoscenza dell'agente americano dopo la prima decade di maggio.

Precisato questo, saltiamo alcuni particolari relativi alle ore precedenti la cattura di Mussolini e vediamo cosa venne raccontato all'agente americano così come riportato nel libro di Cavalleri, Giannantoni e Cereghino.

Si comincia con una evidente stupidaggine che sarebbe quella che Claretta Petacci fu riconosciuta il pomeriggio del 27 aprile sulla piazza di Dongo, scambiando in questo caso Claretta con la compagna di suo fratello Marcello, ovvero Zita Ritossa. Un errore comunque da poco, ma non irrilevante, è poi la successiva errata informazione che il Mocarski riporta e in cui afferma che la Petacci venne condotta, assieme a Mussolini, nella piccola casermetta della Guardia di finanza di Germasino dove invece non è mai stata.

Il Mocarski raccoglie poi altre informazioni sballate o imprecise che gli attestano che Mussolini e la Petacci vennero condotti la notte del 27 aprile in casa De Maria a Bonzanigo passando per la stessa strada (praticamente venendo giù dalla piazzetta del Lavatoio) per la quale furono poi, il pomeriggio del giorno dopo, portati a Villa Belmonte, mentre invece (altro errore), in realtà, verso l'alba del 27 aprile arrivarono per la prima volta in quella casa risalendo via del Riale.

Come noto la "vulgata" ovvero la "storica versione" rilasciata da Audisio riportava la clamorosa ed errata indicazione che Audisio e i due celebri prigionieri prelevati da casa De Maria fecero un tratto di strada scoscesa per scendere verso la piazzetta del Lavatoio dove aspettava la macchina che li avrebbe condotti a Villa Belmonte. Una descrizione questa totalmente sballata in quanto quel tratto di strada avrebbe dovuto essere in salita. In discesa sarebbe invece stato il tratto di strada per la mulattiera via del Riale se, usciti da casa De Maria avessero percorso all'inverso la stessa strada che era stata fatta all'alba per giungere in quella strada.

Ora il Mocarsky al tempo navigando tra tante bugie e imprecisioni che vennero architettate e diffuse sul posto (compresi ovviamente l'articolo dell'Unità del 30 maggio '45, la relazione di Angela Bianchi, articoli e servizi vari sui giornali e voci in loco) per sostenere che Mussolini e la Petacci erano stati fucilati a Giulino di Mezzegra il pomeriggio, non potè fare altro che riportare la stessa imprecisione topografica.

Seguono quindi, nel memorandum dell'agente americano, tutta una serie di racconti, alquanto fantasiosi, sulla permanenza dei due prigionieri in casa De Maria, racconti che, in buona parte, già furono riportati sui giornali di quel tempo, quali l'Italia Libera, il Corriere d'Informazione di Ferruccio Lanfranchi, ecc.

Niente di eccezionale, ma in pratica l'agente americano raccolse, senza aver la possibilità di poterle discernere e vagliare tutte le inesattezze, i pettegolezzi, le voci messe in giro in quei giorni e del resto se ne dovette anche accorgere perché ebbe a scrivere che su quell'episodio (i momenti della morte di Mussolini) le informazioni erano di seconda mano e reticenti e alcuni testimoni oculari irreperibili [3].

Interessante è invece notare come dai racconti, che evidentemente i coniugi De Maria fecero al Mocarski, questi ebbero a riferirgli particolari che successivamente, in altre interviste da loro concesse, guarda caso, subirono evidenti modifiche.

Per esempio: che il padrone di casa Giacomo De Maria riconobbe ben  presto Mussolini, mentre invece poi sua moglie affermò che non lo avevano riconosciuto (a sua volta smentita, dopo la sua morte, dal figlio Giovanni nell'intervista a "Gente" del 2 luglio 1993 in cui asserì che il padre sapeva bene di avere Mussolini in casa e si recò sulla strada provinciale a veder passare Mussolini prigioniero solo per non destare sospetti in paese). Poi che lo stesso Giacomo stette buona parte del mattino fuori a lavorare, ma la De Maria raccontò successivamente che intorno alle 14, quando si sparse la voce che Mussolini sarebbe stato fatto passare sulla strada provinciale prigioniero, il marito partì a razzo per andarlo a vedere e ci restò tutto il giorno [4].

Al Mocarski venne anche detto (forse dai stessi coniugi De Maria) che Mussolini mangiò un paio di fette di salame e un poco di pane, cosa questa che l'autopsia del cadavere del Duce non ha riscontrato ed infatti con il tempo la "storica versione" riportò anche qualche testimonianza che asseriva che il cibo era rimasto nella stanza risolvendo così il fatto che l'autopsia dimostrava che Mussolini era stato fucilato praticamente "a digiuno", ma introducendo la contraddizione che alle 12 circa, come raccontato, era stato offerto o richiesto dai prigionieri un pasto, che poi fino alle 16 quando li vennero a prendere non era stato consumato e i resti apparecchiati furono lasciati intatti fino a sera (evidente l'intento di far credere che in quella casa il pomeriggio i prigionieri erano ancora vivi.

Si riporta poi il particolare che i tre partigiani, quando verso le 16 vennero a prelevare i prigionieri, furono accolti da Giacomo De Maria (successivamente, come noto, le testimonianze, compresa qulle della signora De Maria, riportate dalla "vulgata", sostennero invece che Giacomo non era presente essendo andato con altri del paese a vedere Mussolini prigioniero che doveva passare sulla provinciale, n.d.r.).

E qui i tre "giustizieri" sopraggiunti, a parte Michele Moretti (indicato come colui che "era già stato in quella casa la notte precedente"), vengono descritti al Mocarsky come degli sconosciuti, ovvero un civile, alto e i capelli pettinati all'indietro che indossava un impermeabile leggero, più un "capo partigiano".

Cavalleri, Giannantoni e Cereghino, con estrema disinvoltura indicano nel civile Walter Audisio, ovvero Valerio e nel capo partigiano Aldo Lampredi. Interpretazione anche questa decisamente arbitraria visto che, come anche da successive descrizioni della De Maria, che parlò di un impermeabile chiaro e di una specie di basco portato in testa dal civile, semmai questo civile può individuarsi in Aldo Lampredi che era più alto di Audisio (Lampredi era alto circa 1,83 e non era molto stempiato di capelli) e invece nel "capo partigiano", che per essere definito come tale doveva pur mostrare qualche abbigliamento adatto, è più indicato proprio l'Audisio che indossava una specie di giacca a vento militare.

Il trasferimento a piedi di Mussolini e la Petacci verso la macchina che li aspettava sulla piazzetta del Lavatoio ricalca, più o meno, il rapporto di Angela Bianchi ed ha di interessante unicamente il fatto che vi si intuisce una vera e propria messa in scena con due personaggi che impersonavano Mussolini e la Petacci. Mussolini, infatti, venne descritto con un soprabito grigio con il bavero rialzato e il berretto calato fino agli occhi e poi entrambi, udite, udite, si era detto che calzavano degli stivali neri (sic!), stivali che in un precedente rapporto, il Mocarski aveva anche precisato essere da equitazione.

Del gruppo di partigiani di scorta, seppur defilato, sembrerebbe farne parte, anche se non viene specificato, il Capitano Neri. Tra loro, il civile, che come detto, secondo gli autori del libro. dovrebbe essere il colonnello Valerio, portava un revolver.

Seguono particolari e frasi alquanto improbabili, già raccontate nel rapporto della Bianchi e nella testimonianza del Caserotti a Franco Serra del 1962, come per esempio che la Petacci disse al Duce: "Sei contento che ti ho seguito fin qui?", e così via.

Veniamo ora alla descrizione della fucilazione.

Secondo questo rapporto "segreto" del Mocarsky, Mussolini, mentre veniva fatto spostare davanti al cancello della Villa, venne prima raggiunto da un paio di colpi di revolver alla schiena, sparati da Valerio (il civile venuto da Milano, ma casomai, come accennato, era meglio individuarlo in Lampredi, n.d.r.).

Il citato rapporto della Bianchi parlava di un paio di colpi di pistola al fianco sinistro.

Comunque sia, rapporto del Mocarsky o relazione Angela Bianchi – Caserotti, i colpi di revolver alla schiena sono letteralmente assenti dal referto autoptico sul cadavere di Mussolini del prof. Cattabeni (che descrive solo un colpo al fianco destro) il ché pone un grosso punto interrogativo su tutta questa ricostruzione, anche se bisogna pur dare il beneficio che le testimonianze d'epoca, per la descrizione degli spari, ecc.,  avrebbero anche potuto essere approssimate o inesatte sulla precisa dinamica balistica.

Ai due colpi di revolver, comunque, immediatamente dopo seguirono tre colpi di mitra, probabilmente di Michele Moretti affermano gli autori del libro, che raggiunsero Mussolini al petto. Ora il mitra, in genere, spara una raffica, ma qui viene dettagliato che furono solo tre colpi che lo raggiunsero al petto. Anche questa dinamica però è alquanto problematica perché l'autopsia indica chiaramente che una sventagliata di mitra lasciò 4 colpi, a rosa abbastanza ravvicinata, sulla spalla sinistra di Mussolini e altri tre colpi sparsi raggiunsero la parasternale destra, il sottoclaveare destro e il sottomento.

Mussolini sembra che non sia morto, scrive nel suo rapporto il Mocarski, ma nel frattempo arriverebbe, attirato da questi spari, un "comandante partigiano di una unità locale", che tirerà un paio di revolverate, si presume al petto (stranamente), quali colpi di grazia.

Come abbiamo già visto il rapporto della Bianchi del maggio '45 analogamente citava: "... un capo partigiano sopraggiunto gli assestò il colpo di grazia!", e il Caserotti raccontò nel 1962 a Franco Serra: "... Mussolini per terra tirava una gamba e muoveva gli occhi. Ho preso la mia pistola e gli ho sparato".

In tutto, secondo questa sequenza, Mussolini sarebbe stato raggiunto da 2 + 3 + 2 colpi (gli ultimi di grazia, stranamente non alla testa, oppure uno solo di "grazia"), quindi sette (o sei) colpi, quando invece l'autopsia ha chiaramente indicato che il Duce fu attinto in vita da 9 colpi, al limite riducibili a 8 se quello che gli trafisse il braccio penetrò poi nel tronco o nel fianco dx.

La Petacci, relaziona il Mocarski, venne uccisa subito dopo con una deliberata raffica di mitra al petto ed anche qui c'è l'incongruenza che la Petacci, dai riscontri fotografici del suo cadavere e della pelliccia forata nello schienale, è molto più probabile che venne uccisa da una raffica di mitra alla schiena, un particolare agghiacciante che ovviamente nessuno voleva riportare.

Insomma non c'era bisogno di andare a scovare nel Maryland, questo rapporto del Mocarski, perché tutti questi particolari li si potevano, in buona parte, leggere nel rapporto di Angela Bianchi e nell'inchiesta di Franco Serra sulla Settimana Incom Illustrata dell'aprile 1962 e costituivano, in pratica, una versione dalla dinamica balistica un poco più convincente (due sparatori con mitra e pistola) di quella assurda fornita dall'Audisio (solitario giustiziere), ma altrettanto bugiarda.

Interessante, per sospettare una finta fucilazione al cancello di Villa Belmonte, è invece l'osservazione riportata dal Mocarski (confermata poi da altri testimoni) che, praticamente, Mussolini (e devesi dedurre anche la Petacci) non aveva perso sangue davanti al cancello di Villa Belmonte dove fu fucilato. Tutto qui.

Come ben sappiamo dalla testimonianza di Dorina Mazzola e possiamo anche ricostruire dalla confidenza di Savina Santi la vedova di Guglielmo Cantoni Sandrino, uno dei due guardiani del Duce in casa De Maria (vedesi: G. Pisanò, Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", op. cit.), oltre che dal referto autoptico (numero dei colpi e loro geografia), Mussolini intorno alle nove di mattina venne ferito nella stanza di casa De Maria con un paio di colpi di pistola che lo raggiunsero al fianco destro e forse al braccio. Poi ferito venne portato nel sottostante cortile dello stabile e lì ucciso con altri sette colpi.

A nostro avviso, spostando questa uccisione al pomeriggio e al cancello di villa Belmonte, la relazione della Angela Bianchi vi riportò una piccola parte di verità sia pure alterata, ovvero che Mussolini venne prima raggiunto da un paio di revolverate al fianco oltre ovviamente a riportare il corteo di due falsi Mussolini - Petacci condotti all'esecuzione.

Se questo "memorandum segreto" dell'agente americano oggi riesumato e finito in un libro con tanta enfasi, doveva costituire un estremo tentativo di avvalorare, con una diversa modalità e dinamica, la fucilazione pomeridiana delle 16,10, possiamo dire che è stato un tentativo veramente labile e inconsistente. Non possiamo quindi che non concordare con il ricercatore storico Marino Viganò il quale ha osservato, su la rivista Storia in Rete, di Maggio 2009 che, a suo tempo, l'agente americano di fatto non potè che indagare poco e male.

Ma in definitiva è lo stesso Mocarsky a ridimensionare tutto il suo "rapporto" almeno per quanto riguarda i momenti dell'uccisione del Duce. Il Mocarsky, infatti, sottolineando la presenza di pochi testimoni oculari di quella fucilazione e per giunta reticenti,  scrive che alcuni sono morti (probabilmente il Giuseppe Frangi) e altri scomparsi (tra questi deve necessariamente esserci il Luigi Canali). Tra gli scomparsi accennò ad uno che era sparito anche in preda ad un esaurimento nervoso, ma non si capisce a chi si riferirebbe, forse all'autista di quella spedizione a Giulino di Mezzegra, cioè il Giovambattista Geninazza resosi irreperibile nell'immediato dopoguerra. A quanto sembra non parlò neppure con il Moretti e con il Lampredi ed è incerto se parlò con l'Audisio.

Per concludere possiamo dire che questo libro "La fine, gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani" si ridimensiona da solo.

 

NOTE:

[1]Vedesi: Storicus: Le ultime giornate di Mussolini e Claretta Petacci, Ed. dell'Unione, s. data; Rapporto Angela Bianchi al CLN di Como (Maggio 1945): in Corriere della Sera 22 settembre 1995.

 

[2] Vedesi: F. Serra: "Inchiesta: Sparò la pistola di Guido." Settimana Incom Illustrata, Aprile -Maggio, 1962.

 

[3] Per la sua corposa inchiesta il Mocarsky mise insieme tutta una serie di testimonianze e confidenze non sempre attendibili, anzi tutt'altro. Ne consegue che lo stesso elaborò alcune deduzioni che non debbono essere prese come oro colato. Ad esempio il Mocarsky ritenne che Audisio partì da Milano senza sapere di dover uccidere Mussolini e che questo ordine gli pervenne durante la sua famosa telefonata delle 11 dalla Prefettura di Como al Comando del CVL. Noi siamo scettici, anche se in via di principio non escludiamo nulla, non solo perchè è poco credibile che Audisio partì da Milano senza sapere che doveva fucilare Mussolini, ma resta il fatto che per quell'ora (le 11 del 28 aprile)  la "pratica" Mussolini era stata già chiusa con la sua uccisione al mattino, cosa questa che il partito Comunista a Como e Milano sapeva benissimo, e quindi, le vicissitudini di Valerio / Audisio, hanno una importanza del tutto relativa.

 

[4] Vedesi: M. Nozza: Testimonianza Lia De Maria, op. cit.;  Testimonianza del figlio dei De Maria Giovanni (detto Bardassa) su Gente 2 luglio 1993;  A. Zanella: L'ora di Dongo, Rusconi 1993.

Questa assurdità della "storica versione" che attesta che il Giacomo De Maria si recò in strada a veder passare Mussolini (che invece aveva in casa) dimostra tutta la falsità di quei racconti. È infatti assurdo pensare che il De Maria abbia lasciato la moglie sola, fino a sera, con in casa due prigionieri e due uomini armati.

Maurizio Barozzi