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La mancata vendetta su Walter Audisio

 

Maurizio Barozzi  (31 maggio 2015) 

 

 

Per comprendere il come e il perché il neofascismo sia finito relegato nella pattumiera della storia italiana, basta considerare la vicenda della mancata "vendetta" sul famigerato colonnello Valerio, alias Walter Audisio, falsamente passato alla storia come il fucilatore di Mussolini.

È la conferma delle sacrosante parole di Mussolini che non solo osservò che una volta disvellate dal terreno statue e colonne, sotto restano soltanto i vermi, ma aggiunse anche che i suoi veri figli che lo avrebbero capito e interpretato sarebbero venuti solo molti anni dopo.

Dunque Walter Audisio, sotto le le sembianze di uno pseudo colonnello Valerio del CVL, in quel di Dongo aveva fucilato, a parte ministri e fascisti, anche alcune persone assolutamente non passibili di pena di morte, al sol fine di raggiungere 15 esecutati di cui poi portare i cadaveri a Milano per gettarli in Piazzale Loreto dove i fascisti, l’anno prima, avevano fucilato 15 partigiani.

A questo si aggiunga che oltre a Mussolini aveva fucilato anche una donna, Clara Petacci di cui nessuno aveva chiesto la condanna a morte..

Oggi sappiamo che per quanto riguarda la fucilazione di Mussolini e la Petacci, Audisio fu un "presta nome", perché non era stato lui a fucilarli, ma era necessario, per l’agiografia partigiana" del PCI, che figurasse lui. Comunque sia, fino a quando Audisio restò in vita (1973), era da tutti ritenuto lui l’uccisore del Duce.

Ma quello che forse più di tutto, imponeva ai fascisti di esercitare una sacrosanta vendetta su questo cialtrone erano le sue relazioni, i suoi racconti di quella fucilazione. Una sequela di menzogne, tanto pacchiane quanto insolenti per attestare la figura di un Duce pavido e tremante davanti alla morte. Si rileggano le sue relazioni sull’Unità: quella del 30 aprile 1945 e del novembre-dicembre 1945 da lui dicesi dettate, ma non firmate, e quella a sua firma sull’Unità del marzo 1947, e infine il suo libro, uscito postumo: "In nome del popolo Italiano" del 1975, per rendersi conto del grado di cialtroneria, menzogne e vigliaccheria di questo figuro. Si tratta di tre relazione pubblicate dall’Unità, una diversa dall’altra, con attestati falsi che si smentiscono da soli nella successiva relazione e via dicendo.

Da notare che Audisio era stato condannato al confino, per uscire dal quale egli aveva fatto una domanda di grazia che si inoltrava di ufficio al Duce, dove, di fatto aveva espresso una specie di ravvedimento e di abiura della sua fede comunista.

Graziato e uscito, aveva fatto poi il boia!

Altro che vendetta avrebbero dovuto fare i fascisti, ma non la fecero, e il desso visse fino a quando un infarto non lo portò nella tomba. Emblematico il fatto che da morto i comunisti, gli dedicarono solo un picchetto funebre nella sezione di S, Lorenzo, e un articoletto sull’Unità. Per quello che era stato fatto passare come l’eroe, il giustiziere di Mussolini, effettivamente un po’ poco. Ma del resto i vertici del partito sapevano benissimo che Audisio aveva solo recitato una parte.

Nel dopoguerra il Pci lo fece eleggere deputato ed anche consigliere comunale, ma il suo profilo politico non dice nulla, insignificante, non ha lasciato un minimo di qualità politiche.

Venne portato a lavorare all’ENI, al tempo il "posticino d’oro", per tanti pezzi grossi della Resistenza.

Viveva male, per anni aveva dovuto girare con una guardia del copro, poi girava armato di pistola. Dicesi che era tirchio e spilorcio e consumava i suoi pasti chiuso in ufficio, sempre nel terrore che i fascisti lo potessero accoppare. Molto probabilmente la serie di infarti che poi nel 1973 lo portarono a morte si dovette anche a questo genere di stress.

Ma i neofascisti l’attentato "giustizialista" non glielo fecero.

Certamente ci furono alcuni progetti, molte intenzioni, parole e minacce tante, ma risultati concreti nessuno.

Eppure per un fascista avrebbe dovuto essere un punto di onore: una sacrosanta vendetta che doveva venir prima di ogni altra cosa.

Tra le tante inconcludenti intenzioni, ci fu un tentativo di assassinare questo Audisio che arrivò ad una fase avanzata. Nacque in ambito missista e potete già immaginare come sia finito.

Si verificò nel 1953. Ne fu protagonista un giovane Giulio Salierno, futuro sociologo e scrittore che al tempo era missista della sezione Colle Oppio di Roma. Aveva predisposto tutto, ma alla vigilia dell'impresa, per rubare la macchina con cui compiere l’attentato, uccise un ragazzo.

Riuscì a squagliarsela, ma venne denunciato da una lettera anonima, che si disse poi proveniente dall'interno del Msi. Conoscendo quella fogna di partito, dove difficilmente non vi era dirigente che non fosse "amico" del Commissario di quartiere o del maresciallo dei CC, niente di più facile che sia vero (basti ricordare la denuncia di Loi e Murelli per i fatti del 1973, diversa solo perchè non fu anonima, ma pubblica con tanto di taglia intascata).

Cercò di squagliarsi arruolandosi nella Legione straniera, ma fu arrestato e condannato a 30 anni di carcere. Fu graziato 1968, anche perché nel frattempo si era convertito al marxismo ed era divenuto un sociologo di successo (insegnò sociologia nelle Università di Sassari e Teramo).

Salierno ci ha lasciato anche il resoconto di un intervento di Pino Rauti nella sezione di Colle Oppio del MSI in vista delle elezioni del '53. Racconta Salierno, che il Rauti auspicava attentati nelle piazze, nei magazzini, nelle linee ferroviarie per creare le condizioni di un golpe fascista.

E così si chiusero i cialtroneschi e velleitari tentativi dei neofascisti di vendicare Mussolini.

E questa cialtroneria si accoppia alla resa che i comandanti fascisti sottoscrissero con un inesistente CLN a Como il 27 aprile 1945, resa che costò l’isolamento e la cattura di Mussolini. Eppure in quel di Como al mattino del 26 aprile erano giunti circa 4000 fascisti armati e decisi a difendersi e difendere Mussolini, ma vennero fatti squagliare come neve al sole. Quella mattina del 27 aprile, a resa conclusa Pino Romualdi che era rimasto la più alta carica di comandante fascista in città arringò circa settecento fascisti disperati rimasti in città (molti dei quali, mentre lui riuscì, assieme a Vincenzo Costa, altro comandante, a squagliarsela in abiti borghesi), vennero poi malmenati e non pochi trucidati).

Scrisse il tenente Enrico Mariani delle BN, fotografando perfettamente e spietatamente quella situazione, in cui praticamente Romualdi spacciò una vergognosa resa per un successo:

«Romualdi, esortato da qualcuno, si affacciò alla loggia interna della Casa del Fascio di Como. La stessa Casa del Fascio era gremita di fascisti, militi, ausiliarie provenienti da diversi parti, e disse qualche parola a quei fedeli che attendevano direttive. Mi ricordo che il Romualdi disse presso a poco così: "Pavolini è andato a Menaggio e ritornerà a Como col Duce il quale (incredibile!) ci darà ancora la vittoria". Si vede che non sapeva neanche lui cosa dire. È uno di quegli oratori che parlano alla folla con la mentalità dei mercanti da fiera».

E quella mentalità da imbonitori da fiera, parolai da comizi, aveva solo preceduto di pochi mesi l’attitudine consona ai dirigenti missisti, che poi la riportarono nelle tante piazze italiane, a loro uso e consumo, per essere eletti nel sistema democratico in cui ci sguazzavano magnificamente.

 

 Maurizio Barozzi     

 

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