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La rete "Nemo", Romualdi e altre ricerche storiche

 

Franco Morini (19 agosto 2014) 

 

 

la NOTA di Maurizio Barozzi

 

Sono di grande interesse queste inchieste storiche, che qui sotto riportiamo, del ricercatore storico di Parma, Franco Morini, riguardanti la famosa e famigerata rete spionistica Nemo e di riflesso su Pino Romualdi, Vanni Teodorani, ecc., già pubblicate a puntate sulle pagine della pregevole rivista HISTORICA NUOVA

Come noto Romualdi, già vicesegretario del PFR, nel dopoguerra venne accusato, da molti reduci fascisti, di un ambiguo comportamento in quel di Como, dove arrivato al mattino del 26 aprile 1945, assieme a oltre 4000 fascisti in armi, nella nottata del 27 aprile, dopo che buona parte dei fascisti si era scompaginata a causa delle incertezze dei comandanti con il fermo della colonna in città, firmò una specie di "tregua", di fatto una resa ad un inesistente CLN locale, una resa che costò a Mussolini, bloccato 31 Km. più avanti a Menaggio, la successiva cattura per il mancato arrivo della colonna fascista in armi da Como.

Alcuni personaggi, dall'ambiguo operato nel dopoguerra, funzionale alle politiche missiste, come ad esempio Vincenzo Costa, cercarono di far passare il protrarsi del fermo in quel di Como dei fascisti in armi, come una decisione che Mussolini fece pervenire da Menaggio. Una falsità che già nel primo dopoguerra aveva confutato Bruno Spapanato (fu però avallata da Giorgio Pisanò nel suo Storia della Guerra Civile), ma venne poi definitivamente smentita da Elena Curti, figlia naturale di Mussolini con lui nella famosa autoblinda. la quale raccontò di essere stata inviata da Menaggio a Como, dopo le 12 del 26 aprile, proprio per vedere cosa stava facendo Pavolini e perché non arrivava con i suoi uomini!

Oggi sappiamo, come ha anche recentemente rivelato la rivista Storia in Rete, nel suo speciale sulle "Ultime ore di Mussolini" pubblicato a maggio 2014, che quando Pavolini, la notte del 26 aprile riuscì ad arrivare a Menaggio da Mussolini, ma senza scorta armata, Mussolini sconfessò decisamente i suoi uomini a Como che chiedevano insistentemente che egli ritornasse indietro nella città non approvando di certo le varie proposte che erano circolate per una sua "resa" con tanto di consegna agli Alleati che Romualdi stava trattando a Como.

Romualdi poi riuscì a salvare la pelle e squagliarsi da Como (come del resto Vincenzo Costa) e nel dopoguerra venne investito da svariate accuse che vanno dalla negligenza, alla insipienza, fino all'ombra di un possibile tradimento, ma niente fu possibile provare con certezza.

Nel dopoguerra Romualdi, tra i fondatori del MSI e uomo di destra fu, fin da periodo dei FAR, tra gli artefici massimi dello spostamento del MSI su sponde conservatrici e reazionarie e quindi successivamente filo atlantiche. Di fatto una sconfessione di tutto il fascismo repubblicano e per quel partito, un vero tradimento degli interessi nazionali, visto che venne subordinato, fino a divenire una truppa cammellata -e per tutti i suoi 50 anni di vita- in vantaggio degli Stati Uniti e della NATO.

Fu con i primi anni di questo terzo millennio che uno storico di tutto rispetto e di certo non di parte antifascista, Giuseppe Parlato, rettore della Libera Università S. Pio V e vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito, diede corpo e documentazioni a quelle che prima erano state solo "voci", facendo emergere i contatti tra certi esponenti della RSI e l'Amministrazione americana – contatti che risalivano a PRIMA della fine della guerra. Tra questi contatti, in particolare c'erano anche quelli di Romualdi con ambienti dei servizi segreti statunitensi (Cfr.: G. Parlato: "Fascisti senza Mussolini", Ed. Il Mulino 2006).

Lo storico Parlato, avvalendosi anche di preziose informazioni fornitegli proprio da Franco Morini, documentò che Romualdi era entrato in contatto con l'OSS americano tramite Gianni Nadotti, agente segreto del SIM infiltrato prima nella segreteria federale di Parma e poi nella vice segreteria del PFR a Milano (sempre al seguito di Romualdi).

Forse Romualdi, ci precisa però Franco Morini, non era entrato in contatto con ambienti americani CIA o CIC, attraverso Nadotti, che era interno alla Rete Nemo e all'Intelligence Service, ma per altre vie (per esempio Teodorani, che poi in suoi articoli su "l'Asso di Bastoni", fece trapelare la sua vicinanza ad ambienti clericali e americani?).

La domanda che quindi tutti si sono posti è stata consequenziale: questi "contatti", quando ancora si stava combattendo contro gli Alleati. potevano rientrare in compiti di "ufficio", cioè nell'ambito dei vari contatti che sul finire della guerra si ebbero un po' con tutte le parti in gioco (a volte autorizzati anche dal Duce), oppure nascondevano qualcosa di altro e di peggio?

Perché nel secondo caso, queste collusioni avrebbero potuto avere anche un ruolo decisivo al momento del crollo militare quando a Como, quel 26 aprile 1945, entrarono in gioco gli agenti americani e del SIM Salvatore Guastoni e Giovanni Dessì con i quali Romualdi trattò la "tregua" della rimanente colonna armata fascista.

Anche su queste basi il ricercatore storico di Parma Franco Morini, che ancor prima di Parlato aveva svolto varie ricerche, a partire dalla sua città, ha ampliato il campo indagativo tirando in ballo la rete spionistica NEMO, che comprendeva oltre a vari prelati e uomini della Resistenza, il su menzionato Nadotti, ecc., anche uomini della RSI, autentici traditori.

Esponiamo adesso le ricerche di Franco Morini, già pubblicate su HISTORICA NUOVA e a cui rimandiamo per una visione d'insieme, più ampia e più esaustiva.

Avvertenza:

la raccolta di questi scritti di Morini, l'abbiamo, un po' arbitrariamente, divisa in otto parti e al termine di ognuna abbiamo inserito le rispettive note.

Nel frattempo il ricercatore Morini ha ancora prodotto altri articoli e allegati, che in seguito faremo conoscere.

 

 

 

La rete "Nemo", Romualdi

e altre ricerche storiche

 

Franco Morini (Historica Nuova)

 

INDICE


Parte PRIMA: MISSIONE "NEMO"
Parte SECONDA: A COMO, E NON A DONGO, È FINITA LA RSI
Parte TERZA: OSS E VATICANO TRA PARROCI E CARDINALI
Parte QUARTA: VANNI TEODORANI
Parte QUINTA: PINO ROMUALDI
Parte SESTA: DIETRO LE QUINTE DELLA CAPITOLAZIONE GERMANICA
Parte SETTIMA: TRIESTE E IL REGNO DEL SUD
Parte OTTAVA: CLERO, "NEMO" E I TESORI DELLA RSI
Parte NONA: AFFAIRE NEMO - APRILE '45: ROMUALDI SUL FRONTE DEL PO

 

LA RETE NEMO

 Articoli pubblicati a puntate da HISTORICA NUOVA

 

Parte PRIMA:

MISSIONE "NEMO"

 Franco Morini

 

Un prolungato silenzio durato 65 anni è stato recentemente interrotto in campo editoriale con l'uscita di un libro che tratta, ancorché incompiutamente, dell'enigmatica centrale spionistica "Nemo", una rete che operò occultamente a vari livelli all'interno della RSI, negli alti comandi SS dislocati in Italia e anche in vari CLN, non escluso lo stesso CLNAI.

Non a caso un rapporto OSS dell'agosto 1945, classificava la Nemo Mission come la più estesa ed efficace rete spionistica che abbia agito in Nord Italia nel periodo 1944-45.

Di tutto ciò ben poco tratta il libro di memorie recentemente edito col titolo «Missione "Nemo"» (sottotitolo: "Un'operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-45") a firma di Francesco Gnecchi Ruscone, i cui scarni contenuti sono tuttavia compensati dall'esauriente introduzione a cura di Marino Viganò al quale si deve inoltre la corposa appendice documentaria prevalentemente inedita, che rappresenta la parte di maggior interesse.

I limiti delle memorie di Gnecchi Ruscone derivano dal fatto che egli entrò giovanissimo e per breve periodo di tempo (novembre 44 - gennaio 45) nell'organizzazione "Nemo", dove venne utilizzato in ruoli ausiliari d'informatore sulla dislocazione di fortificazioni e reparti militari dell'Asse nell'area del Triveneto. Arrestato dalla gendarmeria tedesca in circostanze fortuite, ma non identificato come spia, venne a suo dire riscattato dal carcere dov'era finito, grazie alla corruzione esercitata dalla madre su di un ufficiale germanico che gli rese la libertà. Libero, ma non più collegato alla "Nemo", Gnecchi 'resistette' autonomamente a Milano fino al giorno dell'insurrezione a cui prese parte in maniera piuttosto goliardica, considerato come egli stesso riporta le eroicomiche gesta partigiane di quei tragici giorni. L'episodio più eclatante al quale partecipò Gnecchi, dopo il suo rientro nella 'Nemo a guerra ormai finita, riguarda il fortuito recupero della collezione numismatica appartenente a Vittorio Emanuele III, la cui riconsegna procurò al baldo giovane, la patacca a scadenza ravvicinata di cavaliere della Corona da parte di Umberto II. [1]

Con questo episodio si esauriscono di fatto le memorie dell'agente segreto Gnecchi. Un memoriale, come premesso, di scarso valore storico se non fosse che a sfondo di quella vicenda personale facesse capolino l'intrigante rete "Nemo" la cui reale importanza restò ignota, pur avendone fatto parte, allo stesso Gnecchi. Con questi presupposti, Gnecchi ha dato privatamente alle stampe la sua personale esperienza bellica in edizione inglese [2], indirizzata ad una limitata cerchia amicale per lo più straniera. Seppure fuori commercio, il libro non è comunque sfuggito all'attenzione dello storico Viganò [3] che, non del tutto a digiuno circa l'affaire "Nemo", ne ha propiziato la ristampa in edizione italiana presso l'editore Mursia, non mancando di allargarne gli orizzonti con vari documenti da lui reperiti presso l'Archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito (AUSSME).

Oltre a ciò, Viganò è riuscito a rintracciare la figlia dell'ex capo missione 'Nemo', cap. di corvetta Emilio Elia (nome in codice di missione: ing. Bruno o "l'Ingegnere"), Lia Elia Reinach, che a sua volta gli ha fornito copia di vari documenti paterni, anch'essi riportati in appendice al testo di Gnecchi. Appendice che arriva così a contare 23 documenti e allegati di varia fonte, spazianti dall'agosto 1944 fino al dicembre 2010.

Di questi vari documenti, quelli di esclusiva fonte Elia sono: tre relazioni datate 26-27 febbraio 1945 più due distinti allegati; una relazione generale datata 30 agosto 1945, oltre a una copia in lingua inglese indirizzata alla sede OSS di Washington. Genericamente datato agosto 1945 è l'elenco, palesemente incompleto, di membri e collaboratori a volte occasionali della missione "Nemo". [4] Risale presumibilmente sempre all'agosto 1945 una dichiarazione di Elia a favore del ten. col. della GNR, Vincenzo Cersosimo, ex giudice istruttore presso il Tribunale Speciale della RSI. Semplicemente datata 'ottobre 1945' è una ripetitiva relazione sull'attività svolta da Elia in veste di capo missione e, da ultima, una sua dichiarazione del 15 dicembre 1945, rilasciata a favore dell'ex prefetto della RSI a Roma, Temistocle Testa.

Curiosamente o meno per i più navigati, sia le varie relazioni che i relativi allegati di fonte Elia, trattano d'infiltrazioni, condizionamenti e controlli operati dalla "Nemo" in seno a CVL, CLNAI e CLN vari con specifico riferimento a Milano, Parma e Trieste, relazioni costantemente critiche nei confronti delle diverse componenti resistenziali di sinistra. Per quanto concerne invece la RSI, pochi e scarni riferimenti del tutto incidentali emergono dalle dichiarazioni a favore di Cersosimo e Testa. Dei notori rapporti avviati prima con Dollmann e poi con Wolff e del relativo ruolo della "Nemo" nei primi abboccamenti, solo vaghi accenni nella dichiarazione a favore di Testa in parte censurati. In altri tempi abbiamo già avuto occasione di documentare [5] i contatti con Wolff tramite Dollmann, instaurati dal duo Testa e Cancarini-Ghisetti (d'ora in poi Ghisetti) approcci inizialmente volti a trattative separate tra il CLNAI e il Comando delle truppe tedesche in Italia. [6]

Nel caso in questione, la dichiarazione di Elia a favore di Testa -la cui copia originale è depositata negli archivi USSME- è, come accennato, limitata da alcuni omissis per fatti classificati riservati.

A margine del documento il curatore riporta questa postilla giustificativa: i passi segnati da puntini [omissis] sono stati compilati dall'Ufficio [AUSSME] in sostituzione di documenti originali inclusi nel corpo della relazione stessa e che non possono essere divulgati. Comunque essi riportano integralmente dati relativi alla collaborazione data dal Dr. Testa alla missione "Nemo".

In ogni caso altri tasselli recuperati qua e là sono già sufficienti a chiarire i contorni di quel, non più tanto, segreto arcano. Ciò che ha censurato l'AUSSME, si trova infatti frazionato in vari archivi come il fondo Gianfranco Bianchi presso la Cattolica di Milano, in cui è depositato uno dei documenti reperiti da Viganò. Trattasi di una nota inviata in data 18 giugno 1981 al prof. Bianchi da parte del Ghisetti e concernente il profilo personale di Temistocle Testa con il quale durante la RSI Ghisetti era in stretti rapporti. In questa sua, Ghisetti rivela che: «Nell'agosto 1944 il Comando interalleato di Caserta ebbe istruzioni da Allen Dulles di 'agganciare' il colonnello delle SS Eugen Dollmann che, secondo lui, rappresentava l'anello debole della catena nemica (…) L'incarico di organizzare l'operazione si svolse sotto l'etichetta 'Nemo' (…) Agganciare prima Testa eppoi Dollmann, fu un gioco da ragazzi perché i due non domandavano di meglio (…) Si omette il resto. Il prof G.B. (Gianfranco Bianchi ) al quale sono destinate queste note, sommarie, a memoria senza il sussidio di documentazione, lo conosce bene, forse anche meglio di chi scrive».

Questa nota confidenziale trova conferma nell'articolo di storia locale concernente il duo Testa-Ghisetti a firma del ricercatore dell'Istoreco di Reggio Emilia, Ugo Pellini, il quale da parte sua aggiunge che sul far dell'autunno del 1944, Ghisetti si recò più volte a trovare Dollmann nel suo comando di Villa Rancina a Reggio Emilia e … non si trattava di visite di cortesia: il 14 ottobre, tramite Testa, consegna a Dollmann una lettera del segretario del card. Schuster, mons. Bicchierai. In questa lettera Sua Eminenza prega il tedesco d'intercedere [testuale nella lettera: ".. volerVi fare mediatore" N.d.R.] [7] presso il feldmaresciallo Kesserling. (…) Da parte sua il cardinale si mette a disposizione come eventuale mediatore di un accordo fra il comando germanico e il CLN. [8]

Stabilito che a partire dall'ottobre '44, il prefetto con funzioni di sottosegretario Testa, era stato definitivamente "agganciato" dal nemico, apprendiamo da fonte autografa Ghisetti della sua organicità al C.I.C. (Counter Intelligence Corps) statunitense fin dal 6 ottobre 1943. Puntualizzazione non oziosa considerando che, a dar retta ai documenti ufficiali compilati dal cap. Elia, il Ghisetti fu inserito negli effettivi della "Nemo" solo l'11 gennaio 1945, mentre è addirittura del febbraio successivo il primo incontro a Milano fra Elia e Testa per la formale adesione di quest'ultimo alla stessa rete. Si tenga anche presente, che il periodo gennaio-febbraio 1945 coincide con il passaggio dal negoziato CLN-Wolff alle trattative di resa Wolff-Dulles [9] (operazione "Sunrise"); accordi effettuati sempre e comunque alle spalle della RSI e sotto l'occhiuta supervisione, per non dire regia, del card. Schuster. [10]

Da quanto precede dovrebbe ritenersi che per quanto concerne i primi abboccamenti dell'autunno '44, il cap. Elia sia rimasto in disparte se non del tutto assente, forse in quanto operativamente relegato a Milano. Ma anche Testa e Ghisetti avevano i loro uffici a Milano, uffici dai quali il primo dirigeva l'Organizzazione Italiana del lavoro (O.I.L.) ed il secondo esercitava la carica di Commissario ai trasporti della Lombardia, ed è pertanto inverosimile che, nonostante l'intensa attività da essi svolta in precedenza, non avessero ancora stabilito formali rapporti con quel capo struttura in nome della quale avevano "agganciato" e trattato col comandante in capo delle SS in Italia.

Plausibile o meno che fino al 1945 fossero rimasti ambedue ignoti ad Elia, ciò è sicuramente escluso per quanto concerne il capo maglia 'Nemo' di Parma, responsabile territoriale per la contigua Reggio Emilia, don Paolino Beltrame Quattrocchi, braccio sinistro del card. Schuster essendo il destro notoriamente appannaggio del fido messo diplomatico fra l'Arcivescovado di Milano e l'OSS di Berna, don Bicchierai. Notoriamente d. Paolino preferiva esplicarsi in ruoli operativi dove poteva cimentarsi in spregiudicate iniziative. Circa gli stretti rapporti intercorsi fra d. Paolino e Schuster, ne abbiamo già ampiamente trattato [11] per cui non ci ripeteremo.

Anche perché grazie a nuovi documenti reperiti all' AUSSME da Viganò, il quadro già multiforme delle attività svolte all'epoca da d. Paolino si arricchisce -senza tuttavia esaurirsi- di una sua relazione datata 24 luglio 1945, concernente l'opera da lui svolta dall'8 settembre 1943 al 9 maggio 1945 [12] (sarebbe interessante apprendere anche del periodo successivo, così come dei suoi eventuali rapporti con il confratello, di Fede e di Servizi, don Giuseppe Cornelio Biondi). Ad ogni modo, l'8 settembre troviamo d. Paolino in licenza da cappellano militare del V Raggr. G.A.F. (Guardia alla Frontiera a Fiume) nella sua casa paterna a Roma.

Alla data del 16 settembre, d. Paolino rivela d'essere già in relazione con i vertici del SIM-Marina, agevolato in ciò dal fatto che esponenti del SIM erano soliti incontrarsi nella sua abitazione romana che in quel periodo serviva da rifugio perfino ai familiari dell'ammiraglio De Courten.

Nel corso di tali riunioni, presente anche il fratello, don Tarcisio Beltrame -lui pure cappellano militare addetto allo S.M. della Marina- d. Paolino venne ufficialmente inserito nei ranghi del SIM-Marina. Scrive infatti d. Paolino che, instaurati alcuni accordi preparatori prima a Trieste e poi a Milano (tappe da tener presente nei successivi sviluppi) … decisi di rientrare alla mia sede normale di Parma, investito di precise istruzioni a carattere particolarmente informativo militare, dai suddetti ufficiali superiori e dall'allora comandante militare di Roma. Giunto a Parma il 6 gennaio 1944, d. Paolino prese immediato contatto col Comandante militare della provincia di Parma, generale Umberto Fabri al quale, come egli scrive: … aprii subito l'animo [ottenendo] oltre alla sua incondizionata approvazione, vario appoggio nell'occultare e favorire l'attività mia e dei miei primi collaboratori. Collaboratori che d. Paolino fece chiamare alle armi dal gen. Fabri, al fine d'inserirli in posti chiave del Comando provinciale (43° C.M.P). Oltre ai militari, per lo più ufficiali e graduati, d. Paolino riuscì a far ingaggiare altri suoi sodali nel personale civile del Comando militare e fra questi l'italo olandese e suo fido collaboratore, Riccardo De Haag, assunto con falsa identità in un ufficio del C.M.P. da dove poteva consentire a d. Paolino … di venire regolarmente in possesso di tesserini da ufficiale e da sottufficiale dell'esercito repubblicano, di carta intestata [e] timbri del Comando provinciale.

La massiccia infiltrazione operata nel C.M.P. permise a d. Paolino di manovrare a sua discrezione all'interno della struttura facendo per es. allontanare dal Comando gli elementi che potevano intralciare l'azione sovversiva in atto.

Una delle più note quinte colonne inserite da d. Paolino nel C.M.P. il tenente del genio alpino Giovanni Nadotti, vanterà in una sua relazione post bellica d'aver spinto alla sedizione centinaia di militari del Comando, duecento dei quali sarebbero stati indotti a disertare e a congiungersi alle formazioni partigiane già ben istruiti ed equipaggiati. [13]

Questa struttura creata a livello locale da d. Paolino, andò a saldarsi nell' aprile 1944, alla nascente rete 'Nemo' dopo un incontro a Parma fra Elia e d. Paolino, il quale continuò a dirigere comunque la maglia di Parma e dintorni al contrario di De Haag che, invece, preferì seguire Elia a Milano in veste di suo vice.

Tornando alla relazione di d. Paolino, emerge fra l'altro che: ... in maggio pur conservando stretto collegamento con 'Nemo' istallatosi a Milano, potei penetrare nell'ambiente del Tribunale speciale [allora operante a Parma] dove, in breve tempo rivelai la mia posizione al sostituto P.G., ten. colonnello della GNR Vincenzo Cersosimo, dal quale ottenni la piena collaborazione per la liberazione e il proscioglimento di numerosi detenuti politici, collaborazione che durò costante sino all'ultimo, portando, tra l'altro, alla consegna in mie mani, della serie completa dei timbri del Tribunale speciale ed alla sottrazione dell'incartamento processuale a carico di Ferruccio Parri (pag. 162) … oltre ad un certo numero di fogli di scarcerazione firmati in bianco (pag. 226).

Infatti capita perfino che a sua volta Cersosimo attiri in area 'Nemo", lo stesso presidente del Tribunale Speciale, gen. Mario Griffini (cfr. pag. 225).

Questo -e quant'altro abbiamo già trattato in precedenti articoli- per quanto concerne l'ambito RSI, giacché d. Paolino non trascurò d'infiltrare con gli stessi metodi anche i centri resistenziali locali e non, partendo col far nominare l'agente 'Nemo', cap. carrista Max Casaburi, Capo di S.M. del Comando piazza del CLN di Parma; Casaburi si sdebitò chiamandolo a sua volta a dirigere il delicato ufficio del servizio informativo partigiano della provincia (SIP).

Poco tempo dopo, allorché il comunista Menconi, Capo del Comando piazza di Parma, rimase vittima di un agguato tedesco contro l'intero vertice partigiano riunitosi a Bosco di Corniglio, fu lo stesso Casaburi a surrogarlo nella carica, cedendo il suo posto di Capo di S.M. Piazza ad altro affiliato SIM-Nemo, Tommaso Mori Checcucci. [14]

E siccome insieme al Comandante Piazza del CLN di Parma, era deceduto nell'imboscata anche il Comandante Unico operativo, Giacomo di Crollalanza, da poco eletto C.U. dalle varie formazioni partigiane operanti in provincia, d. Paolino si cimentò nel sostituirlo con altro elemento che gli era stato direttamente segnalato da Elia, ignorando disinvoltamente l'intralcio rappresentato dalla pretesa delle bande partigiane di eleggersi il loro nuovo comandante unico. Senza apparenti ostacoli, d. Paolino ottenne la delega di comando da parte del Comando Unico Militare Emilia Romagna (CUMER) a favore del suo pupillo, l' ex ufficiale di S.M. nella campagna d'Africa, col. Paolo Ceschi, in quel momento limitato dal fatto di trovarsi detenuto nelle carceri di Parma. Organizzarne l'evasione per d. Paolino, che delle carceri si era fatto nominare cappellano, corrispose al semplice onere d'intestargli uno dei vari fogli di scarcerazione firmati in bianco di cui disponeva. In attesa della nomina ufficiale, il col. Ceschi fu accolto da d. Paolino all'interno di quella che era la sua base operativa, ossia l'abbazia di S. Giovanni a Parma. Disgraziatamente la procurata evasione del Ceschi unita ad altri gravi fatti nel carcere di Parma, comportò la fucilazione di tre agenti di custodia proprio nel mentre d. Paolino si era fatto inaspettatamente ospedalizzare in modo, forse, da poter così ostacolare una sua eventuale chiamata in causa che di consuetudine non ebbe a verificarsi. [15]

Sebbene più nella forma che nella sostanza, il col. Ceschi divenne infine comandante unico. assumendo per l'occasione l'incauto nome di battaglia di "Gloria", una gloria presto infranta da certi suoi ignominiosi comportamenti. [16]

A parte la massiccia infiltrazione locale testè illustrata, la 'Nemo' cercò d'insinuarsi anche nei CLN di Milano e Trieste, tramite, rispettivamente, De Haag e quel tal cap. Podestà di cui ci siamo già largamente interessati in altri tempi[17]. Per quanto riguarda De Haag, che avevamo lasciato sulle orme di Elia in direzione di Milano, fruendo delle note benedizioni dall'alto, scalò regolarmente i vertici del CLN milanese. [18] Restava ancora da infiltrare il CLNAI e anche per questo compito si distinse d. Paolino segnalando a Schuster l'elemento giusto nella persona del salesiano don Francesco Beniamino Della Torre, trasferito nel settembre '44 su disposizioni di Schuster da Parma a Milano con l'incarico d'introdursi nel CLNAI milanese come cappellano o prete partigiano; l'importante era di porsi nella condizione di fare da trait d'union fra l'Arcivescovado e i massimi esponenti del CLNAI.

Per avere uno stabile controllo su avvenimenti e persone, d. Della Torre, con l'autorizzazione di Schuster, spalancò le porte dell'Istituto salesiano S. Ambrogio ai vari rappresentanti del CLNAI, i quali non mancarono di apprezzare l'offerta facendone subito la loro principale sede operativa fino al 25 aprile quando nella 'sala verde' dell'Istituto salesiano costituirono quel sedicente Comitato insurrezionale del CLNAI che darà il via alla pretesa insurrezione. [19]

Non meno ambigua la missione affidato all'emissario 'Nemo', Luigi Podestà, ennesimo capitano di corvetta ceduto al SIM [20] dalla Marina, il quale già faceva parte del nutrito gruppo di ufficiali che dal settembre del 1943 si riunivano regolarmente nell'abitazione romana di d. Paolino.

Munito di regolari credenziali del CLNAI procurate da De Haag, che insieme a d. Paolino lo accompagnò a Trieste, Podestà entrò nel CLN locale come incaricato speciale del CLNAI col compito di appianare i noti dissidi che erano sorti all'interno del CLN triestino fra le due anime nazionaliste, italiana e slava, essendo però suo vero scopo quello di organizzazione un fronte unito antislavo, senza preclusioni fra partigiani anticomunisti dell'Osoppo e marò della Decima. Fronte unitario che doveva essere supportato perfino da reparti della S. Marco del Regno del sud che al momento opportuno dovevano sbarcare a Trieste dal mare.

Che questo progetto fosse in fase avanzata, lo si rileva da quanto Borghese ha scritto nelle sue memorie affermando di aver ricevuto il 22 aprile 1945 un messaggio, tramite l'ing. Giulio Giorgi: …nel quale la Marina del Sud chiedeva il mio estremo intervento affinché ogni residua energia dei reparti della Xª fosse impiegata su tre direttrici: salvataggio delle industrie del Nord, del porto di Genova e la difesa della Venezia Giulia, di Trieste e dell'Istria contro il pericolo di una occupazione titina. Il messaggio entrava poi nei dettagli di una collaborazione tattica tra le forze della Decima che avrebbero dovuto difendere Pola e Trieste e le forze del Sud che, secondo il documento, si stavano ammassando ad Ancona, pronte per essere traghettate al di là dell'Adriatico. Giorgi mi aveva detto testualmente: 'Tenete ancora per poche ore in Venezia Giulia, perché arriveranno subito gli italiani da Ancona. Portate un bracciale tricolore per farvi riconoscere. [21]

Il giorno dopo Borghese si mise a rapporto da Mussolini per metterlo al corrente della proposta che gli era pervenuta dalla Marina del Sud, proposta che il Duce tanto apprezzò da nominare su due piedi comandante di tutte le FF.AA. della RSI dislocate in Venezia Giulia lo stesso Borghese con lo scopo di dare corso immediato all'iniziativa. Preso evidentemente alla sprovvista, Borghese si riservò di decidere entro sei ore e alla fine rinunciò adducendo che in quanto ufficiale di marina non si considerava idoneo a dirigere operazioni belliche terrestri. [22]

Mentre il cap. Podestà, quale ufficiale di collegamento fra 'Osoppo' e marò del Nord e del Sud attendeva dal Comando della Xª di Trieste l'arrivo dei "nostri", si vide improvvisamente circondare da tutt'altri belligeranti dell'ultima ora i quali lo bloccarono per consegnarlo ai titini i quali dopo averlo strizzato per bene con pesanti interrogatori, lo internarono per diversi anni in campo di prigionia. [23] Dal verbale redatto all'epoca dagli slavi emerge che … Podestà, alias Poletto, sarebbe un genovese inviato ufficiale del CLNAI con incarichi speciali e cioè di organizzare il CEIAS [Comitato Esecutivo Antifascista Italo Sloveno]. È risultato però che egli era inviato direttamente da Bonomi con ampi poteri per raggiungere una coalizione di tutti gli elementi italiani, di qualsiasi colore politico, coalizione che avrebbe avuto il compito di arginare l'avanzata dei partigiani fino all'arrivo delle truppe alleate. [24]

Intreccio questo che rimanda all'analoga struttura "Gladio", struttura che non a caso si costituì proprio sulle ceneri dell'organizzazione "O", cioè la vecchia "Osoppo", che era stata inizialmente pilotata , ideologicamente e strategicamente, dagli affiliati "Nemo". [25]

Se dovessimo tuttavia personalizzare la "Nemo", il volto principale non sarebbe tanto quello del cap. Elia, per quanto ne avesse formalmente il comando, ma quello più sfuggente e volpino di d. Paolino.

Se guardiamo, infatti, alle principali direttrici sulle quali si è concentrata l'azione della "Nemo", si vede che i tre poli fondamentali, geograficamente identificabili in Parma, Milano e Trieste, sono gli stessi in cui d. Paolino a partire dal settembre 1943 e fino al gennaio 1944 aveva iniziato a deporre le "uova di drago" clerico-monarchiche destinate a dischiudersi con i primi tepori primaverili. A Milano c'era, infatti, il card. Schuster in veste -ci si lasci esagerare- di "motore immobile" di tutte le varie trame dirette e indirette, ma il Deus ex machina, il sottostante demiurgo cui aspettava il compito di materializzare le vibrazioni generate dal motore immobile cardinalizio, era appunto d. Paolino che, infatti, a Schuster rispondeva molto più che non al capo missione Elia. La "missione Nemo" si è man mano andata estendendosi d'importanza fino a raggiungere i livelli solo oggi in parte conosciuti, in quanto ispirata ma soprattutto tutelata e protetta dal cardinale milanese.

Quando poi la trama si sviluppò fino a coinvolgere il centro OSS di Berna, autonomamente pilotato da un pari reazionario come Allen Dulles, le sinergiche potenzialità della "Nemo" si elevarono esponenzialmente potendo contemporaneamente contare sulla collaborazione di SIM, OSS, Vaticano, monarchia e, non ultimo, il capitalismo del Nord che puntava tutte le sue carte sull'accordo Wolff–CLN mediato da Dulles–Schuster per salvare gli impianti industriali sia dal sabotaggio dei Tedeschi prima, che dalle pretese sociali della sinistra rivoluzionaria poi. Gran parte dei maggiori capitalisti e finanzieri elargirono ingenti somme a fondo perduto a sostegno della "Nemo" tant' è che a fine guerra il bilancio economico della "Nemo" risultò in attivo di oltre 12 milioni di lire d'epoca avendo ricevuto il cap. Elia al momento del suo sbarco al Nord, una dotazione iniziale di sole 100 mila lire. [26]

Al pari di Parma, Trieste era stata fin dai primi anni di guerra una base d'azione dell'allora cappellano militare d. Paolino Beltrame il quale da Trieste, in stretta collaborazione con il commissario capo di Fiume, Giovanni Paolucci -nipote del vescovo salernitano di Montagna, Giuseppe Maria Paolucci- smistava il traffico di ebrei slavi in cerca di rifugio in Italia e ciò con il pieno seppur tacito assenso - almeno fino al settembre del '43 - delle varie autorità locali. [27]

A questo punto sorge una domanda pertinente: chi erano le autorità triestine del tempo? Risposta: dal 1938 fino all'inizio del 1943 prefetto di Trieste era quel tal Temistocle Testa del quale abbiamo trattato in precedenza. A sostituire Testa alla prefettura di Trieste venne in seguito chiamato Agostino Podestà, plausibilmente legato da vincoli di parentela con l'agente "Nemo", Luigi Podestà. [28] In effetti, il prefetto Podestà venne rimosso nel febbraio 1944 e collocato d'ufficio a riposo nonostante la sua giovane età (classe 1905), in quanto egli pure invischiato nella fuga e relativo occultamento in Italia di ebrei croati. Deferito poi alla Commissione per l'epurazione circa il suo passato di ex Console della Milizia, marcia su Roma e funzionario della RSI, nel gennaio 1946 il prefetto Podestà fu giudicato non passibile della perdita del diritto alla pensione concessa dalla RSI, per le altre acquisite benemerenze.

 

 

 

NOTE Parte Prima

 

[1] Di tutt'altro rilievo, la diversa missione "Nemo" incaricata nel maggio 1945 di recuperare segretamente i documenti più scottanti presso il ministero degli Esteri della RSI a Salò (Cfr. Agenzia ADN-KRONOS 26.3.1997 "Mussolini-Churchill fatto sparire dal R.E.?").

[2] F. Gnecchi Ruscone "When being Italian was difficult" Milano, 1999

[3] Annota Viganò nella sua introduzione di aver incontrato casualmente il Gnecchi Ruscone nell'abitazione dell'archivista e ricercatrice, Susanna Sala Massari, con la quale ha poi curato l'appendice documentale al testo.

[4] La lista dei collaboratori Nemo compilata da Elia nell'agosto 1945 comprende una pluralità di soggetti che spaziano da suor Giovanna dell'ospedale Niguarda alla Crespi Giuseppina, dal sen. Borletti al duca Marcello Visconti di Modrone i quali si erano limitati a finanziare, ospitare o agevolare membri della rete o lo stesso Elia. Per contro vengono ignorati membri sicuramente effettivi della 'Nemo come nel caso del ten. Nadotti o del cap. Podestà più volte citati dal presente articolo.

[5] "Nome Gladio, paternità Nemo" - Rinascita n. 24 del 10 febbraio 2009, pp.14-15.

[6] I primi contatti riguardavano l'ipotesi di accordo fra Comando supremo tedesco in Italia e CLNAI concernenti la garanzia di un pacifico ripiegamento delle truppe tedesche verso il Brennero senza sabotaggi delle industrie e principali infrastrutture del Nord qualora si fosse verificato il previsto sfondamento alleato sul fronte italiano entro l'autunno 1944. Accordo fatto alle spalle della RSI che, infatti, si sarebbe trovata da sola a contrastare l'avanzata alleata da una parte e la mobilitazione partigiana dall'altra. In seguito della mancata avanzata del 1944, le trattative si orientarono poi sulla resa separata delle forze germaniche in Italia.

[7] Lettera riprodotta nel libro di I. Schuster "Gli ultimi tempi di un regime" 1946, pag. 35.

[8] U. Pellini Giuseppe Cancarini Ghisetti. Il partigiano combattente dei servizi segreti "Ricerche Storiche" n. .105 - aprile 2008, R.E.

[9] All'inizio del marzo '45, il CLNAI venne di fatto escluso dalle trattative ormai avviate e che stavano proseguendo verso una resa vera e propria dei Tedeschi in Italia. Così almeno la nota segretissima in data 2 marzo '45 del Comando Superiore Alleato (C.S.A.) indirizzata allo stesso CLNAI del seguente tenore: "In base all'accordo fra il CLNAI col C.S. [Comando Superiore ?], dire che il CLNAI obbedirà a tutti gli ordini del C.S.A." Documento riportato da P. Savani in "Antifascismo e guerra di liberazione a Parma", 1972, pag. 224.

[10] Negli archivi NARA risulta depositato un memorandum informativo dell'OSS in data 27 dicembre 1944 concernente un piano di pace segreto fra Tedeschi e diplomazia vaticana (NARA –registr OSS 1940-46 – Record group 226, box 1 .

[11] In particolare Cfr. MSI c'è poco da salvare. Chiesa e capitale per la svolta a destra in "Rinascita" n. 264 del 14 dicembre 2004, pp. 12-14. (reperibile in rete).

[12] Doc. n. 11 pp. 159-165.

[13] Cfr. "Relazione sull'attività svolta dal ten. Nadotti Giovanni nel periodo marzo 1944-maggio 1945" Documento originale depositato dallo scrivente presso l'Istoreco di Parma - Fondo donazione Morini.

[14] Per quanto già inseriti anche ad alti livelli nei vari gangli partigiani, gli affiliati "Nemo" non si consideravano affatto "partigiani" bensì militari a tutti gli effetti, tanto è vero che a guerra finita il cap. Elia propose per loro il riconoscimento da parte del Comando generale CVL, la concessione del brevetto di partigiani a posteriori.

[15] È fuor di dubbio che d. Paolino all'epoca fosse caldamente protetto se non proprio dalla Provvidenza divina, certamente da una qualche Autorità locale. Descrivendo la perquisizione eseguita dalla polizia repubblicana nel convento della chiesa di S. Giovanni, P. Gregorio Maggi narra che: … dalla scrupolosa perquisizione, l'unica stanza che passò inosservata fu quella di P. Paolino, allora cappellano delle carceri, che conservava nella sua cella diversi volantini di propaganda partigiana e vari documenti relativi allo scambio di prigionieri partigiani detenuti in carcere. (Testimonianza raccolta nel 1986 da P. Bonardi e dallo stesso riportata in "La Chiesa di Parma e la guerra 1940-45". 1987, pp. 93-94)

[16] "Gloria" veramente effimera, visto che nel successivo luglio 1945 il col. Ceschi-"Gloria" fu arrestato in flagrante reato di pedofilia.

[17] Nome Gladio, paternità Nemo, cit.

[18] Dalla scheda redatta da Elia sul De Haag: … Dotato di particolare senso politico, ha compiuto efficacissima opera di penetrazione nell'ambito politico-militare clandestino [CLN] sino ad essere nominato vice comandante della Piazza di Milano (pag. 192).

[19] L'ordine di insurrezione fu impartito dopo che era già dilagato il disordine in una città [ormai] priva di autorità note e «una vera insurrezione» non ci fu (F. Motto, "Storia di un proclama" 1995 n. 37 pag. 1111)

[20] Su ordine degli alleati, Umberto di Savoia in data 16 novembre 1944 è costretto a sciogliere il vecchio SIM che contemporaneamente viene fatto confluire in un nuovo servizio di controspionaggio nominalmente italiano anche se integralmente gestito dall'OSS attraverso agenti specialisti di affari italiani quali Angleton, Offie, Tasco e Brenner.

[21] J. V. Borghese e la Xª Flottiglia Mas (a cura di M. Bordogna) 1995, pag. 192.

[22] Idem pag. 193.

[23] Evidentemente gli alleati, probabilmente Inglesi, bocciarono in extremis il progettato sbarco,

[24] In AS 1584, zks, ae 451 -Archiv Slovenije di Lubiana- riportato da C. Cerignol in "Luci e ombre del CLN di Trieste".

[25] L'organizzazione O venne costituita ufficialmente dal gen Raffaele Cadorna nel 1946 sulla precedente struttura della brig. Partigiana "Osoppo". Nel 1956 l'organizzazione O fu sciolta per far posto alla "Gladio" atlantista.

[26] La "Nemo" ricevette fra l'atro 3 milioni da Banca Unione, 10 milioni da Pirelli,, 4 milioni da gruppi industriali vari mentre fra le uscite risultano versamenti a tali sigg. x, y, z di un milione netto di lire cadauno oltre a tale "Dick" a cui fu conferito un importo di 3 milioni di lire, pagamenti eseguiti fra il marzo e l'aprile 1945 ad evidenti fini corruttivi (Cfr. "Missione <Nemo>" cit. pag. 180-181.

[27] Sul caso particolare del commissario Paolucci ci riserviamo di approfondire la sua figura con apposito articolo.

[28] Il nesso famigliare fra Agostino e Luigi Podestà risalirebbe all'ex prefetto del Regno Emilio Podestà, genovese come Luigi mentre Agostino risulta, invece, essere nato nel 1905 a Novi Ligure.

 

Parte SECONDA:

A COMO, E NON A DONGO, È FINITA LA RSI

 

Franco Morini

 

Chi s'interessa di storia sa che per contendere su una tesi o un evento storico, occorre cercare il così detto pelo nell'uovo, setola che traslata in campo storiografico assume varie denominazioni che vanno dalla menda alla topica fino allo svarione o cantonata ecc. Si va così alla tartufesca ricerca di una qualsiasi plausibile menda o topica che dir si voglia e, se scovata, s'isola dal contesto erigendola possibilmente ad architrave della situazione. Vecchia e collaudata prassi di cui siamo stati oggetto da parte dello storico Marino Viganò, lo stesso al quale abbiamo obbiettivamente riconosciuto il valido apporto documentale nella vicenda Nemo di cui si è trattato nel numero scorso.

Per non sovrapporre recriminazioni a riconoscimenti, ci siamo prima astenuti dall'accennare al fatto che Viganò nella sua introduzione al libro di Gnecchi Ruscone, abbia voluto prenderci di mira con infondati rilievi circa una nostra pretesa incongruenza concernente Nemo, siccome tale incongruenza, secondo Viganò, avrebbe indotto a strambe ipotesi consistenti, per farla breve, nell'aver posto in relazione la resa di Como ad opera di Romualdi alla sua contiguità con l'agente Nemo Giovanni Nadotti, quando risulta invece che Nadotti, essendo stato tratto in arresto a Parma nel marzo precedente, non poteva essere presente a Como il 26/27 aprile a influire sulla decisione di Romualdi di arrendersi o no e, proprio da tale illazione che ci viene attribuita, sarebbero originati … strambi teoremi su un ruolo di "Nemo"nella resa di Como. (1)

Premesso che la nostra prima indagine sulla rete Nemo risale agli anni '90 a seguito del fortuito reperimento di materiale e documenti riferibili a tale organizzazione in generale e a Nadotti in particolare e considerando, inoltre, che questi documenti di prima mano ci hanno consentito fin d'allora di ricostruire l'operato di Nadotti nella Nemo e altro ancora, se davvero fossimo inciampati in quanto ci viene attribuito, saremmo stati del tutto e gratuitamente sventati. Ancor più sommando l'aggravante che quella stessa topica l'avremmo sostenuta per oltre un decennio come indicherebbe il riferimento in nota a due nostri articoli rispettivamente del 1997 e 2009 che -a parer nostro, non a caso- corrispondono al primo e ultimo dei nostri scritti in argomento al tempo in cui Viganò se n'è interessato. (2)

Un rilievo che per quanto limitato a poche righe è sufficiente a screditarne l'insieme, bastando e avanzando quattro righe artatamente calibrate a infirmare la struttura di un'intera ricerca andatasi lentamente articolando nel tempo con una successione di articoli sull'argomento. E poiché la generica smentita a un apparente dettaglio non era praticabile, già eravamo sul punto di abbozzare, quando, consultando il libro di Giuseppe Parlato Fascisti senza Mussolini, ci siamo imbattuti nel presunto bandolo della matassa che, giunti a questo punto, val la pena districare e approfondire insieme. In effetti, abbiamo colto in questo libro di Parlato la plausibile origine dell'abbaglio – se di abbaglio si tratta – in cui sarebbe incorso Viganò. Nel testo si afferma, infatti, che: La presenza dell'agente del SIM Nadotti rese più agevole il contatto di Romualdi con Salvatore Guastoni e Giovanni Dessì, agenti dell'OSS (v. pag. 80).

Insieme alla pistola fumante, abbiamo contestualmente individuato il nesso che presumibilmente ci ha coinvolto nel brano in questione, rilevando nella stessa pagina un breve cenno alla nostra ricerca circa i rapporti Nadotti-Romualdi. In ogni caso e comunque stiano le cose, ci reputiamo del tutto estranei alla proposizione chiosata da Viganò, come si può del resto verificare dal controllo delle fonti elencate in nota da Parlato. (3)

Rimane tuttavia da spiegare un residuo qui pro quo concernente il nostro articolo del 2009 che, essendo stato stampato dopo l'uscita del libro di Parlato, esclude a priori la possibilità che nel caso in questione Viganò abbia potuto attingere indirettamente da Parlato. Nutriamo perciò il legittimo dubbio che del nostro articolo Viganò non ne abbia preso visione in quanto, avendolo fatto, avrebbe certamente notato che in realtà avevamo trattato di ben altri soggetti rispetto al suo appunto. In effetti, pur avendo palesato un ruolo effettivo di Nemo nella resa di Como, non per questo ci siamo riferiti alla presenza in loco o meno di Nadotti, ma alla parte sostenuta in quel contesto dall'ufficiale di Marina e agente Nemo, Giovanni Dessy (o Dessì).

Nella circostanza abbiamo, infatti, scritto che: Il capitano di fregata Giovanni Dessy del SIM che a Como intavolò -si fa per dire- le trattative di resa con Romualdi era anche lui direttamente collegato alla «missione Nemo» (4). Scoperta in seguito confermata dal libro di Gnecchi Ruscone, non sconosciuto a Viganò, in cui l'appartenenza del Dessy a Nemo è addirittura certificata dal suo inserimento nella lista degli organici alla "missione" compilata a suo tempo dal cap. Emilio Elia. (5)

Che poi Dessy non si fosse trovato a passare da Como per caso in quel giorno di tardo aprile, lo rivela un documento rilasciatogli dal CLN comasco, che testualmente recitava:

Il Capitano di Fregata della R. Marina, Dessy Giovanni, ha da questo Comitato (CLN di Como) i più ampi e assoluti poteri in ordine a trattative di qualsiasi genere e con qualsiasi persona militare o non, per portare a compimento un mandato di particolare importanza per la Nazione. Il documento prosegue a tutte maiuscole: Il Comando Alleato ordina che questo mandato del cap. Dessy sia rispettato da chiunque e ove lo stesso dovesse notificare con qualunque persona avesse fatto a lui ostacolo (sic) sarà immediatamente arrestato e consegnato agli Alleati. L'atto risulta sottoscritto da tutti i membri del CLN comasco, dal Comandante militare di zona De Angelis e controfirmato dal nuovo prefetto ciellenista di Como, Virginio Bertinelli. (6)

Per trattative di qualsiasi genere con militari e non, s'intendeva non solo la resa generalizzata delle forze fasciste presenti o che ancora stavano convergendo su Como, ma anche il mandato d'indurre Mussolini a consegnarsi a Dessy coadiuvato nell'impresa da Romualdi e dall'acquisito nipote-conte del Duce, Vanni Teodorani (7). Come in tal frangente sia riuscito a imporsi a quel punto, un fin'allora anonimo ufficiale di marina com'era oggettivamente Dessy, è davvero mirabolante.

Seguiamo l'ordine degli avvenimenti: il 26 aprile era giunto a Como il vice console statunitense in Svizzera e capo centro OSS, Donald Jones, più conosciuto negli ambienti antifascisti comaschi come lo zio d'America, con l'incarico da parte di A. W. Dulles di prelevare Wolff dal suo comando di Cernobbio, già minacciato da ostili assembramenti, per scortarlo in Svizzera a perfezionare l'atto di resa delle forze tedesche in Italia, la cui sottoscrizione da parte di Wolff rappresentava la priorità assoluta.

In sua vece, Jones lasciò a Como l'italo americano, agente dell'OSS, Salvatore Guastoni, non mancando di fornirlo di sue credenziali onde permettergli di trattare a suo nome l'eventuale resa dei capi fascisti che a Como stavano ingiustificatamente bivaccando. Guastoni si fece avanti con le sue onorevoli proposte di resa scontrandosi però con l'ostracismo di Teodorani il quale fornirà in seguito questa estemporanea spiegazione: «... e poi chi era questo Guastoni? Non avevamo ancora capito bene la sua attuale cittadinanza. Aveva carte, bolli, documenti, ma anche una superficiale esperienza insegna che non ci sono che le carte false, per sembrare vere al cento per cento. Per fortuna era 'affiorato' (lapsus freudiano riferibile a Nemo?) in quei giorni nelle stanze della Prefettura una persona che conoscevo da tempo. Ufficiale di Marina, più volte decorato di medaglia d'argento (?) Dessy aveva tutti i requisiti perché ci si potesse, impegnando il suo onore, fidarsi di lui». (8)

Quali fossero i particolari requisiti del marittimo Dessy, comunque tali da far arrendere migliaia di fascisti in sue mani fidando unicamente sul suo onore, non è dato sapere nei particolari. Si può tuttavia desumere il recondito fine che muoveva Teodorani, seguendo il suo resoconto circa la clausola che lui, in rappresentanza della famiglia Mussolini-Romualdi, quale rappresentante del Partito- e Dessy per conto del C.I.C. avrebbero voluto sottoporre a Mussolini allo scopo d'indurlo ad accettare l'onorata prigionia di guerra (9) che il C.I.C. (Counter Intelligence Corps) (10) statunitense gli avrebbe offerto, ventilando finanche la prospettiva che in seguito gli statunitensi lo avrebbero forse utilizzato quale esperto nell'incipiente guerra segreta contro i loro (attuali) alleati (inglesi e/o sovietici). (11)

Aggiunge di contorno Teodorani che: «tutto il territorio della RSI era stato "quadrettato". In ogni quadretto vi era un organismo funzionante con il compito di provvedere immediatamente alla consegna del Duce ad un organo collettore superiore nella persona del col. Snowden del C.I.C. che avrebbe dovuto immediatamente avviarlo a un determinato campo d'aviazione da dove sarebbe stato subito imbarcato per la Sardegna. Nessuna notizia sarebbe stata diramata in modo che il Governo di Roma, gli Alleati e le stesse autorità americane non interessate al piano e operanti in altri quadretti non avrebbero per il momento saputo niente. Tutta l'operazione si basava sui servizi segreti americani operanti nella RSI e, per una doverosa e indispensabile articolazione capillare sui presidi e le stazioni della Guardia di Finanza» (12).

A dar retta a Teodorani, il piano sfumò quando catturato Mussolini, poi passato regolarmente in custodia alla Guardia di Finanza di Germasino, il vice brigadiere della Finanza, Antonio Spadea, si sarebbe confuso nella ri-consegna di Mussolini abbandonandolo nelle mani di un ufficiale dei servizi segreti inglesi anziché statunitensi, in quanto, a dire di Teodorani «… tale errore non era molto difficile, giacché per un normale sottufficiale, gli Alleati erano un tutto». (13)

Conclude Teodorani sostenendo che «… L'ufficiale (inglese) in oggetto, preso in consegna il prigioniero lo trasferì a nuova sede, sottraendolo al controllo della Guardia di Finanza e, quindi, agli Americani e quando, ore dopo, arrivarono i comunisti di Audisio, di cui egli aveva il dovere di impedire ogni movimento, non trovò di meglio che allontanarsi senza proferire sillaba». (14)

Sorvolando per carità di patria su alcuni dei particolari narrati, questa testimonianza resa nel 1954 dal nipote-conte, oltre a sottolineare la sua immutata fiducia e massima stima negli Stati Uniti, indica chiaramente nell'intreccio anglo-comunista le cause del mistero sulla morte di Mussolini, anticipando così di vari lustri alcune delle più recenti tesi storiografiche circa i fatti di Dongo.

Peraltro anche la quadrettatura che sarebbe stata intessuta per cogliere il Duce in un'apposita rete non manca, in effetti, di qualche inquietante riscontro.

Basterà ricordare la presenza dell'agente Nemo Giuseppe Cancarini Ghisetti -del quale abbiamo diffusamente trattato in precedenza- nell'anticamera dell'Arcivescovado mentre Mussolini si intratteneva a colloquio prima con Schuster e poi con i membri del CLNAI. Il fatto che in tale occasione Ghisetti sia stato precipitosamente convocato in Arcivescovado, fa presumere un suo specifico ruolo nella custodia di Mussolini, qualora il Duce avesse aderito alle proposte del CLNAI e di Schuster di arrendersi.

Nel successivo quadretto di Como, vediamo entrare in azione l'agente Nemo Dessy, ma pure a Dongo, come si vedrà in seguito, non è per niente da escludere la sulfurea presenza di Nemo.

Nonostante tutto non si può negare che Schuster si sia in seguito interessato alle sorti della famiglia Mussolini fornendo un primo rifugio a Vittorio e Teodorani (15) e facendo liberare Rachele dalle carceri di Como, dov'era finita dopo essersi volontariamente consegnata alle nuove autorità, facendo intervenire a suo favore tale Max (Salvadori?) il quale riuscì effettivamente a far ospitare per qualche giorno Rachele, Romano e Anna Maria, presso un comando statunitense. Saputo della migliorata sorte di madre e fratelli, Vittorio scrisse a Schuster prospettandogli l'intenzione di consegnarsi «… a Voi, Eminenza, perché mi rimettiate alla protezione del Governo e del popolo degli Stati Uniti. Compiono lo stesso passo mio cugino Vanni Teodorani ed il cognato del mio povero fratello Bruno, Orio Ruberti». (16)

Vittorio non era evidentemente informato del fatto che, proprio il giorno prima d'inoltrare la sua lettera, madre e fratelli erano stati consegnati in blocco agli inglesi i quali provvidero subito ad internarli in campo di concentramento a Terni ove restarono vari mesi (17). Niente più di una semplice manovra tesa a procurarsi qualche utile informazione di prima mano in veste di poliziotto buono, per poi liberarsi della famiglia Mussolini passandola agli inglesi come da evidenti accordi pregressi.

Infatti, venuti a conoscenza della successiva trafila subita da Rachele e figli, sia Vittorio sia Teodorani rientrarono saggiamente dal loro proposito di affidarsi alla protezione del Governo statunitense tramite Schuster.

Ciò premesso, passiamo ora a un vero e proprio colpo di scena: Dessy, e con lui l'intera rete Nemo, non era per nulla agli ordini degli statunitensi, come generalmente considerato, ma dell'Intelligence Service britannica per il tramite di un suo ramo operativo nel Mediterraneo al diretto comando del maggiore inglese di origine italiana Maurice Page (18) della Special Force.

Il magg. Page, uscì dall'ombra che per decenni lo aveva celato, grazie alle memorie dell'allora maggiore -poi generale- Luigi Marchesi, già ex ufficiale d'ordinanza addetto al gen. Ambrosio il quale, nella ricorrenza del 50o anniversario della fine della guerra, diede alle stampe un libro scritto a tre mani, con Sogno e Carlo Milan, sulle varie attività spionistiche operate dal suo Gruppo Speciale che «… era distaccato presso il Comando alleato teatro di operazioni nel Mediterraneo comandato dal maresciallo Alexander, costituito solo di ufficiali e sottufficiali con il nominativo di "810o Italian Service Squadron" e alle dirette dipendenze dell'Intelligence Service di Londra in stretta collaborazione con il maggiore». (19)

Questa pubblicazione pareva aver esaurito in buona parte, l'insieme delle varie attività svolte durante la guerra in Italia dall'Intelligence Service in complicità con il SIM badogliano e tuttavia di Nemo, dei suoi vari affiliati e relative azioni poste in essere, non un solo cenno in tutto il libro. Per questo motivo, sommato all'ambiguità che ha sempre caratterizzato i vari agenti Nemo, si è stati per lo più indotti a etichettarli genericamente al servizio dell'OSS o del C.I.C. statunitensi.

Solo recentemente l'ex agente dell'OSS, Peter Tompkins, riportando nel suo ultimo libro la relazione di Elia del 30 agosto 1945 (20) rendeva noto che lo stesso Elia…era stato dato in prestito dal S.I.S. (Servizio Informazioni e Sicurezza della R. Marina) ai britannici. Il suo punto di riferimento era il maggiore Page del S.I.S. (Secret Intelligence Service) britannico. (21)

L'ancor più recente libro di Gnecchi Ruscone, ha poi definitivamente confermato la matrice albionica.

A cosa mirava allora il Dessy, spacciandosi per l'agente C.I.C. presuntamente addetto alla supposta rete di salvataggio stesa da indeterminati circoli politico-militari statunitensi a tutela della vita di Mussolini?

La risposta è addirittura banale: l'agente Nemo Dessy mirava a zittire ad ogni costo il Duce e impadronirsi dei suoi carteggi e dossier concernenti non solo la nota corrispondenza con Churchill, ma anche e soprattutto i diversi dossier sui Savoia, a cominciare dalle dirette responsabilità del re nell'entrata in guerra dell'Italia, al dossier riguardante il caso Matteotti frutto dell'inchiesta di Bombacci e Silvestri, fino alle relazioni sulle particolari inclinazioni sessuali di Umberto. Se la conoscenza del contenuto del carteggio intercorso fra Churchill e Mussolini poteva effettivamente minare la carriera politica del premier inglese, non di meno la diretta testimonianza di Mussolini, corroborata dai documenti in suo possesso, avrebbe di certo influito in modo determinate sul definitivo tramonto della dinastia sabauda già minacciata dall'incombente referendum istituzionale.

Che il recupero di documenti altamente compromettenti per la monarchia rappresentasse una delle più delicate funzioni assegnate a Nemo, è dimostrato da un vecchio lancio d'agenzia stampa uscito col titolo: «"Missione Nemo": 1945, ecco il bottino recuperato a Salò, che così proseguiva: Lettere di Mussolini a personalità straniere, verbali di colloqui e scambi epistolari tra il Duce e Adolf Hitler, intercettazioni diplomatiche, appunti segreti sull'armistizio firmato dal maresciallo Badoglio, rapporti riservati da Berlino: ecco il bottino recuperato a Salò dalla 'missione informativa Nemo', dipendente dallo Stato Maggiore del Regio esercito. Si trattava in gran parte di documenti di politica estera considerati compromettenti, che il governo provvisorio di Ivanoe Bonomi subito dopo l'uccisione del dittatore fascista, aveva ordinato di rintracciare per impedire che finissero in mano degli Alleati anglo-americani».(22)

Più che altro tale azione mirava a battere sul tempo gli statunitensi del F.F.S. (Field Security Section) il cui 421o nucleo stava per stabilirsi a Brescia con il compito di recuperare per conto del Governo Usa, i più importanti documenti della RSI. Si spiega in tal guisa la stranezza -già da noi segnalata nella prima parte- dei futili contenuti delle relazioni Nemo inoltrate all'OSS e, del resto, sono queste relazioni le uniche documentazioni attualmente note mentre, invece, gli archivi inglesi al pari di quelli italiani (e vaticani) restano muti sull'argomento (23) per le evidenti ripercussioni storico-politiche che ne potrebbero ancora derivare.

Esaurita questa parentesi prettamente orientativa, sarà più agevole interpretare le tortuose fluttuazioni di Dessy tra il 27 e 28 aprile. Il mattino del 27, dopo il fallimentare tentativo di dirottare le forze fasciste in Val d'Intelvi in attesa della loro consegna agli alleati mentre contemporaneamente la colonna Mussolini era bloccata alla periferia di Dongo, Dessy, insieme a Romualdi e Teodorani, s'impegnarono nel tardo tentativo di raggiungere Mussolini -da loro creduto ancora a Menaggio- per convincerlo a rientrare a Como sotto la protezione del C.I.C. nella persona di Dessy. Questa ambigua motivazione è stata nel tempo variamente interpretata. Secondo una delle prime serie ricostruzioni storiche dei fatti accaduti fra Como e Dongo «… All'ora 13 del 27 aprile rappresentanti del CLN e della RSI si scambiarono la parola d'onore contraendo l'accordo 'per la consegna della persona di Mussolini agli Alleati' da cui derivava la simultanea automatica resa generale. Ciò in conformità di una precisa clausola armistiziale». (24)

Comunque sia, presero posto in un'unica auto Dessy, Romualdi, Teodorani, l'ufficiale dei carabinieri De Petra ai quali si aggiunse, fuori programma, il comandante Colombo che trovandosi minacciosamente tallonato da insorti che l'avevano riconosciuto, aveva chiesto un passaggio all'auto diretta a Menaggio. Per motivi non ancora chiariti, un'Aprilia curiosamente targata Regia Marina 001, auto con la quale Dessy era entrato in Italia dalla Svizzera e alla cui guida era l'agente SIM, Carlo Guaitani, seguiva a debita distanza il gruppo. Com'è noto, ambedue le auto terminarono il loro viaggio all'altezza di Cadenabbia inciampando in un posto di blocco d'insorti piuttosto esagitati. Scambiati tout-court per gerarchi fascisti e come tali minacciati di fucilazione immediata, riuscirono a cavarsela perché Dessy ottenne che un graduato della Finanza intercedesse a loro favore inducendo i partigiani a telefonare al CLN di Como al fine di avere conferma sulla loro effettiva posizione. Dalla prefettura di Como garantirono per tutti i fermati ad eccezione del comandante Colombo la cui presenza esulava infatti dagli impegni presi con il CLN comasco. Colombo fu pertanto trattenuto presso una vicina caserma della finanza per essere poi fucilato il giorno dopo.

Romualdi e Teodorani, rientrati incolumi durante la serata a Como insieme a Dessy, vennero messi a conoscenza dell'avvenuta cattura del Duce.

Ricorda in proposito Romualdi che «… il signor G (Guastoni) precisò che le autorità alleate avevano già disposto di mettere Mussolini in una villa (villa Cademartori) nei pressi di Como (Blevio). Insieme a lui o in una villa vicina, sarebbero stati custoditi i suoi massimi collaboratori». (25)

Prosegue tuttavia Romualdi precisando che «… Mussolini, contrariamente a quanto dal signor G. e dal colonnello D. (Dessy) era stato disposto, non fu consegnato agli Alleati. Si deve anzi presumere che gli Alleati entrati in Como circa all'una e mezza della notte tra il 27 e 28 aprile -ne avvertii i clamori nel dormiveglia- non siano stati affatto informati dell'avvenuta cattura di Mussolini e della località in cui era custodito». (26)

È da notare che Dessy era puntualmente informato circa le decisioni riguardanti gli spostamenti di Mussolini, infatti, già alle 22,30 del 27 aprile, era stato avvertito tramite fonogramma dal ten. col. della Finanza, Luigi Villani, appartenente al riquadro di Menaggio, che…il Duce con il suo segretario particolare si trova a Germasino, allertandolo inoltre, con postilla a margine, che elementi della 52ª brigata Garibaldi arrivano con delle barche. Mandare qualcuno al molo a riceverli. (27)

Secondo diverse fonti, Villani inviò la notizia con quasi un'ora di ritardo (23,20) al suo superiore a Milano, col. Maugeri, riferendo di aver costatato di persona che il Duce e il suo segretario particolare, si trovavano nella caserma di Germasino. (28)

In effetti è plausibile che prima di diramare la notizia ufficiale a Milano, il Villani abbia voluto sincerarsi di persona; resta tuttavia il fatto indicativo circa la scelta d'informare prioritariamente la base spionistica operante a Como.

Grazie a queste preziose informazioni, qualsiasi servizio italiano e non, che avesse voluto effettivamente tutelare la vita di Mussolini, avrebbe avuto più di un'opportunità per intervenire a tempo. In realtà nessuno era veramente interessato a tale scelta, statunitensi compresi. (29)

Lo stesso barone Sardagna, rappresentante in loco del gen. Cadorna, ebbe poi a rivelare allo storico statunitense Thomas Johnson che…il piano per portarlo qui (villa Cademartori) fu formulato in seguito al fatto che egli (Mussolini) e gli altri gerarchi dovevano essere uccisi in Piazzale Loreto a Milano. (30)

Comunque sia, il giorno dopo 28 aprile, nessuno a Como, al pari di Dongo, pareva più interessarsi al prigioniero con tanto che nel frattempo era stato rimosso anche da Germasino. Lo stesso Dessy, almeno apparentemente, si attardava in quel di Como fino a quando, a mezzogiorno circa, venne a incrociare Valerio nei pressi della prefettura mentre costui stava per dirigersi a Dongo a bordo di un'autoambulanza. Dessy e l'autista Guaitani pare si siano limitati a tallonare l'ambulanza fino a che questa si fermò a far rifornimento in Piazza Carducci. A questo punto Valerio sarebbe sceso dall'ambulanza col preciso intento di requisire l'Aprilia di Dessy. Scrive in proposito Teodorani:…Audisio impose a Dessy e Carletto (Guaitani) di scendere. Carletto afferma che egli fu costretto a scendere dall'arrendevolezza di Dessy, mostrando così di riprovare che Dessy, un vero colonnello, si lasciasse intimorire da una simile canaglia. (31)

Capita così che Audisio (o chi per lui) si sia recato alla mattanza di Dongo usufruendo dell'Aprilia di Dessy clownescamente targata R.M. 001 e, da come si sarebbero svolti i fatti, viene da ripensare a quanto scritto in precedenza proprio da Teodorani circa l'ufficiale inglese che…quando, dopo ore, arrivarono i comunisti di Audisio, di cui egli aveva il dovere di impedire ogni movimento, non trovò di meglio che allontanarsi senza proferire sillaba.

Più ancora che bloccare l'azione di Audisio, la riportata dinamica assomiglia a qualcosa di simile a una staffetta automobilistica fra Dessy e Valerio. Non per niente Mussolini replicando nel Municipio di Dongo al socialista Aldo Castelli, gli aveva detto: «So di sicuro di essere inseguito da poliziotti dell'Intelligence Service, che hanno ordine di uccidermi. Ad ogni passo che faccio sono seguito». (32)

Nel caso poi che Dessy fosse stato già informato dell'avvenuta eliminazione di Mussolini e Petacci, eseguita presumibilmente nelle prime ore del mattino, ancor meglio si spiegherebbe il suo comportamento. L'importante era che il Duce fosse stato separato dai suoi documenti e di questo Dessy era certamente al corrente essendone stato informato dai partigiani della 52ª brig. contattati nella tarda serata del 27 aprile.

E chi potevano mai essere i suoi informatori all'interno della brigata partigiana se non il capitano Neri e la sua compagna Gianna, da tempo indicati in vari studi storici come genericamente legati ad ambienti spionistici anglo-badogliani. Non a caso il loro frenetico operare di quei giorni legato alla loro fine ancora più misteriosa, sarebbero già abbastanza indicativi. Fondatore del CLN di Como e poi Capo di stato maggiore della 52ª brigata col nome di capitano Neri, il rag. Luigi Canali era stato accusato di spionaggio e tradimento e per questo condannato a morte da un tribunale partigiano composto dai suoi stessi compagni. Per tale ragione, da mesi era ormai sparito dalla circolazione e continuò a mantenersi in disparte fino alla mattina del 26 aprile quando si era sparsa la notizia della presenza di Mussolini nei paraggi di Menaggio. Per questa, e non altre ragioni, il Neri con la Gianna tornò rischiosamente a far capolino a Dongo poco dopo il riconoscimento e la cattura del Duce. Delle poche centinaia di partigiani nominalmente appartenenti alla 52a Brig. riconosciuti tali dopo il 25 aprile, quelli effettivamente operativi nel periodo in questione non raggiungevano la ventina ed erano praticamente tutti comunisti ad esclusione del loro comandante conte Bellini Delle Stelle (Pedro) notoriamente monarchico-badogliano, ed è pertanto evidente che il cerchio dei potenziali referenti di Dessy all'interno della brigata era piuttosto ristretto. Se poi consideriamo che il cap. Neri è stato di volta in volta accusato di spionaggio a favore dei fascisti, dei badogliani e degli inglesi, il cerchio pare effettivamente stringersi su lui. Finanche Bill (Urbano Lazzaro) si è detto convinto che Neri, prima ancora di presentarsi a Dongo sul far della sera del 27 aprile, sia passato a prendere direttive dal barone Sardagna a Como il quale… gli avrebbe dato disposizioni per la consegna di Mussolini agli americani secondo le disposizioni di Cadorna (33) e, anche a questo proposito, è il caso di aggiungere che lo stesso Cadorna non era poi del tutto estraneo alla rete Nemo, come documenteremo in un prossimo articolo. Aggiungiamo, infine, che sia Neri sia la fidanzata Gianna si eclissarono improvvisamente da Dongo subito dopo la decisione di trasferire Mussolini a Germasino, per poi ricomparirvi solo verso le due di notte del 28 aprile quando si trattò di partecipare al trasferimento finale del Duce a Blevio, con dirottamento a casa De Maria. Mentre Gianna ebbe a giustificare la sua assenza con un suo improbabile viaggio a Milano allo scopo di consegnare al Comando V.L. alcuni valori sequestrati a Dongo, il buco temporale riguardante Neri la sera tra il 27 e 28 aprile, non è mai stato colmato da una plausibile ricostruzione sicché si può realisticamente ipotizzare che fosse proprio lui, in probabile compagnia di "Gianna", ad aver preso contatto prima con il ten. col. Villani a Menaggio e poi con Dessy a Como. Cosa poi abbiano deciso di fare di Mussolini e in particolare dei suoi documenti, è un mistero ancora tutto da svelare.

 

 

NOTE ALLA Parte Seconda

 

(1) F. Gnecchi Ruscone "Missione Nemo", pag. 25 e n. 44 pag. 42.

(2) Nome MSI - Paternità SIM in "Aurora" n. 7 del nov.-dic. 1997; Nome Gladio - Paternità Nemo in Rinascita del 10 feb. 2009.

(3) G. Parlato "Fascisti senza Mussolini", pp. 331-332. Le note a noi riferite sono rispettivamente le n. 18 e n. 20, mentre la nota relativa al brano confutato da Viganò, è la n. 19.

[4] Nome Gladio - Paternità Nemo cit. pag. 15.

[5] F. Gnecchi Ruscone cit. pag. 222

[6] Allegato n. 3 al Memorandum Dessy del 1 maggio 1945 - NARA rg. 226 s.190C, b. 11.

[7] Il conte Vanni Teodorani era coniugato con Rosa Mussolini, figlia di Arnaldo.

[8] V. Teodorani, "Da Milano alla prefettura di Como" in "Asso di Bastoni" n. 42 del 31 ottobre 1954, pag. 3.

[9] Parimenti convergente la testimonianza postuma di Romualdi secondo la quale Dessy gli avrebbe personalmente assicurato che gli anglo-americani si erano detti disposti a garantire «…una rapida e favorevole revisione delle clausole dell'armistizio, in particolare in relazione alla possibile restituzione della flotta, se fosse stato loro consegnato Mussolini, che non volevano né uccidere, né processare, ma confinare in un'isola americana» (P. Romualdi "Fascismo repubblicano" pag. 189).

[10] C.I.C. Servizio americano di controspionaggio del servizio informazioni dell'esercito, G2 all'epoca operante presso la V armata Usa.

[11] V. Teodorani, "Bogomoloff e Albione imposero l'assassinio" in "Asso di Bastoni" n. 45 del 21 novembre 1954.

[12] V. Teodorani, "Il 'piano' americano sul Duce", in "Asso di Bastoni" n. 44 del 14 novembre 1954, pag. 3

[13] Ibid.

[14] V. Teodorani, "Bogomoloff e Albione imposero l'assassinio" cit.

[15] Vittorio Mussolini e Teodorani, insieme a Orio Ruberti, furono ospitati fin dalla serata del 27 aprile presso l'infermeria del collegio "Gallio" gestito dai padri Somaschi a Como.

[16] Lettera di Vittorio Mussolini in data 11 maggio 1945, pubblicata da I. Schuster in "Gli ultimi tempi di un regime", 1946, pag. 185.

[17] In un suo memoriale pubblicato da "Epoca" nel 1953, Vittorio Mussolini scrisse che la…madre, Anna Maria e Roman, dopo essere stati presi in consegna dagli americani, molto cordiali, erano stati passati agli inglesi molto più duri.

[18] Nome originario di Page, era Pagella. Figlio di emigranti toscani, Page-Pagella perì in un banale incidente stradale pochi mesi dopo la fine della guerra e attualmente risulta sepolto nel cimitero di guerra inglese di Milano.

[19] L. Marchesi - E. Sogno - C. Milan Per la libertà - Il contributo militare italiano al servizio informazioni alleato dall'8 settembre '43 al 25 aprile 1945 1995 pag. 15

[20] P. Tompkins L'altra resistenza 2005. v. Appendice pp. 379-387 contenente relazione in versione sintetica rispetto a quella più completa in Gnecchi Ruscone cit. pp. 165-177.

[21] Id. pag 342.

[22] Adnkronos del 13 gennaio 1997.

[23] Dalla sola base Nemo installata a Milano furono trasmessi oltre duemila messaggi diretti a Page, la cui lista venne "prudenzialmente" distrutta da Elia. Restano comunque le copie dei messaggi inviati al SIS che sono tuttora custoditi in sicuri archivi.

[24] E. Saini La notte di Dongo 1950, pag.42.

[25] P. Romualdi cit. pag. 194.

[26] Ibid.

[27] Allegato n. 4 al Memorandum Dessy, cit.

[28] M. Caudana Parla Benito Mussolini pag.  614. Così pure F. Andriola Appuntamento sul lago pag. 127. L'Andriola, inoltre, pone in diretta relazione il recupero di documenti effettuato personalmente da Churchill a Como nel maggio 1945 con l'operato del ten. col. Villani. Id. pp. 261-62.

[29] (..) non mi risulta fino a questo momento che alcuno abbia fatto cenno a questo importante particolare riguardante la cattura e la mancata consegna di Mussolini agli alleati. Non sarebbe male, a mio avviso, che qualcuno degli interessati parlasse chiaramente in proposito, anche per evitare che a forza di ipotesi si arrivi a quella, non da escludersi a priori, che gli anglo-americani non abbiano voluto interessarsene e abbiano quindi permesso l'uccisione di Mussolini (P. Romualdi cit. pag. 195 ).

[30] A. Zanella "L'ora di Dongo" pag. 430

[31] V. Teodorani (non firmato) Un agente informativo del Sud nel pieno dramma di Dongo in "Asso di Bastoni" n. 46 del 28 novembre 1954, pag. 3.

[32] A. Zanella cit. pag. 389.

[33] Id. pag. 397.

 

Parte TERZA:

OSS E VATICANO TRA PARROCI E CARDINALI

 Franco Morini

 

Sono trascorsi quasi dieci anni da quando il Corriere della Sera pubblicò contemporaneamente due articoli-rivelazione su taluni incontri vaticani tra l'allora vice segretario di Stato, mons. Montini, ed esponenti dell'OSS statunitense [1]. Il primo incontro ebbe luogo poco dopo l'occupazione di Roma quando lo stesso direttore dell'OSS, William (Bill) Donovan, chiese e ottenne di essere ricevuto da Montini. In tale occasione Donovan propose una più stretta intesa politica e diplomatica fra Stati Uniti e Vaticano; rapporto da consolidarsi subito in modo che a fine guerra fosse già ben avviato, suggerendo a questo fine l'opportunità di nominare segretario di Stato vaticano l'arcivescovo statunitense Spellmann in successione al cardinale Maglione gravemente infermo. Questo avrebbe contribuito a contenere l'endemico antipapismo dei più influenti circoli politici americani, facilitando i rapporti tra USA e Vaticano e, di conseguenza, fra USA e Democrazia Cristiana quale diretta emanazione politica del Vaticano stesso.

Il dialogo si mantenne a un livello sterilmente interlocutorio poiché non solo Montini mirava a raccogliere per se stesso l'eredità gerarchica di Maglione [2], ma si dichiarava anche molto perplesso per la brutta piega che si andava evidenziando nella RSI a causa della guerra civile suscitata dal PCI e la qual cosa faceva paventare alla Curia romana la possibile bolscevizzazione dell'Italia del Nord.

Ciò avveniva nel luglio del '44 e solo quattro mesi dopo la situazione era completamente ribaltata poiché proprio Montini, nel novembre successivo, offrirà all'OSS un "servizio di informazioni riservate" della Chiesa tra le due Italie; quella liberata a Sud e quella ancora occupata dai tedeschi a Nord: a impostare la strategia di contenimento del PCI da Roma a Milano; e a riferire agli USA di parte dei dispacci che giungevano al Vaticano da Berlino e da Tokio. L'articolista proseguiva rilevando che: sul ruolo di Montini nella liberazione, è illuminante il rapporto del capitano americano Alessandro Cagiati, sui partigiani di Parma, datato 28 novembre '44.

Nel rapporto indirizzato all'OSS di cui faceva parte, Cagiati relazionava circa la visita a Montini di don Guido Anelli, parroco di una sottofrazione montana della provincia di Parma -Belforte di Ostia di Borgo Taro- presentatosi in Vaticano nella pretesa veste di emissario del CLN di Parma. Scrive in proposito l'agente dell'OSS: «Montini interroga a lungo don Anelli sui partigiani, il lavoro dei parroci nelle loro file e quello della DC. Poi si dichiara pronto a collaborare in ogni campo e mi fa capire che i collegamenti tra la Chiesa del Sud e la Chiesa del Nord saranno utili alle nostre operazioni militari. Notava, fra l'altro, Cagiati che prima «... il Vaticano non aveva le idee chiare sui partigiani, manifestava solo allarme alla prospettiva che l'Italia diventi "rossa", ma adesso fornirà ogni possibile appoggio alla Resistenza, diretto e indiretto. Montini ci farà sapere più tardi che il Papa si è dimostrato intensamente interessato alla partecipazione al movimento». Il "rapporto Cagiati" sottolinea infine che: la Santa sede non vuole nulla in cambio. Bisognerà vedere che cosa don Anelli porterà in concreto a Parma. Ma il valore della protezione e delle informazioni che la Chiesa ci offrirà, non solo in Italia, è inestimabile. Si saprà, ma solo in tempi recenti, che la visita a Roma di don Anelli si era estesa ai massimi livelli con colloqui riservati fra il parroco e il presidente del Consiglio Bonomi, col ministro della Guerra Casati e con il generale Messe.

Curiosamente, sembra che nessuno, a cominciare dall'estensore dei citati articoli sul Corsera, si sia chiesto chi mai rappresentasse in effetti quest'oscuro parroco d'alta montagna, la cui apparente opinione personale avrebbe influito sulla politica estera vaticana tanto da incidere sulle sorti della guerra e del dopo, senza con questo essere mai uscito dallo stretto perimetro delle sue montagne prima del suo viaggio a Roma. Si rende pertanto necessario colmare questo vuoto:

fra i primi organizzatori della resistenza cattolica tra i valligiani dell'Alto parmense, don Guido Anelli si espose per la prima volta alla cronaca nazionale, presentandosi come decisivo teste a favore di Romualdi nel processo che nel 1951 lo vedeva imputato presso la Corte d'Assise di Macerata, per la rappresaglia effettuata a Parma dalla Brigata nera l'1 settembre 1944 e per la quale era già stato condannato a morte in contumacia dalle Assise di Parma nel febbraio del 1947.

Il parroco di Belforte aveva dichiarato in aula di essere stato arruolato a suo tempo dall'OSS e che in tale veste era al corrente del fatto che la rappresaglia già imputata alla Brigata nera di Parma, comandata all'epoca da Romualdi, era stata compiuta dai tedeschi. Versione peraltro avallata davanti alla stessa Corte dal teste Giovanni Nadotti, da noi già indicato quale affiliato Nemo, il quale depose in veste di ex agente SIM a servizio del governo del Sud all'interno della RSI a Parma e successivamente in forza presso l'ufficio di Romualdi alla vice segreteria del PFR a Milano [3].

Come abbiamo già documentato in altra sede [4], si trattava di due false testimonianze che valsero tuttavia a far assolvere Romualdi rendendolo libero e restituendolo alla politica. Il collegamento fra don Anelli e "Nemo" non si limitava però alla sola convergenza testimoniale.

Don Anelli -come premesso- pare si sia presentato a Roma in veste di emissario del CLN parmense e già questa sua funzione, considerando le implicazioni del messaggio di cui era latore, non si conciliava affatto con i leali rapporti politici che almeno teoricamente dovevano intercorrere fra i diversi partiti dell'esarchia ciellenista.

A dar retta anche alle più aggiornate pagine dell'agiografia resistenziale parmense, il parroco di Belforte sarebbe stato inviato a Roma al solo e riduttivo scopo di procurare finanziamenti a favore del C.U. o del CLN di Parma a seconda delle varie fonti [5] e solo per adempiere a questo incarico, don Anelli avrebbe varcato la linea del fronte all'inizio di novembre del novembre '44. Nella parte prima di questa inchiesta, avevamo già riferito che due settimane prima dell'inizio della missione Anelli, a Bosco di Corniglio i tedeschi avevano sgominato il Comando Unico operativo partigiano provocando, fra l'altro, la morte del responsabile del Comando piazza di Parma del CLN, il comunista Gino Menconi. Avevamo anche aggiunto che a sostituire il Menconi al comando del CLN era stato chiamato l'agente Nemo, Max Casaburi [6], già capo di stato maggiore Piazza del CLN di Parma al cui posto, rimasto vacante, venne insediato un altro affiliato Nemo, Tommaso Mori Checcucci, nel mentre il capo-rete Nemo di Parma, don Paolino Beltrame Quattrocchi, orchestrava il tutto dirigendo anche il Servizio informazioni partigiano (Sip) dell'intera provincia. Era inoltre in atto la manovra, regolarmente conclusasi di lì a poco, di nominare a capo del Comando Unico partigiano della provincia il col. Paolo Ceschi, un ufficiale badogliano indicato per ricoprire tale carica dalla centrale operativa Nemo di Milano.

È pertanto evidente che in quest'articolata situazione, don Anelli più che rappresentare il CLN di Parma era il portavoce del capo rete Nemo , don Paolino; l'abile burattinaio delle complesse trame interne al CLN non meno che negli apparati politici e militari della RSI e che era arrivato a condizionare finanche i massimi vertici SS in Italia grazie alla collaborazione fornitagli dal col. Dollmann, come abbiamo già documentato [7].

S'intuisce allora come mai, venuto a conoscere nel dettaglio la situazione in cui si trovava il CLN di Parma -situazione che gli era stata prospettata come collaudata prassi che si stava generalmente attuando al Nord- Montini si sia facilmente persuaso dell'utilità per la Curia romana di spingere ancora più a fondo le macchinazioni in atto, appoggiando senza altre riserve il fronte antifascista col fine ultimo di poterlo meglio condizionare dall'interno.

A questo scopo, don Anelli s'incontrò in Vaticano con il vescovo ordinario militare, Ferrero, per definire e regolare l'inserimento di cappellani nelle bande partigiane al fine di bilanciare l'influenza esercitata in tali formazioni dai commissari politici marxisti. La diffusa infiltrazione clericale nei vari gangli operativi della resistenza, non risparmiò nemmeno il vertice CLNAI all'interno del quale s'inserì il salesiano don Francesco Beniamino Della Torre, trasferito allo scopo da Parma a Milano, dietro presumibile indicazione di don Paolino. Una volta fissate solide relazioni fiduciarie con il CLNAI, per don Della Torre non deve essere stato difficile indurre i più alti esponenti resistenziali operanti a Milano ad adottare come propria sede principale l'Istituto salesiano Sant'Ambrogio, messo a loro disposizione con l'autorizzazione di Schuster.

Per altro, quasi a coronamento della missione romana di don Anelli, furono gli stessi vertici del CLNAI, con Parri e Pajetta in testa, a recarsi nei giorni immediatamente successivi alla nuova Canossa a stelle e strisce del Q.G. alleato a Caserta, per sottoscrivervi un vero e proprio atto di piena sottomissione; un accordo che mutava istantaneamente i partigiani di qualsivoglia colore, in ascari prezzolati alla completa dipendenza economica e militare delle forze d'invasione alleate [8]. Se questi sono i nudi avvenimenti, mancano all'appello ancora molti documenti per poterli definitivamente inquadrare nel loro preciso contesto sicché d'ora in poi si procederà piuttosto induttivamente specie nell'analizzare il rapportarsi dei fatti. E proprio i fatti stanno a indicare che il regista occulto dell'ambasciata svolta a Roma da don Anelli, almeno per questa volta non dovrebbe essere ravvisabile nel pur tentacolare don Paolino cui dovrebbe essere spettata in ogni caso l'incombenza d'indicare un messaggero di fiducia nel parroco di Belforte. Il vero Dominus, grazie al quale don Anelli ha poi trovato il massimo credito nella capitale, altri non può essere che l'arcivescovo di Milano, Schuster, da vario tempo notoriamente collegato al centro OSS di Berna diretto dal repubblicano anti-rooseveltiano Allen Dulles [9] il quale, scavalcando i colleghi della Special Force, diretti padrini Nemo, riuscì a mettere il cappello dell'OSS a don Anelli, facendolo prima affiancare dall'agente Cagiati e arruolandolo infine nella sua organizzazione [10]. Come già si era accennato agli inizi, don Paolino, pur dipendendo dai servizi inglesi in qualità di capo rete Nemo, si era sempre prioritariamente attenuto alle direttive suggeritegli dal cardinale Schuster e solo in subordine, e quindi mai in contrasto con le indicazioni cardinalizie, ottemperava a quelle del SIM badogliano e della Special Force britannica.

Deceduto nel 2009 sulla soglia dei cent'anni, don Paolino ha sempre mantenuto la massima riservatezza su quel periodo cruciale della sua lunga vita, evitando perfino di nominare la rete Nemo che pur aveva comandato e questo vale anche per le azioni da lui intraprese in quel periodo.

Di ben altro genere don Anelli, il quale non appena terminata la guerra iniziò subito a criticare senza troppi riguardi il restaurato sistema liberal-democratico, inviando articoli di critica e protesta al giornale locale che li passava direttamente … al cestino. Senza perdersi per questo d'animo, don Anelli riunì gli articoli cestinati dall'allora giornale ciellenista, in un opuscoletto pubblicato a sue spese ma che non fu mai diffuso per il sequestro preventivo disposto dal vescovo il quale provvide a far distruggere la (quasi) totalità delle copie sequestrate [11].

Anche nel nuovo regime postfascista, don Anelli era rimasto il prete scomodo di sempre attirandosi in tal modo non poche lamentele inviate al vescovo dal neo ministro dei Trasporti e successivo sindaco di Parma, Ferrari.

Per queste e altre ragioni don Anelli restò sempre confinato nella sua parrocchia d'alta montagna. Solo negli anni '50, dopo aver testimoniato al processo di Macerata, don Anelli si trasferì -o più verosimilmente, fu trasferito- da Belforte al Venezuela ove morì alla fine degli anni '60 praticamente dimenticato. Dimenticato dalla Curia locale come pure da Montini -diventato nel frattempo Papa- dato che nessuno si prese la briga di rimpatriarne la salma per oltre trent'anni fino a quando, nel 1990, provvidero direttamente i suoi montanari insieme a ex partigiani cattolici ai quali era stato particolarmente legato [12].

Di tutt'altro genere la vicenda di don Paolino il quale a imitazione del citato confratello, si recò egli pure a Roma, nel febbraio del 1945, per consegnare importanti relazioni compilate dal comandante in capo del C.V.L. Cadorna, relazioni che dovevano essere consegnate nelle mani di Umberto II senza altri intermediari.

Anche questa missione effettuata personalmente da don Paolino, risulta di estremo interesse e ciò non solo per i contenuti delle varie relazioni di cui era latore e alle quali egli ne aggiunse una sua orale sullo stato delle trattative con tedeschi e italiani e riferendo sulla delicata questione di Trieste, ma anche per alcune sconcertanti modalità del suo viaggio a Roma che riportano ad altri scabrosi argomenti che per limiti di spazio tratteremo in altra occasione.

Basterà qui anticipare che il 28 aprile don Paolino tornò da Roma in aereo con Umberto di Savoia, sbarcando all'aeroporto di Verona da dove proseguì poi per Parma a bordo di una jeep alleata, indossando la divisa di cappellano militare sulla quale spiccava la medaglia d'argento al V.M. che gli era stata personalmente appuntata da Umberto. La motivazione di tale decorazione risulta piuttosto vaga, accennando al solo fatto che l'attività svolta da don Paolino, avrebbe evitato ulteriori lutti e rovine all'Italia con chiaro riferimento, seppure non esplicito, alla resa dei tedeschi in Italia, e non dei soli tedeschi.

Nell'immediato dopoguerra, don Paolino divenne il predicatore di punta della centrale chiesa di S. Giovanni, molto frequentata dalla borghesia emergente di Parma; borghesi che amavano farsi fustigare per le loro insite debolezze cercando tuttavia di rimediare ai loro peccati col sostenere la "diga anticomunista" e votando ovviamente DC.

L'avvento del centro sinistra, insieme al diffondersi di un sempre più largo relativismo permissivista anche in ambito ecclesiastico, attenuò sempre più la veemenza dei suoi sermoni finché nei primi anni '60, don Paolino decise di ritirarsi definitivamente dalla trincea parmense, facendosi trappista in un monastero alle Frattocchie in provincia di Roma, sua città natale.

Trappista sì, ma sempre alla sua maniera. Riferisce lo scrittore e giornalista Giorgio Torelli che, durante un'intervista concessagli da Andreotti, questi gli avrebbe detto: «Lei Torelli è di Parma e dunque deve senz'altro conoscere padre Paolino. È tanto caro, lo frequentiamo spesso, il giovedì viene a cena da noi». Con un certo stupore, Torelli replicò: «Ma scusi, onorevole, io so che Paolino è trappista di stretta osservanza».«Ah -ribatté, Andreotti- ma non sarebbe padre Paolino se non avesse fatto modificare la regola della Trappa secondo le sue personali esigenze. Ne ridemmo insieme, In effetti, Paolino non poteva più accordarsi ai ritmi della Trappa, perché l'avevano nominato postulatore delle cause di beatificazione dei Benedettini, compresa quella non facile del cardinale di Milano Ildefonso Schuster». [13]

Il fatto che don Paolino fosse stato incaricato di patrocinare la beatificazione dei soli Benedettini, suo ordine religioso d'origine, non oblitera il dubbio relativo a una sua influenza più o meno diretta, per la beatificazione dei suoi stessi genitori ufficialmente sancita nel 2001: prima coppia beatificata -lui e lei insieme- nella storia bi millenaria della Chiesa, come sottolineò Torelli [14].

Anche perché la duplice beatificazione sarebbe sostanzialmente fondata sulla circostanza che i coniugi Beltrame in gioventù erano stati entrambi scout cattolici e, giusto a seguito del loro matrimonio, per l'aver donato tre figli (due maschi e una femmina) della loro varia prole, al magistero ecclesiastico.

Nel non dichiarato, ma che vi avrebbe però influito, dovrebbe esserci anche la positiva conclusione della non facile impresa compiuta da don Paolino, di giungere alla beatificazione del cardinale Schuster. Il processo di beatificazione nei confronti di Schuster era stato aperto nel 1957 da Montini, suo successore all'arcivescovado di Milano, ma la causa si era chiusa qualche anno dopo, nel 1963, in assenza dei titoli minimi previsti. Esattamente vent'anni dopo, nel 1983, in veste di Postulatore Generale per le Cause dei Santi, don Paolino riprese in mano l'ingiallito 'dossier Schuster' e poiché riaprendo la sua tomba nel 1985 pare si sia verificato che la salma fosse ancora sostanzialmente intatta, tanto bastò per proclamare Beato, nel 1996, anche Schuster .

Con la 'causa Schuster' tornata in corso d'opera, don Paolino non mancò di spulciare l'archivio vescovile milanese e parte dei vari documenti da lui accuratamente selezionati, finirono per andare a comporre un volume intitolato "Al di sopra dei gagliardetti", la cui tesi fondamentale era di documentare il notevole contributo fornito da Schuster alla causa antifascista.

Fra i documenti inseriti nella cartella postulatoria, c'era anche un falso plateale relativo ad un presunto scambio di lettere del comandante della BB.NN. di Milano, Costa, con il comandante della BB.NN. di Como, Porta. Questo documento, datato 28 dicembre 1944 -prot. 2915/3/B, aveva per oggetto "Scambio informazioni clero" [15]. Una missiva oltremodo prolissa, nella quale il presunto scrivente, Costa, si dimostrava ferratissimo circa le varie posizioni del clero lombardo, favorevole o meno alla resistenza; mentre risultava molto più confuso nei trattare della struttura politica e militare della RSI di cui era anche alto esponente. Succo di tale lettera era l'invito da parte di Costa a Porta ad organizzare un attentato in arcivescovado per togliersi definitivamente di mezzo sia Schuster che il suo segretario Bicchierai

Prudentemente don Paolino segnalava trattarsi di fotocopia, esprimendo anche dubbi sulla sua autenticità e tuttavia la riportava in modo completo seppure a titolo informativo. Alcuni anni dopo la docente universitaria Annalisa Carlotti aveva dato pure lei alle stampe questa con altre fotocopie [16]dichiarando trattarsi di documenti i cui originali erano stati regolarmente depositati presso l'Archivio storico della Diocesi di Milano. Questa documentazione doveva servire negli intenti della docente a sostenere la tesi, dimostratasi poi del tutto infondata, di un preteso complotto nazifascista finalizzato al sequestro del Papa [17]. All'epoca tale notizia fece il giro del mondo tant'è che a tutt'oggi i meno informati, che sono poi la maggioranza, restano ancora convinti dell'attendibilità di tale notizia anche perché, come al solito, la smentita non ha avuto la stessa eco riservato alla 'patacca'. La grezza montatura venne facilmente smontata sulle colonne del periodico d'Arma, "San Marco", dal prof. Mario Manfredini [18].

Nel caso in questione, Manfredini squadernava in tre fitte pagine una somma d'ingiustificate preveggenze, contraddizioni e altre assurdità tecnico-linguistiche del tutto insostenibili come il fatto che esponenti fascisti indicassero nei loro scritti i nemici angloamericani con il paradossale termine di "alleati" e senza poi contare assurdi scambi di persona per cui il milanese Costa comunicando con il comasco Porta scriveva: Qui in vescovado a Como ecc. Idem per l'uso dei timbri dove a margine di un documento firmato Costa, comandante della BB.NN. di Milano, appare addirittura il timbro della BB.NN. "Rodini" di Como.

A seguito di questa sua sferzante critica, il prof. Manfredini riceveva il 22 maggio 2000, una lettera inviatagli dal prof. Giorgio Vecchio,un cattedratico di Storia Contemporanea, che aveva pure lui utilizzato tali documenti e che a questo punto doveva francamente ammettere che si trattava di evidenti falsi, ipotizzando tuttavia che tali falsi fossero dovuti al comandante partigiano Giacinto Lazzarini, volendo così scagionare mons. Enrico Assi, già vescovo ausiliare di Milano che aveva collaborato con la resistenza e pertanto sospettabile di tale manipolazione [19].

Manfredini aveva, infatti, scritto a conclusione del suo primo articolo che purtroppo il Lazzarini è deceduto, come anche mons. Assi, e non è possibile chiedere loro spiegazioni e l'esibizione degli originali. Non crediamo in ogni modo di poter attribuire la responsabilità del falso al solo Lazzarini: troppo insistiti sono i richiami al cardinale Schuster, al clero ed alle organizzazioni cattoliche, troppo numerosi i particolari relativi a personaggi ed istituti religiosi, perché non appaia più plausibile pensare alla collaborazione di ben altra mano.

Nel convenire con l'analisi del prof. Manfredini, aggiungiamo da parte nostra un non irrilevante sospetto nei confronti di don Paolino, avendo già avuto occasione di riferire, nella prima parte di questa ricerca, sul vezzo di questo prelato d'incettare timbri e carte intestate della RSI che poi utilizzava per elaborare documenti utili alle sue diverse strategie operative. Circa la manipolazione di altri importanti sigilli della RSI, sempre da parte di don Paolino, tratteremo nel prossimo articolo che sarà dedicato in gran parte al viaggio da lui intrapreso verso Roma nel febbraio del '45.

 

Note alla Parte Terza

 

[1] Cfr. E. Caretto Questo è un uomo decisivo che appoggerà la resistenza in Corriere della Sera del 26 agosto 2003; idem nello stesso numero Montini una scelta americana per l'Italia.

[2] Alla morte del cardinale Maglione avvenuta nell'agosto del 1944, Montini fu effettivamente nominato pro Segretario di Stato Vaticano insieme a mons. Domenico Tardini.

[3] Cfr. Testi a discarico nel processo Romualdi in "Giornale dell'Emilia" del 17 maggio 1951.

[4] Cfr. MSI - C'è poco da salvare in "Rinascita" n. 264 del 14 dicembre 2004, pag. 12.

[5] …si è voluto rimarcare il contributo dato da un sacerdote della montagna, il parroco di Belforte, don Guido Anelli. Dopo l'eccidio di Bosco di Corniglio, a Belforte venne creato un nuovo comando unico. E don Guido venne inviato a Roma per chiedere aiuto. In quella occasione ebbe l'opportunità di spiegare in Vaticano che la Resistenza non era solo < rossa > come loro credevano, ma era rappresentata anche da un consistente numero di partigiani cattolici. E da quel momento il Vaticano collaborò con la Resistenza (F. Brugnoli Giliotti e il ruolo dei cattolici nella lotta di liberazione in "Gazzetta di Parma" del 12 settembre 2010, pag. 41). Effettivamente don Anelli rientrò a Parma con un cospicuo finanziamento di 20 milioni di lire della qual somma solo due terzi (13 milioni) furono regolarmente versati nelle casse del C.U. partigiano, mentre i restanti 7 milioni vennero dirottati a favore della locale DC.

[6] Cfr. Lista collaboratori "Missione < Nemo >" in F. Gnecchi Ruscone "Missione < Nemo>" pag. 193.

[7] Nemo Mission: presenza occulta in "Historica Nuova" n. 22 gennaio-marzo 2012, pag. 11.

[8] A dir poco patetica, la versione di Pajetta:…un aereo militare trasportò dalla Svizzera a Lione poi a Napoli, infine a Roma, nel novembre del 1944, Parri, Pizzoni,Cadorna, Sogno e me, per chiedere al governo e al comando alleato [ indicativa l'assenza di qualsiasi riferimento al Q.G. alleato di Caserta ] quel riconoscimento politico e militare per i partigiani che ci sembrava di esserci meritato ( G: Pajetta "Il ragazzo rosso" 1983, pag. 175).

[9] Allen Foster Dulles con il fratello John, ambedue avvocati, lavoravano insieme nello studio legale Sullivan e Cromwell di New York, nell'ufficio che si era preso cura degli interessi della Germania nazista fino allo scoppio della guerra. In questo loro ruolo i fratelli Dulles avevano intrecciato stretti rapporti con personalità economiche e politiche del nazismo, rapporti e conoscenze che vennero largamente sfruttate da Allen per conto dell'OSS che proprio a tal fine gli aveva affidato l'ufficio strategico OSS di Berna.

[10] L'ex agente OSS, Peter Tompkins, ha riservato un intero capitolo del suo ultimo libro "L'altra resistenza" al duello OSS-SIS (ivi pp. 337-347) citando fra l'altro il trafugamento da parte della sezione X-2 dell'OSS, diretta da Angleton, di un rapporto inviato agli inglesi dal capo missione "Nemo", cap. Elia, in cui si esponeva l'utilità dell'infiltrazione dell'agente De Haag (Alpino) all'interno del CLN milanese…molto prezioso per noi (ivi pag. 343).

[11] D. Guido Anelli Ad occhio nudo Tipografia Fresching Parma s.d. da cui riportiamo la parte iniziale della presentazione: Pubblicando queste modeste pagine che hanno la virtù della sincerità, ci corre l'obbligo di segnalare che esse erano destinate alla < Gazzetta di Parma > in forma di articoli inviati in varie riprese. Il giornale non ha ritenuto di pubblicarli perché il loro tono spregiudicato e la loro sostanza realistica avrebbero potuto urtare. La mancata pubblicazione sul giornale del CLN denuncia un fatto amaro che va aggiunto alle segnalazioni critiche contenute in questi scritti: che nonostante la liberazione non possiamo ancora dire di godere di quella libertà teorica e concreta che ha offerto vari argomenti speculativi ad articoli dei direttori dello stesso giornale (ivi pag. 3).

[12] Il prete partigiano è tornato a casa in "Gazzetta di Parma" del 13 maggio 1990.

[13] G. Torelli Un secolo per gli altri per il cielo in "Gazzetta di Parma" del 30 gennaio 2009, pag. 6.

[14] Ibid

[15] P. Beltrame Quattrocchi Al di sopra dei gagliardetti 1985, pp. 354-55.

[16] A.L. Carlotti Cattolici e Resistenza nell'Italia settentrionale Ed. Il Mulino 1997.

[17] Pio XII – Mio padre salvò il Papa dalle SS: la testimonianza del figlio di un partecipante alla congiura contro Hitler e la lettera del federale di Como fanno luce sul piano nazista in "Il Giornale" del 28 febbraio 1999, pag. 24.

[18] M. Manfredini Un falso clamoroso: le lettere tra Porta e Costa del settembre-dicembre 1944 in "San marco" n. 27 del gennaio-marzo 2000.

[19] M. Manfredini Le lettere tra Porta e Costa del settembre- dicembre 1944 in "San Marco" n. 29 del luglio-sett. 2000

 

 

Parte QUARTA:

VANNI TEODORANI

Franco Morini

 

Avevamo lasciato in sospeso la sorte del duo Romualdi-Teodorani, dopo averli visti rientrare indenni a Como nella serata del 27 aprile 1945 (1). Indenni e non solo.

A differenza di gran parte dei loro sottoposti -per non parlare dei gerarchi e non gerarchi della colonna Mussolini- i due esponenti fascisti erano anche inopinatamente liberi. A dar retta a Romualdi «... i politici del CLN non si curavano troppo dei loro arrestati e la confusione era tanta" per cui, dopo essersi procurati abiti civili sollecitamente forniti da un funzionario prefettizio di Como..."rimasto fedele a metà"(!) la mattina successiva del 28 aprile, Romualdi lasciava tranquillamente la prefettura di Como senza alcuna difficoltà, anzi...."al portone, i due partigiani di guardia (lo) salutarono scattando sull'attenti». (2)

Quanto a Teodorani, egli narra che, rientrato in prefettura insieme a Romualdi e al gruppo Dessy, fu posto «a disposizione sulla parola» (3) il che in linguaggio meno militaresco equivarrebbe alla consegna a se stessi in stato d'arresto.

Come dire fuori da qualsiasi controllo esterno giacché Teodorani pare avesse dato la propria parola d'onore che sarebbe rimasto a disposizione senza allontanarsi dalla prefettura; prassi eccezionalmente riservata ad alti gradi militari dal comprovato senso dell'onore. In ogni caso a "disposizione" o agli "arresti", parola data o meno, fatto sta che Teodorani si eclissò quella stessa serata del 27, cercando e trovando rifugio in un collegio nei pressi di Como gestito dai padri Somaschi che, fra l'altro, dal mattino precedente già ospitavano Vittorio Mussolini e un suo parente acquisito. Solitario ospite della prefettura rimaneva il solo Romualdi, anche perchè in pressante attesa di disfarsi della divisa per cercare di uscirne inosservato.

Trattasi di fortunosi destini dovuti a favorevoli congiunzioni astrali o che altro? Risponderemo francamente che valutando la condotta tenuta dal conte Giovanni (Vanni) Pozzo Teodorani Fabbri, non solo a Como ma anche prima e dopo (4), è per noi arduo dissociarlo dal contenuto di un rapporto dei servizi segreti svizzeri del marzo 1945, in cui si riferiva che all'interno della stessa Segreteria del Duce..."sono molto attivi elementi che lavorano d'accordo con ambienti capitalistici, antifascisti militanti. ma di tendenza clericale o monarchica" (5).

E, infatti, Teodorani era a capo della Segreteria militare del Duce a Villa Orsoline (6) e da quella sua alta posizione coltivava, senza cercare di nasconderlo troppo, spuri contati diretti e indiretti, con ambienti monarchici del Sud e in particolare con quelle gerarchie militari badogliane che, in caso di vittoria dell'Asse, si augurava che venissero incorporate pari, pari, nel vittorioso esercito socialrepubblicano. (7) Non è un caso che Teodorani non si sia affatto peritato d'occultare i suoi rapporti, anche precedenti ,con l'agente "Nemo" cap. Dessy, chiamandolo addirittura in causa nel 1947 - seppure con la sola iniziale (8) - quando l'ambiguo personaggio non era ancora entrato a far parte delle note vicessitudini comasche.

Comunque sia, questo rapporto dei servizi elvetici pare cucito addosso al cognato-conte e non sarebbe affatto temeraria l'ipotesi che quel documento sia scaturito a seguito dell'intrecciarsi dei rapporti Teodorani-Dessy. È infatti da tener presente che a partire dal 1944, il cap. Dessy svolse la sua attività per conto del SIM-Marina, presso l'ufficio svizzero dell'U.R.I. (Ufficio Rappresentanze Industriali) struttura di copertura a Berna del SIM, affatto sconosciuta agli occhiuti servizi svizzeri.

Prima ancora di aderire alla struttura "Nemo", Dessy aveva collaborato per conto del SIM al progetto di riunire in una sola grande formazione clandestina denominata V.A.I. (Volontari Armati Italiani) i militari variamente impegnati nella resistenza, allo scopo di costituire un'armata dichiaratamente monarchica in concorrenza, o in caso di necessità, in opposizione al CLNAI (10). Se il VAI non riuscì a concretarsi in tempo utile, questa prima intelaiatura servì in ogni caso da matrice alla formazione dell'A.I.L. (Armata Italiana di Liberazione) costituitasi nell'immediato dopoguerra con le stesse tendenze reazionarie del precedente organismo. Inoltre, l'Ail inglobava, insieme a varie formazioni partigiane anticomuniste e monarchiche, una discreta percentuale di ex combattenti della RSI (11). Anche in quest'ultimo caso, Dessy fu attivamente presente nell'Ail utilizzando al meglio i suoi pregressi collegamenti con ex militari del Nord, del regio esercito e partigiani monarchici e cattolici. Partendo da tali premesse, appare abbastanza scontato che Teodorani si fosse trovato in perfetta sintonia con quel che, a suo vedere, Dessy rappresentava. Pur rimanendo un dato di fatto che Teodorani abbia trafficato con Dessy, appare tuttavia plausibile, considerando il personaggio in questione, che egli non abbia ben valutato come i suoi ambigui rapporti potessero oggettivamente costituire defezione se non tradimento. È d'altra parte evidente che il principale impegno di Teodorani era essenzialmente rivolto all'ambito famigliare e in particolare alla salvaguardia di zio Benito e di tutti gli altri membri o collaterali della famiglia Mussolini.

Non a caso fu proprio premendo su quel tasto che Dessy riuscì a gabbarlo, alimentando in lui l'illusione che il C.I.C. statunitense fosse propenso a salvare la vita del Duce. Indicativa a tal proposito la tagliente battuta di Anfuso il quale, alludendo al parente acquisito divenuto membro effettivo del "parlamentino familiare del Duce" lo aveva definito..."un falansterio di segretari nepoti che volevano salvare Mussolini e se stessi" (12). Nonostante ciò che precede sarebbe da escludere, almeno a nostro parere, che il cognato-conte fosse consapevolmente organico alla rete "Nemo" di cui probabilmente ha ignorato perfino l'esistenza. Appare evidente, infatti, dalla precedente puntata, che le sue informazioni erano ferme al fatto che l'ufficio bernese di Dessy era collegato prima e sottoposto poi, al centro spionistico di Berna diretto da A. Dulles (13). Il cap. Dessy è infatti entrato a far parte della rete "Nemo" solo alla fine del 1944

(14) ed è pertanto da ritenersi che, per quanto sapesse Teodorani, Dessy era sempre l'agente SIM collegato ai servizi statunitensi e non certo all'Intelligence Service britannico da cui in effetti dipendeva la "Nemo". Avesse saputo del coinvolgimento di Dessy nel S.I.S. britannico, quello stesso Teodorani che nell'aprile del 1951 sfidò a duello il vecchio Churchill per un "suo accenno poco simpatico nei confronti degli italiani", non l'avrebbe certo prescelto come unica e principale controparte per gli accordi di Como.

 

NOTE alla Parte Quarta

 

 (1) "La RSI è finita a Como e non a Dongo" - Historica Nuova n. 23 dell'aprile-giugno 2012.

(2) P. Romualdi " Fascismo repubblicano" pp. 195-196.

(3) V. Teodorani "La discordia fra inglesi e americani" in "Asso di Bastoni" del 7 novembre 1954, pag. 3.

(4) All'inizio degli anni '50, Teodorani era il principale trait d'union del MSI con monarchici, liberali, Gedda e Vaticano. Questi rapporti sono stati ampiamente svelati dall'ex gesuita ed ex direttore d'Istituto alla Pontificia Università Gregoriana, prof. Alighiero Tondi nel suo libro "

Vaticano e neofascismo" Roma, 1952.

Il Tondi trattò a suo tempo «per conto dei vertici vaticani, Papa compreso, l'organizzazione di un blocco reazionario in cui avrebbero dovuto confluire missini, monarchici, liberali e cattolici dei Comitati Civici e dell'Azione Cattolica presieduta allora da Gedda (...) Un movimento politico che avrebbe dovuto sostituire la DC e quindi De Gasperi con Gedda. All'interno di questa manovra politica Teodorani rappresentava il MSI e non solo, poichè vantava con Tondi d'essere egli basilare per l'eventuale adesione dei monarchici (...) "Gedda stia tranquillo, i monarchici dipendono da me" (ivi pag. 70). Dopo aver elogiato Gedda come nuovo "uomo della provvidenza" (id. pag. 45) Teodorani avrebbe addirittura esclamato: "È l'ora di Gedda, questa!"»

Perchè non ne approfitta? Noi fascisti siamo tutti pronti a seguirlo in massa" (id. pag. 48).

(5) Rapporto della rete Nel. P.4.527, riportato da M. Viganò in "La guerra fu vinta in Svizzera - Il servizio informazioni dell'esercito elvetico e la fine della RSI" in "Italia Contemporanea" fasc. n. 199 - giugno 1995, pag. 331.

(6) Teodorani avrebbe preferito ricoprire un incarico diplomatico a livello d'ambasciatore, carica che gli fu rifiutata e compensata con la nomina di addetto agli affari militari alla segreteria del Duce.

(7) (...) "Le truppe regolari del Sud erano decisamente ostili al CLN. Tutte le volte che potevano disarmavano i comunisti e proteggevano i fascisti. Inoltre quando reparti regolari del Sud e del Nord s'incontravano (!) generalmente la fraternizzazione era immediata (?). Tanto che io ripensavo spesso al nostro (?) progetto per l'assorbimento immediato (!) di tutte le Forze Armate del Sud dopo la vittoria" (V. Teodorani "Il piano americano sul Duce" in "Asso di Bastoni" n. 44 del 14 novembre 1954, pag. 3).

(8) Anche Romualdi nella sua opera citata, analogamente riferendosi a Dessy lo indica come..." il colonnello D. di non so bene quale corpo di liberazione" (pag. 184).

(9) «... desidero anche specificare che io avevo piena fiducia nel comandante D. da me conosciuto personalmente e lealissimo fino alla fine» ("Un nipote di Mussolini trattò per salvargli la vita" in "Corriere d'Informazione" del 26-27 marzo 1947).

(10) Cfr. F. Parri "Il movimento di liberazione in Italia e gli Alleati" in "Il Movimento di liberazione in Italia" fasc. n. 1 del luglio 1949.

(11) "...altro (Movimento) anch'esso in rapporto con l'Ail (era) il Momisore, sigla astrusa che stava per Movimento militare sociale repubblicano. originato dal battaglione "Forlì" della RSI, accreditato di circa duemila aderenti" (G. Parlato "Fascisti senza Mussolini" pag. 223).

(12) F. Anfuso "Da Palazzo Venezia al lago di Garda" pag. 411.

(13) Per disposizione alleata, il governo del Sud aveva sciolto il SIM a far luogo dal 16 novembre 1944, confluito contestualmente in un nuovo servizio di controspionaggio formato da italiani ma gestito dall'OSS per il tramite di agenti che si erano specializzai in affari italiani.

(14) Nell'elenco degli affiliati alla rete "Nemo" compilata dal cap. Elia, Dessy avrebbe cominciato a farvi parte dal 15 dicembre 1944 (Cfr. F. Gnecchi Ruscone cit. pag. 222).

 

 

Parte QUINTA:

PINO ROMUALDI

 Franco Morini

 

Altro e diverso discorso concerne Romualdi. Giusto nel periodo in cui era stato redatto il rapporto svizzero relativo a chi all'interno della Segreteria del Duce coltivava rapporti con ambienti conservatori antifascisti, il SIM-Nord Italia (S.I.M.N.I.) redigeva da parte sua una nota interna in cui si attestava che Pino Romualdi e Augusto Cantagalli sono degli idealisti, onesti e degnissimi sotto tutti gli aspetti morali [1]

Italiano all'estero da poco rimpatriato dal Belgio, Cantagalli ricopriva la carica di Capo di Stato maggiore delle BB.NN. con sede in via Manzoni n. 10 a Milano, dov'era ubicata la segreteria di Romualdi.

Quando all'alba del 26 aprile si formò a Milano il convoglio fascista che doveva raggiungere Mussolini sul lago di Como, fu concordato che Cantagalli rimanesse a Milano quale ultimo responsabile del PFR, con l'incarico di raggruppare le residue forze del partito -Brigate Nere, "Muti” e altre eventuali milizie- in attesa di poter disporre dei mezzi di ritorno da Como per l'inoltro in Valtellina delle forze fasciste bloccate a Milano. Non appena la colonna Pavolini sfumò all'orizzonte, Cantagalli anziché dar seguito alle disposizioni, si poneva in contatto con l'agente di collegamento tra i servizi segreti angloamericani e le formazioni partigiane cattoliche "Fiamme verdi” della Lombardia, colonnello Giovanbattista Calegari.

L'agente nemico provvide a mettere a sua volta a rapporto Cantagalli, che nell'occasione era accompagnato dal cappellano delle BB.NN. padre Eusebio, con il comandante del C.V.L, Cadorna. I due concordarono di diffondere tra vari reparti repubblicani ancora presenti a Milano, l'ordine di cessare ogni azione di contrasto nei confronti del CLNAI in attesa di nuove disposizioni [2]. Congelate in tal modo le milizie all'interno delle loro sedi, Cantagalli raggiungeva le varie postazioni fasciste, munito di regolare fascia del CLN al braccio, al fine d'indurle alla resa offrendo le solite, vane promesse, di "onore delle armi” e garanzie di "ampi e liberatori lasciapassare”.

Per accelerare la resa, si cercò persino d'insinuare che i vertici del partito -Mussolini in testa- si erano improvvisamente eclissati piantando in asso e senza ordini i seguaci, simulando in tal modo una replica in chiave mussoliniana dell'8 settembre.

Ciò che più colpisce del contesto, è il sincronico e simmetrico agire di Cantagalli a Milano e Romualdi a Como, ambedue impegnati a mantenere i subalterni in un ingiustificato stato d'attesa mentre venivano contemporaneamente propagate ad arte false e svianti informazioni tendenti a indurre alla diserzione o alla resa.

La responsabilità dell'ingiustificato isolamento in cui fu costretto il Duce nei suoi ultimi giorni, pesa come un macigno su questi personaggi "degnissimi sotto tutti gli aspetti”, per i servizi segreti nemici. [3]

Non così si pensava almeno a Parma, dove nel 1947 Romualdi venne condannato a morte in contumacia dalla Corte d'assise speciale.

A differenza di Teodorani, rimasto sempre epigono del conservatorismo più titolato, Romualdi si era fatto notare al Congresso di Verona come uno dei più animosi sostenitori del radicalismo fascista facente capo a Pavolini. Ed è proprio grazie a queste sue ostentate posizioni intransigenti che all'indomani del Congresso di Verona, Romualdi venne invitato dal conterraneo, e neo Capo provincia di Parma, Antonio Valli, a dirigervi il quotidiano locale. Nell'aprile successivo, Romualdi veniva nominato commissario federale del PFR di Parma e circa sei mesi dopo, nel novembre 1944, assumeva alla carica di vicesegretario del partito.

Ed è all'interno di quest'arco di tempo di un anno circa, che Romualdi si tramuta da sostenitore di Pavolini in "stile bolscevico”, a suo contraltare politico all'interno della segreteria nazionale.

Come si sia determinata tale metamorfosi politica in così breve tempo è ancora indecifrabile.

Poco utile in tal senso, il libro postumo "Fascismo repubblicano”, dove abbondano descrizioni di fatti esterni a scapito di quel che più lo riguardava direttamente, tanto che il curatore del libro, Marino Viganò, ha dovuto aggiungere di sua iniziativa una discreta nota biografica (v. pp. 209-220) a compenso delle carenze autobiografiche di Romualdi. Sono rimasti tuttavia i suoi editoriali pubblicati nella "Gazzetta di Parma” ed è proprio da questi articoli che si rileva la conferma delle sue perduranti posizioni radicali durate fino all'inoltrata primavera del '44.

Solo dopo la sua nomina a commissario federale di Parma, i suoi contorni ideologici diventano man mano più sfumati, come anche in questo periodo vengono inesplicabilmente a dissolversi nel nulla, rapporti e relazioni concernenti la sua attività commissariale. Ci riferiamo specificatamente alle relazioni che sono state stese sull'operato di Romualdi, dal Capo provincia e dei vari ispettori ministeriali e del partito. Documenti questi che di norma dovrebbero trovarsi depositati in copia, all'Archivio di Stato di Parma e all'Archivio Centrale di Roma, mentre, invece, gli atti dal 29 giugno al 7 novembre 1944, -data in cui venne nominato vicesegretario del partito- non risultano, come dovrebbero essere, nell'apposito fascicolo.

Stando al memoriale steso a suo tempo da Antonio (Nino) Scandagliato, ex ufficiale addetto alla segreteria personale di Romualdi, a Parma e poi a Milano, l'agente "Nemo” Giovanni Nadotti si sarebbe infiltrato nella segreteria di Romualdi corteggiandone la segretaria, Paola Ninci, allo scopo di predisporne l'uccisione [di Romualdi] che doveva avvenire a Parma e che, con varie motivazioni, il Nadotti riuscì sempre a convincere i suoi "amici" ad attendere momenti più propizi. Probabilmente frequentandolo, Nadotti comprese ciò che Romualdi faceva o tentava di fare per la Patria e non si sentì più l'animo di portare a termine la missione che gli era stata affidata [4].

Che cosa tentasse "di fare per la Patria” Romualdi non è precisato, pur sapendo come quel suo ‘patriottico agire' fosse specialmente gradito agli agenti "Nemo” e SIMNI e già questo basterebbe a confermare l'abiura di quelle che erano state le sue originarie posizioni leniniste, riprese da Pavolini, riassumibili nel motto: «tutto il potere al partito». [5]

Riguardo a Nadotti, già avevamo riferito come questo agente "Nemo”, fosse riuscito a infiltrarsi nel Comando Militare Provinciale di Parma (43° C.M.P.) col grado di tenente del genio alpino, favorendo e organizzando, nel solo periodo aprile-luglio '44 , la diserzione di circa duecento militari in forza al Comando.

In agosto, grazie a potenti e occulti appoggi politico-militari, Nadotti era già perfettamente in grado di condizionare la locale Commissione addetta alla revisione dei quadri ufficiali e sottufficiali, riuscendo nell'intento di fare …allontanare dal C.M.P. la quasi totalità degli ufficiali e sottufficiali filo-tedeschi e filo-fascisti. [6]

Epurato il Comando militare dai graduati lealisti, il Nadotti si mise a complottare più in grande ancora, progettando addirittura il trasferimento in montagna dell'intero Comando militare per consegnare ai partigiani, uomini, armi e bagagli. A dargli retta, già aveva iniziato la fase di trasloco in montagna, quando si avvide di un insolito via vai stradale di truppe e mezzi meccanizzati tedeschi e, avendo ricevuto contestuale conferma dell'imminente rastrellamento in zona, desistette da questa sua iniziativa pur sostenendo nella sua relazione post bellica che …l'accurata organizzazione del piano permette (va) di far passare inosservato l'accaduto. [7]

Che uno spostamento in forze e mezzi di quella portata, potesse passare completamente inosservato non pare credibile, restando sempre fermo il fatto che l'infiltrato Nadotti si era ormai sicuramente sovraesposto e non solo con il plateale tentativo di portare l'intero Comando militare provinciale in montagna, ma anche organizzando diserzioni di massa ed epurando il Comando da tutte le presenze a lui sgradite.

Possibile che tutto ciò, per quanto possa essere stato gonfiato dal Nadotti, sia passato completamente inosservato e senza destar sospetti nelle gerarchie politiche e militari localmente addette a compiti di vigilanza come nel caso, appunto, del commissario federale Romualdi? Apparentemente sì, visto che non solo Nadotti non fu mai intralciato nella sua molteplice opera di sabotaggio ma, dal gennaio del '45 venne addirittura chiamato a far parte della segreteria personale di Romualdi a Milano, nella veste di ufficiale di collegamento con la direzione nazionale del PFR.

Incarico palesemente pretestuoso giacché Nadotti mai svolse un'effettiva attività di collegamento fra esercito e partito, poiché a Milano coprì l'incarico di sovraintendente all'autoparco del partito e delle Brigate nere. Non staremo neppure a sottolineare la stravaganza, se così si può dire, di assegnare il pieno controllo dei mezzi di trasporto del partito e delle sue milizie, ad un uffcialetto degli alpini che in quanto militare effettivo, neppure poteva iscriversi al partito.

Una scelta a dir poco azzardata, specie se poi quel tal alpino si fosse rivelato, com'era in effetti, un agente nemico e in tal caso quell'incarico non poteva essere per lui che dei migliori, essendo sempre in anticipo a conoscenza degli spostamenti predisposti ed effettuati con i mezzi sotto suo controllo: arresti, azioni di rastrellamento e, in particolare, spostamenti dei capi locali fascisti nei confronti dei quali poter predisporre facili imboscate. [8]

A volte, però, accadeva anche il contrario.

Era un semplicemente caso il fatto che Romualdi dovendosi spostare in qualche località del Nord, pretendesse di farsi regolarmente accompagnare da Nadotti?

Parrebbe di no, stando almeno a quanto riferisce Scandagliato: «… poiché Romualdi aveva allargato il suo raggio d'azione ed oltre che l'Emilia Romagna le sue "passeggiate" avevano pure come meta il Piemonte e la Liguria, Nadotti si unì a noi in occasione di una visita a Torino raggiunta attraverso la pericolosissima autostrada Milano-Torino che spesso veniva insanguinata da imboscate di partigiani. Così si unì a noi, nel dicembre 1944 [ovvero prima ancora di entrare ufficialmente a far parte della segreteria milanese di Romualdi] in una trasferta in Liguria (…) Probabilmente la presenza di Nadotti ci salvò la vita. Dopo la guerra lui e Romualdi divennero ottimi amici». [9]

Resta da stabilire in che modo Nadotti riuscisse a farsi riconoscere da eventuali partigiani che, in generale, non potevano essere a conoscenza della sua appartenenza a SIM-SIS-NEMO. Una spiegazione viene fornita in proposito da un suo preteso collega del SIS britannico che operava in provincia di Parma, il norvegese Arndt Paul Lauritzen, seminarista in Italia il quale, in un libro di sospette memorie postume a lui attribuite, narra di aver incontrato Nadotti il 23 aprile 1945, subito scambiato per un nemico finchè questi gli avrebbe sussurrato all'orecchio «... una parola in codice che non lascia dubbi. Egli [Nadotti] ha diritto di andare alla Missione britannica [della provincia di Parma». [10]

Trattandosi di una singola parola e considerando la contemporanea appartenenza del partigiano sia al clero che al SIS, è induttivo pensare che la "parola in codice” fosse una semplice allusione a "Nemo”. Ma ciò che può verosimilmente valere per Lauritzen, non può essere però generalizzato per tutti gli altri partigiani. È presumibile che Nadotti potesse usufruire di un qualche attestato di riconoscimento al pari del prefetto della RSI e agente "Nemo”, Temistocle Testa il quale al fine di farsi riconoscere per avviare un dialogo con partigiani reggiani, cavò dalla fodera interna della giacca dov'era cucito «…un pezzo di seta recante un timbro del CLNAI e la scritta "il latore è elemento conosciuto e collaboratore di questo Comando. Si pregano i Comandi partigiani di dargli aiuto e assistenza"». [11]

Se Nadotti si dimostrò utile a Romualdi in più occasioni, altri andarono incontro alla morte a causa della sua opera. Scrive infatti Nadotti nella sua relazione finale che, istallatosi a Milano al seguito di Romualdi: «... ho la possibilità di controllare la corrispondenza del PFR e i movimenti degli esponenti del partito stesso. Evito l'inoltro di ordini e disposizioni di particolare importanza; segnalo la partenza di elementi fascisti che devono passare le linee con compiti di spionaggio, sabotaggio, propaganda [i quali] vengono eliminati». [12]

Nel marzo del '45, la gendarmeria tedesca aveva fortuitamente scoperto l'intera rete "Nemo” operante a Parma. Chiarire quanto realmente accaduto pare sia talmente imbarazzante da aver indotto i vari storici locali a stendere un velo d'oblio sull'episodio. In mancanza di documentazione restano alcune voci di chi sostiene che l'elenco degli affiliati sarebbe stato scoperto dai tedeschi celato in un muro interno al chiosco dell'abbazia di S. Giovanni, sede operativa di Don Paolino Beltrame. Già più credibile l'altra voce che indica in alcuni esponenti della resistenza cattolica, catturati o fermati dai tedeschi, gli autori di incontenibili confessioni a cascata con relativo grande imbarazzo al Comando S.D. di Parma il cui comandante, capitano Otto Alberti, era da qualche tempo al corrente e convivente delle trame "Nemo” a cui aveva personalmente collaborato avendo egli inviato l'esponente partigiano suo prigioniero, Primo Savani, ad incontrarsi con mons. Bicchierai a Milano il quale a sua volta lo mise sulla traccia dei membri del CLNAI al fine di convincerli a collaborare con l'accordo Wolff-Dulles, circa il ritiro concordato dei tedeschi dai confini della RSI; [13] nota trama avviata dagli agenti "Nemo”, Ghisetti e Testa, in collaborazione con Dolmann.

Il primo a essere arrestato e quindi incarcerato in data 7 marzo, fu il responsabile della rete "Nemo” di Parma, Max Casaburi, che in quel periodo sostituiva Don Paolino il quale si trovava in missione a Roma per conto di Cadorna. Seguirono altri arresti scaglionati di ufficiali, graduati e soldati appartenenti a quel C.M.P. di Parma dove aveva agito Nadotti il quale, a sua volta, era stato inseguito dal mandato di arresto notificatogli ufficialmente il 23 marzo a Milano. Rivela Scandagliato che Romualdi si rifiutò tassativamente di consegnare Nadotti ai tedeschi: «… si potrebbe dire che Nadotti era ormai un partigiano pentito (?) ma il Col. Volpi disse a Romualdi che i tedeschi volevano a Parma il Nadotti, considerato un capo. Romualdi concordò con il Col. Volpi che Nadotti sarebbe stato accompagnato a Parma, in stato di arresto; ma sarebbe stato consegnato agli italiani e non ai tedeschi. Il triste e doloroso incarico fu affidato al dott. Mattioli che, nell'ufficio di Romualdi prese in consegna il Nadotti (che piangendo aveva consegnato la pistola a Romualdi) e lo accompagnò a Parma. In attesa del processo per tradimento, Nadotti fu rinchiuso nel carcere di San Francesco». [14]

In realtà, né Nadotti né i suoi sodali furono formalmente accusati di tradimento - un reato che in base al codice militare di guerra comportava un giudizio sommario subito seguito dall'esecuzione capitale [15] - ma solamente, come recita il capo d'accusa trasmesso al Tribunale di Guerra di Brescia …per aver tenuto ripetuti contatti con esponenti del sedicente Comitato di "Liberazione” al soldo del nemico.

Non solo il reato di spionaggio e tradimento fu convertito in banali e apparentemente infruttuosi "contatti” col nemico -cosa che per altro si verificava spesso da ambo le parti senza che ciò comportasse particolari conseguenze- ma Nadotti non varcò neppure la porta del carcere essendo stato sempre ospite, come riferisce egli stesso, della caserma della GNR di Parma dove: «... l'incalzare degli eventi mi permette, in data 23 [aprile] di allontanarmi dalla caserma della GNR nella quale sono detenuto; raggiungo a Lesignano Bagni la 3ª Brigata Julia alla quale mi unisco e colla quale partecipo alle operazioni per l'occupazione militare della città». [16]

Aggiunge, inoltre, Don Paolino: il 28 aprile raggiungevo Parma [ e ] ivi mi ricongiungevo felicemente con i miei uomini che, evasi dal carcere il giorno 22 aprile, avevano tempestivamente raggiunto le formazioni di montagna partecipando attivamente all'azione bellica che culminò nella liberazione della Città [17].

Lasciando ogni giudizio in merito al lettore, a coronamento di quanto precede aggiungiamo il solo particolare che Romualdi, contro l'opinione di Mussolini [18], volle recarsi a Parma il 20 aprile per poi congiungersi il giorno dopo, nei pressi di Casalmaggiore sul Po, con Dolmann e Testa [19].

 

NOTE alla Parte Quinta

 

[1] Relazione S.I.M.N.I. n. 93 in data 31 marzo 1945 (Cfr. P. Romualdi Op. cit. Appendice a cura di M. Viganò, pag. 218) N.d.A. aggiunta: Sulle pagine del quotidiano Rinascita, Franco Morini volle precisare meglio questa situazione:

«A Milano già si erano concentrate decine di migliaia di militi (circa 30 mila), disposti a fare del quadrilatero cittadino la Stalingrado fascista d'Italia e di questi solo una parte minoritaria riuscì ad imbarcarsi, al far dell'alba del 26 aprile, sui limitati mezzi di trasporto posti a disposizione della colonna Pavolini-Romualdi diretta a Como. Partiti questi, il comando politico e militare di tutte le forze fasciste rimaste a Milano passò in via gerarchica al capo di Gabinetto del PFR, Augusto Cantagalli, sul quale ricadeva la precisa incombenza di procurare altri mezzi con i quali poter trasferire a Como le milizie rimaste in città, fra cui la quasi totalità della BB.NN. "Resega”, la 1° BB.NN. Mobile "V. Ricciarelli” oltre a consistenti residui della "Muti” e non pochi altri militi repubblicani.

E invece il Cantagalli cosa fa? Non appena ricevute le consegne, vale a dire in quella stessa notte del 25 aprile, egli si reca nella residenza clandestina milanese di un agente italiano affiliato all'OSS, il badogliano col. Giovanni Battista Calegari, al fine d'incontrarsi con un alto esponente del CLN. La mattina seguente del 26 aprile, munito di regolare bracciale del CLN il Cantagalli, accompagnato dall'agente OSS, Col. Calegari, si recava in prefettura ove verso le 13 dello stesso giorno, firmava la resa in nome di tutte le unità militari e politiche ancora presenti a Milano, ovvero quelle stesse forze che egli avrebbe dovuto far convergere al più presto verso Como. In cambio di questa sua collaborazione il Cantagalli fu munito di salvacondotto del CLN, documento che gli garantì l'incolumità anche nei giorni successivi quando, a seguito di tale resa, si aprì la mattanza indiscriminata di fascisti e presunti tali (Cfr. R. Lazzero "Le Brigate nere” , pp. 242-243). Resta quindi assodato che a poche ore dalla partenza di Pavolini da Milano, veniva subito bruciato quel primo ponte che saldava Mussolini ai suoi ultimi, ma ancora numerosi, seguaci. Se poi a quanto precede aggiungessimo anche il particolare che alcune settimane prima (marzo 1945), era circolata una informativa del SIM-N.I. (SIM Nord Italia–Osoppo) che discriminandolo benevolmente da Pavolini, indicava proprio nel Cantagalli un "onesto idealista”, allora il quadro si fa, se possibile, ancor più completo (...) quel che vale per Cantagalli vale anche per Romualdi. Non solo per la coincidenza più che significativa del perfetto sincronismo comportamentale del duo Cantagalli-Romualdi, ma anche perché la nota SIM-NI che abbiamo sopra citato coinvolgeva paritariamente Cantagalli e Romualdi. Infatti, il documento recita testualmente: "Tra i principali oppositori all'operato di Pavolini vi sarebbe il vice segretario del partito Pino Romualdi ed il capo di gabinetto del partito Augusto Cantagalli. Bisogna riconoscere che queste due ultime persone sono degli idealisti onesti e degnissimi sotto tutti gli aspetti morali”. Il documento integrale è stato inserito nella biografia romualdiana curata da M. Viganò. Si può pertanto concludere che se Cantagalli è colpevole di tradimento ciò vale inevitabilmente anche per Romualdi e, per contro, se Romualdi è assolvibile lo stesso deve essere per Cantagalli (...) il loro comportamento è stato decisivo al fine di isolare completamente Mussolini aderendo così nei fatti alla trama che portò alla sua morte come esattamente postulato dalla strategia d'azione che sarebbe stata attuata dalla fazione riferibile all'OSS-CLN-SS. In questo senso assume particolare importanza il fatto che il primo contatto stabilito nella notte fra il 25/26 aprile dall'agente badogliano-Oss, Calegari avvenne proprio con il sedicente col. Valerio (Walter Audisio, N.d.R.) ed, infatti, sarà appunto "Valerio” ad autorizzare l'agente OSS ad accompagnare Cantagalli alla prefettura di Corso Monforte per fargli siglare la resa. [il CV, manifestatosi e installatosi poi a Milano dopo l'evacuazione dei fascisti, aveva affidato ad Audisio compiti della polizia militare, La notte del 27 aprile poi, come noto, Audisio, alias colonnello Valerio, fu incaricato da Longo, per conto del CV, della missione di andare a fucilare Mussolini. N.d.A.]. Così il "col. Valerio” è il primo ad essere informato già nella notte del 25 aprile che i contingenti fascisti imbottigliati a Milano, non solo non avranno più la possibilità di raggiungere Mussolini ma, arrendendosi, semplificheranno notevolmente quella essenziale mobilità tattica necessaria alle, ancora non più di tanto temibili, formazioni partigiane».

[2] Nel successivo processo presso la C.A.S. il Col. Calegari testimoniò che: il Cantagalli mi coadiuvò efficacemente, mentre Padre Eusebio era solo presente (M. Viganò La cessazione delle ostilità della 1° BB.NN. Mobile di >Milano del '45 in "Storia Verità” n. 16 luglio-agosto 1994).

[3] Anche Mussolini alla fine si era reso conto dell'ormai evidente infedeltà che lo circondava. Al processo di Dongo svoltosi a Padova nel 1957, il teste Domenico Laghetto che faceva parte della scorta del Duce a Como, riferì ai giudici che quando Mussolini disse di voler andare con i camerati tedeschi perché degli italiani non si fidava più, Mussolini ... non intendeva riferirsi in blocco a tutti i fascisti, ma alla colonna di brigate nere che al comando del vicesegretario Romualdi avrebbe dovuto giungere da Como il 26 aprile e che invece non si era vista. (G. Capuano, Mussolini disse: «Vado con i tedeschi perché degli italiani non mi fido» in "Gazzetta di Parma” del 26 maggio 1957)

[4] Pag. 9 del memoriale originale acquisito da Marino Viganò col materiale biografico e autobiografico inserito in "Fascismo repubblicano” (v. pp. 231, 216, 259). Il brano riportato è stato curiosamente espunto nella versione del libro di Romualdi a curato da Viganò.

[5] Cfr. P. Romualdi Partito e potere in "Il Popolo della Romagna” del 13 novembre 1943.

[6] Relazione redatta dal ten. Giovanni Nadotti circa le sue attività svolte dal marzo '44 al maggio 1945, ivi foglio n. 2. Il documento originale è depositato presso l'Istoreco di Parma nel Fondo donazione Morini.

[7] Id. foglio 3

[8] Oltre al controllo sui mezzi di trasporto in dotazione al partito e alle sue milizie operato da Nadotti, la rete milanese "Nemo” esercitava anche il controllo dei mezzi civili -compresi quelli con targa vaticana- per il tramite dell'agente Ghisetti, designato a Commissario ai trasporti della Lombardia (Cfr. "Nemo Mission: presenza occulta" in "Historica” n. 22 gennaio-marzo 2012, pag. 11).

[9] P. Romualdi op. cit. pag. 216.

[10] A. P. Lauritzen Cammina fratello cammina Parma, 1984, pag. 352.

[11] G. Franzini Storia della resistenza reggiana ANPI 1982, pag. 707.

[12] G. Nadotti Relazione cit foglio 4.

[13] Cfr. F. Morini Parma nella RSI 1989, pp. 223-232.

[14] Anche questa parte del "memoriale Scandagliato” (ivi pp. 9-10) non è stata riportata da Viganò nella sua Nota Biografica in appendice al citato libro di Romualdi.

[15] In quello stesso periodo, dal 21 marzo all'11 aprile, furono sommariamente giudicati e fucilati per diserzione l'uno e tradimento l'altro, due militi della BB.NN. di Parma. L'accusato e fucilato per tradimento, si era limitato a blande informazioni fornite a partigiani che lo avevano ricattato avendo in loro mani alcuni suoi parenti sfollati in zona poi occupata da partigiani.

[16] G. Nadotti Relaz. Cit. foglio n. 4.

[17] Don. P: Beltrame Relazione sul nucleo di Parma della missione "Nemo" Relazione in data 22 luglio 1945 in F. Gnecchi Ruscone "Missione "Nemo" pag. 164. Stranamente Don Paolino evita di aggiungere che il suo vice a Parma, Max Casaburi, già primo della serie ad essere arrestato, il 21 aprile venne condotto dai tedeschi a Bolzano per ragioni che sarebbe interessante indagare. Il 28 aprile Casaburi riusciva a sganciarsi dai tedeschi e a riprendere la strada del ritorno ma, giunto nei pressi di Trento, venne ucciso il 29 aprile in ambigue e mai realmente chiarire, circostanze.

[18] P. Romualdi op. cit. pag. 151.

[19] Ibid. pag 156.

 

Parte SESTA:

DIETRO LE QUINTE DELLA CAPITOLAZIONE GERMANICA

 

Franco Morini

 

Nel commemorare Don Paolino in occasione della sua dipartita avvenuta nel 2009, il cronista di turno annotava fra l'altro che «… in pieno conflitto [Don Paolino] fu incaricato dal generale Cadorna, con la benedizione del cardinale Schuster, di portare un messaggio riservatissimo al presidente del Consiglio dell'epoca, Ivanoe Bonomi, destinato a salvare migliaia di vite umane». [1]

Più largo nei dettagli un successivo articolo sullo stesso giornale dello scrittore Giorgio Torelli il quale riferendosi alla missione romana di Don Paolino la definì "impossible mission" senza null'altro aggiungere se non che «… il plico segreto sempre ben nascosto sotto l'abito benedettino, era stato infine consegnato al Principe di Savoia, luogotenente del Regno e mostrato a De Gasperi, Bonomi, e Togliatti. Umberto stesso aveva decorato sul campo il Benedettino di fegato: il decorato sarebbe rimasto a Roma per rientrare a Parma nei giorni della Liberazione, medaglia al petto e voce in capitolo». [2]

Vero è che l'espressione "impossible mission", Torelli l'aveva copiata da un precedente articolo, diventato poi capitolo di un libro, [3] dove la missione romana di Don Paolino -l'impossible mission- era stata esposta come culmine della sua pur vasta attività di "007". Quest'ultimo articolo e/o capitolo sono di un certo interesse perché se non altro registrano la testimonianza personale di Don Paolino: «Presi in consegna il plico a Milano. Lo infaggotai sotto la tonaca, mi feci comprare una bicicletta e partii per Parma proseguendo poi per la Cisa, che passai a bordo di un camion carico di bersaglieri repubblichini. A Massa, un medico che mi era stato indicato come contatto mi accompagnò dal comandante Memo, capo della brigata comunista che controllava le Apuane ... La notte a piedi, passammo [Don Paolino e "Memo"] il monte Altissimo, poi da solo giù fino a Firenze, dove mi prelevò una Cicogna. Atterrai a Ciampino poche ore dopo, accolto da un colonnello italiano e da un maggiore dell'Intelligence Service e qui consegnai il plico». [4]

Se così fosse, non si vede a quale titolo un ordinario passaggio del fronte possa configurare una "impossibile mission". Anche perché scavando più a fondo, ci si rende conto che la "impossible mission" era stata in realtà molto più facile di quanto si possa immaginare.

Scoprendo una parte finora oscurata concernente una relazione interna compilata nel luglio 1945 da Don Paolino, si apprende che:

«… il 18 febbraio 1945, su proposta di Nemo [capitano Emilio Elia] dietro dispaccio dello SMRE [Stato Maggiore Regio Esercito] fui invitato in missione a Roma, unitamente ad Alpino [Riccardo De Hagg] per riferire verbalmente ai superiori comandi su alcuni problemi e portare documenti particolarmente riservati. Il generale Cadorna ci incaricò personalmente di riferire sui problemi inerenti il funzionamento del Comando generale CVL (…) Passammo il fronte attraverso l'Altissimo la notte del 22 febbraio, giungendo a Roma il giorno 25 con un aereo inviato a prelevarci a Firenze». [5]

Il puzzle comincia poco a poco a prendere forma sapendo che oltre a Don Paolino, alla missione partecipò anche il suo ex braccio destro a Parma, Riccardo De Hagg (Alpino) trasferitosi in seguito a Milano in veste di vice del Cap. Elia, capo missione "Nemo", che lo inserì all'interno del Comando piazza del CLN milanese. [6]

Di più: dalla dichiarazione rilasciata da Elia a favore del giudice istruttore del Tribunale Speciale, Ten. Col. della G.N.R. Vincenzo Cersosimo, emerge che in occasione del viaggio a Roma di Don Paolino e De Hagg, il Cersosimo procurò loro dei lasciapassare intestati al Tribunale Speciale mentre i documenti riservati da portare a Roma furono celati in busta sigillata dal timbro del Tribunale Speciale. [7]

Messe così le cose, era possibile che due presunti inviati del Tribunale Speciale viaggiassero a piedi o in bicicletta? Certo che no. Alla bisogna provvide il solerte Nadotti fornendoli di una vettura prelevata direttamente dall'autoparco del PFR del quale era da poco diventato responsabile. [8]

Alla faccia di biciclette e passaggi su camion di bersaglieri! I due compari viaggiarono da Milano a Massa su auto del partito, muniti di lasciapassare del Tribunale Speciale con documenti partigiani celati sotto sigillo del Tribunale stesso. Arrivo a Massa, passaggio delle linee con un'esperta guida partigiana del luogo e, infine, viaggio aereo fino a destinazione.

Non è esagerato affermare che più di una "impossible mission", si trattò di un comodo viaggio blindato da non comuni precauzioni.

In effetti, la definizione "impossible mission" non era tanto riferita al viaggio, quanto al contenuto delle notizie di cui Don Paolino era latore e, in parte, attore. Infatti, la motivazione delle medaglie d'argento al V.M. assegnate a Don Paolino e De Hagg, impostata sul fatto che la loro attività aveva salvato migliaia di vite umane, non può riferirsi che all'anticipata capitolazione delle truppe tedesche.

Che macchinazioni "Nemo" abbiano inciso nei confronti della resa incondizionata sul fronte italiano di ampi vertici politico-militari dell'Asse, lo dimostra il fatto che a fine conflitto era stata coniata una medaglia ricordo per i membri "Nemo" avente per soggetto la resa dei tedeschi in Italia.

Rimane da spiegare l'apparente sfasamento fra la scansione temporale dei fatti che ufficialmente portarono alla capitolazione tedesca e la missione a Roma di Don Paolino e De Hagg.

Stando al rapporto stilato da Don Paolino nel luglio del '45, egli fu incaricato in data 18 febbraio '45 dal Cap. Elia di compiere la missione a Roma dove approdò con De Hagg il 25, dopo aver varcato le linee il 22.

Assumendo il 18 febbraio come punto di riferimento temporale circa l'inizio del processo di capitolazione tedesca in Italia, sfumerebbero alcuni capisaldi storiografici.

Finora risultava che a quella data le trattative avviate tra Wolff e Schuster, con la mediazione di agenti "Nemo" attivi su indicazione di A. Dulles fin dall'ottobre del '44 [9], erano ferme all'ipotesi della ritirata tedesca dall'Italia da concertarsi con il CLNAI.

Conforme in tal senso la testimonianza dell'esponente partigiano Primo Savani, indotto da membri "Nemo", d'accordo con l'S.D. di Parma, a prendere contatto con ambienti comunisti vicini al CLNAI o al CLN milanese al fine di agevolare la trattativa [10].

A detta del Savani, egli s'incontrò nella notte fra il 24 e 25 febbraio con un sedicente com. Costa di Bologna [11]. che, dopo essersi detto intermediario di Wolff, lo avrebbe informato che: «Verso la metà di marzo avrà luogo il ritiro delle truppe tedesche oltre il Po; successivamente i tedeschi si ritireranno oltre le Alpi. Se i partigiani attaccheranno i tedeschi durante la ritirata, le città dell'Emilia saranno rase al suolo. Se i partigiani non attaccheranno non avrà luogo nessuna distruzione, ed i partigiani potranno continuare le loro azioni contro la brigata nera e le forze italiane della repubblica di Salò senza alcun intervento da parte dei tedeschi. Il comando tedesco rimarrà in attesa di una risposta sino al 2 marzo». [12]

Savani accettò, più o meno costretto, a farsi parte attiva nella trattativa recandosi il 28 febbraio a Milano dove s'incontrò prioritariamente con Mons. Bicchierai il quale lo mise presumibilmente in contatto con quegli esponenti del CLNAI o vicini al CLNAI, che da un po' di tempo avevano fissato la loro base operativa all'interno dell'istituto salesiano "S. Ambrogio". L'incontro con i compagni sarebbe poi avvenuto presso l'abitazione dell'ing. Giambelli nella notte fra l'1 e il 2 marzo, senza pervenire ad alcuna conclusione: «Dopo un concitato e breve scambio d'idee, ci venne suggerito di rispondere al comm. Costa in modo evasivo, e cioè che non eravamo riusciti a rintracciare nessun dirigente del movimento partigiano». [13]

Dando retta a Savani, in febbraio Don Paolino non solo non avrebbe avuto nulla da riferire sulle intenzioni di resa dei tedeschi, ma neppure rispetto al precedente progetto di ritirata che, infatti, secondo Savani si sarebbe negativamente concluso all'inizio di marzo quando cioè Don Paolino e De Hagg erano a Roma da almeno una settimana. Non da oggi ma più di vent'anni fa -cioè prima ancora che venisse fuori l'affaire "Nemo"- abbiamo espresso non poche riserve sul racconto di Savani sostenendo che, a nostro parere, era da retrodatare di circa un mese [14].

Dagli atti del processo alla Corte d'Assise Straordinaria nei confronti del federale repubblicano di Parma, Angelo Rognoni, risulta, infatti, che Savani era stato "arrestato" dalla S.D. tra fine gennaio e inizio febbraio. Poiché Savani simulava all'epoca posizioni umanitarie e conciliatorie rispetto alla guerra civile in corso, le autorità repubblicane di Parma chiesero a Mussolini d'intervenire presso i tedeschi a favore di Savani. Il Comando S.D. di Parma replicò che lungi dall'essere prigioniero, Savani si trovava in quel momento ospite del locale comandante della SD Otto Alberti.

Saremmo quindi di fronte a un calibrato cambio di date operato da Savani per coprire quel suo ambiguo "soggiorno" presso la SD; "soggiorno" del resto confermato da un documento interno al PCI datato 6 febbraio, che farebbe risalirebbe all'incirca a quel periodo l'accordo Savani-S.D. [15]

Per i suoi rapporti con la S.D. di Parma e Milano [16], Savani fu messo sotto inchiesta dagli stessi suoi compagni che precauzionalmente lo destituirono dalle funzioni di commissario politico del Comando Unico. A suo favore si espresse il Comando nord Emilia e la locale missione alleata influendo sugli esponenti di partito che il 20 aprile affrontarono la spinosa "questione Savani" e che finirono per reintegrarlo nel grado [17].

Resta comunque assodato che fin dalla prima metà di febbraio alti comandi tedeschi in Italia erano passati dal piano A (ritiro) a quello B (capitolazione) come attestato da Allen Dulles: «… a metà febbraio giunse in Svizzera un funzionario dell'ambasciata tedesca in Italia. A un nostro informatore questo funzionario dichiarò che Kesserling era pronto ad arrendersi se gli alleati offrivano condizioni accettabili». [18]

L'adesione di Kesserling alla capitolazione seppure negoziata, era condizione indispensabile al progetto cospirativo in atto poiché, quale comandante in capo del fronte sud-est, il suo comando si estendeva su una fascia profonda trenta chilometri a ridosso dell'intero fronte dopo di cui iniziava, nella restante parte, la giurisdizione politico-militare di Wolff su SS, SD e WH.

Pertanto solo l'intesa Wolff-Kesserling poteva cagionare l'effettiva capitolazione tedesca o il ritiro più o meno concordato delle truppe dall'Italia.

Quest'ultimo progetto era stato illustrato a Dulles da Mons. Bicchierai in un loro incontro a Berna del novembre '44 [19], ma l'iniziativa era stata in seguito disapprovata dai comandi militari alleati allarmati dal ventilato rientro in Germania delle 27 divisioni dislocate in Italia, fra le quali unità particolarmente agguerrite come la divisione corazzata SS Reichfuerer o la divisione paracadutisti "Hermann Goering". Ai fini degli alleati, sovietici compresi, il fronte italiano ritenuto ormai secondario, doveva innanzitutto mantenere occupate queste ingenti forze al di fuori del Reich C'è inoltre da tener presente che dall'inverno del '45 le armate alleate del fronte italiano erano diventate numericamente inferiori poiché all'inizio dell'anno sette divisioni alleate -tre americane e quattro francesi- erano state inviate sul versante mediterraneo francese lasciando in campo solo 17 divisioni utili per un totale di 500 mila uomini, a fronte di 31 divisioni -27 tedesche e 4 italiane- con una disponibilità non inferiore a un milione di mobilitati vari. L'accennata impossible mission si riferiva al progetto d'indurre alla resa in mano a forze sostanzialmente esigue, arma aerea a parte, un esercito superiore dal punto di vista numerico.

Se Kesserling era disposto a considerare la resa fin dalla prima metà del febbraio '45, significa che i fautori del piano "B", che facevano capo a Wolff e Dollmann, l'avevano senz'altro preceduto nella determinazione ed è perciò plausibile indicare nella data del 18 febbraio l'avvio, almeno nelle intenzioni, del processo di capitolazione cui non era stata estranea la pressione esercitata da affiliati "Nemo" i quali ne avrebbero poi informata Roma. Oltre alla notizia di ciò che stava maturando oltre la linea gotica, c'era anche il ruolo giocato da "Nemo" nella vicenda poiché non si giustificherebbero diversamente le motivazioni per le decorazioni sul campo assegnate dal Luogotenente Umberto a Don Paolino e De Hagg. Riconoscimento non tanto ad personam ma all'operato di gruppo con evidente riferimento alla rete emiliana per aveva irretito Dollmann (Don Paolino-Testa) e milanese (Elia-De Hagg) per l'influenza diretta o indiretta esercitata su Rauff e Wolff.

È per altro noto un documento che fa risalire al 22 febbraio, i primi atti capitolatori e di parte tedesca. Trattasi della delega o procura rilasciata da Wolff al Col. Walter Rauff, ispettore generale SS per la Lombardia, Veneto e Liguria, intesa a riattivare rapporti a suo nome con l'Arcivescovo di Milano; delega intestata al Col. Rauff e inoltrata in copia per conoscenza a Bicchierai: «... vi incarico a mio nome di accogliere, per quanto riguarda il complesso di competenza alla mia sfera di comando, tutti gli eventuali desideri che il Card. Schuster intenderebbe esporre ai Comandi Germanici. Le eventuali possibilità di trattative rispettivamente ai colloqui politici che ne deriverebbero, vi prego di riferirli direttamente a me». [20]

In quelle stesse ore un pittoresco personaggio, il barone Luigi Parrilli, varcava a Ponte Chiasso la frontiera con intento personale di far accordare tedeschi e alleati sulla fine delle ostilità in Italia. A suo dire [20] tutto sarebbe scaturito da sua iniziativa personale del tutto avulsa da ogni riferimento all'una o all'altra parte -Curia compresa- potendo egli contare unicamente sul sostegno amicale del tenente del controspionaggio tedesco in Italia, Guido Zimmer, e l'appoggio del pedagogo svizzero Max Husmann. Partendo da queste due fragili sponde, il Parrilli raggiunse in un paio di settimane l'obiettivo prefissato; una chiara messinsena d'aggiungere alle tante altre sull'argomento. La prima evidente anomalia è che, pretendendo di bloccare il conflitto in Italia -dove il comando operativo alleato era stato assegnato agli inglesi nella persona di Alexander- il barone non solo avrebbe snobbato in partenza il S.I.S. britannico, ma anche l'OSS ufficiosamente rappresentato in Svizzera dal vice console Jones Donald, per rivolgersi direttamente al "privato cittadino statunitense", Allen Dulles.

Di fatto, Allen Dulles non ricopriva almeno ufficialmente cariche politico-militari, tanto meno nei ranghi dell'OSS o altro servizio d'informazione. Dulles era, però in costante e diretto rapporto con la Casa Bianca senza altri filtri o strutture gerarchiche intermedie. Il suo rapporto diretto con l'establishment presidenziale americano era di tipo prettamente fiduciario per cui egli si trovava formalmente nello status di privato cittadino statunitense soggiornante in Svizzera. All'infuori dei servizi informativi svizzeri e delle varie parti in lotta -Curia compresa- in Italia ben pochi conoscevano l'esistenza e il ruolo di Dulles e, quei pochi, si contavano in una mano con l'avanzo di più di un dito.

Ancor meno di costoro, erano i cittadini italiani autorizzati a varcare a piacimento in entrata e uscita il confine svizzero e il nostro barone era una di queste più che rare eccezioni essendo regolarmente fornito di un valido passaporto accompagnato da speciali autorizzazioni rilasciate dalle autorità italiane, germaniche e svizzere. Documenti che, a dargli credito, avrebbe ottenuto in virtù di sue personali aderenze in Italia e Svizzera. Perfino l'umanamente impossibile da ottenere dai tedeschi, "foglio di passaggio" (Grenzuebertrittschein) glielo avrebbe procurato la complice amicizia di Zimmer.

Documenti venuti recentemente in luce attestano ben altro:

(Luigi Parrilli) dal 1943 al 1945 [era] legato a doppio filo a Guido Zimmer e ad altri esponenti dei servizi come Kappler, Engel e Rauff. Agendo su incarico della SD, Parrilli fu artefice dei contatti con i servizi alleati in Svizzera, dai quali prese avvio l'operazione "Sunrise". [22]

Parrilli, era peraltro già attivo nella fase A e lo attesta il fatto di aver richiesto i documenti necessari per la Svizzera prima ancora che si fosse concretizzata la scelta capitolatoria. È nostro parere che il barone sia stato in un primo tempo incaricato di rimediare al fallimentare tentativo del novembre-dicembre '44 del capo della S.D. in Italia, generale Harster di giungere all'accordo di ripiegamento, facendo sondare in merito i servizi britannici dislocati in Svizzera dal presidente della Snia-Viscosa, Franco Marinotti, il quale ricevette un netto rifiuto da parte inglese. Trovando chiusa la porta britannica, i congiurati tedeschi avrebbero giocato la carta americana sperando di arrivare direttamente a Roosevelt tramite Dulles per mezzo di Parrilli. Forse non è un caso che il passaporto per la Svizzera rilasciato a Parrilli sia stato concesso su interessamento e personali garanzie del prefetto di Pavia [23] -città sede dello storico stabilimento "Viscosa"- con l'indicativa giustifica che il barone doveva trattare in Svizzera affari urgenti nell'interesse dell'economia nazionale. Come a Savani è toccato l'estremo tentativo di concordare il ritiro tedesco con la recalcitrante componente comunista del CLNAI, così il barone Parrilli avrebbe dovuto persuadere gli americani, attraverso Dulles, a riconsiderare l'offerta tedesca di risparmiare le infrastrutture strategiche dell'Italia settentrionale nella loro eventuale ritirata.
Quando Savani fallì la mediazione riportando l'elusiva risposta del CLNAI, i tedeschi passarono automaticamente al piano B, da cui le nuove disposizioni impartite a Parrilli.

Ma chi era questo Parrilli? Ultimo rampollo di nobile schiatta borbonico-partenopea residente all'epoca in Liguria, il barone Parrilli oltre che noto affarista internazionale, era cameriere pontificio di Cappa e Spada e cavaliere dell'Ordine di Malta. Già devotissimo al regime fascista, badogliano dal 25 luglio, clerico-monarchico e timoroso anticomunista all'indomani dell'8 settembre e infine del tutto sfuggente nei confronti del nuovo governo social-repubblicano, Parrilli assommava in sé il quid ontologico, indipendentemente da una sua effettiva inclusione o meno, del prototipo "Nemo".

A Genova il barone comincia intrecciando ambigui rapporti con Zimmer che dal 1943 dirigeva il locale controspionaggio prima di passare a Milano, sempre agli ordini di Rauff, dove anche Parrilli lo seguirà. Zimmer condivideva con i suoi superiori il disegno di Himmler [24] di giungere a un armistizio separato con gli angloamericani nell'illusione di poter con essi combattere l'ultima fase bellica contro l'Unione Sovietica. A margine di questo progetto, gli himmleriani in Italia volevano testare l'apertura alla componente resistenziale anticomunista nella speranza di poter esportare tale convergenza su altri e diversi fronti politici e militari.

In tale prospettiva, Zimmer mirava a infiltrare ad alto livello il movimento partigiano in analogia alla collaudata prassi "Nemo". Ed è a questo proposito che «… si parla di accordi presi con un agente denominato "Otto" allo scopo d'istaurare una collaborazione fra Zimmer e un non meglio specificato "Comitato", ma che dal contesto generale del documento dovrebbe trattarsi di un CLN, forse del CLNAI. L'obiettivo di questo contatto era d'instaurare con le forze moderate cooperazione nel campo delle attività anticomuniste. L'OSS indagando nel dopoguerra, sospettava che l'agente "Otto" fosse in realtà un comandante partigiano del piacentino, il quale secondo quanto emerso dai successivi accertamenti, sarebbe stato ospitato da Zimmer a Milano per alcuni giorni nell'ottobre-novembre 1944. [25]

Caso vuole che l'unico esponente partigiano denominato "Otto" operante in zona -dopo l'arresto e successiva deportazione nel marzo 1944 del capo dell'organizzazione genovese "Otto", il comunista Ottorino Baldazzi- era il Capo di S.M. del Comando Unico Est Cisa, l'ex ufficiale del R.E. Ottavio "Otto" Luna.

Caso amplificato dal fatto che comandante del C.U. Est Cisa era quel tal Col. "Gloria", evaso dalle carceri di Parma grazie a Don Paolino allo scopo d'essere poi nominato a capo del C.U. della provincia di Parma su indicazione del Cap. Elia. A quadratura del "caso", il commissario politico del C.U. Est Cisa era Primo Savani ("Mauri") essendo, in effetti, quel C.U. rispettivamente agli ordini di "Gloria", "Mauri" e "Otto".

Che poi "Otto" sia stato anche lui insignito di medaglia d'argento al V.M., sia pure in assenza di particolari meriti partigiani, lo assimila ad altri pari decorati dei quali si è già trattato [26].

Sempre a proposito del partigiano "Otto" risulta che: «… verso la fine di febbraio 1945 era previsto un incontro tra Zimmer, "Otto" e un membro del "comitato" al quale era stato garantito un salvacondotto».

Mantenendoci sempre nel campo delle casualità, registriamo che dalle memorie di Savani risulta come egli sia venuto in possesso di un salvacondotto rilasciatogli dalla S.D. di Parma per l'andata e ritorno da Milano, con scadenza alle ore 24 dell'1 marzo [27]. Stando al Savani, il viaggio era correlato all'affaire della ritirata tedesca per quanto sia ormai palese, e maggiormente lo sarà in seguito, che a fine febbraio-inizio marzo, tale iniziativa era stata superata da nuovi obiettivi.

Risulta inoltre, che a seguito del "soggiorno" di Savani presso la S.D. tra fine gennaio e inizio febbraio -periodo in cui avrebbe avuto luogo la sua effettiva missione a Milano presso i compagni del PCI- il rapporto di Savani con la S.D. sia proseguito con un successivo accordo per lo scambio di prigionieri conclusosi il 15 febbraio. In quel periodo trovandosi a Parma con il coprifuoco notturno, Savani chiese e ottenne ospitalità per la notte presso la caserma della Brigata Nera rinnovando di nuovo la sua richiesta alcune sere dopo. [28]

Non è perciò da escludere che Savani abbia prolungato quei suoi tortuosi rapporti per l'intero mese di febbraio, imbarcandosi in un secondo viaggio a Milano da dove sarebbe stato poi fatto proseguire fino al comando di Wolff a Fasano sul Garda (v. ns. nota n. 16) salvo poi sovrapporre i due episodi pro domo sua.

Comando Unico a parte, tra l'ottobre e novembre 1944 affiliati "Nemo" avevano scalato posizioni strategiche all'interno del comando Piazza del CLN di Parma, quando Max Casaburi era andato a sostituire l'ex comandante Piazza, il comunista Gino Menconi ucciso dai tedeschi e Tommaso Mori Checcucci era passato a capo di S.M. dello stesso comando Piazza, mentre Don Paolino restava a dirigere e controllare il servizio informazioni partigiano (Sip) della provincia. Contemporaneamente a Milano De Hagg si assicurava la carica di vice comandante Piazza del CLN e, a seguire, Luigi Podestà andava a coordinare a Trieste il CLN locale per delega speciale rilasciatagli dal CLNAI. Sempre al novembre '44 risale la missione effettuata a Roma da Don Guido Anelli per informare il Vaticano circa le ampie infiltrazioni anticomuniste in atto all'interno del movimento partigiano del Nord che, non rappresentando più un temuto pericolo rivoluzionario, poteva essere da quel momento appoggiato dalle varie autorità religiose a partire dalla Segreteria di Stato vaticana come, in effetti, avvenne. [29]

Tutto ciò premesso, è plausibile che il fervente cattolico Zimmer del controspionaggio tedesco ignorasse completamente i fatti, dopo che nell'ottobre 1944 gli agenti "Nemo" Ghisetti e Testa avevano favorevolmente "agganciato" i suoi superiori Dollmann e Wolff?

Sospetti e illazioni a parte, passiamo alle varie tappe che portarono alla resa tedesca.

Il 21 febbraio, Parrilli varca la frontiera svizzera a Chiasso con tutte le carte in regola. Qualche giorno dopo, il 25 febbraio, il barone ha un primo approccio preliminare con l'incaricato di Dulles, Gero von Gaevernitz. Giusto per rimanere in argomento, Gaevernitz era da qualche tempo incaricato «… di organizzare un piano che portasse alla resa tedesca in occidente». [30] L'approccio servì a fissare l'incontro diretto fra delegati tedeschi e americani; incontro che si svolse il 3 marzo a Lugano fra Dollmann, Zimmer e il capo della sezione svizzera dell'OSS, Paul C. Blum i quali convennero per l'8 marzo successivo l'incontro decisivo a Zurigo fra Wolff e Dulles. A questo vertice furono presenti tra gli altri, oltre a Wolff e il suo ufficiale d'ordinanza, Dollmann e Zimmer che avevano portato con loro due importanti prigionieri, Parri e Usmiani, i quali dovevano essere liberati in Svizzera come segno di buona volontà preteso dalla controparte statunitense. Si approdò, infatti, senza grandi intoppi all'intesa sulla resa [31] articolata in quattro punti:

- Abbandono del piano di sabotaggio delle infrastrutture strategiche;

- garanzie circa vita di tutti i prigionieri detenuti dai tedeschi in Italia;

- rinuncia a ogni attacco alle forze partigiane, salvo difendersi se apertamente attaccati;

- resa sul fronte italiano indipendentemente dalle direttive di Berlino.

A questo punto rimaneva da coinvolgere nell'accordo Kesserling, dopo di che il fronte tedesco in Italia avrebbe presumibilmente ceduto le armi entro il mese di marzo. Kesserling rappresentava tuttavia un'incognita giacché egli non si opponeva alla resa purchè fosse almeno negoziata e difficilmente si sarebbe accontentato dell'unica concessione spuntata da Wolff ovvero l'assicurazione ai vari partecipanti di non essere in seguito perseguiti per "crimini di guerra". In ogni caso, non si ebbe neppure il tempo di contattarlo, che Kesserling il 9 marzo era volato a Berlino, dov'era stato urgentemente convocato per essere immediatamente trasferito a dirigere il fronte renano mentre in Italia il comando Wehrmacht passava interinalmente al capo di S.M. generale Roettinger. Senza un comandante designato a dirigere il fronte Sud con cui accordarsi, sfumava il piano di giungere celermente alla resa. Solo alla metà del mese il generale von Vietinghoff fu ufficialmente designato a sostituire Kesserling. Senza perdere altro tempo occorreva assorbirlo in qualche modo nella sedizione.

Conoscendo l'ascendente esercitato da Kesserling su Vietinghoff, Wolff pensò bene di recarsi sul fronte renano per strappare a Kesserling l'autorizzazione ad "agganciare" Vietinghoff a suo nome, sorvolando sul particolare che la trattativa era ormai tutta incentrata sulla resa incondizionata. Kesserling puntava, infatti, a una via di mezzo fra ritirata e resa che, alla peggio, permettesse l'ordinato rientro in Germania delle truppe stanziate in Italia, dopo il loro eventuale disarmo.

Riferendo sulle trattative in tono falsamente ottimista, Wolff riuscì a ottenere di massima l'adesione di Kesserling che però rifiutò l'altra proposta di Wolff di abbinare la capitolazione del fronte italiano a quello renano, investito in quei giorni da una pressante offensiva alleata. Grazie all'apertura di Kessereling, anche Vietinghoff si fece convincere a prendere in esame la resa sempre che non fosse eccessivamente lesiva dell'onore suo e dell'esercito tedesco. Non solo Vietinghoff era d'accordo con Kesserling di far rientrare nel Reich gli uomini passati al suo comando, ma pretendeva anche che il ritorno in patria della truppa si realizzasse con koppel und seitengewehr ossia, con cinturone e baionetta. D'altro canto, anche Dulles si stava mostrando sempre più seccato da tali complicazioni ed esprimeva ormai apertamente il dubbio che si trattasse in realtà di una commedia al solo scopo di guadagnare tempo. Ciò costrinse Wolff a farsi sempre più pressante nei confronti di Vietinghoff col quale alternava blandizie a minacce d'incriminazione per "crimini di guerra" qualora non si fosse indotto a porvi fine. Nel momento in cui sembrava aver ceduto alle pressioni dei congiurati, tanto che Parrilli e Zimmer erano stati inviati in Svizzera per chiedere a Dulles copia dell'atto di capitolazione, [32] Vieinghoff ritornò improvvisamente sui suoi passi.

La ragione è stata poi esposta da Dulles nel riferire che Vietinghoff avvisò Wolff che un maggiore inglese, il cui nome gli era rimasto ignoto, si era presentato al servizio segreto del Corpo d'Armata "Liguria" «… indossando abiti civili, il quale dichiarava di essere stato mandato dal gen. Alexander con un messaggio verbale da trasmettere al servizio segreto del C.d.A. ligure perché lo mostrasse a Vietinghoff. Il messaggio diceva che Vietinghoff seguiva una strada sbagliata negoziando con rappresentanti americani in Svizzera; doveva invece seguire una "linea inglese" e negoziare direttamente con gli inglesi che, dopo tutto, erano europei e avevano a cuore il futuro dell'Europa, ed erano meglio informati sulla situazione europea (…) Quando Vietinghoff ricevette il messaggio, ne fu sconvolto. Lo turbava profondamente il fatto che i contatti suoi e di Wolff con agenti americani non fossero più un segreto e incominciava a temere per la sua vita. [33]
 
Quest'altra complicazione minacciava di mandare all'aria l'intera trattativa che per Wolff era ormai giunta a un punto di non ritorno [34]. Già il suo comando si era messo in contatto diretto, oltre che con Berna, con il Q.G. alleato di Caserta tramite il marconista cecoslovacco "Walter" per alcuni, "Wally" per altri, che Dulles gli aveva inviato per impiantare un ponte radio fra congiurati tedeschi e alleati. Trasmittente e operatore erano dislocati nell'ufficio di Zimmer presso il comando SS di Milano in Via Cimarosa 22. Quando Mussolini decise il suo rientro a Milano, dall'ufficio di Zimmer fu subito allertata Caserta a cui furono fornite le coordinate della Prefettura, residenza del Duce, e l'invito a bombardare il palazzo per eliminare Mussolini e i suoi ministri. Il messaggio terminava con la pressante raccomandazione: Per favore, mirate giusto. [35]

Come avrebbe riferito in seguito Dollmann: Mussolini era diventato maledettamente scomodo per tutti noialtri. [36]

Fra l'altro c'era stato un altro tentativo di eliminare Mussolini quando, nel febbraio precedente, si stava recando in visita ai reparti combattenti sul fronte della Lunigiana. Scrive in proposito l'esponente partigiano cattolico del parmense, Giuseppe Molinari: «Il 2 febbraio ebbi l'ordine dal CLN di Milano di portarmi al Passo della Cisa, perché quella sera doveva passare Mussolini per andare a dormire a Pontremoli, e invece, non passò perché quel 2 febbraio era impossibile viaggiare per il vetroghiaccio. Ci siamo portati al Passo della Cisa con tre distaccamenti coll'ordine di catturare Mussolini, ma purtroppo le macchine non potevano marciare su una strada sulla quale, per il vetroghiaccio, si stentava anche a stare in piedi. E così quell'occasione d'oro sfumò». [37]

Fa pensare (male) il fatto che una tanto importante e storica missione, sempre che fosse riuscita, sia stata assegnata a una formazione democristiana che dipendeva, per il solito "caso", dal C.U. Est Cisa dove "Nemo" era di casa. In definitiva poco importa stabilire chi fosse la gola profonda che diede la nota riservata del tragitto di Mussolini. Sia stata italiana (Nadotti e C.) o tedesca (Zimmer e C.) ciò non cambia i termini della questione che vede regolarmente la rete "Nemo" far capolino nelle maggiori cospirazioni del tempo. Certo che se il colpaccio fosse riuscito, a passare alla storia anziché "Pedro" sarebbe stato "Gloria" pur con l'imbarazzante neo del suo arresto in flagrante reato di pedofilia all'indomani della così detta "liberazione" di Parma.

Chiuso l'inciso fantastorico, il 9 aprile era iniziata l'offensiva alleata contro la linea gotica con mediocri risultati per tutte le due prime settimane fino al 22 aprile quando Vietinghoff sospese l'ordine di resistere ad oltranza impartito direttamente dal Fuhrer [38]. L'ambigua disposizione -non pace e non guerra- era connessa alla decisione di Vietinghoff di dare carta bianca a Wolff per la resa delegando a firmare in sua vece il Col. Schweinitz. L'immediato effetto sul fronte fino allora tenuto dai tedeschi fu devastante e, per certi versi, non molto dissimile dall'8 settembre badogliano, specie per le truppe di prima linea cui era stato ordinato di sospendere le ostilità costringendole, di fatto, a ripiegare in rotta disordinata mentre gli alleati non cessavano d'incalzare da cielo e terra il caotico ripiegamento. Come tutti gli eserciti in rotta abbandonati a se stessi, i soldati dell'Asse che non erano solo tedeschi ma delle più svariate nazionalità, italiani compresi, subirono in quei giorni incalcolabili e tuttora incalcolate perdite, grazie anche all'azione convergente delle forze partigiane sulla vasta retrovia determinando, fra l'altro, non poche isteriche rappresaglie contro la popolazione civile trovatasi improvvisamente frammista agli insorti dell'ultima ora.

Intanto Wolff aveva fatto trasferire il suo comando da Fasano a Bolzano anche per intralciare l'eventuale possibilità di una resistenza tedesca concentrata in quel ridotto alpino mentre Dollmann, da parte sua, aveva raggiunto Kesserling per indurlo vanamente alla contemporanea resa del suo fronte con quello italiano, la cui firma era prevista per il 23 aprile. Sennonché in Svizzera, Dulles si rifiutava di ricevere i delegati tedeschi con il motivo d'impreviste complicazioni diplomatiche con l'URSS. Dulles sosterrà in seguito che l'opposizione sovietica era finalizzata a prolungare la guerra in Italia per dar modo a Tito, o alle truppe sovietiche provenienti dall'Ungheria, di conquistare Trieste e anche oltre [39]. Non si vede tuttavia come oggettivamente si potesse rifiutare o negare una resa incondizionata se non obbligando i tedeschi a combattere o no a bacchetta d'orchestra.

In tutti i casi, a parte sporadiche sacche di resistenza di pura autodifesa, i tedeschi erano ormai in preda alla sindrome ottosettembrina del si salvi chi può. Pur considerando plausibile una qual certa opposizione sovietica a una resa derivata da un accordo segreto e diretto con gerarchie S.S. non per questo, gli angloamericani dovevano o potevano annullarla a loro piacimento. A noi pare invece che da come si stavano svolgendo le cose, gli angloamericani non intendevano rinunciare alla grande avanzata in stile cinematografico delle loro truppe, vista anche la polvere che erano stati costretti a mordere per lunghi mesi sul teatro di guerra italiano. Tanto è vero che una volta dilagati gratuitamente nella Val Padana e dopo la cattura e relativo assassinio di Mussolini, il 29 aprile si degnarono di accettare la resa tedesca pur rendendola operativa dal 2 maggio per dare forse la possibilità a Tito di occupare l'intera Dalmazia. Rimane d'aggiungere che a Berlino, una volta resisi conto del tradimento di Wolff e Vietinghoff, il 28 aprile Hitler nominò Kesserling responsabile di tutti gli eserciti operanti a sud di Berlino, compreso ciò che restava del fronte italiano. Appena ricevuto l'oneroso incarico, Kesserling diramò l'ordine di esonero di Vietinghoff e Roettinger – Wolff in quanto SS era fuori dalla sua competenza – dai rispettivi comandi disponendo inoltre il loro arresto per essere giudicati di tradimento da una corte marziale.

Non sentendosi per niente sicuro, Wolff chiese a Caserta di organizzare un lancio di paracadutisti presso Bolzano a difesa del suo comando; all'incirca la stessa richiesta fatta da Badoglio nel settembre '43.

Scrive a tal proposito Dulles: «l'operazione "Sunrise" aveva raggiunto il culmine quando le SS erano i fautori della resa, mentre i più alti comandi dell'esercito erano schierati dalla parte opposta. Fu a questo punto che Wolff inviò ad Alexander un messaggio col quale chiedeva l'intervento di paracadutisti alleati». [40]

Al commento di Dulles aggiungiamo quello notevolmente più ingenuo del Maresciallo Graziani il quale, anni dopo la fine della guerra, ancora non si era reso ben conto di come siano andate realmente le cose o, almeno, così pare:

Si propone il mio processo, si è processato il Maresciallo Kesserling; si preannunzia il processo al generale Tensfeld, che fu il principale luogotenente del generale Wolff. Ma dov'è il generale Karl Wolff che fu il "deus ex machina" della lotta antipartigiana. Perché si tace di lui?... È facile rendersene conto leggendo il libro del Cardinale Schuster alle pagg. 140-141: «22 aprile - ore 12,15 - Si da mandato a Don Corbella di dire che qualora il gen. Wolff faccia tempestivamente cessare la guerra, verrà senz'altro discriminato e se nel caso anche aiutato a partire per la Spagna. Questa assicurazione viene data da Santi (Marazza) per parte del CLN e da un rappresentante degli alleati».

A commento di questo solo singolo fatto, Graziani così si espresse: «L'inganno e il tradimento non sono stati dunque soltanto prerogativa italiana. Mentre il 25 aprile noi rifiutavamo di concludere una resa senza averne prima informati, voi ci avete già tradito mettendoci, alla sprovvista, di fronte a tanta tragedia. Il vostro tradimento (come avrebbe quel giorno voluto gridare alla radio Mussolini, da me impeditone per estrema carità di Patria) rivendica di fronte alla storia l'8 settembre '43, mentre testimonia la nostra rinnovata lealtà fino all'ultimo. Non avete più diritto di tacciare di traditori gli italiani». [41]

Chissà cosa avrebbe avuto d'aggiungere Graziani, apprendendo tutti gli altri particolari che abbiamo fin qui illustrato.

 

NOTE Parte Sesta 

[1] R. Rastelli Morto a Roma Padre Paolino il prete-scout in "Gazzetta di Parma" del 2 gennaio 2009.

[2] G. Torelli Un secolo per gli altri e per il cielo in "Gazzetta di Parma" del 30 gennaio 2009.

[3] M. Montan Padre Paolino, predicatore 007 in "Gazzetta di Parma" del 16 marzo 1997 id. M. Montan "La città a parole" 1997, pp 67-72.

[4] Ibid. pag. 70.

[5] Relazione sul nucleo di Parma della Missione Nemo in data 22 luglio 1945 in F. Gnecchi Ruscone "Missione < Nemo>" pp, 163-164.

[6] Cfr. Nemo Mission: presenza occulta (prima parte) in "Historica" n. 22 gennaio-marzo 2012, pag. 12.

[7] Cfr. Dichiarazione di Emilio Elia sul tenente colonnello della GNR Vincenzo Cersosimo datata agosto 1945, in F. Gnecchi Ruscone Op. cit. pag. 226.

[8] Cfr. F. Gnecchi Ruscone Introduzione all'op. cit. pag. 25.

[9] Ibid. pag. 29. Si veda inoltre U. Pellini Giuseppe Cancarini Ghisetti. Il partigiano combattente dei servizi segreti

in "Ricerche Storiche" n. 105 aprile 2008 (R.E.).

[10] Dallo svolgimento delle conversazioni [fra Curia e CLN] si è avuta l'impressione che al progetto dell'Autorità Ecclesiastica siano favorevoli i liberali, i democristiani e i socialisti; contrario, ma non irriducibilmente il P.d.A. avverso in modo reciso il solo partito comunista (Documento curiale riportato da F. Lanfranchi in La resa degli ottocentomila 1948, pag. 26).

[11] Già in altra occasione avevamo ipotizzato che dietro alla fantomatica figura del commendatore bolognese, si celasse il modenese Ghisetti oppure il suo concittadino Testa che, per la loro parlata locale, erano effettivamente scambiabili per bolognesi.

[12] P. Savani Antifascismo e guerra di liberazione a Parma 1972, pag. 220.

[13] Ibid. pag. 224.

[14] Cfr. capitolo Il caso Mauri in "Parma nella Repubblica Sociale", 1989 - pp. 223-232.

[15] Alla nota allarmata della Federazione del PCI circa l'arresto di Savani, replicò un esponente partigiano legato allo stesso Savani, informando la Federazione che Il compagno Mauri [Primo Savani] non è stato catturato e si trova a Parma per trattative (Istoreco - OD OP 53 n. 64).

[16] Oltre a contatti con le gerarchie S.S. di Parma e Milano, fonti dichiaratamente vicine al S.I.S. britannico aggiungono alle varie tappe effettuate da Savani-"Mauri", anche una sua puntata a Salò…Ora si trattava di cose grosse, se Mauri doveva recarsi a Salò. Ma chi è coinvolto in cose grosse, diventa anche oggetto di maggiore sorveglianza. E se le cose vanno male? Paga. A. P. Lauritzen Cammina fratello, cammina pag. 263). Qualora l'accenno a Salò fosse fondato, si tratterebbe in ogni caso di un abboccamento di Savani presso il comando di Wolff, dislocato a Fasano del Garda nei pressi di Salò.

[17] Il verbale della riunione è stato inserito da F. Sicuri in Materiale per una storia della Federazione comunista di Parma vol. II, pag. 99, con l'esclusione della discussione concernente il caso Savani (Mauri)….non si pubblica la parte finale del documento dedicato alla discussione sul "caso Mauri" (id. nota n. 48).

[18] A. W. Dulles La resa segreta 1967, pag. 59.

[19] Ibid. pag. 55.

[20] I. Schuster Gli ultimi tempi di un regime 1946, pag. 117. Che il documento in oggetto fosse in rapporto consequenziale con le precedenti trattative, trova conferma nella nota a margine del testo citato, ove si puntualizza che:…dopo che le precedenti trattative del dicembre 1944 non ebbero seguito, il Cardinale di Milano le riprese in proprio nome, delegando il Dr Bicchierai a trattare colle Autorità Militari Germaniche.

[21] Memoriale del Barone Parrilli in F. Lanfranchi Op. cit. pp. 101-268.

[22] NARA - Record Group 226 Box 8 Zimmer's Papers - Doc. cit. da Ferrari-Massignani in Conoscere il nemico. 2010, pag. 477.

[23] Sulla figura del Capo provincia di Pavia è stato recentemente scritto che «… Dante Maria Tuminetti, il prefetto fascista, non è un fanatico, capisce che la fine si avvicina e cerca di allacciare rapporti con il CLN a Milano e con i servizi segreti americani in Svizzera». (R. Lodigiani L'insurrezione, così Pavia tornò libera in "La Provincia Pavese" del 19 aprile 2009).

[24] Nel diario di Guido Zimmer, agente dello spionaggio SS in Italia, ci sono le prove di un capitolo oscuro della seconda guerra mondiale: il tentativo di alcuni aristocratici filo nazi-fascismi di negoziare un armistizio anticipato con gli Alleati per consentire al Reich -depurato di Adolf Hitler e depurato forse anche del partito nazista- di sopravvivere alla sconfitta militare (Agenzia CNN-Italia Ecco i documenti della CIA su ebrei romani e spie SS Documento postato in rete l'1 giugno 2000).

[25] Ferrari-Massignani Op. cit. pag. 490.

[26] Sia Don Paolino Beltrame Quattrocchi che Riccardo De Haag al pari di Ottavio Luna, non appaiono nell'elenco ufficiale ANPI riguardante i 318 partigiani decorati a vario titolo (molto speso alla memoria) con medaglia d'argento al V.M. Ciò sta a significare che le loro decorazioni non si riferivano a impegni resistenziali ma attività e servizi svolti quali regolari appartenenti alle FF.AA. del Regno del Sud.

[27] Cfr. P. Savani Op. cit. pag. 223.

[28] L'episodio è stato poi riportato da Savani in termini del tutto difformi dalla realtà dei fatti (id. pp. 217-218) in seguito rivisti e debitamente corretti da chi scrive in "Parma nella RSI" cit. pag. 230.

[29] Cfr.OSS e Vaticano tra parroci e cardinali in "Historica" n.24 luglio-settembre 2012.

[30] A. W.. Dulles Op. cit. pag. 53.

[31] Stando al memoriale Parrilli, più che alla resa Wolff sarebbe stato intenzionato a trattare solo la pace separata in base alle disposizioni di Himmler. Tuttavia durante il corso del viaggio tra Chiasso e Zurigo, Wolff sarebbe stato convinto dell'opera meritoria di far cessare la guerra in Italia dalle argomentazioni del pedagogo svizzero, amico del Parrilli, prof. Husmann (ivi. pp. 163-167.)

[32] Il Q.G. alleato di Caserta rifiutò di trasmettere copia dell'atto di capitolazione sostenendo che il testo poteva essere mostrato soltanto ai delegati tedeschi al loro arrivo al Q.G.

[33] A.W. Dulles Op. cit. pp. 169-70. - Il "Memoriale Parrilli" pur riferendosi a Dulles quale sua fonte, riporta tutt'altra trama (Cfr. F. Lanfranchi Op. cit. pag. 237). L'anonimo "maggiore inglese" diventa per Parrilli il "Capitano Tooker del Sis" il quale si sarebbe rivolto unicamente al Maresciallo Graziani per comunicargli la proposta di Alexander di voler concordare fra loro una non ben specificata "distensione" (Ibid. pag. 238). Da parte sua Graziani – che stranamente retrodata l'episodio in questione al febbraio-marzo '45, mentre è certo che risale alla prima decade di aprile – nega con fermezza di aver personalmente trattato con il sedicente Cap. Tooker che, in ogni caso, gli avrebbe voluto comunicare l'invito di Alexander a far si che..nel ritirarsi dall'Italia [ i tedeschi ] evitassero di distruggere impianti industriali, opere d'arte e altro (R. Graziani Ho difeso l'Italia 1948 pp. 492-93). Graziani dichiara inoltre di aver disposto la consegna di "Tooker" nelle mani del Col. Haster che lo inoltrò a Wolff il quale a sua volta lo rimandò in Svizzera, da dove era arrivato, con una riposta da consegnare non ad Alexander ma a Dulles in persona. Come ultimo tocco a questo sconcertante quadro, Graziani afferma di aver in seguito appreso dal card. Schuster che si sarebbe trattato addirittura di un "trucco tedesco" per verificare se il Maresciallo "avesse ceduto alla tentazione di un approccio col nemico!" (Ibid. pag. 494).

Calando le tre diverse versioni nell'ambiente storico illustrato, la versione più logica e lineare resta l'ultima versione fornita in ordine di tempo da Dulles.

[34] Riferisce Parrilli che al fine di tranquillizzarlo Wolff gli avrebbe detto: Io so quel che debbo fare. Purché Dulles non perda la pazienza; gli consegnerò l'Italia su un piatto d'argento (F. Lanfranchi cit. pag. 215).

[35] L. Garibaldi, «Aprile '45, da Milano, una radio tedesca chiese: "Bombardate il Duce"», in "Gente" n. 45 del 3 dicembre 1982.

[36] E. Kuby Il tradimento tedesco 1983, pag. 407.

[37] G. Molinari Berceto nel fronte bellico della Cisa in "Per la Val Baganza" fascicolo 1988-89, pag. 103.

[38] Il 14 aprile Vietinghoff aveva chiesto a Berlino l'autorizzazione a ripiegare sulla linea del Po. Il Q.G. rispose: Vostro attuale compito è di difendere ogni pollice dell'Italia settentrionale affidato al vostro comando (A.W.Dulles cit. pag. 176).

[39] Cfr. A.W. Dulles Op. cit. pag. 163.

[40] Ibid. pag. 255.

[41] R. Graziani Op. cit. pp. 469-70.

 

Parte SETTIMA:

TRIESTE E IL REGNO DEL SUD

 

Franco Morini

 

La relazione n. 2 del 27 febbraio 1945, compilata a Roma dagli affiliati alla rete spionistica Nemo, don Paolino Beltrame e Riccardo De Hagg [1], s'incentrava unicamente sulla situazione adriatica con particolare riferimento a Trieste. Come in ogni zona di confine la vera ragione del contendere più ancora che politica era sostanzialmente etnica e, infatti, proprio i contrasti etnici determinarono irreparabili fratture nel blocco resistenziale fra i pro italiani del locale CLN e i panslavisti titini i quali ultimi, grazie anche al sostegno dell'internazionalismo comunista, potevano contare sull'appoggio dei comunisti italiani. La locale lotta armata era per lo più monopolizzata dagli slavo-comunisti legati al IX Corpus titoista anche a causa di una paralizzante indeterminatezza da parte degli esponenti italiani del CLN che fra l'altro accusavano gli slavi di essere spesso volutamente d'ostacolo alle loro attività. In tale situazione aveva un certo rilievo il capitano d'artiglieria Giuliano Girardelli che, dal secondo semestre del 1944, era a capo della maglia istriana della rete Nemo. Ufficialmente Girardelli agiva in veste di fiduciario locale del CLNAI con incarichi ispettivi presso il CLN di Trieste pur restando, di fatto, un militare del Sud intrufolatosi nel predetto Comitato [2].

Non è pertanto un caso se proprio in quel periodo vennero ulteriormente a deteriorarsi i già poco idilliaci rapporti fra CLN triestino e l'O.F. (Osvobodilna Front) sloveno. In effetti, la rottura definitiva maturò all'inizio di luglio quando l'esponente azionista del CLN di Trieste, Giuliano Gaeta, informò il CLNAI circa la "voce" da lui raccolta secondo la quale solo per Trieste, gli slavi avevano già compilato liste di proscrizione concernente 16 mila eliminandi e chiedeva pertanto l'autorizzazione del CLNAI a interrompere ogni rapporto di collaborazione con l'O.F. Dall'altra parte, l'O.F. assicurò il CLNAI che la "voce"in questione era priva di fondamento sicché il CLNAI si attivò a sua volta cercando di placare i timori espressi dal CLN che, per nulla convinto dalle assicurazioni ricevute, continuò a rifiutare l'inclusione di membri slavo comunisti nel CLN triestino sostenendo che:

…il CLN era italiano e non era ammissibile una rappresentanza slava in seno ad esso, esistendo già per gli slavi un loro proprio organo [3]. A rompere gli indugi provvide il CLNAI che, d'accordo con gli alleati, riconobbe quale interlocutore ufficiale il solo Comitato croato-sloveno. Il CLN italiano venne così a trovarsi in una specie di limbo fin quando nella prima decade di dicembre spuntò all'orizzonte un gruppo di "rimpatriati" capeggiati dal barone triestino Riccardo De Hagg e dall'ex cappellano della Guardia di frontiera a Fiume, don Paolino Beltrame. Al loro seguito, il capitano di corvetta Luigi Podestà, del quale ci siamo già occupati in precedenza [4], e il suo vice, Attilio Marchini. In seguito si aggiunse anche il s. tenente degli alpini Guido Tassan, altro triestino fino allora utilizzato come diretto collegamento tra i partigiani bianchi operanti nella zona di Borgo Taro e il centro Nemo di Milano [5]. Il primo abboccamento fra i nuovi venuti e i membri del CLN si tenne nell'abitazione del colonnello del Genio Navale, Mario Ponzo; lo stesso luogo che ospitò don Paolino giunto a Trieste, nella primavera del '44, per gettare le basi di una rete clandestina SIM passata poi sotto controllo Nemo. La riunione era servita a De Hagg e don Paolino per accreditare Podestà presso CLN triestino ai cui membri fu presentato come inviato speciale di Bonomi incaricato di coordinare ogni possibile azione volta a tutelare l'italianità dell'Istria, Venezia Giulia e, soprattutto, di Trieste. Un così inaspettato e autorevole sostegno da parte del governo Bonomi, o per lo meno di un suo importante segmento, servì senz'altro a corroborare gli animi da tempo depressi dei vari membri del CLN sottoposti a quarantena da Comandi alleati e CLNAI [6].

Al fine di fuorviare la parte meno consenziente di Governo e CLNAI (PCI e PSIUP) la missione triestina del capitano Podestà fu mascherata in senso opposto facendolo passare per mediatore CLNAI incaricato di ricomporre la frattura italo-sloveno tramite la costituzione di un organo ad hoc denominato Comitato Esecutivo Antifascista Italo Sloveno (CEIAS). Stando tuttavia al verbale redatto nel dopoguerra dai servizi iugoslavi (OZNA) Podestà avrebbe ammesso che: «... era stato inviato direttamente da Bonomi con ampi poteri per raggiungere una coalizione di tutti gli elementi italiani, di qualsiasi colore politico, coalizione che avrebbe avuto il compito di arginare l'avanzata dei partigiani fino all'arrivo delle truppe alleate». [7]

Un primo rifugio sicuro glielo procurarono don Paolino e il presidente (e cassiere) del CLN triestino, l'ecclesiastico democristiano, don Edoardo Marzari, piazzandolo con Marchini [8] all'interno del convento gesuita del S. Cuore di Gesù.

Da questa sua prima base, Podestà iniziò a darsi da fare abbordando il sottocapo di Marina, Arturo Bergera, già segretario del Comandante della Marina repubblicana a Trieste, il quale si rese disponibile ad assecondarlo mettendolo in contatto con vari ufficiali della Decima.

Tutto sembrava procedere regolarmente se non fosse subentrata l'intrattenibile vena millantatoria di Podestà inducendolo a un passo falso. Ancora non è chiaro per quale oscuro intento si fosse impuntato nel voler reclutare, fra gli altri, il pastore metodista Giorgio Bacolis; ambiguo personaggio e sospetto sicofante del torbido sottobosco etnico-politico locale.

Pare anche che Podestà si sia presentato a Bacolis in veste di esponente massonico in missione a Trieste per conto del pastore protestante Tito Signorelli, vice Gran Maestro della Massoneria a Roma [9] in nome del quale richiese il suo appoggio. Nell'occasione, Podestà si sarebbe fin troppo scoperto, o per protagonismo o per meglio indurlo a collaborare -così come in apparenza avvenne- riferendo oltre il dovuto, su scopi e collegamenti.

Enigmatico come il solito, il preteso ruolo o meno della massoneria nell'ambito di questa vicenda, sempre che Podestà, massone o no, abbia voluto presentarsi in veste di messo massonico come in altre occasioni si spacciava per membro effettivo del CLNAI. Comunque sia, mal gliene incolse giacché il pastore Bacolis non ci pensò due volte a venderlo al pari di un capretto di un gregge, per la non modica somma di duecentomila lire, al commissario capo Gaetano Collotti, dirigente dell'Ispettorato Speciale di P.S. per la Venezia Giulia, funzionario specificatamente addetto alla repressione antipartigiana.

Quale risultato, il 6 febbraio '45, a un mese circa dal suo arrivo a Trieste, Podestà e buona parte dei suoi collaboratori, tra i quali il capo e altri membri del CLN locale, furono arrestati. Bisogna tuttavia distinguere fra arresto e "arresto". Riferito a Podestà, non sembra opportuno l'uso di tale sostantivo trattandosi semmai fin dall'inizio di ospitalità coatta presso la residenza privata del Collotti abitante con la moglie all'interno dell'Ispettorato. Ovviamente il commissario era già stato dettagliatamente informato da Bacolis circa le reali intenzioni del gruppo Podestà, i cui scopi furono del resto confermati dal superiore dei Gesuiti, padre Porta, che nomen omen, gli aveva aperto le porte del suo convento di via del Ronco, luogo di culto che Collotti frequentava giornalmente nell'andarsi a comunicare.

Il ventottenne commissario siciliano era, infatti, animato da una fede religiosa pari al suo intenso patriottismo e questo suo miscuglio di pulsioni patriottico-religiose, lo predisponeva inevitabilmente a forme d'intesa con i nazional-cattolici [10] del gruppo Podestà. Tant'è che a premessa del primo interrogatorio formale, sempre che possa così definirsi l'affabile discorrere fra i due, Collotti gli aveva anteposto il proposito di non voler infierire né su lui né sui suoi collaboratori…se solo avesse potuto convincersi della [loro] onesta italianità e che comunque non tramassero… per porre l'Italia alla servitù degli alleati. [11]

Pur in mancanza dei verbali d'interrogatorio, è assodato che si trattò in genere d'interrogatori cortesi tendenti man mano a spaziare sul vario scibile umano con amichevoli schermaglie interrotte solo da qualche singolare diversivo come una puntatina al Casinò e qualche seduta medianica di cartomanzia. Nell'arco di una settimana, l'eccentrico rapporto fra inquisito e inquisitore si volse a una prevedibile convergenza d'opinioni prima e d'intenti poi. Tanto bastò per far asserire a Podestà -reso peraltro ardito dalla prima impressione ricevuta dal commissario che gli parve volesse fargli «… capire che aveva fatto assegnamento dentro di sé su qualcosa di simile fin dal loro primo incontro»- di aver convinto Collotti a farsi suo collaboratore con la garanzia «di far valere i suoi meriti all'arrivo degli alleati». [12]

Se così fosse, Collotti avrebbe abiurato alla sua pregiudiziale di ferma chiusura nei confronti di chi tramava " per porre l'Italia alla servitù degli alleati".

Recenti documenti portati alla luce dalla ricercatrice triestina Carla Cernigoi, inducono però ad altre e diverse conclusioni.

Stando a tale documentazione, premessa la necessità di dover acquisire l'avallo di superiori e Tedeschi, il commissario Collotti avrebbe manifestato a Podestà l'ineludibile esigenza di accertare l'identità di coloro che, oltre ai nomi già forniti da Bacolis, stavano al gioco. Richiesta prontamente recepita da Podestà il quale fornì i rimanenti dettagli sulla parte di organigramma Nemo a sua conoscenza. Da cui l'arresto del responsabile Nemo di Trieste, Girardelli così come della recluta Bergera nonché l' identificazione di "Fulvo" e "Fausto" - garanti di Podestà verso il CLN triestino -nelle persone di don Paolino e De Hagg. In seguito Podestà cercò di minimizzare la vicenda sostenendo di aver comunque fatto pervenire al dott. Merzagora [13] della Pirelli- tramite la presunta complicità di un agente dell'Ispettorato stesso, un suo messaggio in cui succintamente lo informava su ciò che stava accadendo a Trieste, mostrandosi piuttosto preoccupato su quanto Bacolis poteva aver rivelato circa l'identità degli esponenti Nemo di Milano i quali rischiavano perciò la cattura.

A margine e confronto della sintesi difensiva di Podestà, esiste anche la minuta del messaggio in questione. Il documento, rinvenuto fra le varie carte che Collotti portava con sé al momento della sua cattura da parte di elementi insurrezionali, fornisce maggiori dettagli: « bisogna comunicare subito al nostro amico di Milano [Merzagora?] la notizia del mio arresto affinché egli possa mettere subito sul chi vive Bocci [ Emilio Elia] il quale a sua volta, provvederà ad avvertire Fausto e Fulvo [De Hagg e don Paolino] nonché il signor Savergnini [Silvestro Savergnini, impiegato Pirelli]. A tutti bisogna far sapere che stanno per essere ricercati.- P.S. Occorre dire a Bocci che, insieme a me, è stato arrestato anche Giardino [Girardelli] e che occorre provvedere subito alla soppressione del recapito presso la Silca. [14]

Agli accordi di massima stabiliti con Collotti, seguì un altro incontro presso il Comando SS con il colonnello Hiber il quale a sua volta pretese da Podestà una dettagliata relazione sui suoi propositi operativi e con quest'ultimo adempimento si guadagnò il nulla osta da parte del Comando SS alla sua cooperazione per il cui espletamento gli venne fornita un'autovettura dell'Ispettorato.

Da quanto fin qui esposto, sembrerebbe piuttosto temeraria l'affermazione di Podestà di aver trasformato Collotti in un suo collaboratore [15].

Occorre inoltre rilevare che i fatti di cui sopra si svolsero contestualmente all'improvvisa convocazione a Roma di don Paolino e De Haag, per cui sorge il dubbio che la famosa "missione oltre le linee" nascondesse, o in ogni caso, comprendesse, la scappatoia all'incombente cattura [16].

Nella relazione finale a uso interno del 22 luglio 1945, don Paolino pare ignorare le delazioni triestine annotando per contro che: «Un radio cifrato di Nemo, in data 12 marzo, comunicante al CLN l'arresto del maggiore Casaburi [suo sostituto a Parma] in seguito inibì a me il ritorno al Nord». [17]

La pretesa intenzione di voler tornare al Nord, fa pensare a un don Paolino ignaro che la sua attività cospirativa era stata seppure in parte scoperta già un mese prima della retata effettuata Parma. D'altra parte quando don Paolino stese la relazione, era sicuramente informato che nel frattempo Podestà era stato arrestato dagli iugoslavi e già questa potrebbe essere stata una valida ragione a indurlo a non infierire sul malcapitato caricandolo di nuovi particolari imbarazzanti. Altro e diverso motivo consisterebbe nel fatto che la missione Podestà, per quanto organizzata in ambiente Nemo, sarebbe stata ispirata da gerarchie politiche e militari del Sud -Marina soprattutto- e non dal SIS britannico da cui Nemo dipendeva. Esisteva, infatti, una netta discordanza circa la sorte prevista per l'Istria e Trieste, divergenza che divideva il SIM-Marina dai Comandi britannici i quali inclinavano, invece, a favorire le pretese territoriali degli alleati iugoslavi rispetto ai meno considerati cobelligeranti italiani. Che Podestà fosse in diretta relazione con l'ex SIM [18] e non con il SIS, si evince da una postilla di Elia concernente Girardelli sulla cui scheda registrò: «Passato con l'autorizzazione del Gruppo speciale [guidato dal magg. Luigi Marchesi] alla dipendenza di "Puccini" [Podestà], cessava a far parte della rete [Nemo]. [19]

Si può pertanto affermare che con l'arrivo di Podestà a Trieste i membri della locale maglia Nemo, Girardelli compreso, passarono agli ordini dello SMRE del Sud, rendendosi in tal modo autonomi dal SIS.

L'attrito nei confronti degli anglo-americani sulla questione giuliana emerge chiaramente dalla relazione 2, in cui si lamenta che: «…per mesi la notizia della rinuncia anglo-americana, a favore della Russia, di ogni ingerenza sulla questione giuliana che pertanto doveva ritenersi risolta secondo i desiderata iugoslavi [oltre] l'assoluto silenzio del governo nazionale [Bonomi] attribuito alla rinuncia della sovranità su Trieste, avvenuta in sede di armistizio o quale conseguenza delle clausole di armistizio [ha] formato il convincimento della totale inutilità di ogni lotta; coloro stessi che nel 1914 accorsero volontari alla chiamata dell'Italia, consigliano oggi i figli a sottomettersi a quanto considerato inevitabile».

Né manca l'accusa ai comunisti giuliani -italiani e slavi- di voler sciogliere i legami con l'Italia per appoggiarsi invece alla Jugoslavia: stato che appare loro «politicamente più maturo ed economicamente più idoneo a garantire l'avvenire della regione».

La relazione proseguiva notificando l'impossibilità di costituire bande partigiane italiane poiché.. costrette ad operare in territorio abitato da popolazioni slave, comunistizzanti, [dove] non avrebbero potuto sopravvivere che quelle comuniste anch'esse del tutto senza appoggio da parte degli slavi, fondamentalmente sospettosi di ogni iniziativa partente da elementi di razza italiana

[…] Anche se [in precedenza] si ebbe un discreto apporto triestino alle formazioni democristiane ed a quelle comuniste (Brigata "Osoppo" e "Friuli")non si giunse a risultati migliori. Da recenti informazioni risulta che la brigata comunista è stata sciolta da Tito e riorganizzata in territorio sottoposto al suo controllo, mentre la <Osoppo> presa netta posizione di italianità, è stata successivamente assalita dalla nuova <Friuli>, perdendo nello scontro alcuni suoi capi. [20] L'eccidio di partigiani osovari, cui fa cenno la relazione, fra i quali il comandante Francesco De Gregori, zio paterno dell'omonimo musicista e Guido Pasolini, fratello maggiore del noto scrittore, ebbe luogo a Malga Porzus il 7 febbraio 1945, ovvero il giorno dopo l'arresto di Podestà e successivo squagliamento del CLN triestino ed è pertanto plausibile che tale notizia avesse fatto parte dei documenti che Podestà aveva fatto pervenire a Milano a De Hagg (cfr. nota 16). Se così fosse sarebbe confermato che Podestà seppe dei fatti di Porzus in stato di "detenzione" dietro evidente confidenza di Collotti.

In tale prospettiva l'eccidio di Porzus avrebbe agito da catalizzatore al formarsi dell'aggregazione trasversale di un fronte anticomunista destinato a perdurare anche dopo la fine del conflitto. Tornando alla relazione 2, interamente dedicata alla "situazione triestina", vi è anzitutto la conferma che: «Nel dicembre 1944 i rappresentanti dei partiti DC-PLI-PdA presso il CLNAI si accordarono per svolgere a Trieste una ferma politica di italianità, rimettendo a dopo la guerra il conseguimento delle loro finalità ideologiche. Venne redatto un accordo scritto, subito inviato in copia ai loro rappresentanti presso il CLN di Trieste […] L'arrivo della comunicazione dei tre partiti, l'assicurazione verbale che l'italianità di Trieste sarebbe stata difesa sia dal Governo che dal CLNAI, valsero ad ottenere l'OdG trasmesso a metà dicembre. All'ordine del giorno aderì entusiasticamente il rappresentante socialista. […] Così fu iniziato -a fine dicembre 1944- il lavoro preparatorio e la costituzione di un unico nucleo armato, destinato a costituire il nerbo della futura "Guardia Nazionale".

Nei primi giorni di febbraio improvvisamente pervenne la ferma opposizione del CLN triveneto al progetto in corso, con il secco invito a "italiani e slavi a fondere in un unico "Comitato Giuliano" i rispettivi Comitati: italiano a Trieste e slavo nella regione e rimandare al dopo guerra ogni eventuale discussione circa "l'appartenenza politica" della regione. L'intrusione del CLN triveneto fu così commentata in relazione:

«Non si conoscono le influenze che possono aver guidato il CLN triveneto a tale invito. I rappresentanti dei [quattro] partiti, subito interpellati hanno chiaramente espresso la loro sconfortata sfiducia. Infatti, nel silenzio ufficiale del CLNAI, nel silenzio del Governo Nazionale, in quello degli Alleati; nella mancanza di ogni concreto aiuto e di ogni, anche indiretto, incitamento, essi vedono la condanna della città». [21]

Gli è che il "Governo Nazionale", per non parlare del CLNAI, nulla poteva che non fosse in sintonia con le decisioni o propensioni del "liberatori" e, in caso contrario, non restava che l'inutile brontolio legato alla speranza di un qualche imprevedibile favorevole evento tale da poter modificare i piani di massima previsti per l'Italia [22], piani peraltro tenuti celati alla popolazione italiana, come a buona parte degli stessi esponenti ciellenisti, nel timore che, se conosciuti, potessero innescare reazioni difficilmente prevedibili. Ai mesti cobelligeranti del Sud non restava altro che affidarsi alla Provvidenza mondanamente rappresentata dalla ben nota fiduciaria vaticana alla quale venne, infatti, appaltata l'opposizione anti slava/comunista di cui fu non a caso espressione l'ambiguo ammutinamento al SIS britannico pilotato da don Paolino con l'utilizzo in senso patriottico della locale struttura Nemo saldamente intrecciata al CLN di don Marzari.

In effetti, nonostante i deprimenti silenzi da parte del governo Bonomi e del CLNAI e l'aperta opposizione del CLN triveneto, i membri del CLN triestino appoggiati dal gruppo Podestà, mantennero ugualmente viva l'ipotesi d'opposizione armata alla temuta occupazione slavo-comunista di Trieste. In questo senso il CLN prese aperti contatti con autorità repubblicane, podestà e prefetto, al fine di coordinare la difesa della città. Da parte repubblicana, il podestà Pagnini stava mettendo insieme un "Comitato d'Italianità" ove sarebbero confluiti -oltre a regolari reparti militari e Decima- la Guardia Civica, Vigili urbani, Milizia forestale, portuale e ferroviaria, Vigili del fuoco, reparti di polizia e Unpa. Il CLN poteva a sua volta contare oltre che sull'"Osoppo", sulla Guardia di finanza, carabinieri o ex carabinieri e su buona parte della Guardia Civica che in tal modo si poneva da cerniera fra le due strutture. Il progetto consisteva nell'unire le suddette forze sotto un comando unico formalmente gestito dal CLN [23]. A tale proposito, un documento in data 18 aprile 1945, informava chi di dovere (?) che: il Prefetto sta organizzando un importante nucleo di forze repubblicane contro la calata del IX Korpus di Tito. Naturalmente in caso di necessità, noi siamo disposti a far causa comune con questa forza. Urge quindi sapere se possiamo assimilarle al momento opportuno al Regio Esercito, sia pure con le opportune epurazioni e gli apparenti riti. [24]

In questo spirito di unione nazionale, Collotti, regolarmente spalleggiato da Podestà, rivolse alle forze di polizia riunite nella sede dell'Ispettorato un infiammato discorso patriottico fondato sulla solidarietà d'intenti posti al di sopra di qualsiasi discriminante di parte da opporsi a qualsivoglia mira egemonica straniera. Ciò collima con quanto esposto da Borghese sul suo incontro del 23 aprile con l'emissario del Sud, colonnello dell'Aeronautica Giulio Giorgis, latore di un messaggio della Marina del Sud ove si raccomandava al Comandante della X la difesa a oltranza delle posizioni in Venezia Giulia e Istria, in attesa che reparti della S. Marco del Sud già pronti ad Ancona, sbarcassero a Trieste a dargli man forte. Tenuto conto che proprio il cap. Elia era stato il primo comandante del battaglione "Bafile", reggimento S. Marco della brigata di Marina costituitasi al Sud, si palesa una convergenza operativa comprendente anche il capo missione Nemo.

Ma, come opportunamente rileva Mario Bordogna, curatore delle memorie di Borghese: È molto probabile, invece, che il progetto d'inviare truppe badogliane a sostegno dei reparti impegnati sul fronte giuliano non sia stato altro che un pio desiderio nato da nobili sentimenti patriottici, ma è improbabile che sia stato responsabilmente formulato come impegno formale dato che esso non poteva in alcun modo essere mantenuto. Infatti le Forze Armate del Sud non avevano autonomia né libertà d'iniziativa sottoposte com'erano al rigido controllo e agli ordini delle autorità anglo-americane. Esse non avrebbero mai permesso un'operazione militare come quella auspicata da Marcegaglia [25] perché contrastava con gli interessi politici e strategici degli stessi Alleati che, tra l'altro, sostenevano e armavano l'esercito di Tito. [26]

In effetti, com'era del resto prevedibile, gli angloamericani troncarono rapidamente i sussulti nazionalisti triestini opponendosi a qualsiasi convergenza operativa fra CLN e social repubblicani. In ogni caso la situazione rimase piuttosto fluida fino al 30 aprile quando don Marzari, seppure con notevole ritardo rispetto alle altre città del Nord, diede il via all'insurrezione utilizzando gran parte di quelle forze che teoricamente avrebbero dovuto opporsi all'occupazione slava. Insurrezione realizzatasi in due distinte branche: prettamente comunista nella parte alta della città e più spiccatamente ciellenista in quella bassa. I Tedeschi si ritirarono all'interno delle loro strutture difensive in attesa di arrendersi agli anglo-americani [27] mentre un intero battaglione "M" si sacrificava al completo nel tentativo di arginare gli slavi sull'alto Isonzo come pure vari distaccamenti della Decima fra Pola e Fiume.

Prima ancora dell'1 maggio, quando le prime avanguardie titine raggiunsero Trieste, le assemblee riunite iugoslave ne avevano già proclamata l'annessione alla Iugoslavia. All'arrivo degli slavi furono proprio i membri del CLN a porgere loro il benvenuto, consegnandogli formalmente la città. Il comandante piazza del CLN triestino, Antonio Fonda Savio, dichiarò in seguito che: nostro compito era quello d'aprire la via agli Alleati, ci siamo astenuti di sparare sugli Slavi per non peggiorare la nostra posizione politica rispetto agli Alleati. [28]

Non era ancora trascorsa una settimana dall'intrusione slava che, il 7 maggio, l'intero CLN triestino con don Marzari in testa, si defilava dalla città «… a bordo di un furgone mortuario del "Gruppo Legnano" che aveva riportato a Trieste la salma di un caduto in Lombardia». [29]

Cos'era successo? Era accaduto che alcuni giorni prima, Podestà con i suoi più vicini collaboratori erano stati arrestati dagli iugoslavi. Se dai loro interrogatori fosse venuta a galla la trama anti titoista che aveva legato il CLN al gruppo Nemo -trama che venne poi regolarmente a galla- gli esponenti ciellenisti si sarebbero facilmente candidati se non proprio a essere infoibati, sicuramente a un lungo periodo di lavori forzati. Fallito il progetto di una difesa congiunta di Trieste, causa l'inflessibile opposizione britannica, Podestà ricevette il 24 aprile da Milano l'esortazione a lasciare Trieste per raggiungere Roma via Svizzera. Vana esortazione poiché in quel periodo cruciale, Podestà era intento a recuperare quanto più possibile dei fondi giacenti nella cassa del Comando Marina di Trieste. Tale iniziativa fu coronata alla fine da successo cosicché buona parte dei valori del Comando Marina furono trasferiti presso l'abitazione del col. Ponzo, dove fu redatto un verbale-inventario dei fondi sottratti.

Sull'arresto da parte iugoslava di Podestà e dei suoi più stretti collaboratori, esistono diverse versioni il cui unico punto fermo riguarda che l'arresto avvenne il 3 maggio in casa Ponzo dopo una perquisizione eseguita da militi titoisti i quali scovarono e sequestrarono alcuni documenti compromettenti. Non riuscirono però a trovare la cassa del Comando Marina che Ponzo aveva prudentemente affidata a un inquilino del suo stabile. Furono tratti in arresto Ponzo, Podestà e Bergera seguiti, pochi giorni dopo, da altri due triestini affiliati Nemo, Guido Tassan e Vittorio Stukel, fermati inizialmente nei pressi di Monfalcone come sospetti "agitatori fascisti". Mentre di Ponzo si persero ben presto le tracce -ufficialmente è tra gli infoibati- tutti gli altri furono condannati a vari anni di lavori forzati nonostante le accese proteste di Podestà che persisteva a qualificarsi agente alleato del SIS. Riuscirono poi a guadagnare la libertà nel 1947 a l'esclusione di Tassan il cui fisico cedette alla dura vita del forzato. Riguardo alla cassa del Comando Marina, nella stessa serata del 3 maggio l'inquilino consegnò la preziosa valigia alla collaboratrice di Ponzo, prof. Niny Rocco, avvertendola che conteneva "carte di valore", Con la Rocco c'era pure un giovane collaboratore di don Marzani sicché si può ipotizzare che le "carte di valore" si siano involate con don Marzani nella sua funerea evasione da Trieste occupata. I membri del CLN triestino una volta usciti da Trieste, si recarono direttamente a Roma ove s'incontrarono con Bonomi e De Gasperi per essere poi ricevuti in udienza da Pio XII. A seguito di questi contatti ottennero l'autorizzazione a creare a Venezia un altro CLN non più antifascista ma antititoista, avendo a loro disposizione una radio e i fondi per finanziare la propaganda e un giornale clandestino. Tutte attività presumibilmente alimentate con i fondi cassa della Marina Repubblicana e, infatti, risulta che quei valori finirono certamente per essere depositati a Venezia. E Collotti? Del commissario Collotti trattarono alcuni giornali triestini nel giugno 1945 nel riportare il seguente avviso: «Tutti coloro che hanno veduto entrare il giorno 23 aprile u.s. alle ore 16 il dott. Collotti, capo dell'Ispettorato Speciale di polizia della Venezia Giulia nella caserma di via del Bosco, adibita a centro reclutamento del CLN di Trieste, sono invitati a presentare regolare denuncia». [30]

Questo richiamo giornalistico è la prova del fatto che, fino a tutto il 23 aprile, Collotti collaborava pienamente con il CLN (e viceversa) frequentandone apertamente le prime sedi.

Si ha poi notizia che Collotti e consorte si sarebbero allontanati da Trieste il 27 aprile alla notizia della cattura di Mussolini e alla conseguente repentina fine della RSI.

Incappato presumibilmente in un blocco stradale degli insorti dell'ultima ora presso Treviso, sia Collotti sia la moglie furono trucidati il 28 aprile presso la cartiera di Carbonera (TV) insieme con altri 180 fascisti o presunti tali.

Dopo 40 giorni di sanguinosa occupazione titoista a Trieste, l'11 giugno cessala l'occupazione slava a seguito dell'accordo di spartizione fra gli alleati che assegnava la "zona A", comprensiva di Trieste, all'amministrazione anglo-americana mentre una ben più estesa "zona B" era concessa alla Iugoslavia. A sua volta, l'occupazione anglo-americana di Trieste proseguì per quasi una decina d'anni fino al 5 ottobre 1954.

Nello stesso anno lo Stato italiano riconosceva, e ufficialmente convalidava, l'assegnazione di una medaglia di bronzo al V.M. che Collotti si era guadagnata sul campo nel corso di un'azione antipartigiana nell'aprile 1943 [31]. Implicito riconoscimento postumo alla sua integrità morale già largamente calunniata che, in considerazione del periodo particolare di tale concessione, riabilita a tutti gli effetti la figura del giovane commissario siciliano caduto per l'italianità di Trieste e della Venezia Giulia.

 

NOTE alla Parte Settima

 

 [1] Regno del Sud: è una vana chimera un Esercito Nazionale in "Historica" n. 28/2013.

 [2] Che nel corso del periodo considerato Girardelli avesse operato in veste militare più che partigiana, è provato dal fatto che nel dopoguerra il capo missione Elia inviò una petizione al CVL, dove si chiedeva di concedere a Girardelli il brevetto partigiano a posteriori per sanare, forse, quel preteso ruolo ispettivo CLNAI che evidentemente non era sua competenza (Cfr. F. Gnecchi Ruscone "Missione Nemo", pag. 198).

 [3] C. Cernigoi " Dossier n. 46" Alla ricerca di Nemo pag. 11 in www.diecifebbraio.info.

 [4] Cfr. Nemo Mission: presenza occulta in "Historica" n. 22/2012.

 [5] "Suo incarico fu di stabilire le modalità di collegamento con i patrioti di Borgo Taro (Parma). Il reparto lavorava in totale confusione e per questo motivo [Tassan] ne prese il comando e riuscirono in tal modo a catturare un paio d'automezzi tedeschi con a bordo un corriere dell'esercito germanico e molti documenti che Tassan consegnò a De Hagg" ( Relazione Tassan – AUSSME, b. 90 n.81769 riportata da C. Cernigoi cit. pag. 12). L'episodio in questione trova conferma in C. Del Maestro "Centocroci per la resistenza" pag. 122, pur in mancanza di un qualsiasi accenno all'attività in loco di Tassan. Rispetto alle formazioni bianche della Val Taro, molto più incisiva appare l'azione svolta dal parroco di una locale frazione, don Guido Anelli, con la sua storica missione in Vaticano del novembre '44 (Cfr. OSS e Vaticano tra parroci e cardinali in "Historica" n. 24/2012).

 [6] Gli angloamericani avevano ormai stabilito d'internazionalizzare sotto loro controllo la Venezia Giulia con a capo la "città libera" di Trieste col fine di occupare una base strategica nell'Alto Adriatico. Trieste sarà resa all'Italia solo nel 1954, dopo che Italia e Germania federale avevano sottoscritto il Patto Atlantico.

 [7] Documento integrale in C. Cernigoi cit. pag. venticinque

 [8] Marchini fu presto rimandato indietro da Podestà poiché considerato troppo emotivo e quindi non conforme alla sicurezza della missione.

 [9] Tito Signorelli, pastore protestante di origini veneziane, poi insignito del grado di G. M. onorario a vita (Cfr. A.A. Mola Storia della massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni pp. 679-80).

 [10] Nazionalcattolica era la tendenza politica nata negli anni '30 in seno a circoli cattolici (FUCI, Movimento Laureati Cattolici e Azione Cattolica) la cui sintesi era rappresentata dal trinomio: Dio-Patria-Famiglia. Scopo dei nazionalcattolici era spingere il regime a far di Roma il centro di un blocco europeo di Paesi cattolico-latini quali Spagna e Portogallo o similmente cattolici quali Austria, Ungheria e Polonia. A seguito dell'alleanza mussoliniana con i " pagani" di Germania e Giappone, i nazionalcattolici passarono in genere all'antifascismo attivo nella prospettiva politica di fare dell'Italia post-fascista una nazione fondata su basi cattoliche. Sostiene lo storico R.A. Webster che nella zona del Friuli le uniche forze di resistenza all'occupazione dell'Asse erano sotto la direzione comunista o cattolica; liberali e socialisti entrarono spesso a far parte delle brigate autonome Osoppo, che in realtà erano una creazione di preti e di Laureati cattolici ( "La croce e i Fasci" pag. 230).

 [11] C. Cernigoi cit. pag. ventidue

 [12] Id. pag. 23

 [13] Trattasi del banchiere e politico Cesare Merzagora il quale fin dal 1938 ricopriva la carica di direttore generale alla Pirelli e, all'epoca, generoso finanziatore della missione Nemo.

 [14] C. Cernigoi cit. pag. 23

 [15] Trattando in precedenza dei rapporti Collotti-Podestà (Historica 22/2012) avevamo riportato la sola versione allora conosciuta che era quella di Podestà. I nuovi documenti recentemente pubblicati da Carla Cernigoi fanno riconsiderare i rapporti istaurati da Podestà con le autorità italo-tedesche, ribaltandone i termini.

 [16] Vi è un appunto compilato da De Haag che cita documenti, senza descriverne il contenuto, pervenuti da "Puccini" (alias Podestà) tramite corriere… per l'inoltro a Roma via Svizzera, consegnato 12.2 1945 a Sandro Cicogna della < Franchi > che li ha portati a Basilea il 13 (AUSSME b. 91 n. 82315). Salvo trattarsi di documenti antecedenti l'arresto del 6 febbraio, la scansione temporale collimerebbe con gli accordi intercorsi, compresa la lettera per Merzagora che verosimilmente poteva far parte di tali documenti e proprio questa missiva, dopo essere stata trasmessa a Roma via Svizzera, avrebbe determinato l'iniziativa dello SMRE del 18 febbraio volta a richiamare con tutta urgenza a Roma, don Paolino e De Haag.

 [17] F. Gnecchi Ruscone cit. pag. 164 –L'arresto prima di Casburi e poi con lui dell'intera maglia Nemo di Parma del marzo '45, non dovrebbe essere connessa –almeno a nostro parere – con le rivelazioni di Podestà poiché costui non risulta abbia operato a Parma e, pur essendo stato in contatto con don Paolino, sarebbe da escludere che il cautissimo prelato lo abbia dettagliato sui vari affiliati della maglia parmense.

 [18] I servizi badogliani che dall'8 settembre erano contraddistinti dai soli Uffici "I", tornarono ad appropriarsi della sigla SIM dopo l'occupazione alleata di Roma. Durante il periodo degli Ufficio "I", i servizi italiani collaboravano prevalentemente con quelli inglesi (SOE-SIS). Dal giugno '44, dopo la caduta di Roma, tornarono ad appropriarsi della sigla SIM sempre alla completa dipendenza dei vari servizi alleati (SOE-OSS). Il 16 novembre 1944 su precisa richiesta degli alleati, Umberto dovette sciogliere formalmente il SIM che tuttavia rimase attivo fino al 31 dicembre 1945, con la diversa etichetta di Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore sotto il prevalente controllo dell'OSS statunitense.

 [19] F. Gnecchi Ruscone cit. pag. 188

 [20] Id. pp. 140-141.

 [21] Id. pp. 139-143.

 [22] "Considerata prevalentemente persa l'italianità di Trieste e dell'Istria in generale, il CLNAI…era intenzionato a chiedere, come da indicazioni britanniche, che Trieste fosse dichiarata <città libera> e non che ritornasse all'Italia, poiché questo era l'unico modo per impedire che passasse alla Iugoslavia (C. Cernigoi cit. pag. 10).

 [23] C. Cernigoi cit. pag. 16

 [24] Ibid. pp.16-17.

 [25] Deponendo nel dopo guerra al processo Borghese, la M.O. Antonio Marcegaglia riferì che Autorità del Sud comunicarono a quelle del Nord che per la…salvaguardia di quelle terre di confine, al momento cruciale il governo Regio avrebbe mandato da Ancona una spedizione navale che avrebbe agito a sostegno della RSI.

 [26] "Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas" a cura di M. Bordogna, 1995, pag. 192.

 [27] Le truppe tedesche consegnarono le loro armi ai neozelandesi giunti a Trieste il 2 maggio, all'indomani dell'occupazione titoista.

 [28] C. Cernigoi cit. pag. 17.

 [29] Id. pag. 29

 [30] Avviso pubblicato in "Il Corriere di Trieste" del 30 giugno 1945.

 [31] Cfr. Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16 gennaio 1954.

 

 

Parte OTTAVA:

CLERO, "NEMO" E I TESORI DELLA RSI

 

Franco Morini

 

Trattando sul numero scorso dell'equivoca attività svolta a Trieste dal gruppo Nemo, ci siamo astenuti dal concludere la vicenda per giovarcene da introduzione ad altro argomento riguardante ambigui rapporti finanziari tenuti tramite mediatori ecclesiastici con taluni esponenti della RSI.

Già si è visto come l'appropriazione della cassa della Marina Repubblicana di Trieste da parte del capitano Podestà sia costata allo stesso e ad altri affiliati 'Nemo', una pesante prigionia in Iugoslavia. [1]

La cassa era stata tuttavia occultata dal col. Ponzo il quale riuscì a farla pervenire alla prof. Rocco che, a sua volta, la consegnò alla frazione anti slavo-comunista interna al CLN triestino i cui membri, fuggiti all'occupazione titoista, ne depositarono il contenuto a Venezia dove si costituirono in Comitato di Liberazione contro l'occupazione straniera dell'Istria e Venezia Giulia.

Si era da poco esaurita l'occupazione iugoslava di Trieste, passata all'amministrazione militare britannica, quando, nel giugno 1945, si presentava alla porta della prof. Rocco un «... signore arrogantissimo accompagnato dalla figlia del col. Mario Ponzo il quale, esibito il tesserino della Polizia alleata, le disse di essere un superiore di Podestà e voleva che gli fosse consegnato il denaro della Marina. Sotto la minaccia di essere piantonata in casa lei rispose che i soldi erano a Venezia, e lui ribatté che se ne sarebbe accertato. Niny Rocco ne chiese ragione al Comando alleato, dove le risposero che si trattava di un ufficiale italiano, il maggiore De Haag, a volte "di carattere un po' focoso». [2]

Qualificarsi agente alleato, quando all'epoca era vice questore a Milano al seguito di Emilio Elia - nominato a sua volta a questore – sta a indicare che nel frangente De Haag non agiva regolarmente ma per altri fini. [3]

Passando ad altra cassa, l'edizione 1985 dell'Annuario della Diocesi parmense riporta a pagina 75 che: «…il 25 aprile colla capitolazione dell'esercito italo-tedesco, le porte furono aperte ai nuovi ricercati e perseguitati. Si tenne al sicuro anche il tesoro dell'Armata del Maresciallo Graziani che, in previsione dello sfacelo, consegnò a noi detto tesoro che fu poi ufficialmente ed integralmente restituito alle nuove autorità».

Premettendo che l'abbazia di S. Giovanni, in cui il tesoro fu temporaneamente murato, era la badia di don Paolino Beltrame, qualche sospetto è più che giustificato. Che "detto tesoro" sia stato trasferito da Pavia per essere occultato nella chiesa che sappiamo essere stata il centro operativo della maglia 'Nemo' diretta da don Paolino non pare per nulla casuale considerando tempi, modi e protagonisti vari. Una sterilizzata interpretazione del fatto, vuole che Graziani abbia scelto quella determinata chiesa perché nel 1919 aveva comandato da colonnello un vicino presidio …e così quando all'epilogo della guerra Graziani si trova fra le mani una cassetta piena di tesori proveniente dal Genio militare di Pavia, per sottrarlo a trafugamento e assicurarne la destinazione anche dopo, lo affida all'abate dei Benedettini di Parma, padre Carlo De Vincentiis. [4]

A questo punto si pone il quesito circa l'effettiva disponibilità di una"cassetta piena di tesori" da parte di un reparto del Genio militare con organico inferiore al reggimento se non al battaglione. [5] Fosse anche vero, rimane da chiedersi per quale ragione un Reparto o Comando, si sia sciolto anzitempo consegnando la propria dotazione di cassa a Graziani -che a Vidigulfo di Pavia aveva il suo Comando d'Armata-a conflitto comunque in corso.

Il verbale di restituzione redatto il 24 novembre 1945 recita, infatti, che la distinta dei valori [6] contenuti "in una cassetta di legno sigillata con 5 bolli di ceralacca riportanti il fascio repubblicano", era stata sottoscritta da Vittorio Magno Bocca, capo Gabinetto di Graziani, don Marino Marsilli, cappellano della RSI e dall'abate di S. Giovanni, don Carlo De Vincentiis in data 19 aprile 1945. Se nel gran trambusto di quel mezzo aprile, Graziani s'indusse a inviare a Parma il suo segretario con la cassa dei preziosi, è ben probabile che l'operazione sia stata prima ponderata e poi organizzata senza estrema avventatezza. Per quanto rapidamente eseguita l'incombenza, i minimi pre contatti riportano l'origine a non oltre la metà d'aprile, data in cui non tutte le chance parevano esaurite. Bisogna tener presente che allorché si cedevano quei valori, l'offensiva alleata era solo all'inizio e coinvolgeva in quel momento la sola Romagna; di qui ad arrivare alla linea del Po c'erano ampi margini di contrasto posto che su quella linea avrebbe dovuto infrangersi l'avanzata nemica se nel frattempo non fosse iniziato il sabotaggio tedesco. Romualdi, che proprio quel 19 aprile si trovava a Ferrara per ispezionare il fronte, così descrive le sensazioni provate quel giorno:

Nel passare [ il Po] non avevo visto un solo soldato tedesco sulla riva sinistra del fiume: le poche postazioni costruite da lungo tempo erano vuote. Tutto ciò parlava un linguaggio chiarissimo: ma nonostante questo, nessuno, dico nessuno, poteva essere in grado di pensare che sei o sette giorni dopo l'Italia sarebbe stata totalmente occupata. Una idea superiore a qualsiasi fantasia, oltreché a qualsiasi ragionamento. [7] Senza rischiare la mano sul fuoco su quel che precede, essendo piuttosto inverosimile che il Romualdi dell'epoca fosse completamente all'oscuro degli intrighi tedeschi, le sue impressioni sembrano effettivamente riflettere quelle che erano allora le opinioni e attese prevalenti. Stando così le cose e nella presunzione per ora gratuita che anche Graziani fosse ignaro del sabotaggio in corso, come decifrare la cessione di un'importante cassa militare essendo tra l'altro diretta conseguenza dello squagliarsi d'interi reparti, sempre che non si sia trattato del tesoro dell'Armata "Liguria" come parrebbe dall'Annuario?

Si pone a questo punto la questione del rapporto o meno e, se sì, diretto o indiretto, fra Graziani e 'Nemo' in generale e in particolare con don Paolino ovvero chi per lui. Avanziamo in proposito qualche congettura: a) recuperando la prima ipotesi minimalista, Graziani si sarebbe formalmente attenuto all'etica militare senza altri fini; b) scelta solidaristica: il deposito di valori presso religiosi di fiducia avrebbe avuto lo scopo di fornire aiuto a militari e civili dispersi nella bufera della resa dei conti di una guerra civile; c) alternativa politica: per la quale l'ex cassa di Graziani insieme ad altri depositi del genere, oltre a soccorrere materialmente i fascisti perseguitati, doveva in più servire alla loro riorganizzazione politica. Le prime due congetture non implicano necessari rapporti con 'Nemo', essendo plausibile che Graziani si sia limitato a sondare, direttamente o tramite il cappellano, l'arcivescovo di Milano ed è in tal caso ancor più plausibile che sia stato Schuster in persona a indirizzarlo a una badia benedettina su cui poteva contare. Per quanto attiene invece la scelta politica, non sono affatto da escludere rapporti mediati o meno con 'Nemo', tramite magari qualche consiglio non disinteressato da parte di taluno dei vari agenti infiltrati nelle gerarchie social repubblicane, facendo eventualmente balenare la prospettiva di un'imminente convergenza operativa da opporre al fronte rivoluzionario, si fa per dire col senno di poi, delle varie sinistre.

Congettura curiosamente avvalorata da una vecchia relazione rimasta sepolta per lungo tempo nei loculi dell'Archivio centrale di Stato e quindi ripescata negli anni '80 da un funzionario dello stesso archivio che all'epoca ne ricavò uno scoop giornalistico. Tale documento si riduceva in sostanza alla segnalazione inviata da un agente italiano alle autorità occupanti, relativa a un preteso "piano Graziani per la restaurazione del fascismo". Una volta reso pubblico il documento, vi fu chi con empiriche congetture e funamboliche deduzioni, cercò di utilizzare quel vecchio pizzino da grimaldello interpretativo per le cosiddette "trame nere" degli anni '70, abbinandole in tal modo a un non mai dismesso "piano Graziani". [8]

Di là d'ogni valutazione in merito, resta che il"tesoro"di Graziani finì per essere consegnato -quando si ritenne opportuno- all'autorità governativa. Primo governo del dopoguerra era una coalizione ciellenista guidata dal 21 giugno '45 dal presidente del CLNAI, l'azionista Ferruccio Parri.

Il Gabinetto Parri menò vita grama e stentata da che il patto di unità ciellenista prese a sfaldarsi a causa dell'inconciliabile dicotomia destra-sinistra che minava fin dalle origini CLNAI e CLN. I "partiti d'ordine"- così definiti da don Paolino nella sua relazione del febbraio '45 - erano ineluttabilmente destinati a scontrarsi con gli "estremisti" del PCI-Psi-PdA su temi quali l'ordine pubblico, questione istituzionale ma anche per l'aspetto non secondario dell'accaparramento da parte degli "estremisti" di delicati incarichi con Parri alla presidenza del Consiglio, Nenni ministro alla Costituente, Romita all'Interno e Togliatti a Grazia e Giustizia. A scavezzare dalle fondamenta il governo ci provarono i liberali dimettendosi in blocco dai rispettivi incarichi governativi dando così alla DC il pretesto d'imitarli con la scusa che con l'uscita dei liberali, il governo non era più rappresentativo dell'intero CLN come si era stabilito in origine. Parri diede forfè il 24 novembre e in quello stesso giorno l'abate De Vincentiis, assistito dal fratello di don Paolino, don Tarcisio Beltrame Quattrocchi [9], affidava l'ex tesoro di Graziani a due ufficiali dei carabinieri perché lo consegnassero al futuro ministro della Guerra. I due prelati erano evidentemente consci che a Parri sarebbe succeduto De Gasperi come in effetti avvenne e, poco dopo il varo del nuovo governo, il neo ministro liberale della Guerra, Manlio Brosio [10], nel fornire ricevuta del tesoro contestualmente disponeva l'erogazione di 500 mila lire a favore dell'abate De Vincentiis, quale contributo straordinario per il restauro dell'abbazia dai danni subiti per i bombardamenti alleati; un premio straordinario che rassomigliava non poco alla taglia che lo Stato normalmente riconosce a chi gli fa recuperare dei tesori nascosti.

Anche fra Giuseppe Cornelio Biondi faceva parte della comunità benedettina di S. Giovanni in Parma anche se temporaneamente distaccato in qualità d'economo al monastero benedettino di S. Giustina a Padova.

Il blog di Giuseppe Casarrubea non risparmia caustici commenti, seppur contradditori, sul personaggio in questione.

Chiosando la losca attività del doppio e triplo agente S.D. Otto Ragen (alias "maggiore Begus") [11], in un post del 2008, Casarrubea riferiva su come Ragen avesse a suo tempo organizzato insieme a Borghese una missione a Roma del benedettino da loro incaricato di procacciare finanziamenti vaticani per un singolare nucleo "neo fascista", con sede a Campalto di Verona, dichiaratamente adibito ad azioni di sabotaggio e spionaggio "nell'Italia liberata". [12] Corrispondentemente Casarrubea, postava un documento C.I.C. -fonte evidente delle sue precedenti asserzioni- relativo a pretese rivelazioni del "maggiore Begus" -che nel frattempo era entrato in pianta stabile al C.I.C. per poi passare alla CIA- secondo le quali fra Cornelio, scortato dal marò della Decima, Eugenio Cesario -ambedue catturati dagli alleati a fine novembre del '44 mentre scavalcavano la linea del fronte- avevano ricevuto l'incarico di «… prelevare dal Vaticano una grossa somma di denaro destinata a finanziare le operazioni di sabotaggio e di spionaggio della Decima Mas nell'Italia meridionale». [13]

Affermazioni sconcertanti e così palesemente infondate da esimerci dal considerarle, posto che già in più occasioni abbiamo badato a documentare i rapporti segreti tra Vaticano e OSS e fra OSS e i vertici SS-SD in Italia. In seguito, lo stesso Casarrubea nell'attaccare l'allora ministro della Difesa, La Russa, rievocava tutt'altra situazione rifacendosi questa volta a coloro che torchiarono personalmente fra Cornelio stilando poi questo rapporto:

«Uno dei più interessanti casi cui abbiamo lavorato recentemente è quello del religioso Biondi, che ha attraversato le linee in compagnia di un altro agente. Mentre il suo compare ha subito confessato di essere un agente nemico, Biondi è invece riuscito a nasconderci che il suo unico obiettivo nell'Italia liberata era quello di consegnare importanti lettere e una somma di denaro a vari prelati romani. La sua storia è stata creduta al punto che è stato accompagnato sotto scorta presso la sede del suo ordine religioso a Roma. Qui, le sue lettere sono state esaminate. Sono state poi impartite disposizioni perché il soggetto rimanesse a Roma fino alla fine della guerra. Tuttavia Biondi si è nuovamente dileguato riuscendo a raggiungere Siena, dove è stato nuovamente arrestato. Alla fine Biondi ha confessato che il suo ingresso nell'Italia liberata era stato propiziato dallo SD, ribadendo però che l'obbiettivo della sua missione era quello esposto in precedenza. Tuttavia ha ammesso che doveva riferire allo SD sugli sviluppi del comunismo nell'Italia liberata. Abbiamo quindi iniziato a interrogarlo in maniera intensiva, appurando che Biondi era implicato in una importante missione di spionaggio politico. Doveva, infatti, ottenere delle risposte a un lungo questionario politico che avrebbe passato allo SD informazioni preziose al progetto di separare la Gran Bretagna e gli Stati Uniti dalla Russia». [14]

Ciò che svela il rapporto è notevolmente più attendibile che non le svianti farneticazioni dell'alcolista "maggiore Begus", specie là dove la tappa finale del Biondi è indicata in alcuni prelati della casa madre benedettina e non più in un generico " Vaticano". A saper ben vedere si può osservare in filigrana l'intreccio benedettino di quel canovaccio cui Schuster nemmeno troppo oscuramente aveva accennato nel corso del sermone da lui tenuto all'abazia di Montecassino il 21 marzo 1942. [15]

Del tutto scontato, quindi, che viaggio e passaggio del fronte da parte di fra Cornelio e del marò fosse nato con il patrocinio dei relativi superiori che, almeno per quanto concerne fra Cornelio, se ne servirono per avviare canali informativi riservati con modalità peculiarmente clandestine che ne evidenziano lo sfondo politico come non ha mancato di rilevare il già citato rapporto. Si potrebbe, anzi, affermare, che più ancora che politico, tale sfondo era d'ordine geopolitico come risulta dall'alta cognizione di causa del Biondi sull'allora appena abbozzato progetto di ritiro delle truppe tedesche dall'Italia per inviarle al fronte dell'Est, col miraggio di guadagnare il tempo necessario per l'"imminente" capovolgimento di fronte a seguito di una congetturata rottura dell'alleanza tra angloamericani e sovietici. [16] Un ribaltone non da poco e che non sarebbe punto spiaciuto al cardinale Schuster, da quando egli aveva appreso da Wolff del piano di Himmler di negoziare con i vertici politici angloamericani la defenestrazione di Hitler tramite un colpo di stato interno. [17]

In quello scorcio d'autunno-inverno del '44 e oltre, ben pochi individui delle varie parti in causa sapevano di questa macchinazione e fra Cornelio era indubbiamente uno di questi. Essere al corrente di tali informazioni sommato al lungo rapporto di comunanza ecclesiale con ambedue i fratelli Beltrame, colloca senz'altro fra Cornelio nella cerchia ristretta dei collaboratori 'Nemo'. Tenuto inoltre conto che capo maglia 'Nemo' per il Veneto era nel periodo in questione, il triestino Guido Tassan, legato a doppio filo a don Paolino e De Haag [18], si può tranquillamente ipotizzare che la missione romana di fra Cornelio comprendesse abboccamenti con gerarchie militari, di governo e vaticane al fine di aggiornarle, oltre che sulle trame di Wolff, anche sulla situazione di Trieste e del CLN triestino in attrito ormai da qualche tempo con gli slavo comunisti e con buona parte del CLN Triveneto. Risale, infatti, al periodo romano di Biondi la decisione di alcuni partiti del CLNAI di sostenere, con la massima riservatezza, le istanze italofone del CLN triestino. Anche la partecipazione alla missione del marò della Decima è classificabile in tal senso.

Si deve, infatti, sapere che anche Borghese era fra i rari eletti al corrente degli intrighi sul disimpegno tedesco in Italia da parte di Wolff e Himmler [19] e talune sue direttive operative ne sarebbero la conferma a partire dal riposizionamento tattico disposto nell'autunno del '44 per la Divisione Decima, spostata dai confini francesi a quelli veneto-istriani: «… contro le bande di Tito, con lo specifico compito di restare sul posto per una resistenza ad oltranza anche nell'eventualità che le truppe germaniche si fossero ritirate. [20]

Resta infine da stabilire l'aspetto pecuniario sotteso alla missione Biondi dovendosi a questo punto chiarire se l'obiettivo era quello di collocare un'ingente somma dal Sud al Nord o viceversa; tema necessariamente circoscritto all'inclinare verso l'una o l'altra delle due opposte versioni. A nostro parere l'economo benedettino non trasportava alcuna ingente somma [21] ma, se mai, lettere d'accredito da far valere presso comunità ecclesiali dei territori invasi. Si tratterebbe, sempre a nostro parere, di somme precedentemente depositate presso ecclesiastici del Nord da far poi valere, di là delle linee, a favore di persone in qualche rapporto con la Decima come la stretta parentela di marò impegnati al Nord dai quali avrebbero avuto aiuti materiali o finanziari tramite determinate strutture ecclesiastiche utilizzate a mo' di filiali bancarie. [22]

Altre e più gravi congetture di tipo bellico-politico andrebbero escluse vista l'anomala benevolenza dimostrata nell'occasione dagli angloamericani nei confronti di un pur "confesso" come Biondi, da loro evidentemente giudicato non troppo ostile e affatto spia. [23] Per quanto l'ulteriore fermo di Biondi si fosse concluso col suo internamento, si trattò in realtà di poca cosa rapidamente appianata da palesi interventi a suo favore. Fonti giornalistiche hanno poi svelato, come dopo il blando internamento, fra Cornelio sia stato inviato dall'OSS in Sicilia ad infiltrarsi nella "banda Giuliano": «… è sempre in quel periodo che in Sicilia vengono paracadutate altre pedine fondamentali della "rete Angleton". Uno è il monaco benedettino scomunicato Giuseppe Cornelio Biondi, catturato dall'OSS (rapporto 4 aprile 1945) come "agente nemico" e poi internato in un campo di concentramento. All'improvviso viene liberato, qualche mese dopo ce lo troviamo in Sicilia. È a Monreale insieme a Gaspare Pisciotta, il braccio destro di Giuliano. [24]

A parziale rettifica di quanto precede, bisogna dire che a quel tempo fra Cornelio non aveva ancora subito particolari provvedimenti disciplinari come del resto attestano alcune sue visite al vescovo di Monreale. Anche per quanto concerne la sua missione siciliana, non per questo egli deve essere stato arruolato dall'OSS che in realtà non aveva la necessita di doverlo assoldare in quanto era già operativo per conto del SIM e il SIM era rigidamente inglobato nell'OSS da cui direttamente dipendeva. Semmai è da reputare che dovendosi trarre dai guai nei quali si era cacciato col suo secondo arresto, fra Cornelio sia ricorso al confratello Tarcisio Beltrame, cappellano dello Stato Maggiore della R. Marina, notoriamente in stretti rapporti con il SIM-Marina ove dal 1943 era attivo il fratello e confratello, don Paolino. Una volta chiarita la sua posizione agli alleati, il SIM-OSS ritenne evidentemente di poterlo utilizzare in Sicilia dove, non meno che nella Venezia Giulia, si stavano più o meno occultamente confrontando diversi interessi geopolitici. A cominciare dai britannici che guardavano con discreto interesse ai fermenti indipendentistici del M.I.S. di Finocchiaro Aprile, così come gli statunitensi - che in concorrenza ai cugini inglesi covavano anche loro qualche mira sulla più strategica fra le isole mediterranee – non rifiutavano di ossigenare i vagheggiamenti annessionistici nei loro confronti da parte dell'allora Partito della Ricostruzione e delle sue bande armate concorrenti dell'EVIS. [25]

Nei limiti delle sue possibilità, poiché formalmente sottomesso all'OSS-CIA, fra Cornelio cercava di favorire o sabotare le situazioni gradite o meno a ciò che avanzava del SIM che, seppure ufficialmente sciolto dagli alleati, manteneva un suo ufficio operante al Viminale sotto la copertura di Centro antincendi P.S.

Da quel che si sa, fra Cornelio s'inserì senza troppe difficoltà nella "banda Giuliano" se non proprio da cappellano, quasi; una specie di consigliere spirituale e in questa ambigua veste riuscì a incartare e a portarsi dietro il luogotenente di Giuliano, Pisciotta, il quale fu indotto a tradire il capo e, al momento opportuno, ucciderlo nel sonno. Dopo essere stato spinto a collaborare con il colonnello dei carabinieri e ufficiale del SIM, Ugo Luca, da cui giunse l'ordine di eliminazione, chi in definitiva intascò la taglia di 5 milioni che pendeva sulla testa di Giuliano fu il Biondi, forse in rappresentanza di Pisciotta che, nel frattempo, era stato arrestato e quindi pure lui liquidato con un caffè corretto al topicida sorbito all'Ucciardone, sicché i milioni della taglia si bloccarono in tasca a fra Cornelio. L'inghippo venne poco dopo a galla, anche perché Pisciotta vi aveva già fatto cenno lamentando una truffa che supponeva si stesse orchestrando ai suoi danni, Del fatto s'impadronì la stampa che montò uno scandalo dai toni sia anti DC che anti clericali. Lo stesso De Gasperi dovette difendersi dichiarando di non aver mai avuto a che fare con quel monaco peraltro a lui sconosciuto. Scelba cercò di fare altrettanto trovandosi però in una posizione più difficile a causa dell'evidente nesso che legava il monaco ai "servizi" del Viminale da lui diretti. A questo punto dell'intrigante e intrigata vicenda, fra Cornelio ebbe l'intimazione dei superiori di rientrare immediatamente alla badia di San Giovanni. Alle ostentate orecchie da mercante sfoderate per l'occasione da Biondi, fece riscontro quella censura ecclesiastica che solo allora gli fu inflitta. Infischiandosene anche della sanzione, fra Cornelio continuò imperterrito a calzare l'abito talare divenuto ormai indispensabile strumento di lavoro. Le ultime notizie a suo riguardo, risalenti ai primi anni '50, lo vedono partecipe di sempre più ingegnose truffe come quella da lui organizzata nell'ambito della Pontificia Opera Assistenza (POA) concernente un lucroso giro di contrabbando di alimentari che, già destinati alla distribuzione gratuita in Italia, vennero dirottati e venduti alla borsa nera nell'altrettanta affamata Germania. Vi sarebbe inoltre una denuncia a suo carico da parte di una casa cinematografica alla quale Biondi avrebbe spillato circa 100 milioni, millantando importanti quanto sfruttabili aderenze in Vaticano. [26]

Al già non poco che precede, si deve pure aggiungere che questo più o meno ex monaco è stato anche chiamato in causa per l'accennato "piano Graziani". Circoscrivendo l'attenzione alle sole dichiarazioni del "maggiore Begus", correlandole alla presenza a Padova di fra Cornelio, la ricercatrice Carla Cernigoi ha scritto in proposito: …Padova ambiente frequentato dal monaco benedettino era un centro di eversione anticomunista. Qui il 21 marzo 1945 in attuazione del Piano Graziani, si era costituito un coordinamento della rete clandestina destinata ad operare dopo la sconfitta. [27] Per meglio inquadrare il brano è bene aggiungere che questi risale a qualche anno fa ( 2011) quando la Cernigoi non era ancora venuta a conoscenza di una nostra più datata ricerca emblematicamente intitolata "Nome Gladio, paternità Nemo". [28] Stimolata forse anche dal predetto articolo, la Cernigoi ha voluto approfondire l'argomento per quanto atteneva la maglia "Nemo" di Trieste, riversando poi il frutto di questa sua nuova ricerca in un corposo dossier da lei pubblicato nel 2013; dossier che ha oggettivamente contribuito a mettere in luce la tentacolare rete "Nemo" nel suo complesso. [29] Anche in base alle sue nuove acquisizioni, ci permettiamo di far notare alla meticolosa Cernigoi che qualora si dovesse effettivamente trovare un qualche riscontro alla sua tesi relativa a un supposto legame fra il monaco Biondi e le "trame venete" di un quarto di secolo dopo, sarebbe null'altro che la conferma dell'equazione "Nemo = Gladio", in quanto è oggi scontata in forza anche al presente articolo, la commistione Biondi -"Nemo", salvo non si pretenda di raffigurare un Graziani in veste di "Grande Vecchio" di "Nemo" prima e di "Gladio", ipotesi a dir poco delirante.

Per finire l'argomento, torniamo a Romualdi abbandonato in quel di Ferrara il giorno in cui l'abate di Parma incamerava "per sicurezza" il tesoro Graziani. Come accennato, Romualdi era stato incaricato dal Duce di verificare di persona il fronte romagnolo per tornare poi a riferirgli. Al momento del suo arrivo i combattimenti erano in pieno sviluppo a una dozzina di chilometri circa da Ferrara e, come riporta Romualdi, in città non si stava approntando alcuna efficace difesa, dopo aver anche rinunciato ad allagare parte del Ferrarese facendo saltare a Bondeno la "Botte Napoleonica.

Recatosi insieme al prefetto Altini e altri esponenti repubblicani in visita all'arcivescovo Borelli, Romualdi lo informava:…che erano stati fatti da parte nostra opportuni passi presso i tedeschi operanti affinché la città ormai considerata caduta per manovra, non fosse difesa ad oltranza.

[…] Prima di lasciare l'arcivescovado, pregai il vescovo di accettare la somma di cinque milioni, che consegnai personalmente a nome del governo, perché se ne servisse per aiutare chi ne avesse avuto bisogno fra quelli che, impegnati militarmente o politicamente con noi, non avessero voluto ripiegare. Seppi più tardi che, richiesto di aiuto, negò la circostanza. Ma voglio essere certo che la somma sarà servita per altre opere di carità. [30]

Quest'ultimo atto di cronaca grigia sta a dimostrare come in quel particolare periodo bellico era abbastanza usuale la prassi di precostituire fondi da impiegare a eventuale sostegno di militari e civili perseguitati perché compromessi col cessato governo della RSI.

 

Note alla parte Ottava

 

 [1] Rete Nemo: il CLN consegna Trieste agli slavi di Tito "Historica" n. 29/ 2013.

 [2] C. Cernigoi "Dossier 46: Alla ricerca di Nemo" pag. 27.

 [3] Stando a quanto riferito da Gnecchi Ruscone, la rete "Nemo" avrebbe esaurito l'attività" a inizio estate" '45, dopo una festa di congedo tenuta nel giardino di villa Puricelli sul lago di Varese (F. Gnecchi Ruscone cit. pag. 115). Ciò poteva valere per Gnecchi Ruscone e non per altri più organici alla rete. Pare, infatti, che il sodalizio segreto sia proseguito almeno fino a che il Maggiore Page (o Pagella) responsabile della rete verso il SIS britannico, morì in un incidente stradale nell'autunno del '45. Anche le nomine a questore e vice questore di Elia e De Hagg. verrebbero a conferma della continuità se non proprio della vecchia rete, del suo impegno politico

 [4] A. Curti - B. Molossi "Parma anno zero" 1982, pag. 54.

 [5] I vari reparti genieri avevano consistenza iniziale di battaglioni territorialmente frazionabili in compagnie autonome. Riguardo a Pavia si ha notizia della costituzione fin dall'autunno del '43 del I Battaglione Artieri Stradali, composto di Comando, Compagnia Comando e da tre compagnie. Segnala Pisanò che, compiuto il giuramento, le singole compagnie furono variamente dislocate (G. Pisanò "Storia delle FF.AA. Della RSI" Vol. II, pag. 834).

 [6] Se il verbale di restituzione del 24 novembre 1945 è stato reso pubblico, non altrettanto si può dire per la distinta dei valori sia in entrata che uscita e ciò vale anche per il primo verbale di acquisizione del quale si conosce l'esistenza solo per il richiamo inserito nel verbale di novembre.

 [7] P. Romualdi Fascismo repubblicano pag. 152.

 [8] Il testo completo del documento è stato pubblicato in "Storia Illustrata" n. 336, novembre 1985, con relativo commento del funzionario archivista Gaetano Contini e indicativamente intitolato: "Getteremo l'Italia nel caos". Ci riserviamo di approfondire l'intrigante argomento in un prossimo articolo.

 [9] .Dei quattro fratelli Beltrame Quattrocchi, tre -due maschi e una femmina- pronunciarono i voti. Don Paolino, seguì le orme del fratello maggiore, Tarcisio, facendosi monaco benedettino. Già ambedue cappellani militari, dall'8 settembre, Tarcisio passo al Sud come cappellano di Sato Maggiore della R. Marina e per suo tramite don Paolino entrò a far parte del SIM-Marina. Quando nell'ambito della Regia Marina fu creata la rete 'Nemo', don Paolino vi aderì svolgendo importanti incarichi. Al termine del conflitto i fratelli Beltrame rientrarono a S. Giovanni dove don Tarcisio fondò un reparto scout intitolato, giusto per non smentirsi, a Max Casaburi, sfortunato vice di don Paolino nella maglia 'Nemo' di Parma.

 [10] M. Brosio, già ex segretario del PLI nel 1944, passò nel 1947 alla carriera diplomatica che terminò da ambasciatore negli Stati Uniti (1955-60). Dal 1964 al 1971 fu il primo italiano a ricoprire la carica di Segretario generale della NATO. Socio Bilderberg, nel 1974 aderisce al Comitato di Resistenza Democratico organizzato da Edgardo Sogno, che raccoglie i maggiori esponenti dell'ex resistenza bianca. Svelando in seguito i suoi progetti golpisti che prevedevano un governo autoritario presieduto da Pacciardi, Sogno ha indicato quale candidato agli Esteri di tale governo il Brosio.

 [11] Catturato dagli angloamericani presso Bolzano nel maggio '45, Otto Ragen spiava camerati e americani per conto dei sovietici, per passare infine nei ranghi del C.I.C. - C.I.A. con il nome in codice di "Petty".

 [12] Cfr. G. Casarrubea al capitolo "Organigrammi militari" in Portella delle Ginestre: Sessant'anni di silenzi.

 [13] G. Casarrubea "Documenti statunitensi e italiani sulla Banda Giuliano, la Decima Mas e il neo fascismo in Sicilia".

 [14] Rapporto in data 8 febbraio 1945 "Note sul controspionaggio in Italia n. 6" riportato nel blog Casarrubea a corredo dell'articolo postato il 25 dicembre 2009, " La Russa e la Decima Mas".

 [15] Prendendo spunto dalla caduta dell'Impero Romano, salutata da san Benedetto quale buona occasione per "un piano di ricostruzione spirituale d'un mondo novello" il card. Schuster rilanciò queste parole attualizzandole al presente: Quando domani, per ordine di Dio, sul mare in tempesta finalmente succederà la bonaccia, sarà nuovamente alla Chiesa che la Provvidenza Divina affiderà il compito della ricostruzione di questo desolato mondo. Il Pontificato Romano allora indubbiamente avrà al suo fianco la sacra Gerarchia coi diversi ordini. Ma io fin d'ora prevedo che alla famiglia Benedettina sarà riservata una sua particolare missione. (I. Schuster " Cristo e San Benedetto – per il dopo-guerra", Milano 1943, pp. 22-23). Al fine di amplificare questo messaggio, l'omelia fu data alle stampe e distribuita nel 1943 in occasione della festa di S. Francesco di Sales, patrono dei giornalisti lombardi.

 [16] Cfr. "Dietro le quinte…" cit.

 [17] Cfr. E. Caretto Sacrificare Hitler per salvare la Germania in "Corriere della Sera" del 5 agosto 2001.

 [18] Rete Nemo: il CLN consegna Trieste… cit.

 [19] Di questo fatto si è avuta recente conferma durante una conferenza tenuta a Mantova il 30 novembre 2013 da Stefano Delle Chiaie che avrebbe sostenuto nell'occasione di aver appreso direttamente dal Comandante della sua conoscenza circa i piani di ritiro dei tedeschi dall'Italia e di essere stato tuttavia vincolato al segreto sull'argomento avendo egli fornito in proposito la sua parola d'onore.

 [20] G. Pisanò "Storia delle FF.AA. della RSI" vol. II pag. 1049.

 [21] Unico aspetto conosciuto di tutto questo strano traffico, riguarda 192 mila lire trovate in possesso del monaco in occasione del suo secondo fermo presso Siena. Somma ai tempi notevole ma non così importante da poter giustificare in sé quel via vai per l'Italia di fra Cornelio.

 [22] Il trasporto d'ingenti somme oltre le linee era molto pericoloso non solo per gli imponderabili incontri, ma soprattutto perché l'avere con sé somme considerevoli poteva essere facilmente interpretato dalla polizia militare alleata come un finanziamento a nuclei di sabotatori militari o politici. Di una precedente missione speciale organizzata dalla RSI e i cui membri, due uomini e una donna, avevano il compito di recapitare la somma di 5 milioni al Sud a finanziamento della resistenza fascista, si persero definitivamente le tracce. L'ingente somma poteva, in effetti, allettare malintenzionati civili, partigiani e militari alleati. Fra l'altro non fu quella la sola missione dispersa; secondo Pisanò altre missioni speciali "Fritz", "Lux" e "Von Platen" avrebbero fatto la stessa fine e i nomi dei partecipanti restano tutt'ora sconosciuti (Cfr, G. Pisanò op. cit. vol. IV , pag. 2382)

 [23] Una recente pubblicazione ufficiale ha definitivamente chiarito la posizione di fra Cornelio a favore dello schieramento antifascista….un discorso appropriato circa la partecipazione alla Resistenza meriterebbe certamente la comunità benedettina di Santa Giustina, impegnata in un doppio gioco con padre Cornelio Biondi (P. Giois "Il contributo del clero del Comune di Padova alla Resistenza" 2002, pag. 49 n.2).

 [24] A Bolzoni e T. Gullo Le carte segrete sulla strage. L'ombra USA a Portella delle Ginestre in "La Repubblica" del 10 febbraio 2003.

 [25] Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia. Il dualismo mediterraneo fra Inghilterra e Usa, si risolse pacificamente con l'istituzione del Patto Atlantico che permise alle due potenze anglosassoni di conciliare, unificandoli, i rispettivi interessi geopolitici.

 [26] Cfr. Un prete denunciato per la truffa di 100 milioni all'organizzazione dell'< International Film> in "L'Unità" del 12 dicembre 1953, pag. 6.

 [27] C. Cernigoi "Il piano Graziani" in Blog di Giuseppe Casarrubea

 [28] Nome Gladio, paternità Nemo in "Rinascita" n. 24 del 10 feb. 2009, pp.14-15.

 [29] C. Cernigoi Dossier n 46 – Alla ricerca di Nemo www.diecifebbraio.info.

 [30] P. Romualdi cit. pag. 153.


 

Parte NONA:

AFFAIRE NEMO - APRILE '45:

ROMUALDI SUL FRONTE DEL PO

 

Franco Morini

 

Dopo che, da vice segretario del partito, aveva approvato e personalmente contribuito alla caduta di Ferrara "per manovra", ossia evitando di disporre successivi argini al nemico e condizionando in tal senso i residui nuclei germanici "operanti" in zona (1), anziché presentarsi subito a rapporto da Mussolini come gli era stato ordinato (2), Romualdi allargò il giro a Modena, Reggio e Parma, città, dove regnava ancora una " fiduciosa calma" (3), per annunciarvi l' imminente tracollo e per invitare alla smobilitazione e al ripiegamento oltre il Po.

Era lo stesso Romualdi che il giorno prima si era detto discretamente ottimista in quanto….pure ammettendo il totale sfasciamento delle truppe tedesche, nessuno poteva credere che la tradizionale prudenza, largamente usata fino a quel momento dagli anglo-americani nelle loro operazioni in Italia, sparisse di colpo, e le abituali lente e graduali avanzate si trasformassero in una rapidissima corsa in avanti. (4) Se ciò poteva valere il 19 aprile, dal giorno dopo vediamo Romualdi impegnarsi in una maratona in terra emiliana per indurre autorità civili e militari ad abbandonare le posizioni e giocarsi l'ultima chance del ridotto alpino che sapeva essere rimasto poco più di un progetto. Avallando la caduta del perno ferrarese ed evitando il contestuale allagamento della vicina bonifica, si consegnavano le chiavi di Bologna al nemico mettendolo in condizione di aggirare il capoluogo emiliano offrendogli, inoltre, un comodo varco da cui dilagare in Val Padana.

La smobilitazione delle retrovie del fronte comportò il blocco dell'intendenza addetta all'approvvigionamento dei combattenti, isolando reparti d'élite come gli arditi dei battaglioni "Pifferi" e "Forlì", che combattevano a fianco della 278ª divisione tedesca inquadrata nell'1° Corpo d'armata paracadutisti, temprati veterani della campagna d'Italia da Anzio a Cassino, e poi sul Senio, al comando del generale Hoppe. Dall'altra parte un mosaico di razze: guhrkas, polacchi, ebrei palestinesi, indiani, oltre a Gruppi di combattimento del regno del Sud; un babelico insieme relativamente motivato. Sul Senio si ebbe anche il primo combattimento fra connazionali con una serie di scontri diretti fra marò del battaglione "Bafile" e arditi del "Forlì". Dopo alterne vicende prevalsero gli arditi e il "Bafile" fu sostituito da altre truppe. (5) Nota a margine: il battaglione "Bafile" si era ricostituito al Sud alle dipendenze del capitano Emilio Elia, prima che questi s'imbarcasse nella missione "Nemo". Similmente al "Bafile", la "Folgore" del Sud, appresa la presenza sull'altra sponda di reparti paracadutisti della RSI, evitò d'impegnarsi a fondo per cui venne ugualmente sostituita da altri contingenti. (6) Che dopo mesi d'intense scaramucce le truppe alleate riuscissero infine a varcare il Senio (15 aprile) era già nel conto; ipotizzare di lì a poco una specie di nuova Caporetto, no. Anche perché la zona del delta del Po poteva prestarsi, non meno della precedente, a nuova linea di difesa abbinandola eventualmente al Reno. Da questa diffusa opinione derivava la sostanziale tranquillità che Romualdi aveva incontrato nei centri emiliani da lui visitati. Ovviamente s'ignorava la decisione di arrendersi a breve da parte degli alti comandi tedeschi, essendo tale faccenda circoscritta al comandante SS in Italia Wolff e a Von Vietinghoff per la Wehrmacht, più pochi altri loro cooperanti, oltre al cardinale Schuster e i suoi più diretti collaboratori fra i quali non mancavano agenti "Nemo" come Giuseppe Cancarini Ghisetti. Si dovrà attendere il 22 aprile affinché Vietinghoff si scoprisse almeno in parte nel diramare l'ordine ai capi unità di sospendere unilateralmente le ostilità, ponendo, così facendo, le sue truppe al fronte nella infausta condizione di non pace e non guerra rispetto a un nemico che, sfruttando l'inusitato vantaggio, ne approfitterà per concedersi una plateale avanzata finale che nel ordinario procedere di quella campagna di guerra, non sarebbe stata possibile. (7) Resterebbe a questo punto da spiegare come mai, dato che fino al 22 aprile il fronte sul Po era ritenuto sostanzialmente stabile (8), Romualdi abbia agito nel suo raid emiliano come se fosse a conoscenza di quanto di lì a poco, sarebbe effettivamente avvenuto. Era o no al corrente? In assenza di revolver fumanti ci limiteremo a prendere in esame alcuni elementi convergenti e, se è vero che tre indizi concordanti equivalgono a una prova, si potrà dire di Romualdi che era fra chi sapeva.

Da Reggio Emilia, Romualdi raggiunse Parma nella serata del 20 aprile e, in corrispondenza a questa sua pur breve sosta, alcuni militari arrestati nel marzo precedente poiché individuati come infiltrati e doppiogiochisti, recuperarono la libertà.

Nella relazione cronologica relativa alla sua attività resistenziale, don Paolino scriveva in data 22 aprile che i suoi uomini in mano al nemico erano riusciti a "evadere". (9)

In che modo, lo riferì in poche parole il ten. Nadotti: «…l'incalzare degli avvenimenti mi permette, in data 23, di allontanarmi dalla caserma della G.N.R. nella quale sono detenuto».

A dirla tutta, più che "detenuto", Nadotti era se mai ospite, nel senso sacro del termine, del Comando della G.N.R. di Parma per espresso volere di Romualdi che si era rifiutato di consegnarlo sia al S.D che intendeva interrogarlo, sia al Comando Militare Provinciale da cui il tenente degli alpini Nadotti gerarchicamente dipendeva seppure distaccato a Milano presso la segreteria politica di Romualdi. (10) Altri ufficiali e graduati del C.M.P. collegati con Nadotti alla maglia parmense della rete "Nemo", erano invece agli arresti nel loro Comando in attesa di essere giudicati dal Tribunale militare di Brescia. (11) Il pesce più grosso della scompaginata rete "Nemo" parmense, era senz'altro il maggiore Max Casaburi -già responsabile per la maglia di Parma in sostituzione di Don Paolino rimasto bloccato a Roma- a disposizione dell'S.D. nel carcere cittadino "per ulteriori indagini" al pari del maresciallo Enrico Arrigoni. (12)

Il 21 aprile i tedeschi prelevarono ambedue trasferendoli a Bolzano, dove negli stessi giorni il generale Wolff aveva prudentemente trasferito il suo Comando. Il maresciallo Arrigoni finì confinato nel lager locale (matricola 11030, blocco D) mentre Casaburi si eclissò fino al 28 aprile, giorno in cui finì ammazzato in strambe circostanze alla periferia di Trento.

Nel profilo a lui dedicato dal sito ufficiale ANPI .solo spazio web che lo ricordi. si vuole che anche Casaburi sia stato internato nel campo di Bolzano ove sarebbe rimasto sino al 21 aprile (!) data in cui gli alleati lo avrebbero liberato (!!). Tornato libero, avrebbe intrapreso la via del ritorno assieme a tre parmigiani compagni di prigionia (?). Poco fuori Trento i quattro pretesi reduci dalla prigionia avrebbero incrociato un gruppo di SS in ritirata da Parma che, riconosciuti i tre antifascisti, li minacciarono con le armi. A questo punto si sarebbe intromesso da paciere Casaburi il quale sarebbe stato freddato nel mentre, si vorrebbe far intendere, faceva da scudo ai compagni che sarebbero, infatti, rimasti illesi. Sostanzialmente in linea col sito ANPI, la scarna sintesi riservata all'episodio da memorialisti dell'Istoreco di Parma: (…) deportato nel campo di concentramento di Fossoli (chiuso dal 2 agosto 1944!) e quindi a Bolzano. Fu abbattuto dal nemico a Liberazione avvenuta mentre intraprendeva la via del ritorno. (13)

Ovviamente più retorica la motivazione con la quale il capo missione Elia propose Casaburi per la medaglia d'argento alla memoria, concessa poi in bronzo:

Catturato dalle SS Germaniche e tradotto al campo di Bolzano e liberato dalla vittoria alleata, assumeva il Comando di un gruppo di ex prigionieri con il quale affrontava soldati tedeschi in ritirata. (14)

Volendo stringere, due sono e restano le certezze:

1) Casaburi e Arrigoni furono trasferiti da Parma a Bolzano il 21 aprile '45 come risulta dal rapporto coevo di don Paolino (15) e dalle relative annotazioni in uscita dal carcere di Parma

2) diversamente da Arrigoni, Casaburi non fu mai inserito nell'elenco matricolare relativo agli internati di Bolzan (16), sicché, non fu mai "liberato" dagli anglo-americani giunti peraltro a Bolzano dopo alla sua morte.

Non meno aleatoria la versione sulle pretese SS che il 28 aprile -quando Wolff aveva già ordinato di attenersi alla sola difesa personale- avrebbero aggredito armi alla mano, gli innocui e fantomatici accompagnatori di Casaburi, trascurando quest'ultimo che tuttavia sarebbe stato surrogatoriamente giustiziato al posto dei tre che causarono la reazione tedesca. Un misto d'irrazionalità e discordanze in evidente supplenza di altri dati oggettivi, se non a copertura di altri meno esponibili aspetti. Definita nei contorni questa ancora irrisolta vicenda, passiamo a Romualdi intenzionato a liberare l'amico Nadotti e, già che c'era, anche gli altri militari i quali si trovavano però detenuti in diverso luogo e sotto altre competenze. C'era inoltre il fatto che Romualdi doveva rientrare in fretta a Milano, ed essendo egli arrivato a Parma nella serata di vigilia della festività del Natale di Roma, gli sarebbe stato arduo sbrigare di persona l'intera faccenda. Valutati gli intoppi, a Romualdi non restava altro che appoggiarsi al federale di Parma, Angelo Rognoni, suo sostituito in quella carica all'indomani della nomina alla vice segreteria del partito. Di ciò si ha un sia pur vago riscontro in un appunto emerso dagli incartamenti processuali dell'avvocato Gustavo Ghidini, difensore del federale in Corte d'Assise Straordinaria. Trattasi di brevi cenni riguardanti fatti a discolpa del suo assistito, annotati dietro indicazioni avute per l'interposta persona di mons. Arnaldo Marocchi, dall'allora vescovo di Parma, Evasio Colli. Uno schematico elenco di accordi concernenti scambi di prigionieri e unilaterali scarcerazioni su intercessione del vescovo, cronologicamente riportato al periodo nel quale Rognoni era subentrato a Romualdi. Queste annotazioni si concludevano, dopo gli estremi di una missiva inviata dal federale al vescovo in data 19 aprile, con un'ultima postilla:

S.E. il Vesc. dice che R. (Rognoni) era nel pugno di Romualdi; questi nell'andarsene visitò il Vescovo e gli parlò di R. (Rognoni) in modo che suscitò nel Vescovo tale impressione.

Durante la visita di Romualdi al vescovo di Parma, presumibilmente compiuta nella mattinata del 21 aprile e di cui Romualdi non fa alcun cenno, non si sarebbe potuto evitare di affrontare la delicata situazione creatasi a Parma con i numerosi arresti del marzo precedente. (17) Arresti causati dal rinvenimento all'interno della canonica dei Padri Stimmatini (18), dell'intero archivio del servizio segreto partigiano. Scoperta a cui seguirono numerosi fermi -non meno di una cinquantina- e pare che di tutti i vari arrestati solo quelli collegati a Nadotti, in altre parole alla maglia "Nemo" diretta da Don Paolino, tornarono anticipatamente in libertà. Si spiegherebbero in tal guisa le sibilline assicurazioni espresse con fare cospiratorio al vescovo, circa il federale Rognoni saldamente "nel pugno" di Romualdi".

Il sia pur vago accenno del vescovo, trova puntuale riscontro nella dichiarazione sottoscritta dal gesuita P. Cipriano Casella, Superiore della chiesa di S. Rocco, attestante che, il 23 aprile 1945, Rognoni gli aveva affidato tutti i detenuti dalla BB.NN. di Parma perché li nascondesse in parrocchia fino all'arrivo delle avanguardie nemiche (19). Dichiarazione scientemente imprecisa anche perché chiaramente compilata a fini difensivi nel processo al federale di Parma. Atti e incartamenti dell'ufficio di difesa in nostro possesso (20) rivelano, infatti, che non tutti i detenuti presso la BB.NN. vennero rilasciati il 23 aprile, così come non tutti i rilasciati furono affidati alla protezione di P. Casella. (21)

Da altro appunto di pugno dell'avv. Ghidini si scopre peraltro che i rilasciati nella circostanza furono sette e sette corrisponde al numero complessivo dei detenuti militari legati alla maglia locale della rete Nemo (22) i quali erano stati evidentemente concentrati nella sede della BB.NN. prima di essere affidati in abiti civili a P. Casella. (23)

È pertanto assodato che il federale s'impegnò efficacemente per la liberazione di detenuti con l'assistenza delle locali autorità religiose. Si deve però aggiungere che l'effettiva dinamica dei fatti fu stravolta in sede giudiziaria dalla particolare strategia difensiva suggerita a Rognoni dal suo difensore che, oltre ad essere un esponente storico del socialismo locale, era suocero della sorella del federale stesso. Si spiega in tal modo la versione resa dal federale circa il suo incontro con Romualdi nella serata del 20 aprile. Una visita tanto inaspettata che, sostenne il federale, l'avrebbe costretto a revocare un già programmato approccio per la stessa serata con esponenti del Comando Unico partigiano diretto dal col. Ceschi. (24)

Ciò premesso, Rognoni dipinse a una Corte che non ambiva a udire altro, un Romualdi di ben altro stampo che lo avrebbe esortato a sbarazzarsi dei prigionieri prima di ripiegare, mettendo al muro almeno i "più pericolosi". Dichiarazione irreale strettamente funzionale a una precisa strategia difensiva disperatamente tesa a parare, almeno in parte, la valanga di accuse, per lo più fantasiose e infondate, concernenti il suo presunto comportamento di federale a Parma. Per le accuse più eclatanti, relative ad alcune ineluttabili rappresaglie, Rognoni chiamò in causa i diretti superiori, Pavolini e Romualdi, che a suo dire gliele avrebbero imposte. Quanto poi alle supposte sevizie affermò di non saperne nulla, scaricando di fatto ogni eventuale responsabilità su Egisto Maestri che, in quanto capo dell'ufficio politico della BB.NN. era il diretto responsabile degli arresti e degli arrestati. Bisogna tuttavia considerare che Pavolini era morto, mentre di Romualdi non si sapeva nulla da tempo per cui era eufemisticamente annoverato fra i dispersi o, per gli ottimisti, espatriato all'estero. Non diversamente da Rognoni, anche gli altri maggiori imputati della BB.NN. di Parma, a cominciare da Maestri, tentarono disperatamente di dirottare ogni loro imputazione, più o meno fondata che fosse, sul convitato di pietra Romualdi, che della BB.NN. era stato il comandante sino al novembre del '44. Un profluvio di convergenti accuse che, oltre a creargli la gratuita fama d'intransigente, gli valse in separato giudizio la condanna a morte in contumacia, senza che di ciò i coimputati-accusatori ne potessero beneficiare essendo stati a loro volta colpiti da otto condanne capitali distribuite fra poco più di una dozzina d'imputati. Sentenze commutate regolarmente in appello a pene detentive (25) con l'esclusione del mancato appellante, il contumace Romualdi. Alcuni anni dopo, Romualdi fu assolto alle Assise di Macerata su richiesta della pubblica accusa per non aver commesso i fatti che gli erano stati addebitati e non. (26)

Fondamentali le (false) testimonianze a suo favore da parte di Giovanni Nadotti, presentatosi alla Corte come ex agente del SIM, e di Don Guido Anelli -di cui ci siamo già ampiamente interessati (27), anche lui testimone a discarico in veste di ex agente dell'OSS. (28)

L'ampia revisione processuale, concernente gli altri imputati della BB.NN. era l'inevitabile conclusione di una sentenza artatamente disposta dai giudici togati in forma "suicida" per sopperire all'ingiustizia processuale causata dagli intolleranti pregiudizi di una giuria popolare esclusivamente composta di membri designati dai partiti del CLN.

Riportando acriticamente in sentenza quanto espressamente richiesto, e a volte imposto, dalla intollerante faziosità partigiana, fomentata in aula da una ciurma vociante di energumeni che si spingevano fino ad aggredire gli imputati nel loro banco, i magistrati erano consci e di fatto complici dell'inevitabile cassatura in appello della loro sentenza.

Una situazione dibattimentale a dir poco kafkiana, nella quale si enunciavano fatti orripilanti quanto paradossali, quali l'aver conservato presso comando della BB.NN. un secchio d'occhi estirpati a malcapitati avversari o altre non meno originali fantasticherie come l'aver sottoposto alcuni antifascisti a una severa "cura" consistente in metodiche bastonature effettuate con un randello "foggiato a termometro" (sic!) intervallate a iniezioni di benzina. A fronte di simili cervellotiche accuse, appariva essenziale guadagnare tempi migliori così come per i condannati a morte il mantenersi quanto meno in vita fino al giudizio d'appello; tutti motivi, se non nobili, atti a giustificare l'abnorme palleggiamento di fantasmagoriche responsabilità. (29)

Esaurito l'argomento "evasioni" più o meno fasulle con appendici processuali varie, riprendiamo a tallonare Romualdi che, nella mattinata del 21 aprile dovendo urgentemente rientrare a Milano, anziché proseguire nel canonico tragitto Parma-Milano, via Piacenza, virava incomprensibilmente per Casalmaggiore, minuscolo centro sulla riva cremonese del Po. Essendo chi scrive dei pressi, può affermare che alcun sobrio viaggiatore frettolosamente diretto a Milano, lascerebbe il tratto di strada che conduce a Piacenza e da lì a Milano, per imboccare la più eccentrica via Mantova che incrocia Casalmaggiore. Per quanto i ponti sul Po che collegavano Piacenza alla sponda lombarda fossero andati distrutti dai bombardamenti, era rimasto tuttavia agibile il ponte di barche costruito nelle immediate vicinanze di Piacenza fra le località di Gerbido e Mortarizza, sulla linea Codogno-Lodi-Milano In quell'epoca pre autostradale, Casalmaggiore era caso mai una tappa usuale per chi era diretto al Brennero sul percorso Mantova – Verona – Bolzano. L'anomalo tragitto di Romualdi, assume maggior senso quando lo si colleghi al suo "fortuito" incontro con la colonna automobilistica organizzata da Dollmann, proveniente da Reggio Emilia e diretta appunto a Bolzano. Il "fortuito" incontro avvenne all'imbocco del ponte di barche sul Po presso Casalmaggiore. In auto con Dollmann viaggiava, non certo a caso, l'ex prefetto di Trieste, ed ex governatore repubblicano di Roma, Temistocle Testa. Abbiamo già avuto modo di illustrare alcune loro peculiarità: l'ex prefetto e governatore Testa, circa la sua affiliazione e attiva collaborazione alla rete "Nemo" e, Dollmann, in quanto primo anello della catena gerarchica SS in Italia, "agganciato" a suo tempo dalla rete "Nemo" su precisa richiesta del centro operativo svizzero dell'OSS, diretto da A. Dulles (30). Ciò premesso,ci sembra ardua l'ipotesi che si sia trattato di un incontro casuale, aggiungendo l'altrimenti incomprensibile deviazione stradale di Romualdi (31). Viene anche spontaneo presumere un eventuale appuntamento fissato a seguito di un precedente contatto a Reggio Emilia dove Romualdi era transitato il giorno prima, allorché Dollmann stava smobilitando il suo comando. Giornata impegnativa per Dollmann, preso a organizzare il trasferimento e anche per Romualdi, ansioso di raggiungere Parma per risolvere la nota questione. (32)

Di questo incontro Romualdi riporta solamente lo stringato scambio di vedute con i due i quali gli avrebbero "confermato"…che stavano accadendo cose gravissime. Non si poteva però escludere secondo loro (Dollmann e Testa) che una linea di arresto potesse ancora essere costituita. Commento di Romualdi: Dollmann, gentilissimo e disponibile come sempre, barava. (33)

Che barasse è dir poco. Dollmann dopo aver fatto tappa a Bolzano si recò, infatti, sul fronte dell'Elba allo scopo d'indurre Kesserling a deporre le armi in coincidenza al fronte Sud. Per quanto inizialmente favorevole alla primitiva ipotesi di un ritiro ordinato delle forze germaniche dall'Italia per poterle meglio utilizzare in patria contro i sovietici, Kesserling declinò decisamente la proposta di resa incondizionata. (34)

Rientrato a Milano in tarda mattinata, nel primo pomeriggio Romualdi era già ricevuto in udienza dal Duce. Di quel che si dissero, conosciamo solo ciò che è annotato nelle memorie postume di Romualdi; memoriale da valutare con tutte le cautele del caso, mancando di riscontri alternativi, e comunque fatta salva la prerogativa di evidenziarne le incongruenze e le palesi contraddizioni. Dribblando da ogni eventuale commento del Duce relativo al suo operato nelle varie città emiliane (posto che di ciò lo avesse informato, e da qui in poi il condizionale è d'obbligo) Romualdi avrebbe esordito facendo presente a Mussolini che ormai: «… non credeva a una resistenza tedesca sul Po [in quanto] non c'erano né gli uomini, né le armi, né la voglia. Circa la disponibilità di "uomini", una secca smentita arrivò pochi giorni dopo dal proclama della vittoria indirizzato alle truppe da Alexander: I resti di quello che fu un orgoglioso esercito di quasi un milione di uomini, con i loro armamenti, equipaggiamenti e accessori, vi hanno consegnato le armi…».

Se non proprio "un milione di uomini", poco ci mancava. Il giornalista Ferruccio Lanfranchi in un suo articolo apparso sul "Nuovo Corriere della Sera", stimò in 800 mila unità i militari dell'esercito tedesco arresisi in Italia. Contestata tale cifra da più parti, Graziani compreso, Lanfranchi la ripropose testardamente perfino nel titolo del suo più noto libro edito nel 1948: "La resa degli ottocentomila". Cifra cui andrebbero aggiunte le varie forze repubblicane valutate da Pisanò in circa un milione di mobilitati dei quali la metà circa ancora operativi, almeno in teoria, nell'aprile del '45. È in ogni caso assodato che al momento dell'improvviso tracollo, si fronteggiavano in Italia venticinque divisioni italo-germaniche contro venti divisioni degli eserciti d'invasione. Ricordiamo, a questo proposito, che nel dicembre del '44, quando ancora era in auge il progetto di far di Milano la Stalingrado d'Italia, s'ipotizzò un plausibile concentramento di circa 300 mila militi repubblicani nella sola Milano. (35)

Se alcune decine di migliaia d'italo-tedeschi avevano tenuto la linea Gotica per ben due stagioni, cosa avrebbe potuto realizzare una forza ben più consistente attestata sulla linea del Po? Non tanto a vanvera gli stessi tedeschi avevano fino a poco prima assicurato Mussolini che la prevista linea del Po avrebbe tenuto "almeno fino a dopo il raccolto di giugno-luglio 1945". (36)

Questo in teoria, giacché nella pratica a far precipitare gli eventi furono diversi e foschi maneggi con devastanti conseguenze per militari e civili. Buona parte dei lutti derivati dalla sciagura politico-militare, si sarebbero potuti evitare con una più ferma e lungimirante tenuta bellica che, per quanto destinata alla fine a cedere, ciò sarebbe dovuto accadere sul campo e in base agli usi e costumi previsti dalle convenzioni internazionali. Tornando al rapporto di Romualdi al Duce, egli avrebbe così proseguito: «… era necessario non farsi sorprendere, anche per evitare che, diventata vana ogni resistenza, la guerra continuasse un giorno di più, che le città dovessero essere contese una per una e quindi distrutte più di quanto già non lo fossero. Non restava che tenere fino all'ultimo le città nel necessario ordine; evacuarle senza combattere e concentrarsi decisamente come era stato stabilito nel "ridotto"». (37)

Curiosa fregola di Romualdi quella per l'evanescente "ridotto", giacché alla prova dei fatti proprio lui s'incagliò alla prima tappa di Como dove cedette armi, mezzi e perfino la locale casa del fascio a inconsistenti forze partigiane seppure contornate dal pittoresco sciame d'insorti dell'ultima ora, militarmente trascurabili. Quanto agli aspetti umanitari, altro non erano che la copia conforme delle argomentazioni adottate in precedenza dal cappellano della RSI, padre Eusebio per indurre l'altro vice segretario del partito, Antonio Bonino -in quel momento incaricato da Mussolini di predisporre uomini e mezzi per il quadrato milanese- a desistere, e a far desistere Mussolini, dal coinvolgere la città di Milano nello scontro finale e non deve fra l'altro sfuggire che la mediazione umanitaria di padre Eusebio, era eterodiretta dall'arcivescovado. Ciò che era pienamente riuscito a padre Eusebio con Bonino e quindi Mussolini relativamente a Milano (38), veniva riproposto al Duce in formula generale da Romualdi. C'era forse di mezzo il vecchio regista dal solito copione? Non sappiamo, e neppure sappiamo cosa ne pensasse Mussolini poiché, riferisce Romualdi, il Duce si sarebbe limitato ad ascoltarlo meditabondo, interrompendolo solo per chiedergli "come la popolazione della valle padana avesse accolto le truppe d'occupazione", incassando da Romualdi l'improbabile quanto impietosa risposta : "Con applausi e fiori". Essendo il colloquio svoltosi nel primo pomeriggio del 21 aprile, ci si chiede cosa potesse saperne Romualdi più di Mussolini circa l'accoglienza riservata dai padani agli invasori, giacché i primi centri investiti -Bologna e Ferrara- stavano cedendo al nemico senza ostacolarlo, seguendo il consiglio dello stesso Romualdi, nel momento stesso in cui se ne parlava. Su Ferrara, ci siamo già dilungati. Di Bologna diremo solo che circa quarantotto ore prima, ossia il 19 aprile, Romualdi aveva telefonato al prefetto di Bologna, Fantozzi, il quale gli aveva fatto presente che: a Bologna si reggeva; dell'insurrezione partigiana nemmeno l'ombra. Fantozzi avrebbe tuttavia fulmineamente cambiato idea tant'è che in serata stessa dispose la smobilitazione ripiegando come prima tappa su Modena dove incontrò con Romualdi al quale riferì che il ripiegamento era regolarmente avvenuto "senza incidenti". (39)

La telefonata di Romualdi incise e quanto, sul repentino cambio d'opinione del prefetto di Bologna? È risaputo che l'avanzata delle forze d'invasione, così come l'espandersi o meno delle azioni partigiane, era inversamente proporzionali alla reazione italo-tedesca e, in tutti i casi indirizzata a conseguire risultati sempre col minimo rischio. La coalizione alleata limitandosi principalmente a cannoneggiare e bombardare senza tregua; i partigiani, regolarmente inclini al sciacallaggio, mirando alle spalle oppure a distanza di sicurezza tale da potersi in ogni caso dileguare. Che così sia stato fino all'ultimo giorno di conflitto, lo certifica Leo Valiani illustrando l'inizio della sedizione genovese, poi imitata dalle altre regioni: «L'insurrezione nazionale ha inizio, la sera del 23 aprile, a Genova. Un medico, il professor Romanzi, apprende che il comando germanico ha deciso di ritirare le truppe in direzione della Lombardia. Informato da Romanzi, il CLN della Liguria dà ordine dell'insurrezione. Sin dal mattino del 24 aprile, dopo sanguinosi scontri, se ne delinea il successo. Poco prima di mezzogiorno, ne ricevo notizia dal mio amico Corrado Franzi, direttore centrale della Banca Commerciale, che ha potuto parlare per telefono con un suo collega della sede di Genova. Corro a rintracciare Pertini e Sereni. Emaniamo immediatamente l'ordine dello sciopero insurrezionale per le ore 13 dell'indomani 25 aprile». (40)

Non fu dunque la caduta di Bologna, e neppure quella successiva di Ferrara, a determinare l'improvviso tracollo, ma le ormai palesi inclinazioni tedesche al ritiro o a chiudersi a riccio nelle proprie posizioni senza più combattere, a fornire ampi margini d'iniziativa completamente sfruttati dalle varie forze d'invasione come dai loro ascari locali.

Constatazione questa che trova sponda nell'ultimo argomento presuntamente trattato da Romualdi con Mussolini, circa la situazione di Piacenza. A tal proposito Romualdi avrebbe riferito che:.poco prima il prefetto Alberto Graziani gli aveva telefonato (v. nota n. 31) per parlargli di un progetto tedesco di difesa da organizzarsi da parte di tutte le forze nostre e loro.

Segue un'inattendibile sfuriata di Mussolini: «Ma che difesa! Cosa possono fare i nostri uomini coi fucili e coi mitra contro le colonne corazzate? Se volevano resistere sul Po dovevano predisporre le truppe e gli accorgimenti campali necessari. Dite al capo della provincia che non esiti e ripieghi non appena avrà radunato i suoi uomini». (41)

Parole queste che messe in bocca a Mussolini, più che stonate, suonano false. Se il Duce si fosse veramente espresso in tal modo, non v'è dubbio che il prefetto di Piacenza, Graziani, si sarebbe immediatamente adeguato, obbedendo. Accadde invece l'opposto e Piacenza fu una delle ultime città della RSI - certamente l'ultima di qua della linea del Po - a cedere a partigiani e invasori. Non riteniamo plausibile che Mussolini fosse così disinformato sulla reale situazione bellico-logistica di un nodo strategico qual era Piacenza, riguardo alla stessa stabilità e sicurezza di Milano.

Non è peraltro vero che sul Po non si fossero impiantati "accorgimenti campali" di difesa. Dal Piaz n'è stato diretto testimone tanto da poter «testimoniare per conoscenza diretta che almeno fino al 15 aprile la Todt fece lavorare italiani reclutati per l'approntamento delle difese sulla riva sinistra del Po, a riprova che la difesa della parte nord della Valle Padana rientrava nei piani concordati». (42)

E non è tutto, c'è ancora dell'altro che non torna affatto nel memoriale di Romualdi. Mentre Mussolini seguiva il rapporto di Romualdi, il battaglione "Lupo" della Decima era in partenza, perfettamente inquadrato, per il fronte del Po della Bassa ferrarese e, contemporaneamente, in Garfagnana la divisione bersaglieri "Italia" stava contrastando a palmo a palmo l'avanzata statunitense in quell'estremo lembo toscano della RSI. Smobilitare le città percorse dalla via Emilia, da Bologna a Piacenza, voleva dire abbandonare a se stessa l'intera divisione "Italia" facendogli venir meno la possibilità di ripiegare in oltre Po. Solo il controllo della via Emilia, o almeno di una parte di essa, garantiva l'accesso alle sponde emiliane sulla destra del Po. Infatti, l'ordinato ripiegamento dell'"Italia" verso il Po ebbe inizio il 24 aprile -tre giorni dopo il presunto dialogo riportato da Romualdi- snodandosi dal di concentramento di Fivizzano, su due direttrici parallele: il grosso attraverso il passo della Cisa in direzione di Parma, mentre la colonna logistica muoveva verso il passo del Cerreto dirigendosi a Reggio Emilia. Anche se buona parte dei tedeschi erano già trincerati nei loro accantonamenti in attesa di arrendersi agli anglo-americani, le due città emiliane risultavano ancora relativamente tranquille sotto l'egida di varie milizie repubblicane via via decrescenti per l'iniziato ripiegamento in Lombardia. A Parma un piccolo nucleo di bersaglieri distaccato in città, aveva l'ordine di presidiarla fino all'arrivo della colonna guidata dal generale Carloni, in questo sostenuti da altri volontari della BB.NN. e GNR che rinunciarono al ripiegamento per far fronte al nemico. Il presidio tedesco trincerato all'interno delle sue basi, si era limitato a far esplodere il deposito di armi, munizioni ed esplosivi custoditi nella farnesiana Cittadella. I primi scontri con le ancora abbastanza caute squadre SAP, erano iniziati il 25 aprile ma già nella nottata del 26 arrivarono i blindati nemici e, dietro di essi, le prime formazioni partigiane che da ore attendevano acquattate in periferia di potersi far scudo delle truppe d'invasione per poter dilagare in città e dare inizio alla caccia ai fascisti che, da quel momento, erano ormai franchi tiratori. Nel frattempo la punta avanzata della colonna Carloni era giunta in località Ozzano Taro, a poche decine di chilometri dalla città. Appresa la contemporanea caduta in mani nemiche di Parma, il generale Carloni decideva di raggiungere in ogni caso la via Emilia per dirigersi su Piacenza, che si sapeva non ancora espugnata, e di lì guadagnare il Po. Giunti in prossimità della via Emilia,in località Medesano, i bersaglieri si trovarono la strada sbarrata da mezzi corazzati del Corpo di Spedizione Brasiliano. Dopo aver atteso il rifluire dalla Cisa dei reparti in coda, il 27 aprile, Carloni decideva di dare battaglia al nemico, attestato sulla riva sinistra del fiume Taro, facendolo investire di lato dal battaglione "Intra" e dal 1° reggimento bersaglieri i quali, dopo aver attraversato il Taro, riuscivano a scalzare il nemico che si attestava su linee arretrate predisponendosi allo scontro di posizione nella certezza che i bersaglieri non avrebbero potuto sostenerlo a lungo poiché il tempo gli era inesorabilmente contro. Bloccati a valle della strettoia collinare, il 29 aprile i bersaglieri dell'"Italia" si arresero ai brasiliani nel pieno rispetto degli usi e costumi di guerra. Al generale Carloni fu lasciata la pistola in segno di riconoscimento del valore suo e dei suoi soldati e quindi accompagnato da un suo pari grado fino al campo di concentramento di Firenze. Se Carloni non si fosse imbattuto nei brasiliani o fosse comunque riuscito a romperne l'assedio, avrebbe avuto ancora la possibilità di traghettare la sua divisione oltre il Po, grazie all'agibilità dei ponti presso Piacenza ancora in mano a reparti delle SS italiane. C'è da dire, infatti, che "il progetto tedesco di difesa" di Piacenza, accennato a Mussolini da Romualdi, di tedesco aveva la sola denominazione di "gruppo di combattimento Binz" (o Gruppe Binz) essendo interamente costituito, ufficiale comandante a parte, da legionari delle SS italiane appartenenti ai reparti Debiça e Degli Oddi, per complessive 1500 unità che fin dal febbraio precedente avevano sostituito a Piacenza la divisione Turkestan inviata di rinforzo sul fronte della Romagna. È plausibile che Mussolini non fosse informato che da vari mesi l'area piacentina a ridosso del Po era presidiata da un consistente gruppo di legionari delle SS italiane? Il memoriale di Romualdi sull'argomento non va oltre, forse perché il suo compilatore non ha mai saputo che prefetto, SS italiane e Brigata nera piacentina avevano tenuto la città e i vari ponti di barche sul Po che sostituivano quelli danneggiati, fino alle due di notte del 28 aprile quando, reso inservibile l'ultimo ponte di barche presso Mortizza, i legionari superstiti si ritirarono oltre il Po. I partigiani locali si azzardarono a penetrare guardinghi in città, ancora presidiata da un nucleo di franchi tiratori, solo nel pomeriggio del 29 aprile. Tant'è che ancora nel pomeriggio del 28 aprile, uno degli ultimi fascisti ad abbandonare la città, tale Pirotu, «dopo aver messo in fuga un gruppuscolo di antifascisti cittadini radunatisi nei pressi del Comune, con lancio di bombe a mano, entra nella casa Municipale che dà su piazza Cavalli ed espone in bella vista una grande foto di Mussolini, una di Hitler e una del maresciallo Graziani improvvisando addirittura un breve comizio sulla piazza vuota, che concludeva in dialetto piacentino con un ottimistico: Cara al me platon, sta tranquill ca vinsarum». (43)

In quel momento il "platon", Mussolini, era già stato assassinato da sicari tuttora ignoti. Certo che nel piacentino non mancarono scontri, anche duri, contro colonne corazzate anglo-americane come nei pressi di Mortizza dove il Dobiça, fra il 26 e 27 aprile, distruggeva due carri armati e faceva prigionieri otto americani. (44)

Evidentemente si trattava degli ultimi prigionieri di guerra alleati, così come la riuscita azione dei bersaglieri sul Taro è da annoverare come ultima azione offensiva bellica delle forze armate della RSI. Due mirabili esempi dell'immutato spirito combattivo del milite italiano quando possa contare e fidarsi dei superiori. Sarebbe stato sufficiente tenere Parma qualche ora in più, per riuscire a portare la divisione "Italia" sull'altra riva del Po e non c'è dubbio che giunta sull'altra sponda, anche senza cambiare le sorti del conflitto, avrebbe potuto far valere il suo peso anche sulla sorte di altri piccoli reparti e singoli fascisti trovatisi nel ripiegare allo sbando. È il caso del prefetto di Piacenza, Graziani, caduto in mano a insorti lodigiani dopo che, il 28 aprile, aveva abbandonato la città e attraversato il Po. Il prefetto subì gravi sevizie e quindi trucidato il primo maggio. insieme ad altri quaranta malcapitati. Ci siamo appositamente soffermarti sul caso emblematico del prefetto Graziani, uno fra i tenti, poiché a suo tempo egli era stato candidato alla nomina a vice segretario del partito insieme a Romualdi che gli venne preferito. Lo stesso Romualdi che nel 1946, incontrando a Roma, Domenico Leccisi, che gli chiedeva "come avesse fatto a scampare alla sorte toccata ai suoi camerati fucilati a Dongo", rispose, con notevole faccia tosta, «d'essere stato sorpreso il 25 aprile sul fronte del Po dove si trovava a ispezionare le "truppe combattenti"». (45)

 

Note alla Parte Nona 

 

(1) Cfr. Clero, <Nemo> e i tesori della RSI in "Historica" n. 30/2014, pp. 16-17.

(2) Dopo aver premesso la sua "nettissima impressione che non molti si rendessero esattamente conto di quanto accadeva", Romualdi ottenne dal Duce l'autorizzazione a ispezionare il fronte emiliano-romagnolo. Scrive però Romualdi che Mussolini «… non credeva necessario che passasi anche per Modena e Parma. "Dovete venire subito a riferire le vostre dirette impressioni. In base a quanto mi riferirete regolerò il dar farsi per tutti e per me"». (P. Romualdi "Fascismo repubblicano" pag. 151).

(3) A Modena Romualdi s'incontrò con il federale locale Tarabini e quello di Bologna, Cerchiari, ai quali riferì «… le solite cose (!) sulla necessità di ripiegare al più presto [e] confessai che avevo ormai l'impressione del vuoto; che non potevo assolutamente condividere la calma che loro mi assicuravano esistere presso i locali comandi tedeschi (P. Romualdi cit. pag. 154). A Reggio Emilia, dove giunsi senza incidenti di sorta, trovai una calma esagerata. Nessuno voleva credere alla gravità della situazione. […] Di cessare la resistenza nessuno pensava; ogni voce in proposito era considerata falsa e criminosa (id. pag. 155). Anche a Parma, dove parlai col federale Rognoni, col prefetto Cocchi e col Comandante militare Console Bernini, regnava la più fiduciosa calma». (id. pag. 156).

(4) Ibid. pag. 152.

(5) Cfr. A. Rossi Italiani contro italiani in "Nuova Storia Contemporanea" Fasc. n. 3/1999, pp. 80-81. Aggiungiamo che anche Borghese, appresa la presenza del "Bafile" sul Senio, ritirò il big.. "Lupo" dal fronte inviandolo in Garfagnana.

(6) È possibile si sia trattato di un unico episodio giacché i fanti di marina del "Bafile" erano stati curiosamente inquadrati nel Gruppo di combattimento "Folgore". Riportiamo, per puntualizzare, la versione fornita dal comandante della brigata Ebraica inquadrata nel Corpo di spedizione polacco operante sul Senio: I corpi polacchi avevano attaccato insieme alle truppe ebraiche ed erano riusciti anch'essi a mettere in fuga i tedeschi. L'attacco sferrato dal reggimento italiano <Folgore> sul fianco sinistro era invece fallito. (…) Fu deciso di sostituire l'imbelle reggimento italiano con un'altra unità più battagliera (H. Blum "La Brigata" pag. 137).

(7) Dopo aver accettato il diktat della resa incondizionata, imposta da Dulles, sospeso unilateralmente le ostilità e dichiaratisi pronti a firmare la resa, i delegati tedeschi furono pretestuosamente lasciati in anticamera fino al 29 aprile quando si formalizzò la resa che divenne pienamente operativa solo alle 14 del 2 maggio, su imposizione anglo-americani. Palese quindi la speculazione alleata tesa ad approfittare di una condizione di tutto vantaggio per realizzare un cinematografico blitz dopo lunghi mesi trascorsi a temporeggiare.

(8) Solo il 22 aprile, causa le disposizioni disfattiste impartite da Von Vietinghoff ai suoi ufficiali, il IV Corpo d'Armata statunitense varcò il fiume a San Benedetto Po, anticipando di tre giorni il concorrente III Corpo britannico.

(9) (…) "Fattomi richiamare immediatamente in servizio come cappellano militare, il 28 aprile, a tre giorni dalla liberazione di Parma raggiungevo nuovamente in aereo, la mia sede, destinato cappellano militare del presidio di Parma, Ivi mi ricongiungevo felicemente con i miei uomini che evasi dal carcere il giorno 22 aprile, avevano tempestivamente raggiunto le formazioni della montagna partecipando attivamente all'azione bellica che culminava nella liberazione della città" (Relazione sul nucleo di Parma della Missione "Nemo" in F. Gnecchi Ruscone "Missione Nemo" pag. 164).

(10) Nadotti fu dato in consegna al capo dell'Ufficio politico investigativo (Upi) della G.N.R. dott. Giacomo Guareschi che poi si rivelerà, essere l'ennesimo infiltrato badogliano.

(11) Pur essendo passibili d'immediato giudizio per tradimento di fronte alla Corte Marziale, Nadotti e gli altri militari furono bonariamente indagati dal Tribunale militare di Brescia con l'accusa di aver preso contatto con il CLN al fine di disertare ma siccome la diserzione non era stata ancora attuata, il reato era stato derubricato alla mera intenzionalità.

 (12) La serie d'arresti fu dovuta al ritrovamento da parte della S.D. dell'archivio del Servizio Informazioni Partigiano (SIP) a seguito della cattura del responsabile, Gavino Cherchi.

(13) L. Tarantini" La resistenza armata nel parmense" pag. 37.

(14) F. Gnecchi Ruscone cit. pag. 199.

(15) " Relazione" citata, p. 164.

(16) I. Tibaldi Uomini, donne e bambini nel lager di Bolzano (consultabile in web).

(17) Solo qualche giorno prima era stato fucilato dagli ex camerati un graduato della BB.NN. di Parma, il cui nome figurava tra i collaboratori del servizio segreto partigiano.

(18) Stando alle memorie attribuite all'ex (o pseudo) prete cattolico danese Arndt Paul Lauritzen, ex (o pseudo) agente segreto internazionale ed effettivo capo partigiano del parmense, i compromettenti documenti Sip-Nemo sarebbero stati invece rinvenuti "nel muro del giardino (del chiostro) di S. Giovanni" (V. Cammina fratello, cammina pag.335). Trattasi però di un memoriale alquanto inaffidabile, quanto sopra esposto compreso.

(19) Cfr. Copia originale del documento in F. Morini "Parma nella RSI", pag. 259.

(20) Fascicoli e appunti della difesa riguardanti il federale Angelo Rognoni, unitamente ad altri diversi atti processuali concernenti il padre del federale, Carlo Rognoni, sono stati donati allo scrivente dalla figlia e sorella degli ex imputati, signora Giulia Ghidini Rognoni.

(21) È quanto si rileva dalla dichiarazione scritta a favore di Carlo Rognoni, padre del federale, dal signor Italo Fontana, detenuto dalla BB.NN. dal 5 al 24 aprile (da incartamenti del processo a Carlo Rognoni).

(22) I sette corrispondevano rispettivamente a: ten. Nadotti, ten. Canilli, S.Ten Cavazzini, serg. magg. Stocchi, cap. Spotti oltre ai militi semplici Bonfanti e Cessari. Altri militari si erano resi latitanti mentre altri ancora, i meno compromessi e denunciati per questo a piede libero, avviati al Centro raccolta divisioni italiane di Cremona.

(23) Di un giovane borghese che però dall'aspetto " si vede subito che deve essere un militare", scrive il Lauritzen a proposito di Nadotti da lui incontrato poco dopo l'"evasione" mentre tentava di raggiungere la missione inglese operante nell'Appennino parmense (A.P. Lauritzen cit. pag. 352).

(24) .Nulla di eclatante quando si consideri che fin dal precedente dicembre erano in corso complessi contatti finalizzati a "umanizzare" e possibilmente "contenere" lo scontro fratricida. Nel corso di questi rapporti diretti capitò addirittura che il commissario politico del C.U. partigiano, avv. Savani, chiedesse e ottenesse ospitalità notturna nella sede della BB.NN. (Cfr. F. Morini op. cit. pp. 179-201; 223-232).

(25) In appello Rognoni si prese comunque 28 anni per alcune rappresaglie ma con l'esclusione di sevizie. Pena scontata in parte nel duro carcere di Volterra dal quale uscì nei primi anni '50 profondamente minato, spegnendosi ancora nel fiore degli anni alcuni anni dopo. Anche Maestri morì, ma per "infarto", dopo essere stato trasferito da Pianosa al carcere di Roma per essere messo a confronto con Romualdi nel corso del suo primo processo, annullato poi per suspicione invocata dall'accusa nei confronti del magistrato giudicante, in quanto padre di un noto esponente del MSI.

(26) Cfr. L'assoluzione di Romualdi richiesta dalla pubblica accusa in "Il Giornale dell'Emilia" del 24 maggio 1951.

(27) OSS e Vaticano tra parroci e cardinali in "Historica" n.24/2012.

(28) Cfr. Testi a discarico nel processo Romualdi in "Giornale dell'Emilia" del 17 maggio 1951.

(29) È un fatto che a Parma non si procedette ad alcuna esecuzione capitale, giudiziale o extra, di detenuti anche perché la giurisdizione sulle carceri locali (S. Francesco e Certosa) era stata affidata nel periodo più turbinoso, al pseudo prete-agente segreto Lauritzen che, in più occasioni respinse con l'uso dimostrativo delle armi, tentativi d'impossessarsi dei detenuti politici da parte di fanatici antifascisti.

(30) Cfr. "Nemo Mission": presenza occulta in "Historica" n.22/2012.

(31) Per essere completa, l'ispezione in Emilia di Romualdi doveva ovviamente concludersi con la visita a Piacenza, nodo strategico non certo meno importante degli altri centri visitati. Romualdi cercò, infatti, a nostro parere di supplire telefonando al prefetto di Piacenza per comunicargli le note disposizioni disfattiste, disposizioni che il prefetto di Piacenza peraltro respinse. Nel successivo incontro con Mussolini, Romualdi gli relazionò sulla situazione di Piacenza sostenendo, invece, di esserne stato informato telefonicamente per iniziativa del prefetto stesso. Resta d'appurare la logica per cui il prefetto avrebbe dovuto assumere l'iniziativa di sentire a tal proposito proprio Romualdi il quale trovandosi fra l'altro in continuo spostamento fino al suo incontro con Mussolini, era pertanto irreperibile su cavo telefonico.

(32) Ci permettiamo di aggiungere a titolo d'ipotesi che Romualdi possa aver voluto intercettare Dollmann in quel passaggio obbligato sul Po, allo scopo d'intercedere a favore del Casaburi che, proprio in quelle stesse ore, veniva trasferito a Bolzano. Si spiegherebbe così la mancata detenzione di Casarubi cui seguì il misterioso quanto sfortunato ritorno in libertà.

(33) P. Romualdi cit. pag. 156.

(34) Quando il 28 aprile Berlino si rese conto di ciò che stava avvenendo in Italia, Kesserling fu nominato da Hitler responsabile di tutte le forze tedesche operanti a Sud di Berlino, fronte italiano compreso. Appena ricevuto l'incarico, Kesserling esonerò dal comando Vietinghoff col suo stato maggiore, disponendone l'arresto e il deferimento alla Corte marziale per alto tradimento,per quanto fosse ormai troppo tardi per realizzare tali provvedimenti.

(35) Cfr. A. Bonino Non legherò i milanesi alla mia sorte in "Tempo" n. 10 dell'11 marzo 1950.

(36) Cfr. A. Bonino Mussolini volle salvare Milano in "Tempo" n. 9 del 4 marzo 1950.

(37) P. Romualdi pag. 157.

(38) Cfr. A. Bonino Mussolini volle..cit.

(39) P. Romualdi pag. 155.

(40) L. Valiani Così decidemmo di fucilare Mussolini in "Corriere della Sera" del 22 aprile 1979.

(41) P. Romualdi pag. 158

(42) S. Dal Piaz Le ultime ore del fascismo in "Rinascita" del 14 gennaio 2007, pag. 14.

(43) AA.VV. Piacenza nella R.S.I. pag. 43.

(44) Testimonianza del legionario del Dobiça, Mauro Vivi, in Piacenza nella RSI cit. pag. 68.

(45) D. Leccisi Con Mussolini prima e dopo piazzale Loreto pag. 301.


 

Franco Morini

 

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