da
Archivio Guerra
Politica
(2/3/2012)
un importante articolo da leggere assolutamente
La zona grigia
Vincenzo Vinciguerra
(Opera, 2 marzo 2012)
la NOTA di Maurizio Barozzi
INel presentare "La zona grigia"
questo ottimo e bellissimo articolo di Vincenzo Vinciguerra,
pubblicato nel Sito "Archivio Guerra Politica", vogliamo apportare
un nostro contributo e quindi alcune nostre aggiunte.
Vincenzo Vinciguerra, ha da tempo individuato le linee essenziali
sulle quali vennero praticate in Italia le sporche guerre di basso
profilo, o "guerra non ortodossa", che portarono alla
strumentalizzazione degli ambienti di destra ed infine alla
strategia delle tensione. Nulla da eccepire.
Non si comprende però con esattezza come il Vinciguerra, sul piano
strategico internazionale, inquadri queste strategie che, su questo
non ci sono dubbi, ebbero apparentemente una finalità anti
comunista.
Se, infatti, il Vinciguerra, valuta queste operazioni, iniziate da
subito con la fine della guerra e la stay behind, di livello
strategico, commette un errore, perchè la "guerra di basso profilo",
attuata in Italia dagli statunitensi, ebbe essenzialmente delle
finalità tattiche, essendo il substrato strategico da cui
scaturivano queste iniziative, derivante dagli accordi di Jalta e
quindi a quegli accordi va riferito.
Ci spieghiamo: con gli accordi di Jalta, elaborati già dal 1944 e
finalizzati nel febbraio del 1945 (successivamente gli Alleati
tardarono addirittura le loro operazioni belliche, in modo da
consentire ai Sovietici di occupare le aree geografiche che gli
erano state assegnate), si era concordata la suddivisione
dell'Europa in due sfere di influenza: una sotto il dominio
Sovietico e l'altra sotto quello americano (in procinto di
subentrare al dominio inglese sul nostro paese). La finalità di
questa spartizione era quella di dividere popoli, governi e partiti
dell'Europa in due fronti contrapposti, al fine di soggiogarli
totalmente e, con il tempo, distruggere tutti i pilastri e le
caratteristiche culturali ed esistenziali della vecchia Europa.
I sovietici erano, non solo d'accordo, ma anche funzionali a questi
intenti e nel nostro paese, per esempio, il PCI, fin dalla svolta di
Salerno del 1944, si era impegnato a non perseguire scopi
rivoluzionari. In Grecia poi i Sovietici, si guardarono bene dal
sostenere la rivolta comunista, essendo quel paese del sud Europa
assegnato all'aerea americana. E la stessa cosa si guardarono bene
dal fare nell'aprile del 1967, quando il colpo di stato dei
colonnelli greci, chiaramente orchestrato dalla CIA, impose alla
Grecia, una dittatura militare.
Dunque le finalità strategiche di Jalta erano quelle di una
"coesistenza pacifica", seppure da mantenere segreta, tra le due
superpotenze. Questi accordi, ovviamente, non evitarono che si
arrivasse poi alla guerra fredda, al confronto tra circoli e
Servizi, anche cruento, tra Est ed Ovest. Ma si trattò sempre e
comunque di un confronto di livello tattico, finalizzato ad evitare
che i Sovietici, magari attraverso vittorie elettorali dei partiti
comunisti, potesse prendere il potere e sottrarre all'alleanza
atlantica alcuni paesi Europei. Insomma la guerra fredda non era
altro che una conseguenza della normale dinamica storica dove,
nonostante gli accordi Jalta, gli interessi geopolitici potevano
portare alcune nazioni, già inquadrate nelle sfere di influenza loro
assegnate, potessero defilarsi da quegli inquadramenti. Ma in realtà
Sovietici e Americani, non avevano alcun interesse o intenzione a
"fare le scarpe" all'altro.
Gli americani, infatti, nonostante lo starnazzare degli ambienti
militari o di destra, visceralmente anticomunisti, sapevano bene che
i Sovietici non avevano alcun interesse o convenienza a prendersi
l'Italia sottraendola agli USA. Quello che li preoccupava veramente,
era l'evoluzione della politica italiana, in particolare attraverso
i governi di centro sinistra, per il tempo alquanto arditi, che
potevano produrre sviluppi non graditi per il colonialismo
americano.
Nei primi anni '60, non per niente, si era dovuto intervenire con un
assassinio, per eliminare Enrico Mattei a causa delle sue iniziative
finalizzate a cercare una via indipendente alle necessità
energetiche del nostro paese. Anche la politica di Aldo Moro,
tendenzialmente proiettata ad una certa equidistanza dai blocchi,
sul piano internazionale, era fonte di preoccupazione per gli
americani.
In definitiva le strategie stay behind, che portarono anche alla
costituzione di cellule armate per contrastare il comunismo o una
presunta invasione sovietica, in realtà avevano il segreto scopo di
perpetuare la divisione imposta ad Jalta e quindi più che contro i
Sovietici, quelle strutture erano proprio contro le nazioni europee.
Bisogna avere ben presente questa situazione geopolitica del tempo,
che nulla toglie alla crudezza e violenza delle operazioni
anticomuniste nel nostro paese, ma le pone in una diversa
prospettiva, in modo da non commettere errori di valutazione. Tanto
è vero che, le grandi strategie mondialiste, avevano anche previsto,
per il nostro paese, l'utilizzo futuro di un PCI oramai
"occidentalizzato" (a questa operazione di occidentalizzazione del
PCI, vi avrebbe provveduto dal 1972 in avanti il circolo dei
Berlinguer, da sempre legati ad ambienti occidentali).
Tradotto in soldoni, questo schema interpretativo, ci dice che
quando nel nostro paese sorse la necessità di una destabilizzazione,
con il fine di stabilizzarlo, ovvero, impedire che si producessero a
livello governativo, ma anche socio economico, iniziative di
indipendenza, in particolare verso il nostro inquadramento Nato, si
attuarono le strategie "Chaos", di marca USA, che portarono alle
operazioni di infiltrazioni, false flag e a un crescendo di bombe,
ovvero di terrore.
Era accaduto infatti che in prossimità della guerra dei "sei giorni"
(giugno 1967), dove era stata programmata la abnorme espansione
dello stato sionista di Israele, e dove si sarebbe sicuramente
creata una grave crisi internazionale e militare strategica nel
medioriente e nel mediterraneo, alcuni delicati paesi del sud
Europa, specialmente l'Italia che era una portaerei naturale nel
mediterraneo, dovevano assolutamente restare ingessati nell'alleanza
atlantica. Il pericolo che qualche governo accarezzasse il
precedente del 1966 di De Gaulle che si era defilato dai comandi
militari dell'Alleanza Atlantica, era assolutamente da evitare.
In Grecia, quindi, ad aprile del 1967, fu necessario un Golpe per
evitare che dalle prossime elezione potessero scaturirne sorprese
negative per gli americani, mentre in Italia, dove albergava il
partito comunista più forte d'Europa, ed era un paese molto più
evoluto politicamente e socialmente, un Golpe non era possibile ed
avrebbe anche messo ancor più in crisi i rapporti con i Sovietici, e
quindi si ripiegò con la strategia stragista.
Ovviamente per questi scopi vennero utilizzati anche, ma non solo,
gli ambienti di destra, da sempre strumentalizzati dalle centrali
occidentali, ai quali venne promessa la proclamazione di uno "stato
di emergenza" che avrebbe consentito a questi falliti ed emarginati
dalla politica, di alzare la testa. Ma in realtà i grandi burattinai
della strategia della tensione non avevano alcun interesse a forzare
le cose in Italia, bastandogli e avanzandogli il clima di terrore
che avrebbe paralizzato per alcuni anni ogni attività innovativa dei
governi di centro sinistra, oltretutto da tempo in grave crisi
perpetua.
A riprova si ha il fatto che quando lo stato di crisi mediterraneo
venne alleggerito, più o meno con la conclusione della strana guerra
del Kippur in medioriente del 1973, questi ambienti di ascari e
personaggi del destrismo, vennero buttati a mare e lasciati anche
finire in galera. USA & getta, come di norma per le centrali di
Intelligence occidentali.
Precisato questo, vogliamo anche fornire un certo contributo alla
analisi di Vinciguerra che individua nel Msi e nelle sue pseudo
organizzazioni "extra", una infame arma con la quale si spinsero i
fascisti, i reduci della RSI, su sponde reazionarie di destra e filo
atlantiche. La ricostruzione storica di Vinciguerra si può
sottoscrivere integralmente.
Il fascismo, nel settembre del 1943, scrollatosi di dosso la zavorra
borghese, aveva intrapreso una decisa svolta ideologica e sociale.
Mussolini, infatti, da vero rivoluzionario, non si era lasciato
sfuggire l'occasione storica offerta dal fatto che, per la prima
volta nella storia italiana, i circoli industriali, quelli militari
e lo stesso Vaticano, non erano in grado di opporsi.
Egli quindi aveva assunto il gravoso e urgente impegno di
ricostruire lo Stato e l'Esercito disintegrati dal tradimento dell'8
settembre e fornire un riparo alla "vendetta teutonica" che
altrimenti si sarebbe abbattuta sull'Italia, e questo nonostante
prevedesse che la sconfitta e quindi, anche per lui, sarebbe finita
male, ma al contempo volle realizzare la sua Repubblica Sociale, di
nome e di fatto.
Ne nacque quindi una ristrutturazione totale, su basi socialiste,
della nostra economia e una riformulazione delle Istituzioni su basi
repubblicana.
Ideologicamente parlando, il fascismo aveva da tempo superato le
vecchie distinzioni egheliane di destra e sinistra, configurandosi
in uno sviluppo dottrinario e in una serie di ardite innovazioni
sociali, nel solco della sua tradizione, che sostanzialmente erano
al di sopra e al di là di ogni schematizzazione di marca
democratica.
In ogni caso, la nuova società che andava a prospettare il fascismo
repubblicano, era l'antitesi di ogni posizione di destra e
sicuramente, seppur distinta, poteva essere vicina, per
similitudine, a forme rivoluzionarie di economia di "sinistra". A
questa sua creatura sociale, che il destrismo missista si preoccupò
di tradire e dissolvere, il Duce era molto attaccato. Non a caso
Ermanno Amicucci, già direttore de "Il Corriere della Sera", ebbe a
scrivere nel suo "I 600 giorni di Mussolini", Ed. Faro Roma 1948:
«Mussolini voleva che gli anglo-americani e i monarchici trovassero
il nord Italia socializzato, avviato a mete sociali molto spinte;
voleva che gli operai decidessero nei confronti dei nuovi occupanti
e degli antifascisti, le conquiste sociali raggiunte con la RSI».
Il tentativo di Mussolini, verso la fine di aprile 1945, conscio
oramai della sconfitta e della resa imminente, di lasciare almeno in
eredità ai socialisti le ardite riforme sociali della RSI, non era
un espediente dell'ultimo momento, ma aveva una portata strategica.
Dirà in quei giorni Mussolini al socialista Carlo Silvestri:
«Quanto maggiore cammino si sarebbe potuto fare in quest'anno se un
gruppo di socialisti seri e responsabili mi avessero dato la loro
collaborazione? No, mai e poi mai. Anche se dipendesse dal nostro
apporto dare a Mussolini la possibilità di realizzare il programma
(…) del socialismo. No, mai e poi mai? Perché? Perché è Mussolini.
Vi dico che il più grande dolore che potrei provare sarebbe quello
di rivedere nel territorio della Repubblica sociale i carabinieri,
la monarchia e la Confindustria. Sarebbe l'estrema delle mie
umiliazioni. Dovrei considerare definitivamente chiuso il mio ciclo,
finito».
Scrive lo storico Alessandro De Felice: «Del resto, la scelta a
sinistra del duce è confermata anche dalla sua famosa dichiarazione
finale: "i valori della repubblica e del programma sociale affermati
a Salò vanno in eredità all'antifascismo repubblicano e
socialista"».
In base a questi documenti le cui frasi qui estratte pone tra
virgolette, ancora Alessandro. De Felice, nella sua opera "Il gioco
delle ombre", affermerà:
«Mussolini si proclama "decisamente fuori e contro il sistema
capitalistico" e lascia in eredità ai componenti del Partito
Socialista di Unità Proletaria di Pietro Nenni, Lelio Basso,
Giuseppe Saragat, Rodolfo Morandi, Oreste Lizzadri e Sandro Pertini
il socialismo del suo Partito Fascista Repubblicano e della sua
Repubblica Sociale(ista) Italiana. Ma, in realtà, in quel momento, a
Milano e nel territorio in cui si è insediato il CLNAI
spadroneggiano PCI, PdA (Partito d'Azione) e le frange più chiuse e
violente dello stesso PSIUP facenti capo a Pertini. Mussolini offre
ai socialisti un'alleanza col PFR e le migliaia dei suoi militanti
"nettamente anticapitalisti". Che il "ponte" fascio-socialista -per
dare dignità all'indipendenza nazionale italiana contro
l'occupazione anglo-americana che strizza l'occhio ai Savoia ed ai
"traditori" del fascismo di destra confindustriale del 25 luglio
1943- si costruisca e che le esecuzioni sommarie ai danni dei
fascisti repubblicani finiscano dipende solo dai socialisti del
CLNAI che però si sono già compromessi cogli inglesi: "Che tutto
questo succeda -Mussolini dice- o non succeda dipende
dall'atteggiamento dei socialisti, dei repubblicani (del PRI,
N.d.R.), delle forze di sinistra del CLNAI. Se la soluzione sarà di
destra, monarchica, conservatrice, la responsabilità spetterà ai
dirigenti del Partito socialista di unità proletaria. Contro questa
soluzione noi ci batteremo con tutte le nostre forze"».
Su questi presupposti e con queste premesse è significativo che al
Direttorio del PFR di Maderno del 3 aprile 1945, presieduto da
Pavolini, quando si cercarono di buttare giù le linee politiche per
una lotta da proseguire in Italia, una volta finita la guerra e
determinatasi la sconfitta militare, proprio Pino Romualdi, il vice
segretario del PFR, quello che poi sarà tra i responsabili della
"tregua" o resa di Como e futuro parlamentare della destra missista,
non si trovò d'accordo sulle linee programmatiche indicate da
Pavolini, sostenuto da Zerbino, Solaro e Porta che prospettavano un
"socialismo fascista" da perseguire nel dopoguerra, anche in
clandestinità, come difesa delle innovazioni sociali della RSI
contro ogni restaurazione monarchica e liberista sostenuta dagli
occupanti (Il 4 aprile 1945 Mussolini, ricevendo i componenti del
Direttorio nazionale del PFR dichiarò: «Il programma sociale
annunziato dal PFR a Verona è stato e sarà realizzato durante la
guerra.» pertanto, aggiunse, il compito del partito sarebbe stato
quello di organizzare la difesa armata della rivoluzione sociale in
via di attuazione).
Proprio l'esatto contrario di quello che fecero i dirigenti missisti
dal 1946 in avanti.
Il fatto è che Romualdi ed altri come lui incarnavano l'anima di
quel fascismo nazionalista, prevalentemente anticomunista e
sostanzialmente filo occidentale. Un genere di fascismo che, tramite
la collusione con i nostri colonizzatori e i connubi con gli
ambienti reazionari del paese, tradirà ben presto totalmente e
definitivamente il fascismo.
Non fu quindi un caso che nel dopoguerra uomini come Romualdi e
Giorgio Almirante (quest'ultimo neppure seguì il suo capo di
gabinetto al Ministero della Cultura Popolare, Ferdinando Mezzasoma,
nell'ultimo viaggio) operarono per trasbordare sulla sponda
conservatrice e ultra atlantica i reduci del fascismo repubblicano.
Con grande precisione Vinciguerra ci riassume tutti i tradimenti che
per molti, erano iniziati già a guerra in corso, attraverso spurie
collusioni con l'OSS americano. A guerra finita, approfittando del
sangue versato dai camerati, nelle "radiose giornate" a causa della
bestialità sopratutto comunista, ma anche sfruttando certi residui
di una forma mentis da "conservatori", il capo dell'OSS nel nostro
paese, J. J. Angleton, riuscì a mettersi in tasca molti ufficiali
della ex RSI e dirigenti delle nuove formazioni clandestine
fasciste.
Si legge, significativamente, in un rapporto dei servizi segreti
americani intitolato "Il movimento neofascista - 10 aprile 1946,
segreto":
«I neofascisti intendono stabilire un contatto con le autorità
americane per analizzare congiuntamente la situazione del paese. La
questione politica italiana sarà quindi collocata nelle mani degli
Stati Uniti».
Pochi mesi dopo nacque il MSI e questo ignobile percorso, fatto di
tradimenti e vigliaccherie, divenne inarrestabile.
Dopo anni di stravolgimento del fascismo, tradimenti e in sostanza
di un neofascismo che possiamo sicuramente definire "neo
antifascismo", con il nuovo millennio gli epigoni di quei farabutti
degli anni precedenti, finirono a Gerusalemme a dichiarare
apertamente, e finalmente con sincerità, che per loro il "fascismo
era il male assoluto".
Maurizio Barozzi |
La verità l'aveva intuita uno scrittore che non
era uno storico, anzi era una singolare figura di artista che aveva aderito al
Partito Comunista Italiano pur conservando il ricordo del fratello, Guido,
partigiano della brigata "Osoppo", ucciso a Porzus il 7 febbraio 1945, dai
partigiani comunisti della brigata "Garibaldi": Pier Paolo Pasolini.
Il 10 giugno 1974, sulle pagine de "Il Corriere della sera", in un articolo
intitolato "Gli italiani non sono più quelli", Pier Paolo Pasolini scriveva:
«Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un'ideologia
propria e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo
aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa, ha
poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre -secondo una strategia
mafiosa e da Commissariato di pubblica sicurezza- all'eversione comunista».
Se Pier Paolo Pasolini attribuiva lucidamente al potere la responsabilità del
"fascismo delle stragi", la storia dimostra che, fin dalle sue origini, quello
che è stato definito il "neo-fascismo", in realtà, è stato creato dallo stesso
potere che lo ha utilizzato per i propri fini in veste di alleato, oppositore,
nemico secondo le convenienze del momento.
È storia ancora non scritta quella delle origini del Movimento Sociale Italiano,
ritenuto il simbolo del presunto "neo-fascismo" post-bellico.
È storia che nessuno vuole scrivere perché essa, quando conosciuta, fa crollare
certezze e luoghi comuni, leggende e miti creati ad arte nel corso dell'intero
dopoguerra per rendere credibile che, negli anni Settanta, il "neo-fascismo" ha
partorito quel nemico dello Stato e della democrazia che è stato definito
"terrorismo nero".
Per comprendere come quest'ultimo sia stato, in realtà, terrorismo di Stato e di
regime non si deve iniziare a scrivere la sua tragica storia dalla data del
convegno dell'Istituto "A. Pollio" sulla "guerra rivoluzionaria" del 3-5 maggio
1965, o dall'affissione dei "manifesti cinesi" ad opera dei militanti di
Avanguardia Nazionale per conto della divisione Affari Riservati del ministero
degli Interni il 5-6 gennaio 1966, né dalla data della strage di Piazza Fontana,
a Milano, il 12 dicembre 1969.
Bisogna, viceversa, percorrere a ritroso la via che ha seguito fin dal suo
sorgere quello che, ancora oggi, viene definito impropriamente "neofascismo".
Per farlo, però, dobbiamo fare un breve cenno a quella che è stata l'esperienza
della Repubblica Sociale Italiana di cui il Movimento Sociale Italiano si è,
ufficialmente quanto strumentalmente, proclamato erede e continuatore ideale.
La Repubblica Sociale Italiana non è stata un blocco ideologico monolitico, al
contrario ha raccolto sotto la sua bandiera, depurata dello stemma sabaudo,
fascisti delusi dal regime, a-fascisti, antifascisti di estrazione liberale,
come Concetto Pettinato, e comunista, come Nicola Bombacci.
Oggi l'onore non è più di moda, ma a quei tempi sia quello individuale che
collettivo, nazionale, era avvertito dalla grande maggioranza degli italiani che
vissero l'8 settembre 1943 come un momento di vergogna.
Lo testimonia un antifascista, Piero Calamandrei, che alla data del 10 settembre
1943, nel suo diario annota:
«Rimango sorpreso di sentire come è potente anche nella gente umile la vergogna
dell'armistizio».
Non è, pertanto, contrario al vero affermare che tanti, fra coloro che aderirono
alla RSI, non erano fascisti e che, nel dopoguerra, conservarono la loro libertà
di scegliere in quali partiti politici militare senza nulla dovere rinnegare.
Su quanti, viceversa, erano e si sentivano fascisti, la Repubblica Sociale ebbe
un'influenza decisiva nell'indirizzarli verso una battaglia ad oltranza contro
il capitalismo e la borghesia.
Protesi a liberarsi dall'eredità del Ventennio, della sua retorica, dei suoi
compromessi, i fascisti repubblicani riscoprono quelle origini socialiste che
erano state dimenticate ma mai ripudiate, così che si collocano decisamente a
sinistra individuando nella destra il nemico da combattere e da sconfiggere, nel
presente e nel futuro.
È una realtà storica inconfutabile che l'ultimo fascismo, il fascismo
combattente legionario, si colloca a sinistra e non a destra o al centro.
Il 17 settembre 1943, in un discorso radiofonico alla Nazione, il segretario del
Partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, afferma che questo «sarà
soprattutto un partito di lavoratori, partito proletario, animatore di un nuovo
ciclo sociale, senza più remore plutocratiche».
È all'Italia "proletaria e fascista" che Benito Mussolini si rivolge per
proseguire la guerra al fianco dell'alleato germanico divenuto, per ragioni
evidenti, il reale detentore del potere.
Così, il 5 novembre 1943, ancora Alessandro Pavolini dispone che siano
costituite squadre di polizia che indossino come uniforme «la camicia nera, la
tuta blu scura dell'operaio».
A sua volta, il 15 novembre 1943, il segretario dell'Unione provinciale dei
lavoratori dell'industria di Milano, Secondo Amadio, afferma:
«Occorre una buona volta a parlare chiaramente di fallimento del sistema
capitalistico e non di generica lotta alla plutocrazia… La demagogia ostentata
da numerosi industriali italiani conferma che il sistema capitalistico è maturo
per essere soppiantato da un sistema più sano…».
I fascisti non accettano di essere collocati dagli avversari a destra laddove,
tradizionalmente, sono ubicate le forze della reazione e della borghesia.
Il trentun ottobre 1944, un rapporto informativo inviato a Benito Mussolini,
riferito a un articolo pubblicato da "Il Terzo Fronte", segnala la presenza in
esso di un errore che, scrive l'estensore, «potrebbe definirsi classico»: quello
di scambiare «il fascismo con un movimento di destra».
E se l'errore viene segnalato direttamente al fondatore e capo del fascismo,
coloro che nel dopoguerra hanno ritenuto coerente la scelta di collocarsi alla
destra dello schieramento politico da parte dei dirigenti del Movimento Sociale
Italiano, dovrebbero per onestà intellettuale rivedere le loro posizioni.
La destra è, per il fascismo repubblicano, il nemico.
Il 22 aprile 1945, a Milano, su "Repubblica fascista", Enzo Pezzato scriveva:
«Il Duce ha chiamato la Repubblica italiana sociale non per gioco; i nostri
programmi sono decisamente rivoluzionari; le nostre idee appartengono a quelle
che in regime democratico si chiamerebbero "di sinistra"… Il nostro ideale è lo
Stato del lavoro. Su ciò non può esservi dubbio; noi siamo i proletari in lotta,
per la vita e per la morte. Siamo i rivoluzionari alla ricerca di un ordine
nuovo… Lo spauracchio vero, il pericolo autentico, la minaccia contro cui
lottiamo senza sosta viene da destra».
Non erano parole vane.
La legge sulla socializzazione delle imprese non si prestava a favorire gli
industriali, la co-gestione delle imprese, la parità fra capitale e lavoro erano
e sono proposte che minano, quando attuate, la stabilità e l'esistenza del
sistema capitalistico.
Con queste idee e questi convincimenti, l'incognita per i partiti antifascisti,
dopo la fine della guerra, era quella di vedere dove si sarebbero collocati
centinaia di migliaia di fascisti che, inevitabilmente, sarebbero stati
riassorbiti nel tessuto sociale della Nazione, avrebbero riacquistato i loro
diritti civili e politici, avrebbero pertanto assunto un ruolo significativo
nella vita del Paese.
Le idee e le premesse indicavano che i fascisti si sarebbero posti a sinistra.
Le avvisaglie non mancavano.
Il 17 giugno 1944, a Firenze, sull'ultimo numero di "Italia e civiltà", nella
rubrica "Cantiere", in un articolo a firma di "Impresa", si scrive:
«E sappiano finalmente Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compari, che i
fascisti più consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la
sola forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia quanto nella
plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato il vero
nemico. Sempre essi hanno sentito di discordare, sì, dai comunisti su molti
punti, ma anche di concordare su ciò che non vogliono. Vale a dire, noi e i
comunisti concordiamo nel non volere più, né gli uni né gli altri, la vecchia
società liberale, borghese e capitalistica. E sappiano anche, i Roosevelt, i
Churchill e i loro compari, che quando la vittoria non toccasse al Tripartito, i
più dei fascisti veri che scampassero al flagello passerebbero al comunismo, con
esso farebbero blocco. Sarebbe allora varcato il fosso che oggi separa le due
rivoluzioni. Avverrebbe tra esse uno scambio e un'influenza reciproca, fino alla
fatale armonica fusione».
Nel dopoguerra, infatti, saranno decine di migliaia i fascisti che confluiranno
nei Partiti comunista e socialista, mentre i sindacalisti fascisti costituiranno
i quadri della CGIL.
A sinistra, infine, guarda lo stesso Benito Mussolini.
Il 22 aprile 1945, il Duce consegna personalmente all'esponente socialista Carlo
Silvestri una lista di fascisti che «egli considera idealmente e sostanzialmente
socialisti e che raccomanda» perché siano difesi dinanzi al Comitati di
Liberazione Nazionale, e per i quali lo stesso Silvestri avrebbe potuto rendersi
garante nel caso che avessero richiesto l'iscrizione al Partito Socialista di
Unità Proletaria (PSIUP), diretto da Pietro Nenni.
Certo, i massacri della primavera del 1945, lo stillicidio di omicidi di reduci
repubblicani rientrati dalla prigionia, scaveranno un solco profondo fra tanti
fascisti ed i comunisti ma, poiché i partigiani delle formazioni anticomuniste
non si comporteranno in modo diverso e migliore, la grande maggioranza dei
fascisti continua a guardare a sinistra con grande disappunto e viva
preoccupazione degli esponenti anticomunisti.
La leggenda, creata a posteriori, di Pino Romualdi, ex vicesegretario nazionale
del PFR, che ottiene un'attenuazione della persecuzione contro i fascisti
vantandosi di controllare una forza di migliaia di uomini in armi pronti a
tutto, non regge all'esame della storia.
Tutte le forze politiche, in realtà, si pongono il problema del recupero
politico dei fascisti.
In un Paese in cui sono ancora presenti le armate alleate, non è la paura dei
fascisti in armi ma la ricerca del loro consenso, che in una democrazia
parlamentare si traduce in voti, quello che tutti i partiti politici aspirano ad
ottenere da quanti sono ancora di idee e sentimenti fascisti.
Per questa ragione, è il socialista Pietro Nenni che si incarica di liquidare
l'Alto commissariato per l'epurazione.
Non è trascorso un anno dalla fine della guerra che, l'8 aprile 1946, Pietro
Nenni può dichiarare all'agenzia Ansa:
«L'epurazione ha avuto termine il 31 marzo nelle province centrali e meridionali
mentre, per quanto riguarda le province settentrionali, il termine di scadenza è
stato prorogato, su richiesta dei delegati dell'alto commissariato… al 30
aprile… Non si prevede di concedere ulteriori proroghe».
I fascisti sono di sinistra e, come Pietro Nenni sa, sono decisamente
repubblicani e la data delle elezioni referendarie è ormai prossima.
A mettere la firma sul più famoso decreto di amnistia della storia d'Italia è il
comunista Palmiro Togliatti, il 22 giugno 1946, nella sua veste di ministro di
Grazia e Giustizia.
Il provvedimento rimetterà in libertà migliaia di fascisti, e Palmiro Togliatti
dovrà affrontare le critiche durissime della base e degli ex partigiani, ma il
fine giustifica il mezzo.
Se la sinistra si attiva per recuperare i giovani reduci della Repubblica
Sociale, nutriti di ideali e sentimenti anti-borghesi e anticapitalisti, le
forze anticomuniste predispongono le adeguate contromisure.
La guerra fredda, nel 1946, è già iniziata.
Il 22 febbraio 1946, da Mosca, l'incaricato d'affari americano George Kennan,
invia al segretario di Stato, James Byrnes, un rapporto redatto in forma
telegrafica di ottomila parole, nel quale denuncia la minaccia rappresentata
dall'Unione Sovietica e dal comunismo per gli interessi e la sicurezza degli
Stati Uniti.
Il 5 marzo 1946, tocca al segretario alla Difesa, James Forrestal, redigere
insieme al suo segretario particolare, Max Leva, un memoriale che, dopo averlo
sottoposto all'esame del consigliere presidenziale Clarck Clifford, invia al
presidente Harry Truman.
In esso, Forrestal denuncia «l'esistenza di una seria, immediata e
straordinariamente grave minaccia alla sopravvivenza del nostro Paese»; afferma
che «il pericolo attuale davanti al quale si trova il Paese è grande almeno
quanto quello che dovemmo fronteggiare durante la guerra con la Germania e il
Giappone»; ricorda che «dei campi strategici della presente battaglia abbiamo
già perduto la Polonia, la Jugoslavia, la Romania, la Bulgaria e un gran numero
di altri Paesi; dopo la Grecia potrebbero seguire l'Italia, la Gran Bretagna, il
Sud America e il nostro stesso Paese»; conclude rilevando che «questo Paese non
può permettersi il lusso ingannevole di una guerra difensiva. Come avvenne per
la guerra del 1941-1945, la nostra vittoria e la nostra sopravvivenza dipendono
esclusivamente da come e da dove attaccheremo».
Lo stesso giorno, a Fulthon, mutuando una definizione del ministro della
propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels, Winston Churchill denuncia che da
Stettino a Trieste è calata una «cortina di ferro» che divide in due l'Europa.
Le democrazie anglo-sassoni riprendono, quindi, le armi, stavolta contro l'ex
alleato sovietico, che usa il comunismo come arma contro la loro leadership in
Occidente.
Il primo campo di battaglia sul quale Stati Uniti ed Unione Sovietica si
affrontano è l'Europa, in particolare due Nazioni, Italia e Francia, che hanno
un problema comune che le rende particolarmente vulnerabili all'attacco
comunista.
Un problema che affonda le sue radici nel loro recentissimo passato,
rappresentato dalla frattura verticale nella società e nelle Forze armate
derivata dall'adesione di milioni di cittadini alla battaglia della Germania
nazionalsocialista.
La Francia, difatti, ha avuto la Repubblica di Vichy, guidata dal maresciallo
Philippe Pétain, e l'Italia ha vissuto l'esperienza della Repubblica di Salò
diretta da Benito Mussolini.
In entrambe le Nazioni, il problema politico, sociale e militare che
rappresentano non si può risolvere solo nel campo penale, con epurazioni,
condanne alla reclusione e fucilazioni, e di questo sono consapevoli i governi
dei due Paesi ed i loro alleati che cercheranno di risolverlo con identiche
soluzioni che facilitino la ricostruzione, non solo materiale, del tessuto
unitario che la contrapposizione determinatasi durante la guerra ha lacerato.
Inoltre, la frattura ha riguardato in modo massiccio le Forze armate ed i corpi
di polizia senza il cui apporto uno Stato non può esistere.
È necessario, pertanto, ristabilire come primo obiettivo l'unità delle Forze
armate.
Per prima cosa è giocoforza scindere le responsabilità di quanti hanno fatto
parte delle Forze armate regolari della Repubblica sociale agli ordini del
maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani, da quanti hanno, viceversa, militato
nelle formazioni combattenti del Partito fascista repubblicano.
Ai primi viene, di conseguenza, riconosciuto lo status di prigionieri di guerra
protetti dalla Convenzione di Ginevra, i secondi sono considerati dei fuorilegge
sui quali si può abbattere la scure dei tribunali del popolo, di quelli
straordinari e, infine, ordinari.
Inizia, in questo modo, con il decisivo apporto della magistratura che nelle sue
sentenze si premura di distinguere fra Forze armate regolari e Brigate Nere,
ritenendo gli ufficiali delle prime non imputabili di "collaborazionismo" con i
tedeschi, a configurarsi l'immagine della "Salò tricolore", distinta se non
proprio contrapposta a quella della "Salò nera".
La prima formata dai militari che per amor di Patria e senso dell'onore hanno
formalmente aderito alla RSI, la seconda dai fascisti che vi hanno militato per
convinzione ideologica. Nel tempo, la "Salò tricolore" sarà ampliata fino a
comprendere tutti coloro che, civili, dichiareranno di avere aderito loro
malgrado alla RSI per frenare l'ira germanica, limitare i danni all'apparato
economico e produttivo dell'Italia, aiutare le formazioni partigiane o per
malinteso senso dell'onore ritenendo preminente il rispetto dell'alleanza con la
Germania che non il giuramento fatto a Vittorio Emanuele III.
Ultimo in ordine di tempo ad arruolarsi, con quasi un trentennio di ritardo
nelle file della "Salò tricolore" sarà il segretario nazionale del Movimento
Sociale Italiano - Destra Nazionale Giorgio Almirante che in un libro
autobiografico, edito nei primi anni Settanta, rivelerà di aver aderito alla RSI
dopo aver ascoltato l'appello in tal senso lanciato dal maresciallo Rodolfo
Graziani, nel suo discorso al teatro Adriano di Roma il 1° ottobre 1943,
escludendo in tal modo di aver compiuto una scelta ideologica.
La "Salò tricolore" è la versione italiana della tesi francese dello scudo e
della spada, ovvero della Repubblica di Vichy che sotto il comando del
maresciallo Philippe Pétain protegge la Francia dalla brutalità ed invadenza
germaniche operando come uno scudo mentre la "France libre" agli ordini del
generale Charles de Gaulle si configura come la spada che trafigge gli invasori.
Il fine unico, pertanto, degli appartenenti alla "Salò tricolore" in Italia, e
allo "scudo" in Francia è la difesa della patria in sintonia con le forze della
Resistenza.
La frattura, determinatasi l'8 settembre 1943, all'interno delle Forze armate
può quindi essere ricomposta riconoscendo sia a coloro che hanno combattuto
sotto la bandiera della RSI che a quanti hanno militato sotto quella del Regno
del Sud il fine ultimo della difesa della Patria oppressa dall'invasore
germanico.
L'uomo simbolo della "Salò tricolore", non ideologicamente fascista, è il
principe Junio Valerio Borghese, Medaglia d'oro al V.M., comandante fino all'8
settembre 1943 della Xª Flottiglia Mas, poi della divisione di fanteria di
marina Decima.
Nel gennaio del 1946, il contrammiraglio B. Inglis, capo del servizio segreto
navale della Marina americana, nel bollettino riservato agli ufficiali della
U.S. Navy security of the O.n.i. Review, riferendosi agli uomini della Decima,
scriveva:
«Quello che è certo è che essi non furono favorevoli agli alleati; ma sarebbe
scorretto affermare che essi furono delle formazioni più favorevoli ai tedeschi
e più filofasciste delle forze armate italiane. La maggior parte di essi sentì
che l'armistizio era stato un vergognoso tradimento al suo alleato da parte del
re e di Badoglio e decisero di "redimere l'onore d'Italia"».
È il riconoscimento ufficiale, sebbene espressa in forma riservata, che
l'adesione alla Repubblica Sociale Italiana non rende inevitabilmente nemici
degli Alleati tutti coloro che l'hanno compiuta e che esistono, pertanto, due
mondi diversi all'interno di uno Stato di fatto, come quello fascista
repubblicano, uno da assolvere l'altro da condannare.
Junio Valerio Borghese ed i suoi ufficiali la stima degli Alleati, in modo
specifico degli americani, se la sono guadagnata sul campo conducendo uno
spregiudicato doppio, triplice gioco condotto con gli stessi Alleati, con i
partigiani della brigata "Osoppo-Friuli" e delle brigate socialiste "Matteotti"
al comando di Corrado Bonfantini, con i tedeschi che li lasciano fare perché già
meditano il tradimento nei confronti di Benito Mussolini e dei fascisti.
Arrestato dai fascisti nel mese di gennaio del 1944, ma rimesso in libertà da
Benito Mussolini, che non lo stima, perché la divisione di fanteria Decima è
ormai una realtà combattente che non si può cancellare dagli organici militari
della RSI, Junio Valerio Borghese si prepara ad affrontare nel dopoguerra, ormai
prossimo, l'unico nemico che egli ritiene tale: il comunismo.
Al comando del battaglione "Vega", il più ermetico fra i reparti della Decima
perché prepara i commandos ed i sabotatori destinati ad operare nelle retrovie
alleate, il principe Junio Valerio Borghese ha posto il tenente di vascello
Mario Rossi che lavora per gli Alleati, tanto è vero che il 25 aprile 1945
costui torna a casa propria a Genova senza mai essere ricercato da alcuna forza
di polizia, italiana o alleata che sia.
Ed è proprio il tenente di vascello Mario Rossi che, nel corso di una
conversazione, nel mese di febbraio del1945 spiega al marò Elio Cucchiara che
poi la riferirà agli Alleati nel corso del suo interrogatorio, quale sarà la
condotta della Decima e quali i propositi del suo comandante al termine delle
ostilità.
Rossi spiega al suo subalterno che, alla fine della guerra, i reduci
disoccupati, «se non fossero stati presi per mano, sarebbero stati fortemente
attirati dal movimento comunista. Per evitare una tale eventualità era
necessario creare un'organizzazione che potesse unire e guidare questo personale
ex militare… La Xª flottiglia Mas doveva così creare una centralizzata ed
organizzata organizzazione in tutta Italia con lo scopo primario di combattere
il comunismo in particolare, e il fascismo, di sostenere un partito politico di
centro e della destra. L'organizzazione non doveva costituire di per sé un
partito… Il movimento si doveva organizzare durante l'occupazione degli alleati,
non doveva iniziare la sua attività fino alla partenza degli alleati…».
È, purtroppo, nel costume italico che mentre i gregari muoiono i capi scappino.
Borghese non fa eccezione. Dopo essersi rifugiato a casa di un partigiano
socialista, il comandante della Decima, il 12 maggio 1945, viene prelevato a
Milano da James Jesus Angleton e dal commissario di PS, Umberto Federico
d'Amato, che su una jeep con indosso la divisa americana lo portano a Roma dove,
qualche giorno dopo, sarà rinchiuso nel carcere per ospiti di riguardo allestito
a Cinecittà, a disposizione delle autorità alleate.
Dall'interno del carcere, Junio Valerio Borghese continua a dirigere i propri
uomini, molti dei quali già passati alle dipendenze degli alleati per le loro
competenze tecniche e per la loro affidabilità politica.
Figura preminente fra gli ufficiali della Decima, ufficialmente latitante perché
evaso da un campo di concentramento, è l'ex comandante del battaglione
"Nuotatori paracadutisti" (NP), Nino Buttazzoni, che può essere considerato
l'alter ego di Borghese in libertà, difatti il 4 aprile 1946 fa pervenire alla
intelligence americana «un rapporto dattiloscritto intitolato "Riassunto della
situazione generale al 1 aprile 1946"», nel quale rivela di essere in permanente
contatto con Junio Valerio Borghese ora detenuto nel carcere di Procida.
Il 10 aprile 1946, l'agente dell'X-2, unità dell'intelligence americana diretta
da James Jesus Angleton, redige un rapporto su "Il movimento neofascista"
redatto sulla base delle informazioni fornite dalla «fonte Nino Buttazzoni, ex
capitano della Decima Mas».
Si rileva che fin dall'inizio il termine "neofascismo" è utilizzato in modo
improprio o, per meglio dire, totalmente errato perché Junio Valerio Borghese,
Nino Buttazzoni ed i loro commilitoni non sono stati fascisti e non potrebbero
essere definiti "neofascisti" sotto il profilo ideologico.
Difatti, gli uomini della "Salò tricolore" e militare, coerenti con le loro idee
conservatrici e reazionarie, vedono nel solo comunismo il nemico da combattere e
chiedono che sia loro concesso di poterlo fare.
"Miss Queen", infatti, rileva che «nei loro rapporti Buttazzoni ed il suo
movimento sostengono che i comunisti, e quindi la Russia, stanno assumendo il
controllo dell'Italia. I neofascisti sono un forte baluardo contro il comunismo.
Di conseguenza dovrebbe essere loro consentito di fornire un contributo alla
sconfitta del comunismo».
L'anticomunismo rappresenta, pertanto, l'unica leva che questi gruppi ritengono
di avere per scardinare le barriere innalzate dall'antifascismo e rientrare
nell'agone politico, non come portatori di idee ma come gregari disposti a
combattere contro il comunismo.
Distanti anni luce dall'ideologia fascista, Borghese, Buttazzoni ed i loro
commilitoni, si rivolgono alla "plutocratica America", patria del capitalismo,
perché divenga la protettrice della nuova Italia.
«È interesse degli Stati Uniti -sostengono- che l'Italia torni ad essere una
nazione forte; un'Italia forte può diventare un'ottima fonte di investimenti per
gli Stati Uniti; l'Italia può diventare una base mediterranea per gli Stati
Uniti nella loro lotta contro l'Inghilterra e la Russia».
L'onore d'Italia è ormai dimenticato. Qui si offre una meretrice di cui si
vantano qualità e prestazioni.
Gli stessi concetti, Nino Buttazzoni ed i suoi collaboratori li hanno espressi
in un documento inviato, nel mese di febbraio, a Pio XII il cui sostegno è
ritenuto, a ragione, decisivo per il loro reingresso nella vita politica del
Paese.
L'azione sviluppata dagli uomini della Salò militare e "tricolore", benché
discutibile sul piano etico, non si presta a critiche sul piano della coerenza,
perché Junio Valerio Borghese ed i suoi commilitoni non sono mai stati
ideologicamente fascisti.
Dove, viceversa, è possibile vedere il tradimento del proprio patrimonio ideale
è sul versante di quella che è definita la "Salò nera", quella cioè per la quale
il binomio fascismo-Italia era indissolubile e gli interessi del primo
coincidevano con quelli della seconda, quella della «guerra del sangue contro
l'oro», quella che vedeva nel capitalismo e nella borghesia i nemici da
combattere e da sconfiggere.
Su questo versante, come capo e promotore di un'operazione che ricalca quella di
Junio Valerio Borghese e dei suoi uomini, si pone il vicesegretario del Partito
Fascista Repubblicano, Pino Romualdi.
Anche se non sono state offerte prove decisive in proposito, è credibile che
Pino Romualdi si sia posto al servizio dell'OSS americano già nel corso del
conflitto.
Certo è che gli americani fanno leva proprio su di lui per indurre alla resa, il
26 aprile 1945, a Como, cinquemila fascisti in armi che avrebbero potuto -e
forse dovuto- ricongiungersi con gli esponenti del governo della RSI e con
Benito Mussolini che viaggiavano, con scorta tedesca, a pochi chilometri di
distanza.
Per Pino Romualdi, nella sua veste di vicesegretario del PFR, gli ordini emanati
dal CLNAI prevedono la fucilazione sul posto, ma gli americani e gli uomini del
servizio segreto militare italiano gli salvano la vita non rivelando ai
partigiani la sua identità e lo lasciano libero di scomparire in una latitanza
che vale per le Questure ma non per loro.
Ancor più di Junio Valerio Borghese, la figura di Pino Romualdi è centrale e
decisiva nell'impedire a tanti reduci della RSI di confluire nei partiti di
sinistra e di attestarsi, viceversa, sulla trincea dell'anticomunismo più
intransigente.
Il tradimento ideologico e politico di Pino Romualdi è palese, scritto in un
articolo non firmato ma redatto da lui, pubblicato sul primo numero del giornale
clandestino dei Fasci di Azione Rivoluzionaria (FAR) che, a dispetto del nome,
sono finanziati dai servizi segreti americani.
Benito Mussolini, nella sua ultima intervista, aveva esplicitamente affermato
che «la rovina dell'Italia è stata la sua borghesia». Nel mese di luglio del
1946, l'ex vice segretario del Partito Fascista Repubblicano, custode ed erede
dell'ortodossia fascista e mussoliniana, detta viceversa le linee di un'azione
politica da parte dei reduci della RSI che verte sull'acquisizione di meriti
dinanzi alla borghesia, vera detentrice del potere in Italia.
«La lotta politica in Italia -scrive Romualdi- non si potrà più mantenere sul
piano parlamentare, ma trascenderà in disordini di piazza, in violenze e in una
tensione generale. Le forze di destra che hanno per caratteristica distintiva
una vigliaccheria congenita, unita a una sacrosanta paura di perdere i loro
privilegi, saranno alla ricerca disperata di una forza qualunque, capace di
fronteggiare validamente l'estrema sinistra. Quello sarà il nostro momento. Si
tratta insomma di creare nel Paese una psicosi anticomunista tale da costringere
tutti i partiti ad appoggiare il Fascismo come il più dinamico dei movimenti
anticomunisti, così come già fecero i comunisti creando una psicosi antifascista
tale da costringere tutti gli antifascisti, anche se di destra, ad appoggiare il
comunismo come il più dinamico dei movimenti antifascisti. Come nell'aprile
dello scorso anno, la massa d'urto dell'antifascismo era costituita dalle
squadre socialcomuniste che -pur destando preoccupazione nella maggioranza
anticomunista degli italiani- erano tuttavia appoggiate in odio al Fascismo,
così quando il nostro momento sarà giunto, il Fascismo dovrà fungere da massa
d'urto dell'anticomunismo e la maggioranza degli italiani -anche se non
fascista- ci appoggerà per odio al comunismo».
Nessuno, fino ad oggi, ha riconosciuto in questa prosa contorta e mendace la
strategia che ha portato il cosiddetto "neofascismo" italiano a porsi come il
braccio violento dell'anticomunismo politico e di Stato nella speranza che la
gratitudine delle forze che lo componevano avrebbe, un giorno, consentito ai
suoi esponenti di entrare nelle stanze del potere con compiti dirigenziali di
primo piano.
Poche righe nella quale è racchiusa la tragedia di un mondo politico e del Paese
in questo secondo dopoguerra, sufficiente per trasformare una forza
anti-borghese per storia ed ideologia, nella "guardia bianca" della borghesia e
del capitalismo.
Una strategia che la mancanza di un ricambio generazionale alla guida del
movimento "neofascista" ha permesso di ribadire al suo ideatore ed ai suoi
complici politici per tutto il dopoguerra.
Pino Romualdi resterà sempre al vertice del Movimento Sociale Italiano, il quale
sarà guidato da tre uomini: Giorgio Almirante, primo ed ultimo segretario
nazionale, Augusto de Marsanich ed Arturo Michelini.
Tranne una breve parentesi che vedrà Pino Rauti rivestire la carica di
segretario nazionale del MSI-DN, toccherà al delfino di Giorgio Almirante,
Gianfranco Fini concludere una parabola politica trasformando il "neofascismo"
in antifascismo.
Il "neofascismo", per quanti continueranno a ritenerlo tale, nella visione di
Pino Romualdi e dei suoi colleghi di avventura rappresenta il ripudio del
fascismo legionario e combattente del biennio 1943-45, e si ricollega
all'esperienza del Ventennio fascista che si concluderà il 25 luglio 1943,
debitamente rinnegata e condannata dal fascismo repubblicano.
I Romualdi, gli Almirante, i Michelini sono gli eredi e i continuatori ideali
dei Grandi, dei Bottai, dei Federzoni che hanno interpretato il fascismo come
una fazione al servizio della Monarchia e della borghesia di cui era stato
necessario liberarsi quando si era posto contro le democrazie plutocratiche.
Non a caso, i dirigenti del MSI, già nei primissimi anni Cinquanta si alleeranno
con i monarchici, fingendo di dimenticare il 25 luglio 1943 e l'8 settembre
1943.
Mentre, i "nazionalrivoluzionari" di Avanguardia Nazionale, nel 1976, si faranno
rappresentare dinanzi al Tribunale di Roma da Alfredo De Marsico, ex ministro di
Grazia e Giustizia durante il Ventennio, condannato a morte in contumacia dal
Tribunale di Verona nel gennaio del 1944 perché considerato traditore del
fascismo e del suo capo avendo votato, il 25 luglio 1943, nel corso della seduta
del Gran Consiglio del fascismo, a favore dell'ordine del giorno presentato da
Dino Grandi.
La malafede di Pino Romualdi è fuori discussione. La Seconda guerra mondiale è
stata anche una guerra ideologica e il vicesegretario del Partito Fascista
Repubblicano non poteva non saperlo nel luglio del 1946.
Non poteva, quindi, riproporre in buona fede, Pino Romualdi, ai reduci della RSI
la strategia mussoliniana del 1919-22, quando le squadre fasciste affrontarono
nelle strade e nelle piazze italiane i "sovversivi" socialcomunisti fra il
plauso e con il sostegno della borghesia e della monarchia.
Gli "anni di piombo" del "neofascismo" italiano maturano in questo 1946, quando
i suoi capi decidono che non ci sarà una rivincita ma solo un possibile ritorno
ad una guida del Paese, condivisa con altre forze anticomuniste, reso possibile
porsi al servizio, come armata mercenaria, della potenza egemone, gli Stati
Uniti, e dei suoi alleati italiani.
Per portare avanti una strategia serve uno strumento che sia ad essa idoneo, un
movimento politico guidato da uomini che siano capaci, per cinismo e
spregiudicatezza, di condurre il necessario doppio-gioco finalizzato a
traghettare i giovani giacobini, proletari ed anticlericali della RSI sulla
sponda della conservazione, politica ed economica della destra clericale e
meramente anticomunista.
Mentre i rapporti di Junio Valerio Borghese, Nino Buttazzoni, Pino Romualdi e
molti altri con i servizi segreti americani e italiani e con i politici
democristiani sono coperti dal più assoluto riserbo, il lavoro preparatorio alla
costituzione di un movimento politico è svolto, pubblicamente, da riviste e
periodici che rivendicano apertamente le loro simpatie per il regime fascista.
Ricordiamo "Il Meridiano d'Italia", rivista edita a Milano da Franco de Agazio,
messo in galera a Firenze dai fascisti, che inizia le pubblicazioni il 3
febbraio 1946, anche se gli Alleati avevano dato l'autorizzazione alla stampa
addirittura nel mese di agosto del 1945; segue "Rivolta ideale" che compare
nelle edicole l'11 aprile 1946 e, via via, "Rosso e nero" che si dice di
"sinistra", il 27 luglio 1946, al quale segue il 10 agosto 1946, "Rataplan"
diretto da Augusto de Marsanich e Nino Tripodi che, nel suo primo numero,
condanna le leggi razziali emanate dal fascismo nel novembre del 1938.
Parallelo a questo fiorire di periodici "neofascisti" prosegue il lavoro
sotterraneo per costituire un movimento politico di cui fa cenno il rapporto del
servizio segreto americano del 10 aprile 1946 che riporta le notizie fornite da
Nino Buttazzoni secondo il quale «all'inizio di marzo, il centro neofascista di
Roma ha approvato una risoluzione per la creazione di un ampio partito: tra i
suoi obiettivi, la guida delle forze anticomuniste e la ricostruzione
dell'Italia».
Un progetto eccessivamente ambizioso mentre del tutto fantasioso è quello
riportato in un appunto della polizia l'8 maggio 1946, secondo il quale negli
ambienti che fanno capo a Pino Romualdi si prospetta la possibilità che venga
autorizzata l'attività legale «di un movimento che persegua l'affermazione della
dottrina, dei principi e dell'etica del fascismo».
Al di là della propaganda romualdiana, si ha comunque la conferma che si cerca
uno strumento che consenta di radunare intorno ad un nome e ad un simbolo la
massa dei reduci della RSI da utilizzare nella battaglia anticomunista che
passa, in questo momento storico, anche per la ricomposizione della frattura
all'interno delle Forze armate e fra gli ex combattenti.
Il 26 settembre 1946, a Roma, è costituito il "Fronte dell'Italiano" che si
presenta come "associazione" non come partito politico, e che costituisce
l'embrione di quello che due mesi più tardi sarà il Movimento Sociale Italiano.
Moltissimo si è detto e si è scritto su questa formazione politica che
inizialmente non nasce come partito tradizionale destinato a partecipare alle
competizioni elettorali, bensì come movimento d'opinione destinato ad attrarre i
reduci della RSI ma anche quelli che tornano dai campi di prigionia britannici,
americani e francesi, pochi dei quali ben disposti nei confronti degli Alleati
di cui hanno sperimentato la durezza e la crudeltà sui loro corpi.
Nel Movimento Sociale Italiano si è voluto vedere il risorgere di un partito
neofascista, e nel suo simbolo -la fiamma tricolore- il segno della volontà di
rivincita dei fascisti.
Nulla di più fuorviante.
Come abbiamo già visto Italia e Francia affrontano problemi comuni e i loro
governi cercano soluzioni comuni, così che la creazione in Italia di un
movimento politico capace di attrarre gli ex combattenti fino a farli ritrovare
sotto una identica bandiera, quella italiana, senza aggettivi e senza
distinzioni, non nasce nelle menti di Pino Romualdi, Junio Valerio Borghese o ad
altri esponenti del reducismo repubblicano, ma è mutuato dalla storia politica
della Francia anteguerra.
Nel 1928, a Parigi, Maurice Hanot fonda le "Croci di fuoco" che raggruppano gli
ex combattenti decorati durante la guerra del 1914-18 ai quali si affiancano
successivamente, dal 1929, i Briscards che sono reduci che hanno combattuto
almeno per sei mesi al fronte.
Le Croci di fuoco non hanno un programma politico definito e si propongono di
raccogliere i migliori fra gli ex combattenti con i quali formare una specie di
ordine cavalleresco dedito all'educazione dei più giovani ed al culto del
Patria.
L'organizzazione delle Croci di fuoco si sviluppa, con successo, nel giro di
pochi anni e nel 1933 viene creato il "Raggruppamento nazionale" e, con esso, i
"Volontari nazionali" ai quali si possono iscrivere tutti senza condizioni.
Nell'ottobre del 1935, dal complesso di organizzazioni che ormai compongono le
Croci di fuoco nasce il Movimento Sociale Francese che ha come simbolo una
fiamma tricolore con i colori della bandiera francese e che verrà disciolto, il
18 giugno 1936, dal governo di Fronte popolare diretto dal socialista Leon Blum.
Le finalità del Movimento Sociale Italiano, all'atto della sua fondazione, il 26
dicembre 1946, non sono diverse da quelle delle Croci di fuoco originarie e del
Movimento Sociale Francese di cui mutua nome e simbolo ma anche le denominazioni
di due delle sue organizzazioni.
Difatti, l'organizzazione giovanile del MSI si chiamerà "Raggruppamento
giovanile studenti e lavoratori", mentre il suo servizio d'ordine prenderà il
nome di "Volontari nazionali".
Insomma, il Movimento Sociale Italiano di italiano non ha nemmeno l'origine, che
è francese, e non ha finalità politiche se non quelle, tali solo in senso lato,
di riunire sotto il suo simbolo gli ex combattenti per sottrarli a quella
sinistra socialcomunista alla quale la miseria, la disoccupazione, le sofferenze
patite, potrebbero indirizzarli.
Non è ancora possibile conoscere i nomi di coloro che nella storia prebellica
della Francia hanno trovato l'esempio da proporre nel dopoguerra italiano per
costituire un movimento di reduci ed ex combattenti uniti dai ricordi del
passato e dal sentimento nazionale, non certo dall'ideologia fascista.
Sappiamo, però, che nel mese di ottobre del 1946, a Roma, nell'ufficio di Arturo
Michelini, si riunisce un gruppo eterogeneo di persone che valuta la possibilità
di costituire un movimento politico.
All'incontro prendono parte: Arturo Michelini; Italo Formichella; Bruno
Puccioni, legato a Pino Romualdi; Biagio Pace, Ezio Maria Gray; Nino Buttazzoni;
Valerio Pignatelli; Giovanni Tonelli; il generale Muratori; Giorgio Pini;
Francesco Galanti; Giorgio Bacchi; Gianluigi Gatti e il capo dell'ufficio stampa
della Confindustria, Jacques Guiglia.
Fra i presenti, Arturo Michelini non ha mai aderito alla RSI; Biagio Pace ha
svolto un ruolo di informatore a Roma della struttura clandestina dei reali
carabinieri: Ezio Maria Gray è stato indicato come informatore dei servizi
segreti britannici; il generale Muratori, Bruno Puccioni, Valerio Pignatelli,
Nino Buttazzoni è lo stesso Michelini sono in contatto con la struttura di
intelligence americana diretta da James Jesus Angleton.
Il 3 dicembre 1946, sempre presso lo studio di Arturo Michelini è redatto il
documento costitutivo del Movimento Sociale Italiano, sottoscritto da Pino
Romualdi, Arturo Michelini, Giorgio Pini, Biagio Pace, Nino Buttazzoni, Giorgio
Bacchi, Valerio Pignatelli, Ezio Maria Gray, Italo Carbone, Emilio Profeta
Trigone, Giulio Cesco Baghino, Giovanni Tonelli, Ernesto De Marzio, Costantino
Patrizi, Giacinto Trevisonno.
Il 26 dicembre 1946, la costituzione del Movimento Sociale Italiano è
formalizzata con l'aggiunta di altri fondatori, oltre a quelli già citati: Bruno
Puccioni, Roberto Mieville, Francesco Nicola Galante, Gianluigi Gatti, Nicola
Foschini.
Gli unici elementi di spicco della RSI sono Pino Romualdi, ufficialmente
latitante, e Giorgio Pini, ex sottosegretario agli Interni; gli altri non hanno
un passato degno di rilievo.
Il Movimento Sociale Italiano nasce avendo alle sue spalle la Democrazia
Cristiana con Guido Gonella, Achille Marazza (esponente di primo piano del
Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e ricercato dalla Jugoslavia come
"criminale di guerra") e Giuseppe Caronia; i servizi segreti americani con James
Jesus Angleton; il Vaticano con padre Felix Morlion e la "Pro-Deo"; la
Confindustria, rappresentata da Jacques Guiglia.
Non c'è il fascismo.
Quanti si erano illusi di aver creato un movimento politico che avesse una
propria politica se ne andranno nel giro di pochi anni, come Valerio Pignatelli,
nel 1948, Giorgio Pini alcuni anni dopo, e lo stesso Nino Buttazzoni che si
ritirerà dalla vita politica.
Del resto, in un Paese militarmente sconfitto, nel quale sono ancora presenti le
truppe di occupazione alleate, la pretesa che si potesse ricostituire, sotto
altra denominazione ed altro simbolo, un partito politico che rappresentasse il
fascismo nelle idee e nella storia è appartenuta alla propaganda non alla verità
storica.
Il Movimento Sociale Italiano nasce come prodotto di un'operazione condotta
dall'anticomunismo nazionale ed internazionale, da forze politiche, militari e
finanziarie che avvertono la necessità di raggruppare ed utilizzare per il
proprio tornaconto migliaia di reduci della RSI in previsione dello scontro
frontale con i comunisti.
Il 13 dicembre 1946 Giorgio Pini annotava nel suo diario: «I grassi borghesi non
sperano più di salvarsi facendo il doppio gioco e finanziando i sovversivi.
Presi alla gola vorrebbero alimentare un nuovo squadrismo della vecchia
impronta. Promettono soldi ma chiedono sangue!».
il Movimento Sociale Italiano nasce anche per questa ragione: la difesa ad
oltranza della destra «dalla congenita vigliaccheria», di quella borghesia che
Mussolini aveva definito la «rovina dell'Italia».
Abbiamo visto la strategia delineata da Pino Romualdi nel luglio del 1946 che si
fonda esclusivamente sulla certezza che porsi ad avanguardia contro il comunismo
in difesa degli interessi della casta borghese risulterà, infine, determinante
per ottenere il reingresso nel governo del Paese.
Abbiamo definito lo strumento di questa strategia, il Movimento Sociale
Italiano, che si ispira ad un partito politico della destra francese composto
principalmente da ex combattenti della Prima guerra mondiale senza alcun
riferimento implicito od esplicito al fascismo repubblicano.
Vediamo ora, in estrema sintesi, chi sono stati gli uomini che hanno guidato il
Movimento Sociale Italiano nel dopoguerra e, con esso, le organizzazioni della
destra extra-parlamentare.
Arturo Michelini, lo abbiamo detto, non aderì alla Repubblica sociale italiana
di cui si è, strumentalmente, eletto erede e difensore per racimolare i voti dei
reduci e dei loro familiari.
Augusto de Marsanich, viceversa, nella Repubblica di Salò c'è stato con le
stesse funzioni di dirigente industriale che aveva ricoperto durante il
Ventennio, incarnando la figura rappresentativa di quella destra finanziaria ed
economica che tanto aveva fatto contro il fascismo repubblicano lavorando per i
tedeschi, da un lato, e finanziando i partigiani, dall'altro.
Giorgio Almirante, l'uomo simbolo del Movimento Sociale Italiano e del
cosiddetto "neofascismo" post-bellico, merita di essere rivalutato
dall'antifascismo non perché, come si pretende oggi, sia stato il fondatore
della "destra moderna", ma perché è il prototipo del "traditore" che riesce, con
tante complicità inconfessabili, a presentarsi per una vita intera come
l'espressione di una lealtà politica ed umana, ideologica e storica che non gli
è mai appartenuta.
Giornalista, razzista, antisemita, combattente che non ha mai combattuto,
Giorgio Almirante dopo l'8 settembre 1943 s'impiega presso il ministero della
Cultura popolare guidato da Fernando Mezzasoma.
Nel dicembre del 1944, Gilberto Bernabei, capo dell'ufficio stampa del ministero
fugge a Roma temendo, evidentemente, di essere arrestato dai tedeschi o dai
fascisti per il suo doppio-gioco.
Bernabei è una di quelle figure che, nell'oscurità, lontane dai riflettori della
stampa e della politica, hanno ricoperto un ruolo, spesso decisivo, in tante
vicende drammatiche della storia italiana del dopoguerra.
Gilberto Bernabei è l'uomo di fiducia di Giulio Andreotti, quello che cura per
lui i rapporti con gli ambienti militari, il suo consigliere più fidato ed
ascoltato.
Giorgio Almirante è il suo successore nell'incarico di capo dell'ufficio stampa
del ministero della Cultura popolare della RSI.
Il 25 aprile 1945 Giorgio Almirante abbandona il suo ministro che sarà fucilato
a Dongo tre giorni più tardi, il 28 aprile 1945, e si immerge nella
clandestinità, favorito dal possesso di documenti falsi che gli aveva fornito un
ebreo da lui protetto ed ospitato nei locali del ministero della Cultura
popolare.
Un gesto di alta umanità, sembrerebbe, compiuto da un antisemita che si era
ravveduto ma il fatto che costui abbia fornito a Giorgio Almirante documenti
falsi per vivere in clandestinità prova che era in contatto con qualche
struttura di intelligence alleata o italiana che fosse, perché non è credibile
che un povero perseguitato potesse fare questo favore al suo protettore non
trovandosi i documenti falsi agli angoli delle strade.
Non è una novità che radio clandestine in uso ad operatori delle missioni
militari alleate al Nord o delle strutture di intelligence della Resistenza
trasmettessero proprio dall'interno dei ministeri della Repubblica Sociale,
ritenuti luoghi sicuri e protetti dalle indagini condotte dai tedeschi.
È il caso del "protetto" di Giorgio Almirante? Non lo sappiamo. Ma rimane
incontrovertibile il fatto che il perseguitato è in grado di fornire ad
Almirante la documentazione falsa che gli consentirà il 25 aprile di darsi alla
latitanza.
Però, Giorgio Almirante non è un uomo braccato dai partigiani e dalle forze di
polizia, anzi a suo carico non risulta che sia mai stato emesso un mandato di
cattura, istruito un processo per "collaborazionismo", emessa una condanna per
la sua attività come capo dell'ufficio stampa del ministero della Cultura
popolare.
Non ha ricoperto un incarico politico di primo piano, ma pur sempre svolto un
ruolo ministeriale, ha firmato persino un bando nel quale si ammonivano i
renitenti alla leva che sarebbero stati passati per le armi se non si fossero
presentati, eppure nessuno lo cerca.
Per "collaborazionismo", sono state condannate le dattilografe, le cuoche delle
mense militari, le maestre elementari, che hanno conosciuto arresto, campo di
concentramento o prigione e, infine, processi e condanne.
Il capo dell'ufficio stampa del ministero della Cultura popolare della RSI,
Giorgio Almirante invece non conosce nulla di tutto questo.
Nel luglio del 1946, Almirante scrive al Tribunale di Roma per chiedere gli
venga applicato il decreto di amnistia promulgato 22 giugno 1946, in modo che
«la pratica relativa alla mia attività fascista venga archiviata».
Non si conosce la risposta del Tribunale, ma l'amnistia può essere applicata a
chi ha subito un processo ed una condanna o, almeno, è imputato dinanzi a
qualche Tribunale: non è il caso di Giorgio Almirante.
Anche nel suo libro autobiografico, edito negli anni Settanta, Giorgio Almirante
non fa riferimento alcuno ad eventuali traversie giudiziarie successive al 25
aprile 1945, per la semplice ragione che non ce ne sono state.
Come il tenente di vascello Mario Rossi, comandante del battaglione "Vega" della
divisione Decima, agente dei servizi di sicurezza alleata, anche Giorgio
Almirante non viene cercato da nessuno perché non è processabile, non è
imputabile per «collaborazionismo con il tedesco invasore».
I casi di "doppio gioco" all'interno della Repubblica Sociale Italiana sono
stati così numerosi da obbligare il governo presieduto da Ferruccio Parri ad
emanare il 4 agosto 1945 un decreto-legge che garantisce la loro impunibilità.
Abbiamo chiesto più volte, dal sito Internet di "Marilena Grill", agli
estimatori di Giorgio Almirante di fornire le prove del processo che, per
logica, costui avrebbe dovuto subire dopo la fine delle ostilità.
Dal mondo di destra ha risposto il silenzio, perché la documentazione
processuale non esiste, perché l'uomo-simbolo del neofascismo italiano, lo
stesso che ancora nel 1982, durante un congresso del suo partito gridava a Marco
Pannella, «il fascismo è qui», aveva tradito il fascismo ed i fascisti già
durante la guerra.
Dopo una breve parentesi, sarà proprio Giorgio Almirante, riemerso dalla
clandestinità, ad essere eletto segretario nazionale del Movimento Sociale
Italiano perché un uomo ricattabile è più affidabile per i burattinai che lo
controllano.
Insomma, il neo-fascismo italiano è stato guidato nel corso di quasi mezzo
secolo da uomini che con il fascismo legionario e combattente non hanno mai
avuto nulla a che fare, come Arturo Michelini e Augusto de Marsanich, o che lo
hanno tradito, come Giorgio Almirante.
Junio Valerio Borghese, durante il biennio 1943-45 ha condotto una sua guerra
personale e, dopo, è divenuto un agente dei servizi segreti americani.
Altri personaggi di rilievo hanno compiuto lo stesso cammino: Tullio Abelli, già
ufficiale della Decima, destinato a divenire vicesegretario nazionale del MSI,
nel 1946 aveva in tasca un documento che lo qualificava come informatore della
315 Fiel Security Section Intelligence Corps, a Torino; Mario Tedeschi era in
contatto con la Questura di Roma già nel 1946; il fratello di Ernesto de Marzio,
Giulio, lo ritroveremo fra i dirigenti della struttura NATO, "Pace e libertà",
nei primi anni Cinquanta; il fratello del segretario nazionale del MSI Augusto
de Marsanich, Filippo farà parte della struttura Stay-behind, Franco Maria
Servello nel 1945 scriveva su "Il Corriere di Salerno", giornale promosso dagli
americani, articoli contro i fascisti, la Repubblica Sociale e Benito Mussolini.
Se neofascismo in Italia c'è stato, non si può dire che sia stato guidato da
fascisti, ma da profittatori del fascismo che hanno ingannati i vivi e speculato
sui morti per scopi che erano contrari all'ideologia fascista.
Coloro che ancora oggi sostengono che in Italia c'è stato il "terrorismo nero",
nelle sue versioni di "golpista" e "stragista" o di "spontaneista", dovrebbero
approfondire la storia del cosiddetto "neofascismo" prendendo in considerazione
la strategia, le organizzazioni, gli uomini e le idee.
Si renderebbero conto, almeno coloro che sono intellettualmente onesti, che il
"neo-fascismo" nel dopoguerra, a partire dai primi anni Cinquanta si è ispirato
alle idee di Julius Evola che fascista non è mai stato.
Evola è stato un intellettuale che si è ispirato alla "rivoluzione
conservatrice", che ha espresso ammirazione per la RSI solo perché ha saputo
infondere uno "spirito legionario" nei suoi combattenti, considerando le idee ed
i propositi sociali del fascismo come espressione di una rivoluzione plebea che
minava alla base quell'ordine gerarchico ed aristocratico di cui egli era
assertore.
Non è colpa di Julius Evola se certi suoi allievi hanno scambiato Angelo Izzo,
il massacratore del Circeo, nel simbolo dell'uomo che si eleva al di sopra della
morale comune e lo hanno esaltato nei loro scritti onorandosi di considerarlo un
"camerata".
Gli estimatori di un volgare violentatore ed uccisore di donne e di bambine, fra
i quali dobbiamo ricordare Mario Tuti, Pierluigi Concutelli, Maurizio Murelli,
Fabrizio Zani, sono il prodotto meschino e plebeo di idee che non sono fasciste,
soprattutto non ne riflettono l'aspetto etico.
La storia del presunto "neofascismo" non può iniziare negli anni Sessanta o
Settanta, ma dal momento stesso in cui muore il fascismo ma al potere
antifascista servono i reduci del fascismo da usare contro il nuovo nemico, il
comunismo.
Ed è la storia di inganni, menzogne, diversioni strategiche, disinformazione che
va scritta, per la prima volta, in modo sereno ed oggettivo.
Si scoprirà, ad esempio, che la sigla utilizzata dai presunti "spontaneisti"
dell'ultimo "neofascismo", i Nuclei di Azione Rivoluzionaria (NAR) è mutuata
dalla cellula dei Fasci di Azione Rivoluzionaria fondati, con i soldi e per gli
interessi dei servizi segreti americani, da Pino Romualdi nel 1946.
È solo l'ultima conferma, in ordine di tempo, di un filo che attraversa tutta la
storia del dopoguerra, e non è un "filo nero", perché segna una zona grigia che
ancora deve essere esplorata, illuminata, conosciuta anche se a questa ricerca
si oppongono oggi i partiti politici, gli apparati dello Stato e, in prima fila,
i "neofascisti" divenuti antifascisti.
Già perché la strategia delineata da Pino Romualdi nel luglio del 1946 è stata
fallimentare in ogni suo aspetto, specie in quello conclusivo: al governo gli
eredi di Romualdi ed Almirante sono stati chiamati ma hanno pagato il piatto di
lenticchie offerto loro dalla borghesia con il ripudio pubblico della loro
storia e delle loro idee, proclamandosi fieri antifascisti.
Conclusione scontata della storia di piccoli uomini che non avevano ideali per i
quali combattere e morire, ma solo desideravano di essere chiamati al lato di
quanti sono i reali detentori del potere.
Storia di opportunisti e di arrampicatori sociali, una storia italiana che va
scritta e fatta conoscere alle giovani generazioni che potranno chiudere un
capitolo che non onora il Paese né il suo popolo.
Vincenzo Vinciguerra
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