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Le ferite del risorgimento
- Tradizione, Informazione, Azione -
Comunicato 05_11 del 15 marzo 2011
San Zaccaria Papa
«...
ma poi qualcuno ha detto che la mia storia è iniziata solo nel 1861,
qualcuno ha parlato di Risorgimento. Ma se sono risorta, devo essere prima
morta. Ma a me non sembra di essere morta, anzi, mi pareva di stare bene,
prima di quella data che alcuni indicano come il mio anno di nascita ...»
Il Risorgimento
- nel 150° dell'unificazione d'Italia
Introduce dott. Carlo Alberto Agnoli - La massoneria nell'ideologia
risorgimentale
a seguire dott.ssa Elena Bianchini Braglia - Il Risorgimento e
l'unificazione d'Italia
Volano, venerdì 25 marzo 2011 ore 20:30 - Aula magna scuola elementare
Ingresso libero
Grafica dell'incontro
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L'evento su Facebook
http://www.facebook.com/event.php?eid=189495551088261
Organizzato da
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Centro studi sul risorgimento e sugli stati preunitari -
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Inviamo un interessante recensione di Paolo Mieli del libro "1861. Le due
Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile" di Massimo Viglione.
Il direttore del "Corriere" è costretto a tessere le lodi del libro di Viglione
nonostante l'avversità di Mieli alla Fede Cattolica Tradizionale.
«... Altrettanto forte è la parte del libro dedicata alla "guerra legislativa"
contro la Chiesa. Sono cose abbastanza conosciute (se ne è molto occupata negli
ultimi anni Angela Pellicciari) ma fa una certa impressione ripercorrere la
lunga storia di leggi d'esproprio, istituti di assistenza soppressi, ordini
religiosi aboliti, seminari, conventi, monasteri chiusi da un giorno all'altro,
preti, vescovi e cardinali costretti all'esilio o messi in carcere. La gazzarra
nel luglio del 1881 per gettare nel Tevere la salma ("la carogna", puntualizzò
il giornale repubblicano "La Lega della Democrazia") di Pio IX appena defunto.
La destituzione del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che il 30 dicembre del
1887 era andato in Vaticano a presentare gli auguri della cittadinanza a Leone
XIII …»
Il saggio - Le ferite del Risorgimento
Questione cattolica e Sud: così nacque uno Stato lontano dalle masse popolari
Tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1961, quando si celebrò il
centenario dell'Unità d'Italia, gli studenti delle scuole secondarie nel nostro
Paese raddoppiarono passando da 369 mila a 840 mila e crebbero a dismisura anche
le iscrizioni all'università, in particolare alle facoltà di Lettere, le quali
offrivano una laurea che avrebbe garantito l'accesso all'insegnamento
scolastico. Purtroppo, però, per ciò che riguarda la storia, quegli studenti
furono costretti a frequentare una «scuola dell'oblio». In che senso? Lo
spiegano le pagine finali del libro di Alberto De Bernardi e Luigi Ganapini
dedicato alla Storia dell'Italia unita pubblicato recentemente da Garzanti.
Scrivono i due autori che, nell'imbarazzo di approfondire cause, responsabilità
e corresponsabilità del regime mussoliniano, «le nuove élites politiche
antifasciste sembrarono voler rinunciare a utilizzare l'insegnamento della
storia come strumento per costruire legittimazione, consenso, identità
collettiva attorno alla Repubblica democratica, come avevano fatto la classe
dirigente liberale e quella fascista». Di conseguenza andò affermandosi un modo
di insegnare la storia assai poco problematico che puntava «piuttosto sull'oblio
che sulla presa di coscienza», dove imperavano le «ricostruzioni di comodo del
passato».
Questo modo di insegnare la storia all'insegna della rimozione non fu modificato
-se non in parte- dopo il 1961 e, anzi, si estese dal ventennio fascista a tutto
il racconto di come era stata fatta l'Italia e di quali erano stati i problemi
che il nostro Paese aveva dovuto affrontare nei suoi primi decenni di vita. Ciò
che spiega perché, anche di recente, abbiano avuto grande successo di pubblico
non solo libri filo risorgimentali come il convincente "Viva l'Italia!" di Aldo
Cazzullo e il raffinato, divertente "La patria, bene o male" di Carlo Fruttero e
Massimo Gramellini (entrambi editi da Mondadori) ma anche -soprattutto- testi
come il bestseller "Terroni" (Piemme) di Pino Aprile e il fortunato "Il sangue
del Sud" (Mondadori) di Giordano Bruno Guerri, volumi impegnati a togliere il
velo che ammantava gli aspetti più controversi della conquista dell'Italia
meridionale. Così come altri che facevano la stessa operazione con il complicato
rapporto tra il mondo cattolico e quello liberale o la drammatica transizione
dal fascismo al postfascismo. Probabilmente è vero che tali testi non
aggiungevano informazioni nuove rispetto a quelle già note agli specialisti
della materia, ma questi libri di dissacrazione andavano incontro ad un diffuso
desiderio dei lettori di saperne di più in merito a questioni che la scuola e
l'università avevano e hanno continuato ad affrontare in modi assai elusivi.
Per questo motivo -al di là delle obiezioni che si possono muovere e che faremo
anche in questa sede- va salutata con favore la pubblicazione di "1861. Le due
Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile" di Massimo Viglione,
che le edizioni Ares si accingono a mandare in libreria tra qualche giorno. Sono
vent'anni che Viglione si occupa di questi temi dedicandosi -con un'ottica da
cattolico tradizionalista- da principio a "La Rivoluzione francese nella
storiografia italiana dal 1790 al 1870" (Coletti) e in seguito alle
«insorgenze», cioè alle rivolte antinapoleoniche negli anni 1796-1815 ("Rivolte
dimenticate", recita il titolo di un suo testo pubblicato nel 1999 da Città
Nuova). Stavolta il libro di Viglione è un utile manuale delle contestazioni al
Risorgimento e ai primi decenni dell'Italia unita. Contestazioni non nuove,
ripetute anche nel recente volumetto del cardinale (in pensione) Giacomo Biffi,
"L'Unità d'Italia. Centocinquant'anni 1861-2011" (Cantagalli). Il testo di
Viglione è pieno, però, di riconoscimenti a storici di formazione molto diversa
dalla sua. Il che si segnala come un gesto inedito e cavalleresco, atto a
favorire un confronto civile.
Punto di partenza del libro è che «mai l'Italia fu amministrativamente e
politicamente unita dalla preistoria al 1861 (anche nei secoli romani non si può
parlare di "unità" nel senso moderno del concetto), ma sempre fu unita nella sua
universalità». Ancora a metà del XIX secolo, quello che oggi è il nostro
territorio nazionale «era sempre stato abitato non da un popolo etnicamente
unitario, ma da un insieme di popolazioni, unite tra loro esclusivamente
dall'elemento religioso e dalla memoria -più o meno pregnante- dell'eredità di
Roma imperiale e della sua civiltà». Per mille e cinquecento anni, dalla fine
dell'Impero Romano, aveva scritto Aldo Schiavone ("Italiani senza Italia",
Einaudi), la Chiesa «si era data la missione di tenere insieme, pur adattandosi
alle diverse epoche, le torri e i campanili d'Italia». L'istituzione religiosa
ebbe dunque «la ventura di rimanere l'unica forza attiva nella Penisola che
fosse riconducibile a una genealogia italiana... Finì con l'assumere perciò un
ruolo di supplenza scopertamente politica ben al di fuori dei confini dei suoi
domini temporali; in molte occasioni di difesa e di protezione locale -o almeno
di velo- contro l'invadenza straniera». E, prosegue Viglione, «visto che la
religione e la Chiesa cattoliche erano di fatto non solo l'anima
dell'italianità, ma anche l'unico concreto elemento unificatore delle
popolazioni preunitarie, sarebbe stato logico ritenere che proprio su tale
elemento si sarebbe dovuto far leva per costruire un processo di unificazione
nazionale e statuale di tali popolazioni». E invece...
Invece le cose andarono alla maniera per la quale Viglione riprende la
definizione «Rivoluzione italiana». Nel senso che tra l'altro «l'unificazione
avvenne non solo non rispettando, ma andando contro il diritto vigente dei vari
legittimi Stati preunitari, che furono infatti conquistati con la violenza e con
l'inganno». E una volta fatta l'Italia ad opera di élites minoritarie, si
dovette procedere a «fare gli italiani» come disse Massimo d'Azeglio. Gli uomini
del nostro Risorgimento, scriveva Adolfo Omodeo, «operarono essi per il popolo;
si adattarono ad essere loro la nazione». È vero: da noi, come ha notato Ernesto
Galli della Loggia ("L'identità italiana", Il Mulino), si è fatta storia alla
rovescia; prima si è costituito uno Stato, poi si è dovuto pensare a creare una
nazione. E, per giunta, contro la Chiesa. L'Italia, ha scritto ancora Galli
della Loggia, si trova ad essere «l'unico Paese d'Europa (e non solo dell'area
cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero
siano avvenute in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale...
L'incompatibilità fra patria e religione, fra Stato e Cristianesimo, è in un
certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato
nazionale».
Il che ha provocato, fin dal principio della nostra storia, problemi evidenti.
Poco prima di morire, non ancora trentenne, nel misterioso naufragio del
piroscafo "Ercole" il 4 marzo del 1861 (dopo aver partecipato all'impresa dei
Mille), Ippolito Nievo scrisse alcune riflessioni sulla società italiana, un
«frammento sulla rivoluzione nazionale», che contengono notazioni dalle quali si
desume che i problemi connessi al tema trattato in questa sede erano già ben
individuabili anche agli albori del nostro Stato unitario. «È tempo di dire la
verità e di dirla intera», scriveva Nievo; «Sì! Questa inerte opposizione o
questa muta indifferenza agli sforzi della nostra intelligenza per conquistare i
diritti di libertà cova ed opera sordamente nelle nostre plebi. Se ne togliete
le poche popolazioni industriali (che sono eccezioni in Italia), la grande
maggioranza della nazione illetterata, il volgo campagnolo segue svogliato il
progresso delle menti elevate. È più di peso che aiuto al rimorchio; e, lasciato
appena, ricade contento nella propria quiete». Per cambiare la situazione, a
detta di Nievo, sarebbe stato necessario conquistare i preti «funzionari
indispensabili nella società attuale, soli rappresentanti della intelligenza»
del volgo. Gli artefici dell'Unità avrebbero dovuto quantomeno rivolgersi al
clero delle campagne e «tirarlo dalla loro per guerreggiare l'influenza
vescovile e papalina». Parole che dimostrano, anche in uno scrittore tutt'altro
che clericale, una precoce consapevolezza dello stato preoccupantemente
minoritario della «rivoluzione italiana».
Anno d'inizio di questa vicenda è il 1796, quando Napoleone entra in Italia (che
non è ancora tale, mancano 65 anni alla proclamazione dello Stato unitario) ed
esplode la prima delle guerre civili che caratterizzeranno la storia del nostro
Paese. Da una parte le repubbliche giacobine e democratiche nate sulla scia
dell'invasione napoleonica, dall'altra le insorgenze controrivoluzionarie. Il
cuore dell'autore batte, ad ogni evidenza, per le insorgenze. Viglione accusa il
«giacobinismo» di aver introdotto nella Penisola «non solo lo spirito
repubblicano, ma anche l'impronta laicista e anticattolica nonché la tendenza al
totalitarismo», finendo per far venire alla luce «lo spirito antimoderno e
tradizionalista di estesi ambienti del mondo cattolico». Gli italiani che
affluirono nelle file dei rivoluzionari, divenendo giacobini, vengono definiti
«collaborazionisti dell'invasore» (in effetti lo furono). Li si accusa di essere
stati una esigua minoranza a fronte delle masse che si mobilitarono contro
l'armata napoleonica (ed è vero che a contrastare qualche migliaio di
«giacobini» scesero in campo trecentomila «insorgenti» lasciando sul terreno non
meno di centomila morti). Ed è altresì innegabile che in particolare nel 1799,
l'anno in cui la «rivoluzione napoletana» fu travolta sotto i colpi dell'Armata
della Santa Fede del cardinale Ruffo, fu rovesciata la Repubblica Romana e i
"Viva Maria" riconquistarono il Granducato di Toscana restituendolo ai Lorena,
la rivolta degli insorgenti «assunse i caratteri di una grande insurrezione
generale del popolo italiano contro l'invasore napoleonico e il giacobinismo».
Tema trascurato per decenni, anche se Viglione dà atto all'Istituto Gramsci di
aver pubblicato nel 1998 un numero monografico della rivista "Studi Storici"
interamente dedicato alla questione, in cui -pur tra molte cautele- si
riepilogano i fatti per come andarono realmente.
A Giuseppe Mazzini viene rimproverato l'«unitarismo accentratore», di essere
stato il «grande ispiratore del totalitarismo italiano» e, riprendendo un
giudizio di Sergio Romano, il «cinismo messianico» che lo indusse a
(mal)congegnare una serie di complotti di cui, sempre secondo Romano, «troveremo
tracce nella storia d'Italia fino ai giorni nostri». A Vincenzo Gioberti, che
pure propose la soluzione neoguelfa -il Pontefice romano a guida di una
confederazione degli Stati preunitari- che Viglione considera sarebbe stata la
più adatta al nostro Paese, si rinfacciano pagine «di velenosissima critica
contro l'odiata Compagnia di Gesù» e lo si accusa di aver ingannato lo stesso
Pio IX.
Si riconosce nel libro che, prima ancora dell'impresa dei Mille, «una certa
partecipazione popolare» si ebbe nella prima guerra di indipendenza sia a Milano
nelle Cinque giornate, sia nel volontarismo contro l'Austria. Ma la si
attribuisce al consenso che papa Mastai, nei primi due anni di pontificato
(1846-48), manifestò alla causa risorgimentale. In seguito, dal momento in cui
Pio IX ritirò le truppe pontificie dalla guerra contro l'Austria e andò a monte
il progetto neoguelfo, dal quale «sarebbe nata un'Italia confederativa cattolica
e monarchica, decentrata e tradizionalista che avrebbe senz'altro riscosso il
consenso massiccio delle popolazioni italiane legate ai loro legittimi sovrani»,
da quel momento tutto andò per il peggio. In questo frangente, scrive l'autore,
si produce la «leggenda nera» che descrive gli Stati italiani preunitari come
delle mostruosità intollerabili. Viglione contesta questa descrizione: dà atto a
Giuseppe Galasso e alla sua scuola di aver «iniziato a rendere giustizia alla
realtà civile del Meridione sotto il Vicereame spagnolo, specie per quel che
riguarda il XVII secolo». Sostiene che, con l'ascesa al trono di Napoli e
Palermo, nel 1734, di Carlo di Borbone iniziò una stagione di riformismo
illuminato contrassegnata dai nomi di Giannone, Genovesi, Filangieri e Pagano.
Vede un degno successore di Carlo in Ferdinando IV, che poi prese il nome di
Ferdinando I (1759-1825). Loda anche la modernizzazione dello Stato promossa da
Ferdinando II (1830-1859). E riconosce allo studioso Angelo Antonio Spagnoletti,
di scuola storiografica diversa dalla sua, di aver scritto nella "Storia del
Regno delle Due Sicilie" (Il Mulino) cose molto sensate.
Viglione enfatizza il ruolo avuto dall'Inghilterra protestante (e sottostima
quello della Francia cattolica) nell'aiuto dato a Cavour al momento decisivo,
tra il 1859 e il 1860, della costruzione del nostro Stato unitario. È vero che
nella prima metà dell'Ottocento Londra offrì ospitalità a numerosi cospiratori,
primo tra tutti Mazzini. È vero che Palmerston, Russel e Gladstone (il quale in
una celebre lettera a Lord Aberdeen il 17 luglio del 1851 si spinse a definire
il Regno delle Due Sicilie «la negazione di Dio») diedero una mano alla causa
italiana. È vero che fu lo stesso Garibaldi a ringraziare, nel 1864 al Crystal
Place, gli inglesi per l'aiuto offerto all'impresa dei Mille. È vero che quando
i piemontesi nel 1860 invasero lo Stato pontificio, l'unico Paese che lasciò il
proprio ambasciatore a Torino fu la Gran Bretagna e a Londra ci fu chi paragonò
Vittorio Emanuele II a Guglielmo d'Orange. Ma che tutto ciò facesse capo a un
disegno di «protestantizzazione dell'Italia» è tutt'altro che dimostrato. Gli
inglesi, tra l'altro, furono i primi a segnalare quel che non andava in Italia
negli anni successivi all'unificazione. Nel 1863 -è ben raccontato nel libro "La
Rivoluzione italiana" di Patrick Keyes O'Clery, pubblicato anch'esso da Ares- il
console inglese a Napoli, Bonham, denunciò le condizioni delle carceri
partenopee ancor più atroci dopo l'arrivo dei piemontesi. E, dopo un dibattito
parlamentare, l'Inghilterra spedì nell'Italia del Sud Lord Seymour e Sir Winston
Barron che confermarono i termini della denuncia. In quello stesso anno, sempre
nel Parlamento inglese, Disraeli disse: «Desidero sapere in base a quale
principio ci occupiamo delle condizioni della Polonia e non ci è permesso di
discutere su quelle del Meridione italiano. È vero che in un Paese gli insorti
sono chiamati briganti e nell'altro patrioti, ma, al di là di ciò, non ho
appreso da questo dibattito nessun'altra differenza». E, quando nel 1867 il
generale pontificio Kanzler entrò a Monterotondo, dopo la battaglia di Mentana e
la sconfitta di Garibaldi, un giornale di Londra registrò che gli abitanti lo
avevano accolto come «un liberatore» anche perché «erano stati derubati di tutto
dai garibaldini e le offese fatte alle loro donne li avevano particolarmente
esasperati». Ugualmente sovradimensionato nel libro è il ruolo che nel
Risorgimento ebbero i protestanti. Ruolo che pure ci fu e che è stato
efficacemente descritto da Giorgio Spini. Così come esagerata appare la
rappresentazione degli influssi sul Risorgimento (anche questi, certo, ben
presenti) della massoneria.
Particolarmente energico è, invece, il paragrafo del libro dedicato alla farsa
dei plebisciti che, con percentuali del 98 per cento, consacrarono l'italianità
dei territori annessi. Viglione mette in rilievo come il voto che
contestualmente fece diventare francesi Nizza e la Savoia ebbe le stesse
caratteristiche. In Savoia i favorevoli all'annessione furono 130.533 contro
235, nonostante una petizione che avversava l'annessione della Savoia stessa
alla Francia avesse raccolto ben 13 mila firme.
Efficace è altresì la parte che descrive la conquista del Sud, l'aiuto dato a
tale conquista dalla malavita organizzata, la corruzione che si diffuse negli
anni immediatamente successivi all'unità, la brutalità della repressione del
«brigantaggio» ad opera del generale Cialdini: il computo dei morti non offre
cifre sicure e definitive; è certo, però, che il loro ammontare fu superiore, e
di molto, a quello dei caduti in tutti, proprio tutti, i moti e le guerre
risorgimentali dal 1820 al 1870. E dire che tutto era chiaro già da allora come
si desume dalla denuncia al Parlamento italiano (novembre 1862) di Giuseppe
Ferrari: «Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera
nazionale; potete chiamarli briganti ma i padri di questi briganti hanno
riportato per due volte i Borboni sul trono di Napoli... È possibile, come il
governo vuol far credere che millecinquecento uomini comandati da due o tre
vagabondi possano tenere testa a un intero regno, sorretto da un esercito di
centoventimila regolari? Perché questi millecinquecento devono essere semidei,
eroi! Ho visto una città di cinquemila abitanti (Pontelandolfo, ndr)
completamente distrutta! Da chi? Non dai briganti».
Altrettanto forte è la parte del libro dedicata alla «guerra legislativa» contro
la Chiesa. Sono cose abbastanza conosciute (se ne è molto occupata negli ultimi
anni Angela Pellicciari) ma fa una certa impressione ripercorrere la lunga
storia di leggi d'esproprio, istituti di assistenza soppressi, ordini religiosi
aboliti, seminari, conventi, monasteri chiusi da un giorno all'altro, preti,
vescovi e cardinali costretti all'esilio o messi in carcere. La gazzarra nel
luglio del 1881 per gettare nel Tevere la salma («la carogna», puntualizzò il
giornale repubblicano "La Lega della Democrazia") di Pio IX appena defunto. La
destituzione del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che il 30 dicembre del 1887
era andato in Vaticano a presentare gli auguri della cittadinanza a Leone XIII.
Ancora da approfondire il rapporto tra la storia del Risorgimento e quella del
fascismo su cui pure Emilio Gentile (nei confronti del quale Viglione ha parole
di grande elogio) ha dedicato pagine molto acute ne "La grande Italia. Ascesa e
declino del mito della nazione nel XX secolo" (Mondadori). Viglione scrive di
non voler affermare che la dittatura fascista sia «l'inevitabile conseguenza del
Risorgimento, anche perché il determinismo non appartiene alla nostra concezione
storica e religiosa». Ma, aggiunge, «certamente non è più possibile continuare a
ritenere che il fascismo sia stato qualcosa di estraneo -o addirittura di
opposto- al Risorgimento». E sono pagine destinate a far discutere.
Merito di questo libro è quello di aver tenuto il punto in un contesto
interlocutorio e dialogante nei confronti degli storici di opposte scuole e
tendenze. Demerito quello di aver lasciato cadere qua e là espressioni
eccessivamente dirette, o, per meglio dire, brutali (e talvolta offensive) nei
confronti di molti protagonisti del passato risorgimentale. Napoleone che entra
in Italia nel 1796 è un «invasore ladro, prepotente e stragista». I patrioti
napoletani del 1799 «furono impiccati perché odiati da tutto il popolo».
Gioberti «gettò la maschera» dopo la «parentesi neoguelfa» durante la quale era
stato «talmente abile da riuscire a ingannare anche lo stesso Papa». Pontefice,
Pio IX, al quale vengono imputati, prima del 1848, «cedimenti alle richieste
sovversive». La spedizione dei Mille con quello che ne seguì è definita «una
guerra di conquista effettuata con tradimenti, calunnie, corruzione e stragi da
parte di uno solo dei sovrani italiani (Vittorio Emanuele II): il più scaltro e
privo di scrupoli, indifferente alla stessa scomunica, sebbene cattolico
praticante». I politici della sinistra meridionale furono «avventurieri al
seguito dell'eroe dei due mondi che si distinsero per il malcostume»; la destra
fu una «squadra al soldo di Cavour che non perdeva occasione per togliere alla
gente del Sud ciò che era il suo pane quotidiano». Ancora: «Lottare per far
divenire gli italiani protestanti nel XIX secolo, e ciò in nome dell'unità
d'Italia, rappresenta forse la più odiosa ed evidente riprova della colossale
ipocrisia dei padri -ideali e politici- della Rivoluzione italiana». E si
potrebbe continuare.
Se vogliamo dibattere di storia dobbiamo riconoscere che ogni parte di questo
libro si presta alla discussione. Ma va aggiunto che le esasperazioni polemiche,
pur se attenuate rispetto a quelle contenute in analoghi testi pubblicati in
passato, sono ancora troppe. Dobbiamo attendere altri cinquant'anni perché di
questi temi si possa discutere con sobrietà?
Paolo Mieli (8 marzo 2011)
la NOTA di Giorgio Vitali
Pubblichiamo con piacere, come
nostra partecipazione all'evento della ricorrenza del 150°
anniversario della proclamazione, del tutto "formale", ci sia
concesso di dichiararlo, un commento di Mieli, uomo che solitamente
ostenta moderazione ed imparzialità, ad un libro fra i tanti,
dobbiamo pur dirlo, che hanno finora punteggiato la storiografia
nazionale sugli eventi nazionali. Unificazione in testa. NON
crediamo che in alcun altro paese del mondo ci sia stata una tale
quantità di prodotti della cosiddetta "Scienza storica" come quella
uscita a profusione sulla storia d'Italia. Si tratta peraltro di
anacronismo o, meglio, di un'enormità, dato che gli italiani leggono
pochissimo, pochissimo conoscono della storia patria, e queste
notizie che ci piovono come una grandinata in particolari
ricorrenze, finiscono per lo più in gazzarre fra storici, letterati,
poeti, sociologi, economisti, moralisti, uomini di fede e di
religione.
Le considerazioni di Mieli, che è uno storico di scuola Defeliciana,
ancorchè di posizioni ideologiche molto "conformi" (termine da
usarsi nei confronti del conformismo occidentalista XXI secolo),
risentono di un atteggiamento positivamente impostato verso una
ricerca "affidabile" se non del tutto condivisibile, e pensiamo che
possano servire ad uscire da un dramma, questo è veramente un
dramma, della "distoriografia" che siamo abituati a subi | |