Italia - Repubblica - Socializzazione

 

da "Rinascita" (26 aprile 2012)

 

Linee della "partecipazione dei lavoratori"

alla gestione e agli utili delle aziende

Rutilio Sermonti        

 

Le norme sulla socializzazione delle imprese, concepite e in fase di applicazione nella RSI, includevano la partecipazione paritetica dei lavoratori agli utili e alla gestione delle aziende industriali.
E gli attuali fanatici di essa, secondo cui non vi era autentico fascismo rivoluzionario al di fuori di quella, e dai quali siamo costretti a difenderla,si esaltano all'idea della prima, quasi che gli utili -che, in regime dualistico, affluivano esclusivamente nelle tasche dei "padroni"- fossero con essa dirottati per metà a vantaggio dei dipendenti. Si tratta di una grossolana stupidaggine.
La partecipazione agli utili infatti, era una esigenza giuridica, ma non aveva praticamente effetti economici.
Esigenza giuridica, perchè, divenuti i lavoratori soci della nuova "persona giuridica" detta "impresa", le loro spettanze assumevano la qualifica di partecipazione agli utili, in luogo di quella di retribuzione pattizia.
Si dimentica però che gli utili dell'imprenditore, in regime dualistico, consistevano nel famoso "plusvalore" di marxiana memoria, e venivano calcolati detratte le spese, tra cui, rilevantissima, quella per stipendi e salari, mentre la riforma socializzatrice trasformava i secondi in utili dell'impresa.
Ed era a quegli "utili" che le maestranze partecipavano. La fonte, quindi, era sempre la stessa, o no?
Ma vi sono ben altre considerazioni, che i socializzatori viscerali appaiono ignorare, mentre non le ignorarono affatto quelli seri, tra cui vanto l'onore di annoverare mio Padre.
1- Solo in piccola parte, l'imprenditore destina i propri utili al proprio consumo familiare. In massima parte, essi vengono destinati a migliorie, ad ammodernamento dei macchinari, a investimenti azionari diversi, a speculazioni finanziarie, eccetera. Ma al lavoratore, la paga, trasformata o meno in "partecipazione agli utili", serve per campare, con la famiglia.
Ne consegue che i primi, a seconda delle "congiunture", possono anche scarseggiare, o mancare del tutto, o essere anche negativi (perdite), Ma la seconda, utili o non utili, deve avere comunque un minimo garantito. Chi glie lo garantisce, mese per mese, tale minimo ? Non certo la partecipazione ai mutevoli utili di bilancio dell'impresa di appartenenza!
2- Gli utili di un'impresa possono essere quantificati solo in sede di bilancio consuntivo. Ma, come sopra detto, quelli da dividere tra i lavoratori in tutti i mesi della gestione devono essere noti sin da principio. Come si fa ? Si ricorre a un'indovina con palla di vetro ?
3- Il salario corporativo, andava commisurato: a) alla qualità e quantità del lavoro fornito; b) alle esigenze di vita dignitosa del lavoratore e della sua famiglia; c) alle possibilità dell'azienda; d) alle superiori esigenze della produzione nazionale. Queste ultime soprattutto, non erano di natura soltanto economica, per cui potevano privilegiarsi produzioni meno remunerative (per motivi, chessò, di difesa nazionale, o sanitari, o autarchici, o ecologici). Quella corporativa era infatti una economia programmata. Sarebbe stato equo che la minor redditività di produzioni ritenute necessarie si ripercotesse in sacrifici per i lavoratori associati ?
4- La quota di partecipazione agli utili non poteva essere uguale per tutti i lavoratori partecipanti, dal Capo di una grande impresa, responsabile anche di fronte allo Stato, all'ultimo apprendista. Per quanto "ideologizzato", nessuno sparerebbe una cretinata del genere. Ebbene: chi effettuerebbe una tale graduazione ? Il voto paritetico di tutti i lavoratori partecipanti?
Non è serio: alle categorie più numerose sarebbe facile favorire se stesse. Chi garantirebbe l'adozione di un criterio giusto ?
Conseguenze inevitabili: l'affluenza di tutti gli utili a una grande cassa di compensazione (in Repubblica Sociale, l'Istituto di Gestione e Finanziamento - I GeFi), che li ridistribuisse con criteri identici a quelli del precedente n°3, con supremo garante lo Stato. Era quindi agli utili generali che i lavoratori partecipavano, non a quelli della singola impresa di pertinenza.
Inciso: in Repubblica Sociale, sotto le bombe terroristiche, con gli assassinii alle spalle delegati alle GAP e con i pesanti oneri di guerra, c'era un Capo come Mussolini e un ministro della finanze come Domenico Pellegrini-Giampietro, e quindi il bilancio era attivo. Non c'era lo stato di bancarotta fraudolenta cronica che contraddistingue la repubblica di Napolitano & C. Ve lo immaginate a quali mai utili parteciperebbero oggi i lavoratori-produttori? Forse a quelli "finanziari puri" degli usurai apolidi? Ma quelli non producono mica!
Molto altro vi sarebbe da dire, ma quanto accennato ci sembra più che sufficiente per dare alla partecipazione agli utili l'unica vera portata e spengere in materia i puerili entusiasmi.
Veniamo ora alla partecipazione che rivestiva una grande importanza, e non soltanto economica: la partecipazione alla gestione. E sia ben chiaro che per "gestione" non deve intendersi solo quella finanziaria, ma anche quella tecnica e quella sociale.
Prima fola da sfatare è che tale partecipazione sia stata una estemporanea novità, saltata fuori nel 1944.
In linea generale, e badando alla realtà, deve prendersi atto che essa esisteva in nuce anche in regime capitalista puro. Il direttore generale, i massimi dirigenti, tutti "dipendenti" non influivano forse sulla gestione? Non solo, ma può dirsi che vi influiva chiunque, nella gerarchia aziendale, esercitasse un potere con un minimo di autonomia, fino al piccolo caposquadra! Esercitando quell'autonomia, non collaborava questi alla gestione?
Ma col Fascismo si era già andati molto più avanti. Si leggano queste parole: "La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell'industria. L'affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o di servizi pubblici". Esse non fanno parte del manifesto di Verona del 1943, bensì del programma nazionale dei Fasci Italiani di Combattimento, deliberato e diffuso dal Comitato Centrale di essi, dal "covo" di Via Paolo da Cannobio, in Milano, Nel GIUGNO 1919! E il Capo del fascismo e i suoi collaboratori non disperdevano parole al vento come i politici democratici: neanche gli incisi. Era quindi previsto, già tre mesi dopo la fondazione (23 marzo), che per giungere alla partecipazione piena delle maestranze tutte alla gestione, occorresse previamente renderle degne moralmente e tecnicamente. A tale impresa il governo fascista si dedicò intensamente dalla Legge 3.4.26, n°563 (Ordinamento sindacale di diritto) al 1940. Gradualmente, e con continuo progresso in tutti i campi, che lasciò sbalordito il mondo, ci mise soltanto 14 anni: un autentico miracolo. Con l'approvazione dei nuovi codici civili (includenti anche il vecchio Codice di Commercio, divenuto libro V di quello civile), il campo per la partecipazione integrale alla gestione poteva ritenersi interamente sgombrato.
A dimostrazione dell'assunto che precede, dovremo accompagnare il lettore attraverso le rapide tappe con cui la socializzazione della gestione fu realizzata, non nel 1944, ma a partire da18 anni prima, e in particolare nella disamina (non so perchè, disdegnata dai nostri pubblicisti) del menzionato Libro V. Tale disamina parte dalla costatazione preliminare che il detto libro, pur sostituendo il Codice di Commercio, non si intitolò "del commercio" ma "del lavoro". Anche le norme sulle società per azioni erano incluse nel libro "Del lavoro". Anche quelle sulle obbligazioni industriali, anche quelle sui brevetti, anche quelle sulla concorrenza. Il lavoro diventava già, col nuovo codice, la "misura di tutte le cose".
Come è noto, la partecipazione dei lavoratori alla gestione, nella loro nuova qualità di soci dell’impresa, era effettuata attraverso i consigli di gestione, che, nelle imprese socializzate, si erano sostituiti nelle competenze ai consigli di amministrazione. È evidente però che tali nuovi organi avrebbero potuto utilmente funzionare solo alle seguenti due condizioni rigorose:
1) Sostituzione della mentalità di "lotta di classe" con quella della collaborazione tra i due fattori della produzione. Essa era stata compiutamente realizzata col sistema corporativo. Questo non consisteva, come taluni grossolanamente affermano, semplicemente nella proibizione degli scioperi e nella risoluzione delle controversie collettive di lavoro con sentenze della Magistratura del Lavoro. Le sentenze di tal genere non furono che rarissime eccezioni. Le controversie collettive, in realtà, si risolsero pacificamente sol perchè ambo le parti sindacali contraenti sapevano esattamente quali criteri si dovessero adibire, ed erano quindi capaci di farlo da sole, senza disturbare i magistrati. In caso che l’accordo mancasse, interveniva l’azione mediatrice della Corporazione del ramo, rappresentante del settore produttivo. Nella corporazione erano pariteticamente rappresentati sia i sindacati di lavoratori che quelli di datori di lavoro. E, oltre a fare da pacieri, le corporazioni, attraverso il loro Consiglio Nazionale, emettevano le "ordinanze corporative", obbligatorie come leggi, per la programmazione della produzione. Non era già questa una partecipazione dei lavoratori, addirittura alla gestione dell’intera economia nazionale?
2) Abitudine mentale dei produttori tutti, lavoratori compresi, a considerare i problemi economico-produttivi dell’Italia come affar loro e non solo dei "padroni", e concreta possibilità (attraverso le nominate corporazioni) di richiamare i secondi, ove mancassero, ai loro doveri.
Occorrono vaste argomentazioni per dimostrare che simili condizioni mancano del tutto nell’Italia di oggi, anzi, vi sono quelle opposte, per cui il sol pensiero di "socializzare" le grandi imprese odierne in istato di decozione è del tutto, oltrechè impossibile, folle?
Leggiamo invece il libro V del nuovo Codice Civile fascista, del 1940, oltre al già rilevato e significativo titolo di esso.
Art.2086.- "L’imprenditore è il capo dell’impresa, e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori". CAPO: non proprietario o titolare. È un termine che non stabilisce un diritto, ma una funzione, sia pure la più elevata gerarchicamente. Come quella del capitano su una nave o del comandante supremo in un esercito. Come quella del capo dell’impresa socializzata, no? E infatti:
Art.2088.- " L’imprenditore deve uniformarsi, nell’esercizio dell’impresa, ai principi dell’ordinamento corporativo e agli obblighi che ne derivano, e risponde verso lo Stato dell’indirizzo della produzione e degli scambi, in conformità della legge e degli obblighi corporativi."
Artt.2089-2092 - Precisazione delle sanzioni a carico dell’imprenditore che non adempia ai suoi doveri, che giungono, nei casi più gravi, fino al commissariamento.
Pare proprio che della liberistica licenza al capitale di farsi i comodi propri, ci fosse rimasto ben poco!
Vediamo ora la sezione seconda: "Dei collaboratori dell’imprenditore" (artt.2094 e 2095). In Italiano (lingua a quei tempi in uso in Italia) per collaboratore s’intende chi lavora insieme con altri per un medesimo scopo. In regime liberista-capitalista, le finalità degli imprenditori (singoli o associati che siano) sono completamente diverse, anzi contrastanti, con quelle dei dipendenti (c’è oggi chi ne dubiti?). Il definirli collaboratori implica quindi aver del tutto superato quella mentalità, ed essere pervenuti a quella che ispirò i decreti del 1944. "Alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore", recita l’art. 2094. Certo, ma, come sopra s’è visto, anche l’imprenditore operava a sua volta alle dipendenze e sotto la direzione e il controllo di un’autorità superiore; poco diversamente dal Capo dell’impresa socializzata. Ma andiamo avanti: Art. 2099: "Il prestatore di lavoro può anche essere retribuito, in tutto o in parte, con partecipazione agli utili ...".
Occorre altro per dimostrare che l’innovazione socioeconomica del 1944 non fu alcuna "sterzata" o resipiscenza, ma solo una coerentissima continuazione? E dico continuazione e non conclusione, perchè, come espressamente dichiarato dallo stesso ministro Tarchi, essa non era che un ulteriore passo verso il sistema "Tutta la gestione a tutto il lavoro". Ci stupisce che i rivoluzionari da computer, contro cui è volta questa "difesa" non accusino anche il Mussolini emaciato e ascetico dei suoi ultimi anni di "compromessi". Perchè la socializzazione del 1944 si volle soltanto paritetica?
Non fu quella una carenza, ma proprio una prova di serietà e di realismo tipicamente fascista, di cui dobbiamo andare fieri. Perchè le esperienze gestionali non si acquistano con un colpo di bacchetta magica legislativo, e, fino a quel momento, erano state maturate solo da esponenti o dipendenti del capitalismo. Un periodo di gestione congiunta era necessario per dare modo anche ai gestori espressi dai lavoratori di acquistarne la pratica. Ma vi era di più: la socializzazione era, come credo di aver mostrato, un’idea a lungo maturata, ma era del tutto priva di sperimentazione. E tutte le istituzioni fasciste nacquero dall’ingegno, ma presero forma con l’azione. La reciproca dipendenza tra pensiero e azione fu sempre per noi un principio basilare. Non si intendeva gettarsi in una folle, disperata avventura, ma porre le basi per un avvenire possibile e realizzabile di riscatto totale dell’Uomo, e intanto dell’Italiano, dall’ ubriacatura illuminista e materialista. Ma questo esigeva una capacità di lavoro che può ben dirsi eroica, con tutto il mondo scatenato selvaggiamente contro di noi e le possibilità di previa sperimentazione in pratica inesistenti.
Arriva così il momento di far giustizia di un’autentica aberrazione, che tanti cari amici e ottimi camerati di chi scrive incredibilmente non avvertono e di cui continuano a farsi eco. Dunque: dopo il fondamentale decreto del Consiglio dei Ministri 25.11.43, promulgato il mese successivo col n°853, che istituiva la Confederazione Generale del Lavoro, della Tecnica e delle Arti, unica per imprenditori e per lavoratori, e dopo lo storico decreto del Duce 12.2.1944 che proclamava e configurava la trasformazione delle imprese in società di lavoro e capitale (socializzazione), il Duce sarebbe stato preso da letargia e se ne sarebbe scordato. Trascorsi così quattro mesi, il giornalista Concetto Pettinato, direttore de "La Stampa" scrive un articolo dal titolo "Se ci sei, batti un colpo", in cui accusa lo Stato repubblicano di inerzia. Svegliato dal letargo, il Duce si sarebbe stropicciato gli occhi e sarebbe stato forzato a dare attuazione alla promessa riforma, tanto che, con decreto 24.6., fissava al 30 successivo l’entrata in vigore del proprio decreto del febbraio. Ora, che non solo Lui ma tutta la dirigenza repubblicana fosse continuamente pressata dall’impazienza della base (e non solo di Pettinato) è vero. Come è vero che di tale impazienza Egli tenesse conto (e con compiacimento), come teneva conto di tutto. Ma, raccontata come sopra, la faccenda dovrebbe far sorridere qualsiasi studioso serio.
Come detto, io ho avuto la fortuna di conoscere la realtà delle cose, in quanto uno dei più qualificati studiosi impegnati nell’impresa era mio Padre. Ma anche ai camerati più giovani di me, che tale fortuna non hanno avuto, non manca il modo di capire come la versione Pettinato non sia che una storiella, e come non vi sia mai stato alcun rallentamento di attività. Il decreto del 24.6 fu infatti simile alla tartina che una mamma rifila al figlioletto che alle 11 del mattino già vorrebbe andare a pranzo. Perchè la dichiarazione di entrata in vigore nulla mutava del fatto che la realizzazione dei principi chiaramente enunziati nel decreto istitutivo implicava la soluzione di una miriade di problemi, in gran parte inediti che la rendesse applicabile. Si invita nuovamente a leggere e meditare il Decreto Ministeriale 12 ottobre 1944 "Norme transitorie e d’attuazione della Socializzazione". Sono ben 129 articoli, distribuiti in 6 Titoli. Un autentico piccolo codice. È un monumento veramente insigne di sapienza giuridica, economica, sociale e persino psicologica, al quale hanno lavorato, fianco a fianco, giuristi, sindacalisti, economisti e docenti di molteplici discipline, anche non iscritti al PFR, sia della Commissione ministeriale che del Centro Studi per la Socializzazione.. Solo con esso trovavano soluzione almeno tutti i problemi più importanti suscitati dalla grande riforma, ed essa diventava quindi applicabile. Altro che "battere un colpo"! Mille martelli dovevano essere sapientemente adibiti! Cento esperienze, cento inventive, cento esperienze e cento fedeltà dovevano operare all’unisono e trovare soluzioni.
Quanto occorreva -chiediamoci- a tempo di primato, per compiere un’opera del genere, nelle condizioni non certo agevoli e tranquille in cui i socializzatori dovevano operare? Bastavano forse i quattro mesi prima dell’articolo sulla "Stampa"? O forse i quattro dal giugno all’ottobre? Su che si basa il calcolo dei tempi dei socializzatori rampanti nelle nostre file? No, certo! I quasi otto mesi impiegati furono un miracolo di rapidità, certo inusitato in qualsiasi regime che non fosse quello degli uomini di Mussolini.
La piantino, quindi, quei camerati, di fare un credo della faccenda Pettinato. Essa è -oltre tutto, non so se lo avvertono- gravemente offensiva per il Duce. E questo, noi pochi, vecchissimi reduci di quelle strenue battaglie non possiamo ammetterlo. Pensano forse che Egli non sia stato offeso abbastanza? Per noi fedeli di oggi, scrivere è solo uno dei pochi modi di combattere che ci è dato. Che genere di combattimento pensano che sia, il loro, quando avvalorano ipotesi squallide come quella che ci occupa? A chi pensano che giovi?
La figura del Duce, noi pensiamo, deve illuminare non solo il nostro passato, ma l’avvenire di tutti. Abbiamone quindi una cura religiosa!
Il nostro onore si chiami fedeltà.

 

Rutilio Sermonti         
 

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