Mezze verità, misteri, bufale e contro
bufale e con il tempo l'Affaire
Moro diverrà evanescente e imperscrutabile come l'Assassinio di Kennedy
Misteri, verità e bufale nel sequestro
Moro
Maurizio Barozzi
((6 aprile 2014)
PREMESSA
Su "Insorgenze" (http://insorgenze.wordpress.com/author/insorgenze/)
del 2 aprile 2104, criticando i ricorrenti scoop giornalistici sul caso
Moro, con un articolo di Marco Clementi e Paolo Persichetti atto a
smontare le ultime rivelazioni sui passeggeri della moto Honda
("Rapimento Moro, ma quali servizi sulla moto Honda di via Fani c'erano
due giovani che abitavano nel quartiere"), articolo però nel complesso e
per altri versi non convincente, si espone comunque una osservazione
sacrosanta da condividere in pieno e a prescindere dalle ideologie di
ciascuno di noi:
«Quale è il significato ultimo di tanta dietrologia sul rapimento Moro?
Estirpare da ogni ordine del pensabile l'idea stessa di rivoluzione.
Sradicare quegli eventi dall'ordine del possibile. Negarne non solo la
verità storica (su cui il dibattito resta, ovviamente, aperto), ma
l'ipotesi stessa che possa essere avvenuta. Presentare, quindi, le
rivoluzioni come eventi inutili, se non infidi, sempre e comunque
manovrati dai poteri forti, in cui c'è sempre un grande vecchio che non
si trova e una verità occulta che sfugge continuamente. Si è diffusa una
sorta di malattia della conoscenza, una incapacità ontologica che
impedisce di accettare non solo la possibilità ma la pensabilità stessa
che dei gruppi sociali possano aver concepito e tentato di mettere in
pratica una strada diretta al potere. La dietrologia e il
cospirazionismo hanno come essenza filosofica il negazionismo della
capacità del soggetto di agire, di pensare in piena autonomia secondo
interessi legati alla propria condizione sociale, ideologica, politica,
culturale, religiosa, di genere».
Conoscendo i meccanismi del potere, le sue stampelle rappresentate dai
mass media, dalla disinformazione, dall'inquinamento delle notizie,
ecc., diamo atto che, volenti o nolenti, consci o inconsci, questi
intenti sono effettivamente dietro chi ha interesse a sminuire,
vanificare, deridere ogni forma di contrapposizione rivoluzionaria al
potere costituito.
Lungi da noi questi intenti, visto che non dobbiamo fare carriere
editoriali, non dobbiamo contribuire all''inquinamento della verità, e
semmai, una nostra simpatia andrà sempre verso le forze rivoluzionarie,
mai verso questo potere costituito, non abbiamo alcuna difficoltà a
riconoscere che il fenomeno brigatista fu un fenomeno genuino, che i
"compagni combattenti" che presero le armi rischiando la vita e pagando
un carissimo prezzo, furono in buona fede e che lo stesso rapimento Moro
venne portato a termine dalle BR nel loro complesso.
Ma se questo è vero, è altrettanto vero che molte operazioni non furono
chiare, che nelle BR lo stato e i suoi apparati di sicurezza
infiltrarono molti informatori ed anche qualche elementi operativo.
Ne è meno importante considerare che una organizzazione che opera nella
clandestinità deve giocoforza avere contatti spuri, come per esempio con
la malavita, se non altro attraverso le carceri, o può ritenere
opportuno anche accettare certi "aiuti" pur sapendo da dove provengono,
e non è un mistero che quella centrale parigina della Hyperion, crocevia
delle Intelligence occidentali di mezza Europa, aveva contatti con i
vertici delle BR.
Del resto non siamo noi a lanciare certi "dubbi", ma sono venuti anche
da alcuni capi storici delle BR, come Alberto Franceschini, che ha
avanzato dubbi sulla politica "di fuoco" di Mario Moretti, sui
precedenti suoi mancati arresti, "offerte" di aiuto alle BR da parte del
Mossad israeliano, e sul Super Clan parigino.
Tutto questo non sta di certo a significare che le BR furono un fenomeno
perverso e camuffato, abbiamo appena accennato alla loro genuinità e
spontaneità, ma che sicuramente ci forno contatti ambigui, situazioni
che sono rimaste poco chiare, ed è in ogni caso è facilmente
immaginabile che i Servizi, nostrani o internazionali, non stavano lì a
pettinare le bambole.
Ogni fatto, pertanto, andrebbe sviscerato e indagato come si deve, fuori
dagli scoop giornalistici, ma in mancanza di approfondite indagini, e
processi che possiamo definire "incompiuti", non dobbiamo neppure
ignorare e comunque mettere un punto interrogativo, per esempio, su
certi strani, ma accertati viaggi di Moretti a Parigi ed in Calabria,
mai chiaramente spiegati; l'appartamento "covo" di via Gradoli,
affittato ed allestito da Moretti in un complesso dove spiccavano vari
alloggi di società fiduciarie dei "servizi" (e la cosa era nota); alcune
armi e cartucce ritrovate alle BR e risultate di provenienza militare,
così come la stamperia brigatista di via Foà a Roma realizzata con
macchinari già del SID, e per giunta già individuata a sequestro in
corso, ma lasciata indisturbata. Ed altro ancora.
Non da poco è infine anche il fatto che dopo il ritrovamento del covo di
via Gradoli, il 18 aprile 1978, che per le circostanze e le modalità
pubblicizzate e clamorose della scoperta, indicava una chiara
preconoscenza da parte dei Servizi, se non la loro mano in tutta la
vicenda, e quindi doveva essere, poco, ma sicuro, che Moretti che vi
aveva abitato da tempo e dà li quasi ogni giorno si dirigeva alla
prigione di Moro a interrogarlo, avrebbe dovuto aver fatto spostare la
prigione di Moro in considerazione che fosse stato pedinato. Ed invece
ci si viene a dire, anche a dispetto di tanti altri indizi contrari, che
Moro è sempre stato nell'appartamento di via Montalcini alla Magliana.
Certo, tutto potrebbe avere una sua innocua spiegazione, ma noi non
l'abbiamo ancora trovata.
Ma soprattutto non si spiega assolutamente l'assurdo e incredibile
comportamento delle BR nel rapimento Moro: non solo le BR uccidono un
ostaggio che sottoposto a "processo popolare" ha parlato e detto tutto e
di più, e lo uccidono nonostante il parere contrario di ampi strati
della sinistra extraparlamentare e dell'Autonomia, ben sapendo che gli
americani lo vogliono morto, gli israeliani lo vedono come il fumo negli
occhi e buona parte della stessa Democrazia Cristiana ha lasciato capire
di non gradirne il ritorno sulla scena politica, ma soprattutto
occultano e fanno sparire, ancora a sequestro di Moro in corso, tutte le
"confessioni", importantissime e devastanti che Moro aveva fatto ai suoi
carcerieri. Confessioni che pur avevano promesso nei loro primi
comunicati che le avrebbero fatte conoscere, ma che sarebbero state
oltremodo destabilizzanti, più di mille "azioni di fuoco", per quello
Stato che i brigatisti dicevano di combattere.
Si pensi solo che Moro aveva praticamente dettagliato alle BR delle
ingerenze USA e israeliane in Italia, delle faide tra i servizi segreti
nostrani, dei traffici tra Sindona e la DC, dello scandalo Lockeheed,
della strategia della tensione e delle bombe di Piazza Fontana, dei vari
traffici sporchi di Andreotti, della fuga procurata di Kappler e, cosa
più importante, aveva confidato il delicato segreto di Stato circa la
struttura di Gladio! Ma poco, anzi quasi niente, di tutto questo venne
reso pubblico e i verbali con le bobine degli interrogatori vennero
fatti sparire, tanto che una buona parte è rimasta ancora ad
sconosciuta.
Insomma, se non dobbiamo cedere alla facile dietrologia, fare del
complottismo un uso per scoop giornalistici o peggio, è altrettanto vero
che non possiamo chiudere gli occhi in una idilliaca agiografia
rivoluzionaria.
SCOOP E DISINFORMAZIONI
La nostra ultratrentennale ricerca storica sul mistero della morte di
Mussolini ci ha insegnato alcune cose che è opportuno consigliare a chi
si dedica alle ricerche storiche o a chi, navigando nelle notizie di
stampa, cerca di capirci qualcosa.
La prima cosa è quella di controllare sempre alla fonte le
documentazioni che vengono fornite dalla stampa, interviste comprese.
Non è infrequente il caso che certe notizie siano distorte, certe
interviste manipolate, certi dati spacciati per acquisiti che non sono
invece affatto veritieri.
Nelle grandi questioni che interessano anche il pubblico, infatti,
agiscono sempre delle componenti che sono interessate alla
manipolazione, al falso, al perseguimento di altri scopi che non la
verità.
In genere i due elementi più ricorrenti che alterano il quadro delle
rivelazioni storiche possono essere gli interessi di carriera di chi fa
gli scoop o quelli economici delle case editrici, oppure interessi di
natura politica o di Intelligence (la disinformazione come arma). Non è
raro il caso che spesso questi interessi vanno a coincidere.
In alcuni casi poi, quelli di natura "scottante" per il sistema di
potere nel suo insieme, può anche accadere che siano appositamente
veicolate informazioni o clamorose rivelazioni, che poi, venendo in
seguito e facilmente dimostrate false, inquinano la ricerca della verità
e negli anni rendono tutto fumoso e imperscrutabile: proprio quello che
certi poteri si prefiggono con questa specie di "facite ammuina".
Questo in linea di massima, senza togliere autorevolezza e dignità, a
possibili informazioni e servizi che invece sono veritieri e genuini.
Comunque sia, nel dubbio: sempre meglio diffidare.
LE RIVELAZIONI SULLA MOTO HONDA IN VIA FANI
Tutta questa premessa per introdurre la recente rivelazione sul caso
Moro e l'agguato di via Fani, con la quale si dice che la moto Honda,
vista sul posto da alcuni testimoni e assurta a verità processuale dopo
dibattimenti in tribunale, avrebbe avuto a bordo due agenti dei Servizi
segreti incaricati di proteggere la fuga dei brigatisti.
Oltretutto si affermerebbe anche che i due agenti dei Servizi erano alle
dipendenze del colonnello Camillo Guglielmi del SISMI, effettivamente
presente quel giorno e a quell'ora nei pressi di via Fani.
La rivelazione sarebbe contenuta in una lettera dell'ottobre del 2009
arrivata, dapprima ad un quotidiano e infinenel 2011, in modo informale,
nelle mani di Enrico Rossi, un ispettore di polizia dell'antiterrorismo.
Questa lettera attestava di essere scritta da uno dei due presunti
uomini dei Servizi sulla moto, così almeno si qualificava, il quale
essendo affetto da un cancro e sapendo di morire, ad oltre 30 anni di
distanza,intendeva liberarsi la coscienza e dava indicazioni per
rintracciare l'altro centauro di cui non conosceva il nome. Questo il
testo:
«Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi
dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso
di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità
su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che
mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo
alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto
un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era
quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi
genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente
andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi
guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo
più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...».
Cosicché il Rossi si sarebbe attivato nell'espletare indagini, arrivando
ad eseguire perquisizioni in una villetta di Bra (Torino), dove aveva
abitato uno di questi personaggi, dove rinviene in cantina due pistole:
«Nel frattempo -come Enrico Rossi ha raccontato al giornalista dell'Ansa
Paolo Cucchiarelli- erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati
da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di
Cuneo. Chiedo subito di interrogare l'uomo che all'epoca vive in
Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole.
Negato. Ho qualche 'incomprensione' nel mio ufficio. La situazione si
'congela' e non si fa nessun altro passo, che io sappia. Capisco che è
meglio che me ne vada e nell'agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni.
Tempo dopo, una 'voce amica' di cui mi fido, m'informa che l'uomo su cui
indagavo è morto dopo l'estate del 2012 e che le due armi sono state
distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato
di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e
per questo decido di raccontare l'inchiesta 'incompiuta'».
L'ispettore Rossi sarebbe così riuscito a risalire alla identità di uno
di questi presunti "ex agenti", tale Antonio Fissore di Bra nel
frattempo deceduto.
Ma queste notizie le ha fornite solo la stampa, perchè sembrerebbe che
l'ex ispettore Rossi, non avrebbe fatto nomi ma solo indagini.
Fatto sta che la ex moglie di questo Fissore, ora separata e
rintracciata, ed anche i figli, smentiscono nel modo più assoluto, che
il marito sia mai stato nei Servizi segreti: era un fotografo, dicono, e
regista TV. La signora e i figli negano anche che a marzo 1978, al tempo
del rapimento, il marito potesse trovarsi a Roma.
Non è peregrino ipotizzare che sulla inchiesta del Rossi, sia subito
calata la disinformazione, l'inquinamento delle notizie in modo da
buttarla in confusione, e vanificare una indagine, già boicottata a suo
tempo.
Ma seguiamo le notizie di stampa, vere o alterate che siano.
Si dice quindi che il Rossi rinveniva in cantina una pistola Drulov
cecoslovacca assieme al famoso numero del giornale "la Repubblica" del
16 marzo 1978 che, in edizione straordinaria, annunciava il rapimento.
Risultava anche che il Fissore aveva una pistola Berretta, tutte armi a
suo tempo denunciate.
Veniva rinvenuta anche una busta con un foglio dell'ex parlamentare DC
Franco Mazzola, nel '78 sottosegretario alla Difesa, ritenuto uno dei
depositari dei segreti del caso Moro. Coincidenze? Indizi seri o messe
in scena?
Certo dei dubbi ci sono, ma nulla può essere al momento presupposto.
La stampa invece ha voluto sottolineare che la Drulov è un arma di
precisione, a canna lunga e quindi confondibile con una mitraglietta
(quindi come quella che un testimone dice era in mano ad uno dei
passeggeri della Honda), ma tutte queste, a nostro avviso, sono
illazioni che servono solo a confondere le idee ed oltretutto nessuno
potrebbe dire se quel giorno il passeggero della Honda che sparò
all'incrocio via Fani-via Stresa all'ing. Marini sul motorino, quale
pistola ebbe ad utilizzare, visto che non ci sono perizie d'epoca sui
bossoli di questa pistola, non rinvenuti, tanto che c'è anche chi mette
in dubbio che si sia veramente sparato al Marini.
Oltretutto una cosa sembra plausibile, la Drulov arma sportiva a colpo
singolo, in piccolo calibro 22 Lr., appare assurdo che possa essere
stata portata in una operazione di fuoco come il rapimento Moro, quindi
questa pistola non dovrebbe avere relazione con i momenti dell'agguato,
ma la stampa, sempre in cerca di notizie ad effetto ci ha voluto condire
i primi reportage sulla rivelazione del Rossi, facendo più confusione
che altro.
Con queste premesse è prevedibile che tutto debba alla fine stemperarsi
e vanificarsi in una delle tante ipotesi rimaste indimostrabili anche
per la mancanza di opportune perizie.
Afferma Stefania Limiti, ricercatrice storica, che il giornalista Sandro
Provvisionato ha detto subito: «volete vedere che faranno passare per
pazzo l'ex-ispettore?» e la stessa Limiti ha titolato un suo post: «Come
si fa abortire una ipotesi investigativa molto seria».
Comunque sia il Rossi è stato ascoltato da un magistrato, audizione
durata circa tre ore, ma non sappiamo cosa è stato raccontato
dall'ex-ispettore anche se la durata dell'incontro fa presumere che
questi abbia confermato quanto già rivelato a Cucchiarelli il
giornalista dell'Ansa.
C'È CHI GIÀ STRILLA ALLA BUFALA
Alcuni ambienti, più che altro giornalistici e di sinistra, oltre ad
ex-brigatisti, ai quali forse scotta una verità del genere, circa
l'ingerenza e la direzione dei Servizi in quel rapimento, hanno subito
reagito gridando alla bufala.
Se sia una bufala o meno, allo stato attuale non è possibile dare una
risposta concreta, ma circa le argomentazioni, oggi addotte, che i due
in moto in via Fani al momento del massacro e del rapimento, fossero un
compagno dell'area della sinistra, che lavorava in un garage paterno da
quelle parti, e quindi passato di lì per caso in moto con la sua
ragazza,non reggono.
In sostanza si fa sapere che in quel frangente, questi due compagni del
Comitato Proletario Primavalle, tali Giuseppe Biancucci di 23 anni e
Roberta Angelotti di 20, passando in moto, avrebbero riconosciuto due
brigatisti a loro noti, Morucci e il Casimirri, uno vestito con divisa
Alitalia davanti al bar Olivetti, e l'altro a sbarrare via Fani. Avendo
capito che stava per accadere "qualcosa", i due sulla moto se ne
andarono facendo persino un cenno di saluto. Loro comunque, con le BR,
non c'entravano nulla come sembra sia stato poi appurato dagli
inquirenti, ai quali i due compagni casuali avrebbero confermato il
fatto.
Che questo passaggio causale di due compagni estranei alle BR, sia
veritiero o meno,non cambia la realtà di un'altra moto Honda presente
all'operazione e notata non solo prima dell'agguato, ma soprattutto dopo
a strage compiuta, dietro la fuga delle macchine con l'ostaggio, e
quindi non potrebbe essere quella dei due compagni, semmai, andati via
prima della strage.
Comunque, dopo che i brigatisti stessi avevano negato che ci fosse una
loro moto Honda, dopo aver dato poi per forse possibile che una moto del
genere, ma sconosciuta, sia passata da quelle parti, si è fatta poi
anche una mezza ammissione, ma riferendola a questo episodio del tutto
marginale. Ma anche questa versione non convince visto oltretutto nessun
testimone aveva segnalato che uno dei due centauri fosse una donna.
Quello che però qui preme sottolineare è il fatto che asserendo la tesi
dei due "compagni occasionali", questi stessi ambienti "debunkers",
vogliono confutare tutte le testimonianze sulla presenza della moto
Honda al momento dell'agguato e che quindi non venne affatto sparato
all'ingegner Marini sul motorino.
Vediamo quindi la storia della moto Honda, perché la rivelazione
dell'ex-ispettore Rossi, potrebbe benissimo essere una delle tante
bufale, ma la presenza di una moto Honda, a lungo negata dai brigatisti
è comunque una verità processuale, ma i particolari che si leggono in
letteratura non sono tuti esatti e potrebbe ingenerarsi una certa
confusione.
Che sia una verità processuale, stabilita dopo discussioni, vaglio di
testimonianze e obiezioni, non vuol dire che sia veritiera al cento per
cento, ma di certo è una attestazione molto più attendibile delle
congetture a confutazioni appena riportate.
Quella moto, infatti, quel 16 marzo 1978, alle 9 circa in via Fani, la
notarono alcuni testimoni al momento dell'agguato, anzi il teste Luca
Moschini la vide ferma nei pressi del bar Olivetti un attimo prima, ed
un altro testimone, Giovanni Intrevado, un agente della stradale fuori
servizio che passava da quelle parti, la vide parcheggiata più o meno da
quelle parti e poi ne venne sfiorato, essendogli passata vicino, quando
le macchine dei brigatisti con il rapito a bordo se ne stavano andando
via. E Intrevado aggiunse anche di aver notato una specie di lungo
caricatore che sporgeva tra i due passeggeri della moto.
Ma una moto venne anche segnalata via radio alle volanti
all'inseguimento, pochi minuti dopo l'agguato, indicandola come una moto
in fuga con le macchine dei brigatisti.
La deposizione però più concreta e pertinente è quella dell'ing.
Alessandro Marini, che arrivato con il motorino all'incrocio tra via
Fani e via Stresa, proprio al momento dell'agguato, assistette a tutta
la scena. Quando le macchine se la filarono con l'ostaggio, spuntò la
moto dietro di loro.
Il Marini riferì l'episodio nel corso di tre deposizioni: una alla Digos
subito dopo i fatti, alle 15,15 di quel 16 marzo, un'altra ad aprile al
sostituto procuratore Infelisi e una a giugno al giudice Istruttore
Catenacci. A settembre poi la ripeté al giudice istruttore Imposimato al
quale chiese di essere protetto per le minacce ricevute. Infine il
Marini la confermò, venendo a deporre, nel corso del processo Moro.
Il Marini aveva specificato che a bordo vi erano due uomini: non fu
preciso su una specie di passamontagna o zucchetto che indossava il
guidatore mentre disse che quello dietro, che aveva una specie di
mitraglietta aveva la siluette del viso magro assomigliante a quella di
Edoardo De Filippo. C'è da dire che queste indicazioni sono spesso state
riportate dalla stampa in modo rovesciato, dando per somigliante ad
Edoardo De Filippo il guidatore.
Il passeggero dietro, aggiunse il Marini, per intimidirlo e non farlo
muovere con il motorino, ebbe a sparagli dei colpi, di cui uno attinse
il parabrezza del motorino e il Marini, per non essere colpito, lo
lasciò cadere a terra determinandone la rottura.
Il Marini disse anche che all'uomo sulla moto, cadde in terra un
caricatore e diede indicazioni per repertarlo. Ancor più, questa
testimonianza, il Marini, come detto, la ripeté poi in tribunale, dove
venne creduto tanto che i brigatisti furono condannati anche per tentato
omicidio di un comune cittadino.
Orbene il Marini venne fatto oggetto di telefonate minacciose, tanto che
gli venne accordata una sorveglianza sotto casa, ma mesi dopo preferì
andarsene a lavorare in Svizzera. Strana vicenda questa delle minacce
telefoniche, visto che non si capisce: né come le BR avessero potuto
avere notizia della sua deposizione, della sua utenza telefonica e
soprattutto non si capisce perché avrebbero dovuto intimidire
insistentemente uno dei tanti testi presenti quel giorno a via Fani che
furono ascoltati.
Lascia poi perplessi il fatto che dei brigatisti abbiano sparato contro
un inerme cittadino. Qualsiasi cosa si possa dire di questi "comunisti
combattenti", della loro ferocia, ecc., non è credibile che sparassero
addosso a dei civili, rischiando di ammazzarli, solo per intimidirli.
Anche per questo, ambienti di sinistra, forse cercano di negare che
venne sparato contro il Marini. Come noto le perizie, agli atti dei
processi Moro, sono spesso incomplete, per il caos o la mancanza dei
reperti, oppure sono state a volte anche riviste e modificate nel corso
dei processi e questo lascia ai confutatori il margine per esprimere le
loro congetture negative.
Ma del resto che gli abbiano sparato, oppure il Marini se lo sia solo
immaginato in quei momenti di tensione e paura, è secondario rispetto
alla effettiva presenza sul posto e a sequestro appena eseguito, di
quella moto Honda.
Comunque la si metta, si può ipotizzare che il Marini non sia stato
esatto nei particolari, o che comunque forse ha solo immaginato che gli
sia stato sparato, ma è assurdo ritenere che tutta questa storia, senza
alcun motivo se la sia inventata, tirandosi anche addosso pericoli che
in quel 1978 erano seri, quando magari avrebbe potuto dire in seguito:
"signori forse mi sono sbagliato" e tutto finiva lì.
Se quindi questa moto Honda con persone armate c'era, una considerazione
ne consegue inevitabile: la moto non poteva essere totalmente
sconosciuta ai brigatisti, altrimenti dovremmo pensare che i due
guidatori, chiunque fossero, agenti di Servizi compresi, avevano voglia
di suicidarsi, presentandosi nel pieno dell'azione operativa dei
brigatisti i quali, sicuramente, gli avrebbero sparato addosso.
LA PRESENZA DI CAMILLO GUGLIEMI
In tutta questa vicenda della presunta lettera di "pentimento" di un ex
agente dei Servizi, con la "rivelazione", bufala o meno che sia,
un'altra cosa è certa, anche per stessa ammissione degli interessati.
Li a poca distanza dal luogo di quell'agguato era presente, un
colonnello del SISMI, tale Camillo Guglielmi (vedremo più avanti come si
cercò poi di mitigare questa presenza asserendo che il Guglielmi quel 16
marzo 1978, non era ancora entrato nel SISMI).
Costui, chiamato in causa ben tredici anni dopo i fatti, ammise di
essere passato da quelle parti per recarsi a casa di un amico, nella
adiacente via Stresa n. 117, che lo aveva invitato a pranzo. Presenza
accertata quindi, ma motivazione molto dubbia, se non assurda, visto che
l'amico, anzi il collega colonnello Armando D'Ambrosio, confermava la
presenza, ma non ricordava l'invito a pranzo ed oltretutto, assurdo, il
presentarsi in casa, invitati per pranzo, verso le 9,30 di mattina!
Singolare comunque il fatto che il D'Ambrosio non venne sentito dai
magistrati e la sua versione venne probabilmente data agli autori di
"Sovranità Limitata" (Antonio e Giovanni Cipriani) gli unici, infatti, a
riportarla.
Singolare poi anche il fatto che questo Guglielmi, non certo uno
sprovveduto, non abbia avuto sentore della tragica sparatoria di pochi
minuti prima a poco più di un centinaio di metri (per la verità l'amico
del Guglielmi riferì anche che questi si trattenne solo qualche minuto,
perché disse che voleva andare a vedere cosa era successo lì vicino, di
cui aveva percepito qualcosa),
Ma chi era il colonnello Camillo Guglielmi, che la mattina del 16 marzo
1978 si trovò, in ogni caso, prossimo all'incrocio tra via Fani e via
Stresa, proprio mentre le Brigate Rosse rapivano o avevano appena
rapito, Aldo Moro?
Notizie sulla carriera di Guglielmi, soprannominato "Papà", emergono dal
resoconto di un'audizione in Commissione stragi dell'ex ministro della
Difesa, Cesare Previti: nel '78 l'ufficiale era in forza alla Legione
Carabinieri di Parma dalla quale venne posto in congedo il 15 aprile
1978, dunque durante il sequestro Moro.
Dal 1 luglio 1978 Guglielmi, a detta di Previti, prestò servizio presso
il SISMI come consulente "esperto", fino alla sua assunzione nel
Servizio segreto militare, avvenuta il 22 gennaio 1979. Subì
trasferimenti, ma collaborò con il controspionaggio militare fino al 30
novembre 1981. È deceduto nel gennaio 1992 all'età di 68 anni, non molto
tempo dopo che venne fatto il suo nome quale presenza in via Fani,
rivelazione che, si dice, con tutto il chiasso che se ne fece, gli
procurò del crepacuore.
Interessante il fatto che l'ufficio sicurezza, di cui Guglielmi era uno
dei direttori di Sezione, fu costituito dal generale Giuseppe Santovito,
a capo del SISMI dal gennaio '78, e affidato a Pietro Musumeci e a
Giuseppe Belmonte, questi ultimi, entrambi iscritti alla Loggia P2 e
condannati per i depistaggi sulla strage di Bologna del 1980.
La versione, minimizzante di questa storia e a difesa della buona fede
del Guglielmi, si basa sulle date ufficiali per le quali quell'Ufficio
venne istituito dopo il caso Moro e gli accertamenti eseguiti anche
dalla magistratura hanno riscontrato che a marzo 1978 il Guglielmi non
era nel SISMI.
Ma è intuibile e le inchieste lo confermano, che l'Ufficio speciale e il
Guglielmi erano già attivi nei 55 giorni del sequestro. Del resto le
date "ufficiali" riguardanti questi "ruolini" delicati, lasciano spesso
il tempo che trovano, basta considerare, per fare un esempio, che degli
appartenenti a Gladio abbiamo avuto riscontri su circa 600 Gladiatori,
ma niente si è saputo di altri, sicuri e soprattutto inseriti a livelli
superiori, né tanto meno delle date di loro arruolamento.
Non indifferente poi il fatto che certe "attività" si svolgevano anche
fuori dai compiti istituzionali, e all'oscuro del Parlamento, come è
stato accertato per la struttura segreta del "noto servizio", il
cosiddetto "Anello" che a quanto pare ebbe un certo ruolo della vicenda
Moro e la ricercatrice Stefani Limiti nel suo pregevole libro "L'Anello
della Repubblica", vi mette in relazione anche la presenza di Guglielmi
in via Fani asserendo:
«Il nucleo segreto, chiamato Ufficio controllo e sicurezza, agiva in
connessione con la banda della Magliana, e aveva sede a Roma,
precisamente a Forte Braschi, all'interno del palazzo del SISMI, dove
Titta [tra i massimi dirigenti dell'Anello]. La direzione era stata
affidata al generale pidduista Pietro Musumeci e un altro personaggio di
nome Camillo Guglielmi che non era all'epoca ufficialmente negli
organici del SISMI, ma operava a Modena nella Quarta Brigata dei
Carabinieri: quest'ultimo ha assistito con i propri occhi all'agguato di
via Fani».
Altre informazioni attestano poi che a Roma, presso la direzione di
sicurezza, erano in servizio anche agenti di Gladio sotto la
supervisione della VII Divisione del SISMI, in cui anche il Guglielmi vi
aveva fatto il supervisore.
Se quanto poi affermato dall'on. Sergio Flamigni, membro delle
Commissioni d'inchiesta sul caso Moro e sulla P2, cioè che il Guglielmi
era «uno dei migliori addestratori di Gladio, esperto di tecniche di
imboscata, che lui stesso insegnava nella base sarda di Capo Marrargiu
dove si esercitavano anche gli uomini di Stay Behind», è veritiero, e
sembrerebbe proprio di si, tutta la faccenda assumerebbe aspetti
inquietanti perché, questo genere di specializzazioni, non si conseguono
dall'oggi al domani e quindi si porrebbero legittimi dubbi e domande su
l'effettivo ruolo svolto dal Guglielmi quella mattina in via Fani,
divenendo anche relativo il sapere in forza a quale apparato o servizio
era ufficialmente il Guglielmi il 16 marzo 1978.
Questo, grosso modo, il riassunto su queste notizie e rivelazioni, così
come appaiono allo stato attuale e che di certo sono fatti inquietanti,
che se fossero pienamente accertati, i brigatisti potrebbero solo
obiettare che loro non ne sapevano nulla. Ma anche in questo caso, si
deve giocoforza presupporre che i Servizi ben conoscevano data e ora
dell'agguato, con tutto quello che questo comporta.
Ma è anche interessante conoscere come venne fuori il nome del Guglielmi
e la sua collocazione nei pressi di via Fani.
La "soffiata" venne da un certo Pierluigi Ravasio, bergamasco, ex
carabiniere paracadutista congedatosi nel 1982, passato alla professione
di guardia giurata, e residente in Cremona. Nel 1978 il Ravasio era
entrato nel SISMI, e fu assegnato all'ufficio sicurezza interna nella
VII sezione dell'ufficio R di Roma, dove Musumeci e Belmonte erano i
capi dell'ufficio e i suoi diretti superiori erano il colonnello
Guglielmi ed il colonnello Cenicola.
Orbene, dodici anni dopo, nel Natale 1990, in un ristorante di Cremona,
l'ex agente del SISMI, confermò al deputato di Democrazia Proletaria
Luigi Cipriani che alcune confidenze, riguardanti anche la presenza del
Guglielmi nei pressi di Via Fani, che già aveva fatto ad altra persona.
Scrive la giornalista Rita Di Giovacchino in "Il libro nero della Prima
Repubblica", che il Guglielmi confidò poi al Ravasio di essere arrivato
in via Fani a strage consumata e ne restò sconvolto.
Ravasio, che mostrò al Cipriani e ad un giornalista di "Panorama", varie
documentazioni attestanti le sue passate qualifiche, disse che quella
mattina il Guglielmi era arrivato in via Fani dopo aver ricevuto una
telefonata di Musumeci: «Vai subito lì, un informatore mi ha detto che
succederà qualcosa di grosso, forse rapiscono Moro».
Lo sfogo del Ravasio derivava da delusioni avute in servizio, sia dalla
destra politica che dai servizi segreti. Anche sul Ravasio si cercò di
attestare che a marzo 1978 non era ancora entrato nel SISMI, ma la cosa
è ininfluente perché le confidenze ricevute dal Ravasio dal Guglielmi
possono benissimo essere successive.
L'autorevolezza dell'on. Luigi Cipriani, la sua serietà, anche se il
Ravasio poi volle ritrattare molti particolari, provocarono tutta una
serie di interrogazioni e accertamenti, dai quali poi, non solo furono
trovati riscontri nella abitazione del Ravasio, ma come abbiamo visto,
ci fu anche la conferma, sia pure con altra motivazione, del Guglielmi
quella mattina in via Fani e senza questa soffiata del Ravasio non lo si
sarebbe potuto sapere..
In ogni caso che il Guglielmi fosse andato in via Fani a carattere
preventivo e osservativo, come da confidenze fatte dallo stesso
colonnello al Ravasio, o ci sia andato per supervisionare il rapimento,
come asserito ora dalla lettera del presunto centauro della moto in via
Fani, resta il fatto che questo colonnello, quel giorno a quell'ora, era
in quei paraggi, così come c'era la moto Honda.
Possono benissimo essere due fatti sconnessi tra loro, ma restano sempre
due fatti.
BUFALE E CONTROBUFALE
Quello che qui ci preme sottolineare è il fatto che queste rivelazioni,
quella dell'ispettore Rossi, ancora da valutare e accertare e quella del
Ravasio poi confermata, vengono in qualche modo da persone interne agli
apparati di sicurezza.
A queste se ne potrebbe poi aggiungere un'altra, questa però a quanto
sembra rivelatasi una vera e propria bufala: quella della famosa
confidenza fatta all'ex-magistrato Ferdinando Imposimato, a quanto oggi
si dice, dall'ex-brigadiere della Guardia di finanza in pensione
Giovanni Ladu, 57 anni, cagliaritano residente a Novara, che con il
magistrato si sarebbe definito un ufficiale di Gladio nomato Oscar Puddu.
Secondo questo Puddu/Ladu, che aveva contattato Imposimato per email, la
Gladio sorvegliavada vicino e continuamente il covo delle BR con Moro
prigioniero, in via Montalcini, tanto da poterlo liberare facilmente, ma
all'ultimo momento venne l'ordine di smantellare tutto e andarsene. Ma
il tutto a quanto sembra sarebbe una bufala ed oltretutto ben
difficilmente Moro è restato in quel covo fino all'ultimo..
A questo punto tiriamo le conclusioni, affermando comunque che
personalmente non ci fidiamo mai delle informazioni che vengono
dall'interno del Sistema.
Certo, possono esserci benissimo dei casi di coscienza e crisi di
pentimento dopo anni, ci sono certamente persone che adempiono il loro
dovere istituzionale con coscienza, scrupolo e serietà e quindi, quando
hanno percezione di delicati intrallazzi hanno anche il coraggio di
denunciarli. Ma in genere siamo diffidenti, queste "rivelazioni" sia che
fossero veritiere, come nel caso del Ravasio o fossero false, come nel
caso delle informazioni date al giudice Imposimato, sono sempre da
prendere con le molle, perché spesso, hanno qualche scopo nascosto.
Ad esempio, facciamo una nostra ipotesi: la rivelazione di Ravasio,
risultata fondata, avvenne poco tempo prima che esplodesse lo scandalo
di mani pulite, uno scandalo che coinvolse il mondo politico e i suoi
riferimenti nelle Intelligence. Chi ci dice che facendo sorgere il mezzo
scandalo della presenza del Guglielmi in via Fani, in realtà si voleva
indebolire qualche settore dei Servizi che doveva essere poi spazzare
via? Non ce lo dice nessuno, ma a noi, vecchi sospettosi, il dubbio
resta.
Quindi, in quel caso, facendo filtrare una parte di scottante verità, si
sarebbero anche conseguiti fini di tutt'altra natura.
L'esperienza ci insegna, tranne il caso di veri e propri mitomani, o
eventuali speculatori, che dietro la fuoriuscita di "sensazionali
rivelazioni", dall'interno del Sistema, possono spesso esserci ben altri
e ambigui fini.
E così abbiamo adesso una rivelazione dell'ultim'ora, quella dell'Ansa e
dell'ispettore Rossi, che deve essere ancora vagliata e valutata, ma che
già il modo come è stata trattata dalle agenzie di stampa, le polemiche
tra complottisti e anticomplottisti, non tanto sulla "rivelazione" che a
via Fani c'erano due agenti dei Servizi, quanto anche sulla esistenza o
meno della moto Honda, fanno presagire non solo il fatto che vengano a
vanificarsi indagini che potrebbero essere serie, ma con il tempo si
verrà a dissolvere, allontanare ogni dubbio che pur aleggia su tutto il
caso Moro. Anche in questo caso della moto Honda, dei Servizi o meno che
sia, buttare tutta la faccenda nel tritacarne della stampaavrà il solo
fine, di rendere impalpabile e inattendibile anche la stessa presenza di
questa moto al momento dell'agguato.
Come non sospettare, allora, che anche qui, dall'interno del Sistema e
da dietro le quinte, "qualcuno", nell'ombra, vuole anche raggiungere
proprio questi scopi?
Noi possiamo solo dare il consiglio a tutti di attenersi solo ai fatti,
anzi di cercare persino di appurare la verità dei fatti stessi e di
diffidare sempre soprattutto di quello che esce dalle stanze del
Sistema.
Maurizio Barozzi