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Morte Mussolini: ecco come è andata
 

Maurizio Barozzi    

  

In questo sito, sul quotidiano "Rinascita", sulla rivista "Storia del Novecento" ed in altri ambiti, abbiamo pubblicato molti articoli di una lunga controinchiesta su la morte di Mussolini, con la quale crediamo di aver dimostrato con fondate deduzioni, testimonianze attendibili e alcuni elementi oggettivi, che la "storica versione" ovvero la "vulgata" tramandata da Walter Audisio e dal Pci (fucilazione di Mussolini e la Petacci alle 16,10 del 28 aprile 1945 davanti al cancello di Villa Belmonte in Giulino di Mezzegra) è inattendibile, quindi un falso storico.

Il nostro, tutto sommato, non è stato un compito difficile, viste le contraddizioni e le assurdità che quella versione presentava e che già erano state denunciate da valenti giornalisti e storici, molto prima di noi.

Quello che invece, non abbiamo fatto è il fornire una nostra personale ricostruzione, una nostra ipotesi su come possa essersi svolta quella misteriosa uccisione, anche se abbiamo sempre intercalato nei nostri articoli di controinformazione alcune ipotesi alternative ai fatti esaminati.

Non lo abbiamo fatto in quanto, non essendo disponibili e verificabili evidenti prove, la nostra "ipotesi alternativa" sarebbe rimasta come tale.

In ogni caso, visto che qualche elemento concreto per sostenere una ricostruzione attendibile di quei fatti pur esiste, senza viaggiare di fantasia, vogliamo ora descrivere, con un certo disincanto e per linee generali, come potrebbe essere andata quella storia: un duplice e misterioso omicidio in piena regola, il primo all'alba dell'era "democratica e antifascista", al quale negli anni successivi molti altri ne sono seguiti, da Enrico Mattei ad Aldo Moro a Roberto Calvi e così via.

Lo faremo sintetizzando al massimo tutta la vicenda, attenendoci il più possibile ai fatti e astenendoci in questa sede dal presentare e commentare approfonditamente le opportune dimostrazioni di quanto andiamo sostenendo, ma chi ha seguito i nostri articoli precedenti saprà trovare i vari riferimenti.

 

Mussolini nelle mani della 52a Brigata Garibaldi

Come noto il pomeriggio del 27 aprile 1945 a Milano giunse la notizia che Mussolini era stato catturato (circa verso le 15,30) e si trovava a Dongo nelle mani del comando della 52a Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", uno sparuto gruppetto di partigiani che agiva nell'alto Lago, vale a dire:

Pier Bellini delle Stelle Pedro, comandante ad interim della 52a Brigata Garibaldi, ex ufficiale dell'esercito badogliano, senese di nobili origini e di tendenze e riferimenti non comunisti; quindi Michele Moretti Pietro Gatti, un fedele comunista di vecchia data, commissario politico di quella Brigata; ed infine Luigi Canali Neri, un comunista idealista, atipico per quel partito e ultimamente caduto in disgrazia con il partito e con il comando Lombardo delle Brigate, tanto da essere stato condannato a morte per tradimento, anche se poi la condanna era rimasta sospesa.

Il Canali, ex comandante di quella 52a Brigata ed ora con l'anomalo grado di capo di Stato Maggiore della stessa (conferitogli in quelle ore per non dover ricambiare tutti i gradi già in essere) era riapparso a Dongo proprio nel tardo pomeriggio del 27 aprile a cattura del Duce avvenuta.

Ai suddetti "capi" della 52a Brigata, occorre poi aggiungere Urbano Lazzaro Bill vice commissario politico, un ex finanziere che in qualche modo ebbe un suo ruolo negli avvenimenti di Dongo, così come lo ebbero i brigadieri della Guardia di Finanza Giorgio Buffelli e Antonio Scappin Carlo.

In quelle zone del comasco, a parte alcune basi segrete dei servizi anglo americani, le uniche strutture con un minimo di efficienza erano gli spezzoni della Guardia di Finanza, una istituzione passata negli ultimi giorni definitivamente dalla parte della Resistenza e le cellule del partito comunista. È infatti dal brigadiere della G. d. F. Antonio Scappin Carlo, che da Gera Lario arrivò a Milano, tra le 17,30 e poco dopo le 18 circa, la notizia della cattura del Duce al colonnello Alfredo Malgeri comandante della Legione milanese della GdF, e sicuramente anche in qualche altro modo arrivò alla direzione del PCI.

Verso sera giunse poi a Milano la notizia del trasferimento, per motivi di sicurezza, di Mussolini in una adibita casermetta della GdF di Germasino, pochi chilometri sopra Dongo.

Quel che traspare con tutta evidenza dalla cronaca di quegli avvenimenti riportati con versioni eterogenee, contraddittorie ed edulcorate, che per la loro inaffidabilità noi aggireremo basandoci esclusivamente su fatti e conseguenze accertate, è che questa vicenda venne subito presa in mano da Luigi Longo, vice comandante del CVL, comandante delle Brigate Garibaldi, membro del CLNAI e massimo dirigente del Pci nel nord Italia (in pratica il n. 2 dopo Togliatti) il quale a sera, ad un preoccupato Sandro Pertini, preoccupato perché il Duce potesse salvarsi venendo catturato dagli Alleati, ebbe a dire, con evidente sottointeso: «non ti preoccupare, vatti a fare un giretto».

Al Comando del CVL (la struttura militare della Resistenza), installatosi in Palazzo Cusani, angolo via Brera dove comandante, ma più che altro nominale, era il generale Raffaele Cadorna, in quelle ore fu tutto un andirivieni e un fibrillare di eterogenee iniziative.

Sembra che, in qualche modo, venne proposto (impegnato in questa bisogna fu proprio Walter Audisio che in quel momento al Comando aveva compiti di Polizia Militare) ad alcuni comandanti di Divisioni garibaldine ed allo stesso colonnello della G. d. F. Alfredo Malgeri, l'incarico di andare a prendere Mussolini, di cui ancora non si avevano notizie precise, facendo capire, sotto metafora, di sopprimerlo con la scusa di un tentativo di fuga. Ma furono proposte aleatorie, vaghe e non se ne fece nulla, anche perché, a quanto sembra, un po' tutti reclinarono l'incarico.

Non ci si deve però fare illusioni perché era comunque auspicato e dato per scontato da molti che Mussolini venisse eliminato alla svelta e Luigi Longo non soltanto era favorevole a una sua sbrigativa uccisione per convinzione di partito e personale, ma egli interpretava in Italia anche la volontà di Stalin (tramite Togliatti), senza la quale il PCI non muoveva foglia.

Il PCI è oramai appurato che aveva con le "intelligence" inglesi un rapporto di stretta collaborazione (continuato da Togliatti e Churchill anche nel dopoguerra e risoltosi con gentili consegne di preziose documentazioni requisite a Mussolini allo statista britannico) come si evince anche dal libro del comunista Maurizio Valenzi, ebreo italo tunisino, futuro senatore del Pci e sindaco di Napoli: "Confesso che mi sono divertito", Pironti editore 2007, laddove ricorda quando venne spedito a Napoli, prima ancora dell'arrivo di Togliatti a Salerno, a organizzare le strutture comuniste e tutta la situazione logistica e finanziaria venne organizzata dal servizio segreto inglese. Al nord poi, i rapporti tra gli ufficiali delle basi segrete inglese e i dirigenti comunisti erano di vecchia data.

 

Il ruolo ambiguo degli americani

Come sappiamo, sovietici e inglesi (questi ultimi per le scottanti vicende del Carteggio Mussolini/Churchill) erano i più interessati alla eliminazione immediata del Duce, ma anche gli americani, che apparentemente dicevano di volerlo catturare vivo, sottobanco invece e all'ultimo momento, diedero opportune e segrete  disposizioni alle loro missioni, per lasciarlo eliminare.

Il ruolo ambiguo, ma oramai evidente, degli americani, compresa la missione di lento pede cioè il capitano Emilio Daddario (quello che firmò il famoso lasciapassare per Walter Audisio e consentirgli di recarsi nelle zone dove era stato catturato Mussolini) dovrà essere una buona volta adeguatamente chiarito e decifrato dagli storici perché è il solo modo per uscire da tanti equivoci che rendono complicata la lettura di quegli avvenimenti.

È una vicenda questa alquanto contraddittoria perché formalmente e comunemente gli Alleati e in particolare gli americani tendevano a catturare Mussolini vivo (dicesi per processarlo e umiliarlo) e a pretendere che gli venisse consegnato dai partigiani in base agli impegni in questo senso sottoscritti, in sede armistiziale e confermati successivamente, con il governo del Sud.

È ovvio che quelle forze della Resistenza, intenzionate invece a sopprimere immediatamente il Duce, dovevano tener presente questo "pericolo" di vedersi sottrarre il prezioso prigioniero.

Il fatto quindi che all'ultimo momento sia sicuramente arrivato ad alcuni comandi americani l'ordine segretissimo di lasciar fare ai partigiani, non cambia la situazione generale, ma la ingarbuglia in sede storica per la sua esatta ricostruzione, laddove la comune credenza che gli inglesi lo volevano morto e gli americani lo volevano invece vivo, risponde al vero, ma ha questa "riserva" o "eccezione" poco conosciuta.

In quelle ore poi, giocò un ruolo collaterale nel programmare la morte di Mussolini, anche il famigerato Comitato Insurrezionale antifascista, composto da Longo che lo presiedeva, dal suo sostituto Emilio Sereni per il PCI, da Leo Valiani per il partito d'azione e da Sandro Pertini per il partito socialista. È oggi risaputo che Leo Valiani era anche al servizio del SOE, l'intelligence inglese e la cosa non è di certo indifferente.

Lo storico Renzo De Felice, in  Rosso & Nero, Baldini & Castoldi editori 1995, afferma:

«Fu molto facile per gli inglesi evitare (...) che gli americani mettessero le mani sul Duce. Fecero tutto i partigiani. Ma fu un agente dei servizi inglesi, italiano di origine, che li esortò a far presto a chiudere in fretta la partita» (si riferiva a Max Salvadori-Paleotti, ufficiale italo inglese di collegamento con il CLNAI e gli Alleati).

Anche un altro storico, Alessandro De Felice, ha rivelato una fugace confidenza da lui ricevuta dall'allora senatore Leo Valiani che gli raccontò, pregandolo poi di non farne menzione:

«La morte di Mussolini deve rimanere un mistero. Ed è meglio che sia cosìLondra ha suonato la musica, ed il PCI è andato a tempo!».

 

La situazione generale nel comasco

In tutta la zona del comasco, comunque, agivano gruppi che, dato il momento, risultavano poco controllabili, mentre Mussolini era nelle mani del comando della 52a Brigata Garibaldi dell'alto Lario, precedentemente indicato e, come abbiamo visto, composto da elementi eterogenei e non tutti comunisti; stessa cosa per il CLN di Como installatosi in prefettura il 27 aprile '45 (dopo la vergognosa "tregua", in realtà una resa, trattata dai comandanti fascisti giunti in armi nella cittadina lariana il mattino del giorno precedente).

Inoltre sulle tracce di Mussolini sono lanciati gli Alleati, in particolare gli americani i quali, come abbiamo già specificato, ma giova ripeterlo, dicono di voler catturare il Duce vivo anche se, segretamente, fanno in modo che ciò non avvenga, ma questo non è noto e poi, nonostante ciò, è probabile che se per qualche motivo una loro missione dovesse capitare sul Duce, questi verrebbe requisito e non passato per le armi.

Del resto il governo del Sud e di conseguenza le strutture del CLNAI e del CVL, in ottemperanza agli accordi armistiziali sottoscritti, dovrebbe consegnare Mussolini vivo agli Alleati e il disattendere queste disposizioni, qualunque siano altri desideri e vicende che si svolgevano dietro le quinte, potrebbe comportare pesanti ripercussioni nella definizione dell'occupazione Alleata.

Insomma una situazione alquanto ambigua che genererà tutta una serie di ordini e atteggiamenti contraddittori che a Milano, a cose fatte, ci narrano di pareri discordi, di fantasiosi piani di salvataggio del Duce per consegnarlo agli Alleati, ecc.

A nostro avviso fu tutto un gioco delle parti, perché alla fin fine anche Cadorna e quasi tutti gli altri al Comando del CVL (o per scelta o per autorevoli e segreti inviti in proposito ricevuti) furono concordi nel lasciar fare a Longo.

 

Il progetto di Longo per eliminare subito Mussolini

In considerazione di quanto appena accennato, per Longo c'è il problema di presentare tutte le programmate e forzate fucilazioni che dovrebbero chiudere la guerra civile in un certo modo, storicamente accettabile per la futura agiografia resistenziale, coinvolgendo nelle fucilazioni, quale "giustizia in nome del popolo italiano", tutte le componenti della Resistenza, in modo da farle digerire agli Alleati e poi far pesare, questa epica e unanime pagina resistenziale, nelle alchimie politiche e governative post liberazione a tutto vantaggio del Pci (come in effetti accadde).

Da Milano, per prima cosa, a sera viene disposto di trasferire Mussolini in un posto segreto e più sicuro. La disposizione sarà realizzata sul posto, grazie al Canali Neri (che ne consiglierà il luogo), al Bellini Pedro e il Moretti Pietro, che finiranno per portare il Duce in casa dei contadini De Maria a Bonzanigo, ma questa decisione così importante e delicata visto il caos di quelle ore, e con la quale si decise anche di aggiungere a Mussolini una donna, Claretta Petacci, non poteva che arrivare da Milano e se ne era al corrente Cadorna, ancor più lo era Longo.

Come detto, pare però che ci furono anche una serie di ordini contrastanti, di piani di prelevamento del Duce per consegnarlo agli Alleati, ecc., tutti ovviamente abortiti, ma anche ammesso che queste storie siano veritiere, contano poco, perché quel che conta fu la decisione di portare Mussolini in un luogo segreto. E la decisione di trasferire Mussolini e la Petacci fuori Dongo non poteva di certo essere presa solo dai comandi locali della 52a Brigata Garibaldi, ma venne giocoforza da alte autorità presenti a Milano. Non a caso il Pier Bellini delle Stelle ebbe a giustificarsi (di fronte alle rimostranze del neo sindaco Giuseppe Rubini di Dongo, che lamentava il modo come era stato sottratto il Duce dal municipio di Dongo) che lui aveva appunto «ricevuto ordini da Milano».

E, sempre attenendoci ai fatti, è anche importante considerare che a quella decisione, si attennero scrupolosamente tutti e tre i "comandanti" di Dongo (Pier Bellini, Canali e Moretti) nonostante le diversità politiche e di riferimento nella Resistenza, che singolarmente potevano avere e di tutte le storielle fantasiose che furono poi raccontate, a posteriori e mai chiarite, circa il viaggio notturno da Dongo a Bonzanigo, dicesi passando per Moltrasio e ritorno indietro, ecc.

 

La missione del colonnello Valerio

Per esigenze operative, ma anche politiche, venne inoltre da Longo allestita a Milano, a sera tarda del 27 aprile, una missione ufficiale del CLNAI-CVL, al fine di giustificare l'eliminazione del Duce e degli altri elementi della RSI rispetto alla Storia, a tutte le componenti della Resistenza ed agli Alleati: egli, infatti, incarica per questa missione Walter Audisio alias Valerio che prende lo strano grado di colonnello, un ragioniere in forza come Ispettore nella segreteria del Comando del CVL e in quelle ore addetto alla Polizia Militare, comunista, ma rappresentativo di tutto il Comando, anche se di scarse attitudini militari.

Ad Audisio viene affiancato Aldo Lampredi Guido Conti, alto dirigente del Pci, uomo di ben altro spessore politico e già agente del Komintern. A costoro è anche assegnato un plotone di circa 12 partigiani, prelevati da quelli delle Divisioni dell'Oltrepo di Italo Pietra e Luchino dal Verme, da poco accasermati nelle scuole di viale Romagna. Il plotone, tutti con divise americane nuove fiammanti, è posto al comando di Alfredo Mordini Riccardo, un ex miliziano di Spagna e Francia, elemento di pochi scrupoli e scarsa cultura, ma benvoluto dai suoi uomini e ben conosciuto da Lampredi e di Giovanni Landini Piero, un comunista ex ufficiale di altrettanti pochi scrupoli.

Audisio, a nome del CLNAI (anche se questo organismo si esprimerà in questo senso solo a cose fatte), ha ufficialmente un ordine del CVL, avallato da Raffaele Cadorna: quello di recarsi a Dongo e requisire Mussolini e gli altri prigionieri e quindi tradurli a Milano.

In realtà Audisio ha invece la (ovvia) disposizione segreta di fucilarli tutti sul posto e portarne i cadaveri a Milano per esporli in Piazzale Loreto dove, come risulterà evidente in seguito, li attenderanno circa 12 postazioni dei cineoperatori americani, che saranno predisposte in posizione sopraelevata già dalla sera del 28 aprile (essendo evidentemente ben informati), pronte ad immortalare il barbaro scempio che sicuramente si determinerà nella piazza, per le loro esigenze di propaganda cinematografica.

Ancora oggi gli storici non si sono messi d'accordo sul fatto che Audisio ebbe subito l'ordine segreto di fucilare Mussolini oppure lo venne a sapere nel corso della sua missione che riteneva consistesse nella traduzione dei prigionieri a Milano (alcuni ipotizzano che Audisio ne venne informato nel corso della sua telefonata a Longo delle 11 dalla Prefettura di Como, altri che lo seppe invece da Lampredi, da lui svicolato e poi ritrovato sulla piazza di Dongo poco dopo le 14).

Ma anche questo particolare, attenendoci ai fatti, è un problema di secondaria importanza e comunque noi riteniamo di condividere l'attenta ricostruzione storica fatta dal ricercatore storico Marino Viganò che, considerando molti fatti e aspetti di quella vicenda, ha dimostrato che Audisio partì da Milano con l'ordine omicida seppure segreto (vedere: M. Viganò, "Un Istintivo gesto di riparo. Nuovi documenti  sull'esecuzione di Mussolini 28 aprile 1945" Palomar N. 2 - 2001).

È più che sicuro che lo scopo omicida della missione di Audisio, almeno nelle sue linee generali, sia stato a conoscenza o intuito dai più importanti comandanti e dirigenti del Comando CVL (Raffaele Cadorna, Giovanni Stucchi, Vittorio Palombo, ecc.), dei comandanti e commissari delle Divisioni dell'Oltrepo (Italo Pietra, Luchino dal Verme, Paolo Murialdi capo di Stato maggiore, Alberto Cavallotti Commissario, ecc.) che metteranno a disposizione gli uomini per il plotone di Audisio e dai membri del Comitato Insurrezionale antifascista vero ispiratore di tutta la vicenda (Sandro Pertini, Leo Valiani e Emilio Sereni).

Dicesi anche che Enrico Mattei, alto rappresentante della DC nel CVL, non solo fu d'accordo sulla eliminazione sbrigativa del Duce, ma si diede anche da fare per organizzarla. Come noto poi, per opportunità politica o altro, alcuni di coloro che pur erano informati, faranno il pesce in barile affermando di non sapere bene come stavano le cose.

Resta il fatto che la missione di Audisio, per ottemperare a tutti i suoi compiti, storici e politici, oltre che militari assegnatigli, deve giocoforza passare per Como, in Prefettura, dove dovrà imporsi alle autorità locali (CLN) che certamente non gradiranno di vedersi sottrarre i preziosi prigionieri (stavano già accarezzando l'idea di grandi cerimonie di consegna di tutti i prigionieri, compreso Mussolini, alle autorità del CLNAI e agli Alleati), quindi ai comandi della 52a Brigata Garibaldi di Dongo che, come detto, hanno in mano i prigionieri stessi.

Una evidente lungaggine di tempi, ma nonostante questo Audisio e il suo plotone finisce per partire prima delle 7 di mattina del 28 aprile (alquanto tardi), con meta Dongo, via Como, ma guarda caso, nessuno gli dice che Mussolini a Dongo oramai non c'è più essendo stato trasferito, notte tempo, da qualche altra parte: una evidente dimostrazione che l'"urgenza" per questa missione non era poi così prioritaria anche se, si racconta che, proprio in quei momenti, Longo ebbe a dire ad Alberto Cavallotti Albero che dovevano sbrigarsi perché su Mussolini stava per piombare la missione del capitano americano Daddario.

Tutto questo fa ragionevolmente presupporre che, nel frattempo, si stava provvedendo per Mussolini anche in un diverso modo e si voleva lasciare libero e tranquillo Audisio di ottemperare a tutte le sue necessarie incombenze.

 

A prescindere da Audisio "qualcuno" deve controllare Mussolini

È infatti ovvio che Longo, dati i necessari tempi e incombenze richiesti dalla missione di Audisio e non potendosi fidare del momentaneo nascondiglio notturno del Duce e di chi lo custodisce provvisoriamente, incarica anche qualcun altro ovvero spedisce a Como in federazione comunista a raccogliere i dirigenti comunisti e i partigiani ben informati sul nascondiglio di Mussolini e conosciuti in zona e poi a Bonzanigo in casa dei contadini De Maria, dove sono nascosti Mussolini e la Petacci, qualche altro elemento, militarmente efficiente, affinché prenda subito in mano la situazione e la tenga sotto controllo.

Se il caso lo impone, fucili immediatamente Mussolini, ma se possibile ne coordini gli eventi con la missione di Audisio in modo che questi possa poi fucilare regolarmente, in tranquillità e sicurezza tutti i prigionieri, Mussolini compreso.

Non è particolarmente importante stabilire se Longo, lasciato partire Audisio verso le 7 del mattino, già aveva anche in mente di far verificare la situazione di Mussolini, nascosto da qualche parte in piena notte da elementi della 52° Brigata Garibaldi, non tutti sotto il controllo comunista, oppure vi provvide poco dopo quando arrivarono dalla federazione comunista di Como notizie aggiornate su Mussolini (poco prima in quella sede comasca del PCI erano giunti Michele Moretti Pietro e Luigi Canali Neri reduci dall'aver nascosto il Duce), rendendosi conto che la sola missione di Audisio non era sufficiente per avere la massima sicurezza che tutto filasse liscio.

Questo diversivo ovvero il fatto che Longo, a prescindere della missione di Audisio, si premunì, come era logico che fosse, che Mussolini stesse al sicuro e in buone mani, è rimasto misterioso, ma non ci sono dubbi che sia andata in questo modo e, come vedremo, lo dimostrerà anche il suo successivo atteggiamento.

È difficile stabilire se gli elementi per questo secondo e segreto incarico partano anche loro da Milano, magari contestualmente ad Audisio e il suo plotone o siano stati reperiti via telefono sul posto (Como), oppure ancora è questo un incarico che venne affidato segretamente allo stesso Aldo Lampredi a latere della sua missione con l'ignaro Audisio.

Come sappiamo, infatti, Lampredi arrivato a Como in Prefettura con Audisio verso le 8,30 (dicono loro) mentre questi è alle prese con interminabili discussioni con le autorità locali che lo boicottano e non vorrebbero riconoscere la sua autorità, sgattaiola (chi dice verso le 10, il Lampredi stesso, conscio della delicatezza di questo orario, disse alle 11) portandosi via l'automobile, l'autista e il comandante della scorta Mordini (Riccardo), va in federazione Comunista da poco trasferitasi in Palazzo Terragni, ex sede del Fascio, e riapparirà solo molte ore dopo a Dongo (circa alle 14,10) quasi in contemporanea con Audisio e il resto del plotone giunti per conto loro. Un bel diversivo, rimasto alquanto misterioso nei suoi esatti itinerari e cronologie.

 

A Como Moretti e Canali avevano portato al PCI notizie fresche su Mussolini

Fatto sta che, come accennato, tra poco prima delle 6 o delle 7 della mattina del 28 aprile, erano giunti a Como, in federazione comunista dove trovasi i massimi dirigenti locali del partito (Dante Gorreri Guglielmo e Giovanni Aglietto Remo), il Luigi Canali Neri e Michele Moretti Pietro i quali informarono di aver nascosto e lasciato con due partigiani armati di guardia Mussolini, poche ore prima e a poco più di 21 chilometri da Dongo e circa 28 da Como.

Sappiamo che a costoro venne detto che occorreva informare il partito a Milano per avere ordini, poi però, guarda caso, non sappiamo più nulla mentre, secondo la "storica versione", i due componenti della 52a Brigata furono tranquillamente lasciati andar via senza disposizioni (l'altro comandante non comunista, il Pier Bellini delle Stelle Pedro, lasciati Mussolini e la Petacci nella casa di Bonzanigo, se ne era invece tornato per conto suo, tranquillo e spensierato a Dongo).

Cosicché dovremmo credere che gli importantissimi Luigi Canali, che dicesi girerebbe in mattinata per Como (e incredibilmente non saprebbe nulla dell'arrivo di Audisio e del suo vistoso plotone) e Michele Moretti che dicesi passerebbe a Tavernola a trovare moglie e figlio, beati e spensierati arriveranno a Como più o meno verso la fine della mattinata.

Da tanti particolari e dalla logica stessa di quegli avvenimenti, non è credibile che il Canali e il Moretti, a conoscenza del luogo dove trovasi Mussolini e in grado di accedervi perché conosciuti dai due guardiani armati rimasti in quella casa, siano stati lasciati andar via. È invece logico che si fermarono in federazione comunista ad attendere qualche "arrivo" da fuori ed è anche evidente che la direzione comunista a Milano venne in poco tempo informata del loro rapporto.

Anzi, diciamo che, per non addentrarci in controverse ricostruzioni, prendiamo per buono, un arrivo di Moretti e Canali in federazione comunista a Como verso le 7 del mattino e un arrivo di Audisio e Lampredi in Prefettura verso le 8,30, ma non è escluso che invece Moretti e Canali arrivarono in federazione comunista verso le 6 del mattino (come sfuggì a Giovanni Aglietto) e Audisio arrivò in Prefettura molto prima della 8,30 (come asserì in una intervista Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare per la piazza di Como del CLN locale).

Orari questi che cambierebbero sia i tempi prevedibili in cui fu poi informata la direzione del PCI a Milano in merito al nascondiglio di Bonzanigo ed anche sulla uscita alla chetichella di Lampredi dalla Prefettura che potrebbe essere avvenuta molto prima delle 10.

 

Particolari e deduzioni realistiche e concrete

Comunque sia, tutte le nostre precedenti e logiche deduzioni, sono suffragate da molti particolari importanti.

1. Longo a Milano, la sera precedente preoccupatissimo che gli Alleati si possano prendere il Duce, pare adesso nella giornata del 28 aprile come se quasi non gli interessi più il problema Mussolini.

Incredibilmente, neppure informa Audisio (quando questi alle 11 telefona dalla Prefettura di Como per lamentarsi delle resistenze e boicottaggi che ivi sta trovando) che Mussolini non si trova più a Dongo, ma lo hanno portato in un rifugio segreto, e successivamente (dopo le 14) pur ignaro di che fine abbia fatto Audisio, se ne va tranquillamente ad incontrare Moscatelli arrivato a Milano con le sue divisioni della Valsesia e nel pomeriggio terrà anche un comizio in piazza Duomo.

2. Stessa cosa sembra fare il comandante Pier Bellini delle Stelle arrivato verso circa le 8 a Dongo: non avvisa i suoi referenti superiori (in pratica, almeno il tenente colonnello Giovanni Sardagna, uomo di Cadorna a Como che dicesi aveva predisposto un piano notturno per portare Mussolini a villa Cademartori) del cambiamento di programma notturno per il quale Mussolini è finito a Bonzanigo (e se invece lo avesse fatto non si capisce come nessuno del CVL a Como e Milano dica o faccia niente); si disinteressa di Mussolini, del suo precario nascondiglio in quella casa a lui fino ad allora sconosciuta, dei due stanchissimi guardiani armati lasciati da ore lì dentro, di ogni imprevisto o sortita che potrebbe accadere e anche del fatto che qualcuno degli altri (i comunisti Moretti o Canali) gli possa soffiare il prezioso prigioniero.

Ed analogamente e incredibilmente si comportano Moretti e Canali visto che si vorrebbe far credere che andati via dalla federazione comunista per conto loro, arrivano spensierati a Dongo senza preoccuparsi minimamente che, magari il Pier Bellini delle Stelle faccia prelevare il Duce e lo consegni al CNLAI, di fatto agli Alleati.

Insomma se non arrivava Audisio, alle 14,10 a Dongo, tra l'altro inaspettato e non gradito, a reclamare i prigionieri, fino a quando tutti costoro avrebbero ignorato il "problema Mussolini" che la notte precedente e al primo mattino pareva essere così urgente e critico?

È evidente che a Mussolini si era già provveduto anche a prescindere dalla missione di Audisio! Quindi Longo era tranquillo e al Pier Bellini delle Stelle, probabilmente, lo si era invitato a tirarsi da parte (cosa che fece puntualmente).

Come vedesi queste sono prove indiziarie deduttive, ma suffragate da tutta una serie di fatti e comportamenti che non possono essere sottovalutati.

 

Testimonianze decisive

Abbiamo ora due importanti e decisive testimonianze, entrambe rilasciate nel 1996, si badi bene mai smentite o provato che siano inattendibili: quella della signora Dorina Mazzola, all'epoca diciannovenne abitante a Bonzanigo a poco più di 100 metri da casa De Maria, e quella di Savina Santi la vedova di Guglielmo Cantoni Sandrino, il più giovane dei due guardiani lasciati in casa dei De Maria.

Inoltre, abbiamo la ricostruzione, sia pure retrospettiva e teorica, di una possibile dinamica balistica di quella fucilazione, la quale a causa di eterogenee inclinazioni delle traiettorie dei colpi e della distanzialità delle ferite sul corpo di Mussolini (elementi deducibili dai sia pur scarsi rilievi del verbale autoptico del prof. Mario Caio Cattabeni del 30 aprile 1945 e dalla osservazione fotografica delle ferite sul cadavere) ci mostra chiaramente che il Duce venne attinto in vita da 9 colpi sparati da almeno due tiratori.

In aggiunta si possono avanzare fondati sospetti anche sul decorso del rigor mortis delle salme di Mussolini e della Petacci, come attestato da alcune testimonianze di chi ha maneggiato i cadaveri e come apparivano, in foto e filmati, il giorno successivo alla loro morte (il 29 aprile), dove sembra alquanto avanzata la risoluzione della rigidità cadaverica e quindi si potrebbe almeno sospettare che si era in presenza di due cadaveri uccisi circa 6 o 7 ore prima delle asserite 16,10 del 28 aprile.

Ed infine abbiamo alcuni rilievi che è stato possibile fare sulle foto del vestiario trovato sul cadavere del Duce e sul suo stivale destro che risultava con la chiusura lampo saltata all'altezza del tallone. Questi rilievi ci dicono che il giaccone indosso al cadavere era privo di buchi o strappi quali invece avrebbero dovuto esserci dopo gli esiti di una fucilazione e quindi è stato messo addosso ad un morto, gettato in terra davanti al cancello di Villa Belmonte, inscenando una "finta fucilazione"; mentre lo stivale dx, in quelle condizioni  non avrebbe potuto essere calzato per camminarci ed essere condotti sul luogo dell'esecuzione come si disse invece che era stato fatto con Mussolini.

Tutti elementi questi che indicano chiaramente che Mussolini e la Petacci vennero uccisi al mattino e quindi il pomeriggio al cancello di Villa Belmonte venne fatta soltanto una macabra messa in scena.

La signora Dorina Mazzola, infatti, raccontò di aver udito, intorno alle 9 del 28 aprile, un paio di colpi di pistola provenienti da casa De Maria. Quindi, dalla finestra di casa sua, vide scendere, un uomo calvo, con la sola maglietta di salute a mezze maniche, che si trascinava a piccoli e difficoltosi passetti verso il cortile dello stabile, fuori della sua portata visiva che oltretutto gli consentiva di vedere soltanto le persone dalla cintola in su, essendo casa sua ad un livello inferiore rispetto al palazzo dei De Maria.

Nel frattempo udì una donna, affacciatasi ad un finestrone della casa, strillare e chiedere aiuto, ma venne subito ricacciata dentro a viva forza, oltre a strilli e lamenti dei coniugi De Maria.

Poi udì una sparatoria nel cortile dove era stato condotto l'uomo calvo. Era chiaro che quell'uomo era Mussolini e in quel momento venne ammazzato, ma la Mazzola al tempo non poteva saperlo.

La Mazzola infine assistette anche, proprio dietro casa sua (inizi di via del Riale) e intorno alle 12, all'uccisione proditoria di una giovane donna che camminava davanti ad un gruppo di partigiani e che seppe poi trattarsi di Claretta Petacci. Dalle frasi e bestemmie udite dalla Mazzola, si poteva forse ritenere che fu una uccisione proditoria e istintiva, fatta da un partigiano esagitato, che gli sparò alla schiena (come attesteranno i buchi nello schienale della pelliccia della Petacci) che aveva magari ritenuto che la donna volesse correre avanti per fuggire.

Elena Curti, figlia naturale di Mussolini, al tempo catturata nella colonna Mussolini a Musso, ha raccontato nel 2007 un suo importante ricordo

«Dieci anni fa, un ragazzo che all'epoca aveva solo 15 anni (Osvaldo Gobetti un comunista di Dongo, n.d.r.), al quale i partigiani davano incarichi come ricaricare le armi, mi ha riferito, dopo averlo saputo da un compagno che aveva assistito ai fatti di Bonzanigo,  che la Petacci era stata uccisa mentre tentava di allontanarsi»; Stava correndo su un prato, venne raccontato alla Curti, quando venne falciata proditoriamente da una raffica di mitra alle spalle. Lo stesso partigiano che lo raccontava al Gobetti era rimasto scioccato (Vedere: A. Bertotto "La morte di Mussolini una storia da riscrivere PDC  editori 2008).

La signora Santi, vedova Cantoni, invece, nel corso di una inchiesta condotta da Giorgio Pisanò, presente anche il suo collaboratore Giannetto Bordin, riguardante la scomparsa di un prezioso memoriale lasciato scritto dal marito Guglielmo Cantoni Sandrino, (scomparsa che da sola, già dimostra l'esistenza di una altra e diversa verità su quei fatti)  diede altri particolari alquanto precisi:

«Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c'erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: "adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi", e un altro gridare: "No, vi uccidiamo qui!". Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d'arma da fuoco..., ma non so dove li hanno uccisi con certezza, credo però che lo sappia un altra persona che ebbe la confidenza da mio marito» (per queste testimonianze vedere G. Pisanò: "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", il Saggiatore 1996).

Dunque, ricapitolando: intorno alle 9 del mattino, mentre Audisio ignaro si trovava a litigare con quelli del CLN a Como, almeno un paio di individui venuti da fuori, accompagnati da Michele Moretti, salirono nella stanza dove erano il Duce e la Petacci.

Erano gli elementi spediti o reperiti in zona da Longo affinché prendessero sotto controllo Mussolini, se necessario lo fucilassero subito, ma preferibilmente lo gestissero in attesa che Audisio, compiute le sue incombenze, potesse fucilarlo regolarmente e pubblicamente.

È chiaro che invece la rabbiosa irruzione in camera determinò la reazione di Mussolini e della donna e il Duce, a seguito di una colluttazione, rimase ferito al fianco e forse al braccio.

Fu il medico legale Aldo Alessiani, a far notare che la distanzialità, la ravvicinatezza e l'inclinazione di alcuni colpi che avevano attinto Mussolini, erano chiaramente il frutto di spari a bruciapelo durante una colluttazione. Il cadavere della Petacci stessa presentava sotto la palpebra dell'occhio destro una ecchimosi quale esito di un colpo preso in vita sul viso.

È prevedibile che a quella irruzione in stanza,  dalle chiare finalità offensive, Mussolini reagì in qualche modo, specialmente se si era messa di mezzo la Petacci o questa venne maltrattata.

Alcuni hanno anche supposto, con qualche ragione, che forse la Petacci venne violentata, o in quel momento (e allora si poteva ritenere che Mussolini era intervenuto per difenderla) o molto più probabilmente poco dopo, quando, morto Mussolini e lasciato il suo cadavere nel cortile, lei rimase in balia dei partigiani per quasi un  paio d'ore. Altri hanno invece ritenuto che dalle foto all'obitorio si poteva dedurre che la Petacci aveva il reggicalze in ordine e non si "intravedevano" particolari alterazioni nella zona genitale. Il quesito rimane irrisolvibile, perché se la violenza carnale è intuibile, ma non provabile, si può però anche dire che la Petacci, che poi venne fatta uscire di casa, potrebbe anche essersi riassettata e del resto rimane sempre inspiegabile perché arrivò cadavere a Piazzale Loreto senza le mutandine.

 

L'imprevisto nella stanza cambiò tutti i programmi su Mussolini

Comunque sia, in conseguenza di questo "imprevisto" occorso in quella stanza, Mussolini ferito diventava chiaramente intrasportabile e impresentabile per una pubblica fucilazione in piazza.

Venne quindi immediatamente ammazzato e a quanto sembra gridò e con gran foga, in faccia ai suoi assassini "viva l'Italia!, come raccontò, con sofferta confidenza, Michele Moretti 45 anni dopo, uno dei partigiani che sicuramente sappiamo presente quel mattino in casa De Maria.

Aggiungendo anche che la cosa non lo aveva infastidito più di tanto trattandosi, per lui, dell'Italia fascista non della sua (vedere: G. Cavalleri "Ombre sul lago", Piemme 1995).

Mussolini dovette poi anche essere rivestito alla bene e meglio visto che indossava la sola maglietta a mezze maniche e forse i pantaloni. Gli misero quindi indosso quello strano giaccone con maniche raglan che risulta, ad ogni indagine fotografica, imperforato.

Ma la Dorina Mazzola raccontò anche che alcune ore dopo, verso le 11,30 da casa sua assistette  alla difficile impresa di rimettere uno stivale al piede del Duce che la Petacci, aggrappandosi alle gambe del morto, trascinato da un paio di partigiani per via del Riale, aveva sfilato.

È prevedibile che il piede di Mussolini, tra l'altro alterato da vecchie cicatrici di guerra, dopo alcune ore e a causa delle modalità repentine e violente di morte, era andato in rigidità catalittica, rendendo quasi impossibile rimettergli lo stivale. Probabilmente nel forzare l'introduzione dello stivale nel piede era saltata la chiusura lampo all'altezza del tallone.

Tutti questi avvenimenti chiariscono poi anche perché ne risultò la inspiegabile anomalia che mentre a Dongo, Audisio pretese rabbiosamente di fucilare i prigionieri alla schiena e davanti a donne e bambini, Mussolini sembrava avere avuto la "concessione" di una fucilazione al petto e per giunta di nascosto da tutti.

La successiva morte della Petacci, forse in parte accidentale, complicò ancor più le cose e costrinse Audisio, a Dongo, alle prese con il comando della 52a Brigata Garibaldi, sapendola già morta perchè probabilmente informato da Lampredi, ad aggiungerla alla lista di coloro che dovevano essere fucilati, destando meraviglia e perplessità.

Fu quindi necessario nascondere i cadaveri nel garage dell'albergo Milano, lì vicino sulla via Albana. Varie ricerche e ricostruzioni (per esempio quelle di Franco Bandini, di Urbano Lazzaro, di Alessandro Zanella, ecc.,) seppure vaghe e imprecise, avevano pur indicato che i due cadaveri erano stati nascosti in qualche casa o ripostiglio nei pressi di casa dei De Maria.

Dorina Mazzola, il teste di Bonzanigo però, grazie ad una zia che al tempo lavorava all'albergo Milano, il cui proprietario era in contatto con i partigiani, rivelò che le salme vennero nascoste per alcune ore proprio in quel posto.

Non è da poco che il dottor Cova Villoresi, di sicura fede antifascista, che sembra abbia presenziato alla famosa autopsia di Mussolini stilando anche un suo personale referto reso noto nel 1994, nel 2003 raccontò nel corso di una intervista al direttore di «Italia Tricolore», Augusto Fontana, quanto segue, evidentemente appreso in ambienti qualificati (il Cova sta parlando dei cadaveri):

«Li avevano rinchiusi nell'albergo vicino al posto dove poi sono stati fucilati».

E sulla Petacci, parlando del cancello di Villa Belmonte ebbe a precisare:

«... quel cancello lì è sbagliato, perché dove l'hanno uccisa è sulla curva di una stradina che parte dal lago, parte dalla strada, c'è la strada che praticamente è parallela al margine del lago».

Una volta nascosti i cadaveri si pensò poi di allestire una messa in scena per aggiustare, in qualche modo, tutta la vicenda.

 

Si predispone una messa in scena per "normalizzare" gli avvenimenti

Intanto venne lasciato nella stanza dei prigionieri, al meglio riassettata (in fin dei conti erano stati esplosi in camera solo due colpi) un presunto pasto di dopo le 12 con tanto di stoviglie che, guarda caso, così rimase fino a sera in modo da farlo notare ai visitatori (per esempio i coniugi Carpani, di cui lui, anni dopo, divenne  anche sindaco di Mezzegra) e si pensasse che Mussolini e la Petacci, a quell'ora, erano ancora vivi, mentre invece al fotografo Vincifori, che dal giorno successivo prese a fotografare in zona tutti i luoghi di quella vicenda, venne impedito per tre o quattro giorni di fotografare la stanza. 

Questa sceneggiata del pasto delle 12 risulterà, col tempo, persino ridicola, non solo perchè appariva singolare che ancora a sera nessuno aveva sparecchiato quella stanza, ma oltretutto l'autopsia sul Duce non aveva rivelato nello stomaco dello stesso residui di cibo e anche se si voleva presumere che i due prigionieri non avevano mangiato nulla (come qualcuno disse perchè indicato dagli avanzi del cibo rimasti intatti), non si spiegava perchè costoro, svegliatisi alle 12, digiuno dalla sera precedente, avrebbero richiesto, o gli sarebbe stato offerto un pasto che avevano accettato, e poi non lo avevano consumato. Insomma, in entrambi i casi, la faccenda non era credibile.

Si predisposero, quindi, le cose per la sceneggiata finale, invitando, con voce sparsa in giro, i pochi abitanti del circondario nella sottostante provinciale (il bivio con la via Regina), con la falsa voce che nel primo pomeriggio vi sarebbe passato Mussolini prigioniero.

Anche uno dei coniugi De Maria, Giacomo, venne detto che era andato a vedere il Duce (prima si disse che non lo aveva riconosciuto in casa, anni dopo invece il figlio disse che il padre vi andò per deviare i sospetti). In realtà si fece questo per evitare che costui potesse raccontare cose non gradite. Era infatti assurdo pensare che Giacomo De Maria, dicesi dalle 14 e fin verso sera, era uscito di casa lasciando la moglie sola con due prigionieri e due guardiani armati!

Verso le 16 infine venne allestito qualche piccolo posto di blocco nelle stradine attorno a via XXIV Maggio dove avrebbe dovuto essere "fucilato" il Duce.

Per quell'ora, infatti, venne fatto sbirciare, da lontano, a qualche sparuto astante, un breve corteo di due prigionieri scortati da alcuni partigiani armati, che a tutti venne fatto poi credere trattarsi di Mussolini e la Petacci, ma nessuno lo potè asserire con certezza, perché la Petacci non la conosceva nessuno e il presunto Mussolini, guarda caso, camminava rimpannucciato in un pastrano con i baveri rialzati e un berretto o cappello, si disse, calato sugli occhi. Entrambi poi vennero descritti con stivali da cavallerizzi, certamente più attinenti ad una partigiana che impersonava la Petacci che a quest'ultima.

Alle 16,10 infine si inscenò una finta fucilazione davanti al cancello di Villa Belmonte in via XXIV Maggio, dove infatti i cadaveri, come attestarono alcune testimonianze, apparvero già in stato di rigidità cadaverica indice di una morte precedente di alcune ore, mentre Mussolini prima di essere buttato  lì a terra era stata chiaramente rivestito.

Sono tutti fatti questi, oggi ben accertati.

 

Una "vulgata" come un muro di gomma

Tutti questi avvenimenti sono rimasti in buona parte e per anni nascosti, non solo perché il "segreto" venne difeso sul posto con l'imposizione minacciosa di un silenzio richiesto a tutti i residenti di quelle parti (nelle località del comasco in quei tempi si ebbero circa 400 omicidi e sparizioni di persone), ma anche perché questo "diversivo" mattutino, in buona parte, venne coperto e confuso dalla pantomima del "corteo" pomeridiano di un uomo e una donna condotti all'esecuzione e da una finta "fucilazione" davanti al cancello di Villa Belmonte alle 16,10, udita da molti.

Quindi nella esaltazione di quelle ore eccezionali, nella ridda di voci incontrollate che presero a girare, si creò una suggestione collettiva che, unita alla paura crearono una duratura e pervicace "omertà ambientale".

A fine 2008 il vice sindaco di Mezzegra, Vittorio Bianchi, in una intervista alla Tv Espansione di Como, ha confermato che all'epoca la gente di quelle parti venne "zittita": un prova inequivocabile questa, che se ci fu bisogno di minacciare la gente per ridurla al silenzio, evidentemente esisteva un "altra" verità!

In pratica tutta la "storica versione", dalla partenza di Audisio da Milano, al suo arrivo in Prefettura a Como, poi del suo arrivo a Dongo, della sua sortita delle 15,15 per recarsi a Giulino di Mezzegra, assieme a Lampredi e Moretti, dicesi a fucilare Mussolini e del loro ritorno a Dongo per eseguire le più ampie fucilazioni pubbliche sul parapetto del lungo lago, pur con molte discrasie, imprecisioni e contraddizioni, trova varie conferme in rapporti, relazioni, testimonianze e altri riscontri.

Ed in effetti tutti questi fatti, dalla "storica versione" narrati, sono effettivamente avvenuti.

Ma resta il fatto, rimasto misterioso (ma non troppo e comunque fino alla testimonianza Mazzola) di un diversivo al mattino in quel di Bonzanigo, mai da nessuno raccontato e quindi di una mistificazione pomeridiana al cancello di Villa Belmonte.

La "forza" di questa "storica versione", che gli ha permesso di sopravvivere per molti decenni, creando un muro di gomma, oltre alle minacce di ogni tipo e gli interessi politici che la difesero, sta proprio in questo particolare: un quadro generale più o meno veritiero, sia pure alterato da molte mistificazioni e ingarbugliato da una miriade di testimonianze contraddittorie, al cui interno vi è uno spicchio di avvenimenti (il diversivo mattutino a Bonzanigo), strettamente mantenuto segreto.

 

Il nome, rimasto misterioso, dei due assassini

Resta purtroppo ancora misterioso il nome di coloro (almeno due) che uccisero vigliaccamente Mussolini in quel cortile della casa ed anche del partigiano che sparò alle spalle della Petacci (è comunque poco, ma sicuro, che la Petacci, non sarebbe stata in ogni caso lasciata in vita). Al mattino a Bonzanigo di sicuro c'era Michele Moretti, ma non sappiamo se ha sparato e se potesse esserci anche Aldo Lampredi, che come abbiamo visto era svicolato da Audisio a Como, ma non è accertato il momento esatto in cui uscì dalla Prefettura e quindi non è detto che potè arrivare in tempo (in pratica Mussolini venne ucciso in un orario che oscilla tra poco dopo le 9 e poco prima della 10 e da Como a Bonzanigo, in quei frangenti si potevano impiegare circa 45 minuti, avendo in auto, come Lampredi aveva, partigiani conosciuti in zona).

Come abbiamo accennato, si faccia però attenzione che gli orari narrati dalla "storica versione" vanno presi con molta cautela. Per esempio Audisio e Lampredi hanno raccontato di essere arrivati quel mattino a Como in Prefettura verso le 8,30. Ma invece una testimonianza del maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare per il CLNAI dell'area di Como, asserì che costoro arrivarono intorno alle 6, ora in cui lui stava ancora dormendo su un divano. Forse si sarà sbagliato, magari saranno state le 7, ma anche in questo caso cambierebbero tutti i riferimenti temporali con i quali si possono assegnare determinate presenze o assenze di certi personaggi (ovvero Lampredi che allora probabilmente sarebbe sgattaiolato alla chetichella dalla Prefettura molto prima di quanto asserito) in certi avvenimenti.

Non essendo possibile dare retta ad una testimonianza, invece che un altra, è meglio soprasedere a raccapezzarsi in merito.

Certo è che Lampredi arrivò comunque in mattinata a Bonzanigo con gli altri componenti della Federazione comunista di Como, trovando per di più il cadavere inaspettato della Petacci e dovette probabilmente caricarsi l'onere di pianificare una "riparatrice" sceneggiata pomeridiana di una finta fucilazione (in collaborazione con Audisio).

Disse significativamente l'ex direttore dell'Unità! nel '44 ed esponente comunista Celeste Negarville: «Con la Petacci Lampredi non c'entra. La Petacci è stata uccisa altrove. Lampredi si trovò un cadavere in più, che non era nel conto» (M. Caprara: "Quando le botteghe erano oscure", Il Saggiatore 1997).

Oppure è anche possibile che fecero tutto elementi reperiti, nelle prime ore del mattino nel comasco, se non nella stessa federazione del Pci di Como, ovvero, come ipotizzò lo storico Renzo De Felice, che difficilmente si pronunciava con superficialità, in una  intervista al Corriere della Sera del 12.11.'95 in cui disse:

«La documentazione in mio possesso porta tutta ad una conclusione: Benito Mussolini fu ucciso da un gruppo di partigiani milanesi su sollecitazione dei servizi segreti inglesi. C'era un interesse a far si che il capo del fascismo non arrivasse mai ad un processo.

Ci fu un suggerimento inglese: 'Fatelo fuori', mentre le clausole dell'armistizio ne stabilivano la consegna.  Per gli inglesi era molto meglio se Mussolini fosse morto».

Una considerazione questa del De Felice che si accorda con quanto ebbe a dire in una intervista televisiva (Rete 4) pochi anni addietro Francesco Cossiga, che evidentemente aveva raccolto confidenze di un certo livello: "Ad uccidere Mussolini fu un dirigente comunista di Milano fatto poi espatriare dal Pci in sud America".

Certamente questa di Cossiga fu una dichiarazione "indiretta", ma considerando la statura del personaggio che ha ricoperto tutte le più alte cariche dello Stato che, oltretutto, era imparentato con la famiglia comunista dei Berlinguer, possiamo dargli anche un certo credito.

In ogni caso a Bonzanigo quel mattino non c'era, non poteva esserci, Walter Audisio. Scrisse Sandro Pertini nel 1975 al regista Carlo Lizzani autore del film "Mussolini ultimo atto" che tanto aveva contribuito al diffondersi della "vulgata": «...e poi non fu Audisio a eseguire la "sentenza", ma questo non si deve dire oggi» (C. Lizzani: "Il mio lungo viaggio nel secolo breve", Einaudi 2007).  

Più di questo, al momento, non è possibile attestare con un minimo di concretezza.

 

Maurizio Barozzi