da
http://www.marilenagrill.org/La%20conclusione%20.htm
l'Organizzazione
Vincenzo Vinciguerra
www.marilenagrill.org
Opera, 24 novembre 2007
il commento di
Maurizio Barozzi
«Affinché i giovani sappiano e
gli anziani ricordino»
(da un vecchio slogan nei manifesti del PCI)
Riteniamo opportuno far
conoscere ai lettori del sito della Federazione Nazionale
Combattenti della RSI questo importante saggio, nomato
"L'Organizzazione", scritto in carcere da Vincenzo Vinciguerra nel
1994 al quale l'autore nel 2007 ha poi aggiunto, una sua
"Conclusione". Anzi consigliamo di stamparlo e leggerlo
attentamente.
Quanto, infatti, a suo tempo scritto dal Vinciguerra ha una
importanza fondamentale per conoscere quello che accadde e cosa
c'era dietro l'infame periodo caratterizzato dalla "strategia della
tensione" e per rendersi conto che le "entità", le cause e le
strategie che produssero quegli avvenimenti non sono relegate
solamente a quel periodo storico perché, sia pure sotto altre forme,
sono sempre state strutturalmente presenti nella realtà di un paese
come l'Italia subordinato al dominio americano.
Recentemente due ottimi libri: Paolo Cucchiarelli "Il segreto di
Piazza Fontana", Ed. Ponte delle Grazie 2009, e Stefania Limiti
"L'Anello della Repubblica", Ed. Chiarelettere 2009, hanno fornito
nuove documentazioni che, in qualche modo, avvalorano e confermano
quanto il Vinciguerra andava scrivendo molti anni addietro, ma -come
ogni letteratura "politicamente corretta"- non esprimono quelle
precise e definitive conclusioni a cui era invece arrivato il
Vinciguerra.
L'importanza del saggio di Vinciguerra è dovuta alla elaborazione di
una lucida analisi e ad una serie di preziosi elementi conoscitivi,
anche per sua diretta esperienza personale, che consentono di
comprendere come era organizzato il sistema di spionaggio,
controllo, delazione, provocazione e depistaggio, messo in piedi
dagli atlantici nel nostro paese al fine di garantire nel tempo la
sua colonizzazione e quale era il vero ruolo di certi "Servizi" che
non sono affatto «deviati o separati», di una certa criminalità
mafiosa che è parte integrante del sistema di potere occidentale,
quindi del vero ruolo della massonica P2, furbescamente
criminalizzata per farne un capro espiatorio, ma invece interna al
sistema di potere e quindi di fatto coperta nelle sue vere
implicazioni, adesioni e funzioni. Ed ancora, di come venivano
utilizzati i neofascisti del destrismo nostrano, nonchè le carenze
di una Magistratura che non voleva e non poteva fare piena luce su
quanto era accaduto e stava accadendo in Italia.
Riteniamo fondamentale che si conosca questo saggio, non tanto
perché ci si stupisce di certe macchinazioni, visto che la presenza
di strutture sotterranee e l'organizzazione dei "servizi" in
funzione del potere costituito sono una costante della realtà umana
e di fatto, hanno sempre accompagnato il potere costituito.
Ci ricordava, a tal proposito, Giorgio Vitali, come «il nostro paese
sia sempre stato pieno di spioni patentati (e non solo di delatori)
così come ci insegna la storia del Risorgimento, soprattutto in quel
periodo che va dal Trattato di Vienna del 1815 alla prima guerra
d'indipendenza: 1848. Si tratta di 33 anni, durante i quali lo Stato
Pontificio e Vienna hanno cosparso l'Italia di piedipiatti. Vedi i
casi di Ciro Menotti o di Tardini e Montanari, ghigliottinata alla
brava dal papato. Ma anche Napoleone non era da meno. prima della
conquista d'Italia, aveva riempito il nostro paese di spie e di
agenti provocatori. Personaggi che poi hanno contribuito ad
alimentare il Mito di Napoleone anche dopo la sua uscita di scena.
Se nella storia c'è qualcosa di eterno, questo è il SERVIZIO
SEGRETO».
Anche Mussolini, grande rivoluzionario politico, per proteggere lo
Stato, possibilmente senza utilizzare il terrore e le forche,
utilizzò al massimo il sistema delle delazioni attraverso la
temutissima OVRA.
L'apparato spionistico e delatorio dell'OVRA aveva funzionato
benissimo, fino a quando, con la guerra, l'Italia entrò in contrasto
con l'Occidente, cioè quel mondo che, attraverso mille vie e mille
rivoli, teneva nelle mani i centri massonici e di intelligence di
quasi tutto il pianeta: ergo anche in Italia i Servizi smisero di
funzionare o comunque non funzionarono più come prima a vantaggio
dello stato fascista, il risultato furono i tanti tradimenti,
rimasti impuniti in guerra, il 25 luglio e l'8 settembre 1943
realizzati quasi senza colpo ferire.
Se questa è la realtà della storia umana, è altrettanto vero che la
conoscenza approfondita di certi avvenimenti è oggi essenziale per
vederci chiaro e orientarsi in quel mondo infido e perverso che è
l'ambiente della politica.
Non a caso gira nell'ambito degli epigoni del destrismo neofascista
e del destrismo in genere, una "barzelletta", che pur si basa su un
presupposto teoricamente valido, ovvero quella che certi personaggi,
certi esponenti cosiddetti "neofascisti", a suo tempo, agirono in un
certo modo, e forse ebbero certe "collusioni" con i Servizi, ma in
buona fede, perché magari nella loro condotta politica pensavano di
utilizzare o ritenevano necessario utilizzare anche questi mezzi in
funzione e per il successo dell'Idea (quale?).
Ora è pur vero che teoricamente e sottolineo teoricamente, chi fa
politica "agisce", si "muove", prende iniziative, contatti e quindi
non si può escludere che ci possano essere dei "contatti" e delle
collusioni in buona fede o con fini non proprio puliti, ma tutto
sommato legittimi dal punto di vista rivoluzionario, ma questa
considerazione non crediamo sia applicabile, nella stragrande
maggioranza dei casi, al periodo e ai personaggi considerati,
laddove il reiterarsi nel tempo di certi "contatti" e "collusioni",
gli episodi balordi e le implicazioni che questo modo di agire ha
poi causato denunciano, seppur ce ne fosse bisogno, la piena
malafede.
Anche per questo il saggio di Vinciguerra è importantissimo, proprio
perché con la sua analisi lucida, spietata, inconfutabile,
documentata, contribuisce a far piazza pulita di tutte le
giustificazioni di comodo.
Tutto questo i combattenti fascisti repubblicani della FNCRSI
possono dirlo con cognizione di causa e coscienza pulita e non certo
come senno del poi.
Non a caso la FNCRSI in data non sospetta, tra mille difficoltà e
praticamente sola nell'ambiente che diceva di rifarsi al fascismo,
nel suo "Bollettino FNCRSI dell'ottobre 1970", scrisse queste parole
che restano scolpite nella Storia a perenne testimonianza che i veri
fascisti nulla centrano con il neofascismo destrista in servizio
permanente effettivo quali truppe cammellate degli eserciti Nato:
«Poiché molti camerati si sono rivolti a noi per saperne qualcosa,
rispondiamo a tutti in unica soluzione. Il fantomatico schieramento,
al quale è stata imposta l'ampollosa denominazione di "Fronte", è
sorto dalle ceneri dei comitati tricolore, pateracchio
paragovernativo, sfasciatosi dopo la ridicola marcia su Bolzano di
qualche anno addietro. Si tratta, in sostanza, di un fronte di
cartapesta, che si regge (non si sa fino a quando) a suon di ottima
carta moneta. Portatore di nessuna idea, né vecchia né nuova, esso
vorrebbe riesumare uomini ed ambienti logori e squalificati, nel
tentativo di allestire un contraltare all'attuale classe dirigente.
Siffatto coacervo di interessi, di velleitarismi e di mal sopite
libidini di potere raccoglierebbe adesioni nei più disparati
ambienti: da certo social-pussismo, a certi ambienti curialeschi, al
solito comandante, ai residui circoli monarchici, al MSI ed alle sue
organizzazioni parallele, alle varie avanguardie, gli ordini nuovi,
le vere italie, certi militari a riposo, una certa loggia; sarebbe
nelle grazie di non poche cosche mafiose e della destra DC. Gli
sarebbe stato assegnato il ruolo di sobillatore e coordinare il
malcontento popolare allo scopo di predisporre la giustificazione ad
un eventuale colpo di stato a favore di quelle forze conservatrici
che ostacolarono i programmi sociali del ventennio fascista e che
crearono, al tempo della RSI la cosiddetta resistenza che oggi
pompano a copertura dei propri interessi. E le stelle -come
farebbero gli agenti della CIA e del KGB- stanno a guardare.
L'iniziativa -che non può ovviamente avere nulla a che fare con il
Fascismo- ha galvanizzato numerosi ex-fascisti da tempo abbandonati
a se stessi in quanto ormai idealmente logori e sfiduciati e pronti
quindi ad abbracciare l'ignobile professione dei lazzari. Sarà
certamente l'ultima loro lazzaronata; l'iniziativa infatti è
destinata ad abortire per intrinseca incapacità politica degli
eterogenei ispiratori e propugnatori. Ove però, per una eccezionale
quanto improbabile concomitanza di interessi interni ed esterni, il
"Fronte" riuscisse a dare qualche frutto, questo risulterebbe più
antifascista del sistema attuale. Starsene lontani quindi, oltre che
ad una imprescindibile opportunità politica, risponderebbe ad un
preciso imperativo morale».
Maurizio Barozzi
|
L’evoluzione del pensiero militare nel XX secolo è materia riservata agli
specialisti benché, ad onor del vero, quanto rivoluzionaria essa sia stata i
militari non lo hanno mai tenuto segreto. Anzi, dalla metà degli anni Cinquanta
lo hanno propagandato senza eccessivo ritegno, rivendicando a se stessi quel
ruolo di parità con i politici che la realtà della guerra Est-Ovest aveva
imposto come necessaria ed inevitabile,
Prendendo esempio e spunto dalle teorie leniniste sulla ‘pace quale
continuazione della guerra con altri mezzi’ che, a sua volta, parafrasava il più
noto concetto di Clausewitz, gli specialisti occidentali teorizzarono, a loro
volta, l’avvento nella storia dell’uomo della ‘quarta dimensione della guerra’,
che comportava il definitivo superamento del concetto di pace. In un quadro di
conflittualità permanente all’interno di ogni Stato, fra Stati e blocchi di
Stati, l’obiettivo strategico non poteva essere più rappresentato dalla
conquista di un territorio bensì da quella delle menti, dei cuori e delle
coscienze delle popolazioni.
Così, la ‘guerra non ortodossa’ prevede l’impiego massiccio e capillare dei
mezzi di comunicazione di massa non di divisioni corazzate, di slogan suggestivi
non di fucili, di sogni non di aerei da combattimento. Ma è guerra autentica,
totale e permanente, che viene condotta con metodi e tecniche militari dagli
Stati maggiori occulti, composti da militari e da civili, di un potere palese:
quelli che gli specialisti hanno definito ‘Stati maggiori allargati’.
Il comunismo sovietico aveva il suo esercito disciplinato, fanatico e obbediente
agli ordini del centro: i partiti comunisti, presenti in ogni parte del mondo.
Gli Stati uniti, di contro, non avevano a loro disposizione nulla che
somigliasse, anche alla lontana, all’armata ideologica comunista. Non potevano
certo essere considerate un esercito, affidabile e disciplinato, le eterogenee
forze politiche occidentali di estrazione cattolica, liberale, neofascista,
socialdemocratica, in perenne lotta fra loro, avide di denaro e assetate di
potere.
Vi erano, quindi, in Occidente, un vertice, una dottrina ed una strategia che
andavano provvisti di uno strumento idoneo in grado di condizionare gli amici,
controllare gli alleati, fronteggiare i nemici: nacque così l’ ‘Organizzazione’.
Un esercito segreto, invisibile, schierato a fianco di quello ufficiale,
sovranazionale, disciplinato, coordinato da un unico vertice, guardia pretoriana
fedele solo all’Impero. Un’armata clandestina, selezionata e spietata, in grado
di contrastare il movimento comunista internazionale ovunque e comunque, con il
vantaggio di non comparire negli annuari militari, di non figurare tra le forze
politiche ufficiali. Un’armata fantasma capace di combattere quella ‘guerra
camuffata da pace’ (P.Willan, I burattinai, Pironti Napoli 1993, p.37) che
l’impero americano ha istituzionalizzato e reso perenne, al pari del nostro
servaggio.
Vediamo di illuminare, in queste pagine, l’esercito segreto iniziando il nostro
percorso da alcune considerazioni doverose, fatte non per spirito polemico ma
per evitare a chi è in buona fede di persistere negli errori di interpretazione
e dimostrare che, se molto di vero è stato ormai detto ed accertato, la verità
non è stata ancora raggiunta.
Non è, per esempio, accettabile che Giuseppe De Lutiis continui ad offrire al
suo pubblico l’immagine della loggia P2 come quella del ‘governo invisibile del
Paese’ negli anni Settanta, quando un comando diverso da quello ufficiale è
esistito prima, durante e dopo. Ed è ancora oggi operante senza che le traversie
della massoneria lo abbiano frenato nell’esercizio del suo potere. Sbaglia
Gianni Cipriani quando scrive che “la classe politica che nel dopoguerra aveva
avuto le responsabilità di governo è stata sconfitta da quella che avrebbe
dovuto essere la sua vittoria, ossia il crollo dei regimi comunisti dell’Est
europeo. Nel breve volgere di una stagione –prosegue- vengono a mancare il
pericolo da Oriente, sono venute meno anche le garanzie internazionali che
avevano protetto un sistema sostanzialmente e formalmente illegale, che ha dato
origine a una forma di doppio Stato e di doppia lealtà che ha consentito la
ramificazione di centri di potere occulto” (G.Cipriani, I mandanti, Roma 1994,
p.XVI). Come si vede, Gianni Cipriani fa scaturire dalla periferia dell’impero
quello ‘Stato parallelo’ che, viceversa, è stato creato dal centro. Il
britannico Philip Willan si balocca in un suo libro asserendo che non è facile
nemmeno “determinare chi fosse responsabile delle scelte che venivano fatte
nell’ottica della strategia della tensione, anche se probabilmente –conviene,
bontà sua- il governo e i servizi segreti svolsero un ruolo di primaria
importanza (P.Willan, I burattinai cit., p.34). Patetico nel suo ottimismo è,
poi, Sandro Provvisionato che arriva a scrivere che “forse i fili si sono rotti,
i grandi burattinai del terrore, dell’inganno e delle trame si ritrovano tra le
mani solo pupazzi inanimati” (S.Provvisionato, Misteri d’Italia, Laterza Bari
1993, p.VII).
Lucido appare, invece, Gianni Barbacetto quando riconosce che il sistema di
potere, il “Network ancora funziona in Italia” (G.Barbacetto, Il grande vecchio,
Milano 1993, p.233) e conclude il suo libro usando prudentemente il
condizionale, segno di un’incertezza che onora la sua intelligenza, più che
giustificata da parte sua sull’effettivo smantellamento e sul ripudio da parte
del potere atlantico delle strutture e dei metodi utilizzati per vincere la
guerra fredda. Un dubbio fondato, quello di Barbacetto, perché gli Stati uniti
d’America non hanno creato le ‘strutture parallele’ solo –e tanto- perché
venissero utilizzate contro il comunismo, come mezzo provvisorio da impiegare
per la sola durata del conflitto, ma come strumento stabile per rafforzare e
difendere il potere da qualsiasi minaccia, anche solo potenziale ed ipotetica,
possa profilarsi contro di esso.
Il crollo dell’Unione sovietica non segna, quindi, la fine degli apparati che
hanno contrastato il comunismo ma solo quella di coloro che, come i
democristiani in Italia, sono stati sostenuti prima, tollerati poi, da un potere
che non riteneva di poter prescindere dalla loro utilizzazione strumentale e
che, oggi, li spazza via perché non avrebbe più significato, venuto meno lo
stato di necessità, mantenerli in auge e sostentarne ancora i voraci appetiti
personali e di partito. C’è un’acuta intelligenza politica alla base delle
‘tangentopoli’ che hanno scosso –certamente non a caso- numerosi paesi
anticomunisti, oltre all’Italia, dopo la sconfitta del comunismo, che ha dato
via ad una potatura dell’albero eliminando i rami marci e facendo cadere le
foglie secche in modo da rinvigorirlo e restituirgli, sul piano dell’immagine,
l’antico splendore. E così, con una strategia raffinata, dà in pasto alle plebi
impoverite ed inferocite, con un gesto munifico, i propri servi e tramuta
l'inizio di quella che poteva essere la sua fine in quella della sua più
splendida vittoria.
E mentre i partiti politici rappresentano strumenti, talora contingenti, sempre
intercambiabili, l’ ‘organizzazione’ non scompare, non cambia, eventualmente si
rafforza ed affina i suoi mezzi per essere in grado di proteggere sempre meglio
gli interessi degli Stati uniti d’America.
Vediamo, quindi, di tracciare il profilo dell’ ‘organizzazione’ seguendo un
ordine cronologico che ne sottolinei il progressivo delinearsi nel tempo, sul
piano politico, a cominciare dall’Italia.
Il primo a parlare di questa struttura, in un’intervista concessa all’Europeo il
17 ottobre 1974, fu Roberto Cavallaro, enigmatica figura di ‘sovversivo di
Stato’, che dichiarerà testualmente: “L’ ‘organizzazione’ esiste di per sé in
una struttura legittima con lo scopo di impedire turbative alle istituzioni.
Quando queste turbative si diffondono nel Paese (disordini, tensioni sindacali,
violenze e così via) l’ ’organizzazione’ si mette in moto per cercare di
ristabilire l’ordine. E’ successo questo: che se le turbative non si
verificavano esse venivano create ad arte dall’ ‘organizzazione’ attraverso
tutti gli organi di estrema destra (ma guardi che ce ne sono anche di estrema
sinistra) ora sotto processo nel quadro delle inchieste sulle cosiddette trame
nere (Rosa dei venti, Ordine nero, la Fenice, il Mar di Fumagalli, i Giustizieri
d’Italia e tanti altri)” (G.De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia,
Editori riuniti Roma 1984, p.141 in nota). Nel marzo dello stesso anno, al
giudice Tamburino, Cavallaro aveva specificato che ai vertici dell’
‘organizzazione’ c’erano “i servizi segreti italiani ed americani, ma anche
alcune potenti società multinazionali” (ivi, p.111).
Nel maggio del 1974, fu il tenente colonnello Amos Spiazzi a confermare
sostanzialmente quanto già dichiarato da Roberto Cavallaro: “E’ vero che nel
giugno del 1973 –gli chiede il giudice Tamburino- come ha dichiarato a verbale
Roberto Cavallaro, lei ricevette l’ordine di mettere in allarme i ‘gruppi
fiancheggiatori’ delle forze armate? Da chi venne l’ordine?”. “Ricevetti
–rispose Spiazzi- l’ordine dal mio superiore militare, appartenente
all’Organizzazione di sicurezza delle Forze armate, che non ha finalità eversive
ma che si propone di difendere le istituzioni contro il marxismo. Questo
organismo non si identifica con il Sid, ma in gran parte coincide con il Sid”.
“Ma come è composto questo organismo parallelo di sicurezza? E’ un organismo
militare?”. “Mi risulta –dichiara Spiazzi- che non ne facciano parte solo i
militari ma anche civili, industriali, politici…” (ivi, p.111-112). Sarà ancor
più loquace, l’ufficiale veronese, con il giudice Filippo Fiore, al quale
“precisò ancora meglio le caratteristiche di questa struttura: l’
‘organizzazione’ ha carattere di ufficialità, pur con l’elasticità per quanto
riguarda metodi e personale, di volta in volta definiti con disposizioni
orali…In sostanza l’organizzazione è composta dagli ‘alter ego’ della struttura
‘I’ ufficiale” (ivi, p.112).
Il 14 dicembre, nel corso di un’udienza per il processo sul tentato ‘golpe
Borghese’, tocca al generale Vito Miceli, già direttore del Sid, ammettere
pubblicamente l’esistenza di una struttura supersegreta. Rispondendo ad una
specifica domanda del giudice a latere, l’alto ufficiale afferma: “Lei in
sostanza vuole sapere se esiste un organismo segretissimo nell’ambito del Sid.
Io finora ho parlato delle dodici branche in cui si divide. Ognuna di esse ha
come appendici altri organismi, altre organizzazioni operative, sempre con scopi
istituzionali. C’è, ed è sempre esistita, una particolare organizzazione
segretissima, che è a conoscenza delle massime autorità dello Stato. Vista
dall’esterno, da un profano, questa organizzazione può essere interpretata in
modo non corretto, potrebbe apparire come qualcosa di estraneo alla linea
ufficiale. Si tratta –specifica Miceli- di un organismo inserito nell’ambito del
Sid. Comunque svincolato dalla catena di ufficiali appartenenti al servizio ‘I’,
che assolve compiti prettamente istituzionali, anche se si tratta di attività
ben lontana dalla ricerca informativa. Se mi chiede dettagli particolareggiati
–conclude- dico: non posso rispondere, chiedeteli alle massime autorità dello
Stato, in modo che possa esservi un chiarimento definitivo” (ivi, p.129).
Con l’esplodere dello scandalo della loggia P2, nella primavera del 1981, nuove
dichiarazioni si aggiungono alle precedenti sulla esistenza di un organismo
ufficiale che opera segretamente in tutti i campi, ma che nessuno sa o vuole
delineare in modo proprio.
Fondamentali sono, ad esempio, quelle rese dal generale Siro Rossetti, già
responsabile del Sios-Esercito, iscritto alla loggia P2. La “organizzazione va
cercata in altre sedi quanto ai suoi gangli vitali e direttivi. Il gen.Miceli,
se ha fatto qualcosa, ove non si tratti di errate valutazioni, di desiderio di
lavare i panni in casa o di minimizzare responsabilità altrui, può avere operato
soltanto se richiesto o innescato da centri di potere ben superiori; non si
tratta, quindi, di un vertice ma semmai di un anello che deve immancabilmente
portare ad altro. A mio avviso –conclude Rossetti- l’ ‘organizzazione è tale e
talmente vasta da avere capacità operative nel campo politico, militare, della
finanza, dell’alta delinquenza organizzata”.
Da un altro iscritto alla loggia di Licio Gelli venne, poi, una conferma
ulteriore della presenza e dell’attività di un organismo non identificato che
manovrava i gruppi politici di destra e di sinistra per finalità proprie che
niente avevano a che vedere con quelle degli inconsapevoli manovrati. Matteo Lex,
ufficiale medico e responsabile sanitario del carcere di Sollicciano, raccontò
ai magistrati che “un suo collega, psichiatra dell’ospedale militare di Firenze,
gli aveva riferito che la destabilizzazione in Italia non era fatta solo da
gruppi terroristici rossi e neri, ma da un’unica organizzazione che si
prefiggeva un unico scopo” (P.Willan, I burattinai cit., p.80).
Il primo ad uscire dal generico per dare contorni più nitidi all’
‘organizzazione’ specializzata nell’attuazione di strategie “eversive nei metodi
e difensive nei fini” (V.Vinciguerra, Ergastolo per la libertà, Arnaud Firenze
1989, p.181) sono stato proprio io, sia in sede giudiziaria che giornalistica, a
partire dall’estate del 1984. Le mie dichiarazioni in proposito le riportò,
sottolineandole, il presidente della Corte d’assise di Venezia, dr. Renato
Gavagnin, nella motivazione della sentenza al processo di Peteano. “Due punti al
riguardo meritano di essere sottolineati, sempre sostenuti dall’imputato, e in
istruzione e nel dibattimento e nei memoriali prodotti; il primo –scrisse il
dottor Gavagnin- che si può dire stia a monte e dia giustificazione di tutto
quanto poi è seguito, è che fin dal dopoguerra sarebbe stata costituita una
‘struttura parallela’ ai servizi di sicurezza e che dipendeva dall’Alleanza
atlantica; i vertici politici e militari italiani ne erano perfettamente a
conoscenza. Si trattava di una struttura attrezzata sul piano organizzativo ad
intervenire con azioni di sabotaggio nel caso si verificasse un’invasione
sovietica. Il personale veniva selezionato e reclutato negli ambienti dove
l’anticomunismo era più viscerale e cioè negli ambienti di estrema destra…Quindi
la strategia della tensione che ha colpito l’Italia, e mi riferisco a tutti gli
episodi che partirono dal ’69 e anche prima, è dovuta all’esistenza della
struttura occulta di cui ho detto e agli uomini che vi appartenevano e che sono
stati utilizzati anche per fini interni anche da forze nazionali ed
internazionali, e per forze internazionali intendo principalmente gli Stati
uniti d’America…” (G.Salvi /a cura di/, La strategia delle stragi, Editori
riuniti Roma 1989, p.107).
Non in sede giudiziaria, questa volta, ma in un libro tornavo nel 1989, ancora
una volta, sull’argomento ribadendo il concetto che in Italia esisteva
“un’organizzazione segreta composta da militari e civili, alla quale sono
affidati compiti politici e militari, in possesso di una rete di comunicazione
propria, di armi, di esplosivi, e di uomini addestrati ad usarli. Una
super-organizzazione, questa, che da anni, dall'immediato dopoguerra, ha creato
una struttura di comando parallela a quella ufficiale esistente, ed ha arruolato
e addestrato all’uso delle armi ed al sabotaggio migliaia di uomini in tutto il
Paese. Una super-organizzazione che, per ottemperare agli scopi per i quali è
stata creata, ha finito per inglobare nelle sue file non solo uomini singoli ma
gruppi, sia politici che malavitosi. Di quella malavita che si riconosce nei
simboli della massoneria e dell’anticomunismo come, ad esempio, la mafia. Una
super-organizzazione che, in mancanza dell’invasione militare sovietica che non
c’è stata né ci poteva essere, si è assunta per conto della Nato il compito di
evitare slittamenti a sinistra degli equilibri politici del
Paese…”(V.Vinciguerra, Ergastolo ecc.cit., p. 104).
Sul finire del 1989, quindi, vi erano gli elementi, basati su testimonianze
autorevoli e concrete, per riconoscere come attiva nel Paese da almeno un
ventennio, un’organizzazione segreta ma non clandestina, occulta ma non
illegale, istituzionale e non eversiva che agiva al di fuori di ogni controllo e
rispondeva del suo operato ad un vertice non identificato.
Nessuno però, fino a quel momento, si era curato di verificare se fosse
possibile, sulla base degli elementi già acquisiti, procedere all’individuazione
dell’organizzazione. Peggio: quando Giulio Andreotti ammise l’esistenza della
struttura mista, composta da militari e civili denominata ‘Gladio’, tutti coloro
che avevano fino a quel momento taciuto si levarono in piedi a strillare che
finalmente –loro e Andreotti- avevano smascherato la centrale
terroristico-eversiva dei servizi segreti che, in combutta coi nazi-fascisti,
aveva fatto tutte le stragi.
Non poteva mancare all’appuntamento con l’ennesimo tentativo di mistificazione
della verità il solito Casson Felice che cercava di darvi sanzione giudiziaria
con una sentenza che pretendeva, come da copione, di escludere da ogni
responsabilità nella gestione delle Stay-behind sia l’Alleanza atlantica che i
vertici politici e militari italiani, così da rendere definitivamente credibile
la tesi di una Gladio inserita nell’esclusivo ambito dei ‘servizi deviati’,
sostenuti dalla Cia. Con l’aria di chi la sa lunga, il Casson infiora la sua
sentenza del 10 ottobre 1991 contro l’ammiraglio Fulvio Martini ed il gen.Paolo
Inzerilli con ‘perle’ di questo tipo: “Ci sono stati, poi, dei tentativi di
confondere le acque dicendo che Gladio, pur non essendo Nato farebbe comunque
riferimento al Patto atlantico. E’ una distinzione che vorrebbe essere sottile
che però non si capisce” (AA.VV., Servizi segreti, Avvenimenti 28 maggio 1973
p.75). Il tutto per concludere che la struttura Stay-behind, in Italia, era
esistita in forma totalmente illegittima.
Sceso in campo Francesco Cossiga, ancora presidente della Repubblica, la
legittimità di Gladio viene infine riconosciuta: “La Procura romana- si legge in
un trafiletto di Repubblica- ha chiesto al Tribunale dei ministri
l’archiviazione della posizione dell’ex Presidente della repubblica Francesco
Cossiga per l’organizzazione clandestina degli anni Cinquanta Gladio, sciolta
nel ’92. I magistrati avrebbero ritenuto che gli originari compiti istituzionali
di Gladio erano legittimi, così come sostenne Cossiga nel dicembre del 1991
quando si autodenunciò all’autorità giudiziaria” (Cossiga, chiesta
l’archiviazione, Repubblica 9 febbraio 1994).
Smentita la verità del giudice veneziano, i corazzieri della Procura della
repubblica di Roma si preoccupano di circoscrivere, concedendo una patente di
assoluta credibilità alla versione governativa, le funzioni di Gladio a quelle
di un’organizzazione esistita per fronteggiare un’ipotesi, perché tale era
quella riguardante la minaccia militare sovietica. Il sospetto che l’ipotesi di
un’invasione sovietica potesse essere fronteggiata con la formulazione di
un’ipotesi di resistenza, senza bisogno di costituire depositi di esplosivi e di
armi su tutto il territorio nazionale, non sembra sfiorare i magistrati romani.
E, parimenti, non ne turba le coscienze il fatto che tutti gli elementi
raccolti, anche in sede giudiziaria, sulla struttura Gladio smentiscano la
verità ufficiale. Nessuno, poi, si chiede se Gladio possa identificarsi con l’
‘organizzazione’ in tutto o in parte, e se le sue strutture, una ormai
riconosciuta e ritenuta legittima, l’altra ancora immersa negli interrogativi
rimasti senza risposta non siano, in realtà, una sola.
Eppure, gli elementi per porsi almeno la domanda ci sono tutti. Che l’
‘organizzazione’ fosse a carattere sovranazionale lo avevano detto sia Roberto
Cavallaro che Amos Spiazzi. Quest’ultimo aveva dichiarato, in maniera esplicita,
che l’ ’organizzazione’ con carattere di sovranazionalità coincideva in gran
parte…con la struttura dei vertici degli Uffici ‘I’ delle varie forze armate, e
agiva in assoluta segretezza e in collegamento con le forze analoghe degli altri
Paesi della Nato” (G.De Lutiis, Storia ecc.cit., p.113). La stessa realtà
l’avevo delineata io, inquadrando le strutture parallele in ambito Nato, ed era
agevolmente riconoscibile anche dalle parole del gen.Vito Miceli che aveva
confermato le dichiarazioni di Amos Spiazzi.
Oggi, a dare l’avallo definitivo a questa realtà si aggiungono le dichiarazioni
di Francesco Cossiga e le indagini dei giudici della Procura militare di Padova.
Tempo fa, partecipando al convegno di Redipuglia indetto dai pensionati di
Gladio, l’ex Presidente della repubblica si è abbandonato ad una delle
esternazioni che lo hanno reso famoso. “Con me –ha affermato- sarebbero potute
venire molte persone: Andreotti, Spadolini, Rognoni, Taviani…Tutti coloro che
hanno partecipato al governo di Stay-behind. I gladiatori –ha precisato Cossiga-
hanno operato con tutte le altre strutture di Stay-behind in Europa. Ed anche se
la gente non ci crede, Stay-behind esisteva in Francia, Inghilterra, Germania,
Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia ed Austria. Loro hanno collaborato per tutti
questi anni”…”Le dico –ha proseguito- che c’erano due organismi, uno dei quali
era la Commissione di collegamento con i Comandi alleati, tutto coperto dal
segreto…Stay-behind era una potente organizzazione interalleata”… lo sapevano
Spadolini, Taviani ed altri ancora, in tutto ventidue persone” (M.Molinari,
Cossiga esterna: quei gladiatori che gentiluomini, Il Giorno 4 agosto 1993).
Affermazioni pesanti e gravissime, come si vede, sulle quali avremo modo di
ritornare nel prosieguo della nostra analisi, qui servendoci rimarcare, per ora,
come l’informatissimo Cossiga definisca ‘potente organizzazione interalleata’
quella che il furbo Casson aveva escluso in forma perentoria (“Gladio non era e
non è Nato”: Servizi segreti cit., p.75), che potesse essere collegata con
l’Alleanza atlantica.
I due magistrati militari di Padova, Sergio Dini e Benedetto Roberti, da parte
loro, avrebbero scoperto nel corso delle loro indagini che “la Stay-behind
italiana sarebbe stata provvista di un doppio cappello…da un lato la Nato,
grazie alla quale…si esercitava il segreto per non violare gli accordi
internazionali; dall’altro la Cia, dalla quale si attingevano i piani
informativi. Dini e Roberti avrebbero confermato anche l’esistenza di addetti a
Gladio al di fuori degli elenchi ufficiali resi di dominio pubblico,
sottolineando che per tutti questi militanti tuttora sconosciuti esiste il
sospetto che possa trattarsi di personaggi “fortemente implicati nello
stragismo”. Avrebbero inoltre affermato che all’interno di Gladio c’era un
ufficio ‘D’ preposto a sovraintendere sulle esercitazioni con gli esplosivi, e
un altro fortemente ‘impegnato’ sul fronte sociale, a sobillare gli operai e a
creare una situazione di allarme politico” (Così Gladio si addestrava col
tritolo, Il Giorno 4 agosto 1993).
Il primo punto di coincidenza fra l’ ‘organizzazione’ e la struttura Stay-behind
è così stabilito: si tratta, in entrambi i casi, di organismi a carattere
sovranazionale che rispondono del loro operato ad un vertice che non è
nazionale, ma inserito nell’ambito dell’Alleanza atlantica. Il secondo punto è
quello che vede, in tutte e due le strutture, la presenza dei servizi segreti
italiani e statunitensi. Il terzo elemento di coincidenza è che si tratta,
nell’uno e nella’ltro caso, di strutture miste nelle quali, cioè, sono presenti
sia militari che civili.
Ma questi tre elementi non sono i soli ad indicare che l’ ‘organizzazione’ di
cui parlano Cavallaro e Spiazzi, Miceli e Rossetti, Lex ed il sottoscritto, e
Gladio devono, in realtà, essere considerati nient’altro che il medesimo
strumento di disordine e di terrore di cui gli Usa e l’Alleanza atlantica si
sono serviti, e continuano a servirsi, per esercitare il loro dominio sul nostro
Paese e sull’intera Europa occidentale. Per individuarne un altro, ad esempio, è
sufficiente richiamare la testimonianza già citata del gen.Siro Rossetti su “una
organizzazione talmente vasta da avere capacità operative nel campo politico,
militare, della finanza, dell’alta delinquenza organizzata”. In parole semplici,
l’ex responsabile del Sios-Esercito afferma che l’ ‘organizzazione’ può operare
attraverso propri elementi nei settori sopra indicati per svolgere attività che
spaziano dall’acquisizione di informazioni alla messa in esecuzione di azioni di
varia natura. Il che vuol dire che questo organismo ha propri infiltrati in
tutti i settori e in tutti gli ambienti, in tutti i gruppi e in tutte le
associazioni. Vuol dire che non tutti i neofascisti o i ‘combattenti per il
comunismo’ sono tali, che non lo sono tutti i mafiosi, che ci sono finanzieri,
bancari, ufficiali delle Forze armate, funzionari di polizia, politici di tutti
i partiti e giornalisti di ogni testata che lavorano per l’ ‘organizzazione’. Un
dato significativo è quello fornito dall’alto ufficiale quando riferisce che la
struttura di cui parla è provvista di un elevatissimo numero di uomini, capace
di garantire l’assolvimento dei loro compiti nei campi indicati.
Il collegamento diretto, preciso ed inequivocabile, fra l’ ‘organizzazione’ di
cui parla Rossetti (e gli altri prima ed insieme a lui) e Gladio ci viene
fornito da un articolo scritto dal giornalista Ugo Bonasi, iscritto alla loggia
P2 (G.Rossi-G.Lombrassa, In nome della loggia, ed.Napoleone Roma 1981, p.158),
apparso su Il resto del Carlino il 1 novembre 1990, con un titolo esplicito e
pertinente: ‘Le regole dell’esercito segreto’. Ugo Bonasi la struttura
Stay-behind italiana la descrive così: “Un esercito anticomunista. ‘Soldati’ ma
anche uomini di potere, dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi oltre centomila
cittadini sono stati cooptati nella struttura parallela della Nato, la Gladio”
(ibidem).
Il fine di Gladio: “…Particolare unificante dell’esercito parallelo che la Nato
ha allestito in Italia era ed è una netta avversione alla perdita della libertà
nel proprio Paese da parte delle forze del Patto di Varsavia” (ibidem).
Come e da chi venivano reclutati gli uomini di Gladio? “Dal ’56 al ’90 il
reclutamento di soldati da inserire nella struttura Gladio –scrive Bonasi- è
stato affidato agli ufficiali ‘I’. Si tratta –spiega- di ufficiali dipendenti
dal Sios (il servizio di informazione e di sicurezza delle singole Armi),
inseriti in ogni compagnia delle nostre Forze armate…Sono questi ufficiali che
hanno indicato nel corso di tre decenni decine di migliaia di persone che
rispondevano alle caratteristiche richieste. Nei momenti di maggiore attivismo
sono state reclutate per Gladio fino a cinquemila persone l’anno” (ibidem).
Che facevano i ‘gladiatori’? “La stragrande maggioranza di queste decine di
migliaia di persone non ha mai saputo di essere entrata a far parte della
Gladio. Non conosceva la struttura ma era perfettamente al corrente che, in caso
di necessità (aggressione interna od esterna), doveva collegarsi –con il sistema
delle cellule- agli altri uomini dello stesso gruppo, e radunarsi in una
località precisa a conoscenza del solo capogruppo. Da lì –conclude Bonasi-
avrebbe dovuto iniziare ad operare contro il nemico (ibidem).
Dove venivano addestrati i soldati dell’esercito segreto? “La maggior parte di
questi corsi vengono tenuti nelle basi segrete della Difesa e della Nato in
Sardegna, in Veneto, sull’appennino tosco-emiliano” (ibidem).
Come vivevano in mezzo agli ignari cittadini questi soldati? “Abbandonato il
servizio militare, per età o per servizio di leva, gli uomini inseriti nella
Gladio mantenevano un cordone ombelicale con la struttura attraverso il
responsabile del gruppo, della cellula. Alcuni di loro svolgevano anche compiti
di intelligence, di penetrazione di ambienti ritenuti a rischio: sindacati,
partiti politici, organizzazioni culturali” (ibidem).
In Gladio, conferma Bonasi, viveva anche l’alta finanza: “Gli uomini del potere
economico, grandi imprenditori erano nella Gladio, non con compiti operativi ma
con un ruolo di sostegno prevalentemente finanziario” (ibidem).
Non è un articolo, questo di Ugo Bonasi, è una relazione precisa, dettagliata,
certamente la più completa mai scritta fino ad oggi sulla realtà dell’esercito
parallelo. Ed pè anche la conferma ulteriore che l' ‘organizzazione’ di cui
parla Rossetti deve identificarsi in Gladio. Coincidono in modo impressionante
l’indicazione sulla vastità dell’organismo, il ruolo di ricerca di informazioni
e l’opera di infiltrazione dei suoi soldati. La presenza di esponenti del mondo
economico, finanziario ed industriale a cui, peraltro, aveva fatto esplicito
riferimento Amos Spiazzi.
E per restare su quest’ultimo punto, passiamo alla lettura di un documento che
“era stato sequestrato nel giugno del 1982 nello studio del notaio Lollo a Roma.
Notaio che custodiva la documentazione della società Milnar di Flavio Carboni e
di Domenico Balducci, quel Balducci capo della banda della Magliana ed ucciso a
Roma nell’aprile dell’81. “Un documento –scrive la Repubblica- che solo nel 1986
era stato spedito alla Corte e al quale soltanto l’ostinata caparbietà del P.M.
Elisabetta Cesqui ha attribuito l’evidente importanza” (D.Mastrogiacomo, Così la
P2 mi cacciò dall’Ambrosiano, Repubblica 8 dicembre 1993). Cosa dice di
significativo questo documento, per quanto noi vogliamo dimostrare in queste
pagine, al di là delle vicende dell’ingegner Carlo De Benedetti che qui non
interessano?
“L’ ‘organizzazione’ che ha operato efficacemente per escludere De Benedetti dal
Banco ambrosiano, avuta la notizia che il finanziere Bagnasco tendeva
immediatamente a subentrare nella posizione di quello, ha reagito con la più
viva sorpresa ed irritazione…L’onorevole Andreotti sarebbe egli a voler imporre
all’istituto l’ingresso di Bagnasco il quale si gioverebbe anche dell’appoggio
di autorità vaticane, quali il cardinale Casaroli e il vescovo Marcinkus…Si ha
sentore – prosegue il documento- che l’ingresso del Bagnasco…incontrerebbe il
favore dell’attuale ministro del Tesoro (Andreatta)…L’ ‘organizzazione’,
tuttavia, si dichiara per doveroso riguardo verso l’on. Andreotti, pienamente
disponibile” (ibidem).
Al di là, ripetiamo, dell’ennesima storia sudicia che qui non ci riguarda,
rileviamo come in un documento scritto compaia il termine di ‘organizzazione’
senza aggettivi, così come è stato utilizzato dal gen.Siro Rossetti; che si
tratta di una vicenda dove politica e finanza sono strettamente legate; che,
infine, il documento era nella disponibilità di esponenti dell’ ‘alta
delinquenza organizzata’ (Balducci e Carboni).
Daniele Mastrogiacomo, estensore dell’articolo citato, rivela che proprio Gelli
chiamava la sua loggia ‘organizzazione’ nella famosa intervista a Maurizio
Costanzo sul Corriere della sera (ibidem), con l’evidente fine di procedere a
un’identificazione che, in forma così totale, è certamente arbitrario e
depistante fare. Come non richiamare alla memoria, invece, la figura di quel
Michele Sindona che si attesta ad un incrocio nel quale convergono servizi
segreti, alta finanza, mafia e politica?
Fu proprio Roberto Cavallaro a parlare di un incontro avvenuto in una villa del
vicentino tra Sindona ed alcuni ufficiali americani, in vista della preparazione
di un progetto golpistico: “Durante l’incontro, scrisse Cavallaro- si parla
delle modalità di attuazione del piano. Il gen.Johnson, presente non a titolo
personale, ma per incarico degli organismi di sicurezza americani allo scopo di
constatare le reali possibilità di realizzazione del progetto, afferma la
disponibilità delle nazioni dell’Alleanza atlantica, in particolare degli Stati
uniti e, a quanto si riferisce, della Francia, ad intervenire con truppe già
dislocate ancorché mascherate in caso di sollevazione delle sinistre…” (L.
Grimaldi, Da Gladio a cosa nostra, Kappa Vu Udine 1993, p.32).
E’ stata dimenticata l’opera di schedatura del personale operata dalla Fiat
negli anni Cinquanta e Sessanta, con la collaborazione “del Sid, della polizia e
di altri corpi militari dello Stato” (Storia ecc.cit., p.149). Così come non si
vuole ricordare il rapporto organico che è esistito tra la famiglia Agnelli e
personaggi come Edgardo Sogno, Luigi Cavallo e Renzo Rocca, il ‘suicidato’
ufficiale del Sifar che diresse l’ufficio Rei del servizio.
E che dire di Eugenio Cefis che iniziò la sua sfolgorante carriera nei servizi
informativi della Resistenza, poi assorbiti dal Sim? E di Enrico Cuccia, che già
nel 1942 era in contatto per conto della Banca commerciale con gli Alleati?
D’altronde, l’ ‘organizzazione’, non esistendo ufficialmente, non può avere nei
bilanci militari nazionali ed in quelli Nato una ‘voce’ che chiarisca come venga
finanziata, ma non è fuor di luogo ipotizzare che essa non possa prescindere
dall’utilizzo di risorse clandestine ed illegali, oltre a quelle elargite
occultamente dagli Stati membri dell’Alleanza atlantica. Certo, non è un caso
che Licio Gelli sia diventato miliardario combattendo contro il comunismo, a
riprova che nell’alta finanza gli uomini dell’ ‘organizzazione’ si trovano come
pesci nell’acqua.
E denaro ed informazioni si trovano anche nel campo dell’alta delinquenza
organizzata dove, in più, si trovano anche uomini disposti a compiere azioni
sporche ed è possibile, per suo tramite, controllare il territorio sia
militarmente (in certe regioni, almeno) che politicamente. Cos’è stata la mafia
lo ha ufficialmente descritto, nel 1955, Giuseppe Guido Lo Schiavo, alto
magistrato della Corte di cassazione: “Si è detto –scriveva costui- che la mafia
disprezza polizia e magistratura: è un’inesattezza. La mafia ha sempre
rispettato la magistratura, alla giustizia si è inchinata e non ha ostacolato
l’opera del giudice, nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge ha
addirittura affiancato le forze dell’ordine“ (S. Turone, Partiti e mafia dalla
P2 alla droga, Laterza Bari 1985, p.22). Un riconoscimento autorevole per
l’attività di pubblica sicurezza svolta alla luce del sole dal potere criminale
per eccellenza.
“In quel tempo combattemmo i fascisti, eravamo partigiani. Organizzammo così
bene la resistenza che quando sbarcarono gli alleati non c’erano più né fascisti
né tedeschi in tutta la Sicilia occidentale” (E’ ripreso a Palermo il
maxiprocesso alle cosche. Di scena ieri la ‘verità’ di don Tano Badalamenti,
Corriere della sera 6 gennaio 1987). Tacciono, però, i Badalamenti e compari sui
rapporti organici che hanno avuto coi servizi segreti italiani.
Se il povero di spirito Paolo Guzzanti annuncia trionfante, nell’anno 1992,
sulla Stampa, che la mafia collaborò con i servizi segreti della Marina degli
Stati uniti fin dalla loro entrata nel conflitto mondiale, provvedendo a
liquidare la “rete degli informatori tedeschi (per lo più italiani di opinione
fascista)…” (Le donne che hanno beffato gli intoccabili, La Stampa 2 settembre
1992) che agivano nei porti americani, le confidenze fatte da Frank Coppola ai
suoi ‘camerati’ di Avanguardia nazionale lo lascerebbero sbalordito. Difatti, il
vecchio boss mafioso si vantava di aver diretto, negli anni Trenta, per ordine
personale di Franklin Delano Roosevelt, un nucleo di uomini addetti alla
sicurezza del Presidente del Messico, con due semplici direttive, una ufficiale
l’altra riservata: proteggere la sua incolumità, la prima, sopprimerlo, se non
avesse seguito le direttive della Casa bianca, la seconda.
Non c’è ragione di dubitare della veridicità del racconto, perché
l’utilizzazione di mafiosi per incarichi, diciamo così, di natura
‘politico-diplomatica’ da parte dei governi degli Stati uniti è stata prassi
seguita da tutti gli inquilini della Casa bianca, compreso il mitico John
Kennedy.
Se questo è accaduto negli Stati uniti, è altrettanto vero che un’azione di
recupero della mafia fu effettuata dai servizi segreti italiani, come documenta
Sandro Attanasio, nei primi anni Quaranta. Accadde, difatti, che “con i decreti
legge del 1941 e 1942 furono sospese le disposizioni di P.S. del 1925 (le famose
ordinanze Mori) la prima delle quali porta la data del 5 gennaio 1925 (le
ordinanze furono poi inserite nel decreto legge del 1926, legge 2 giugno 1927).
Fu così che venne permesso il rientro in Sicilia dei mafiosi che si trovavano
nei luoghi di confino di polizia. Ufficialmente l’operazione venne giustificata
con ‘motivi umanitari’, strani motivi se si pensa che i mafiosi erano stati
allontanati dall’isola in tempo di pace. Farveli ritornare in tempo di guerra,
quando l’isola era già zona di operazioni, poteva servire a migliorare le cose?
La verità –scrive Sandro Attanasio- è che l’iniziativa partì dal superSim che
fece pressioni sul ministero degli Interni per poter utilizzare questi uomini.
Sull’argomento –afferma lo storico siciliano- molte cose potrebbero dire l’ex
capo della polizia, Angelo Vicari, che è stato uno dei protagonisti dei servizi
di sicurezza italiani per 35 anni” (S.Attanasio, Gli anni della rabbia, Mursia
Milano 1984, p.23).
Torna, quindi, l’ombra della superstruttura del Sim e, con essa, appaiono i nomi
di Angelo Vicari (che fu capo della polizia dal 1960 al 1973) e lo spettro del
patto stretto dai mafiosi e dai servizi segreti italiani nel corso della guerra
con l’intento di favorire la vittoria delle potenze anglosassoni. Ritorna alla
memoria anche il famigerato art.16 del Trattato di pace, non ancora abrogato che
conteneva, scrive Attanasio, “fra le tante clausole destinate a rimanere
segrete…un preciso elenco di persone definite ‘in tutti i casi intoccabili’. Si
tratta di 9600 nomi di ‘intoccabili’, forse anche con licenza di uccidere, fra
questi più di mille nomi erano di mafiosi” (ivi, p.24).
Ad una superstruttura nazionale che, concluso il suo compito, viene esautorata
ne subentra un’altra, sovranazionale stavolta, che si assume precisi compiti
politici potendo contare su una massa già collaudata e provata in Italia di
uomini che per patria hanno il loro personale tornaconto. A chi poteva essere
affidato il compito di arruolare in forma permanente, sotto i propri simboli,
nella battaglia contro il comunismo, un’organizzazione che criminale era e
restava nonostante il mantenimento, in concorso con polizia e carabinieri,
dell’ordine pubblico e la gratitudine della magistratura? Chi poteva, al riparo
di un segreto impenetrabile, utilizzare l’organizzazione mafiosa in difesa della
‘civiltà cristiana’, dei buoni costumi, dell’integrità della famiglia contro il
sovversivismo ateo e dissacratore, privo di ogni principio morale, se non il
governo di Stay-behind?
E’ noto come la Sicilia abbia rappresentato, nei piani militari elaborati fin
dal primo dopoguerra, il territorio sul quale, in caso di invasione militare
sovietica e concomitante insurrezione comunista, doveva rifugiarsi il governo
italiano legittimo e dal quale doveva partire la controffensiva destinata a
liberare il Paese. Con i suoi precedenti storici che garantivano la sua totale
ed incondizionata affidabilità, la mafia non poteva che essere inglobata nei
piani di difesa dalla ‘sovversione rossa’ elaborati dalla Nato, ed il suo
arruolamento nelle Stay-behind o, per meglio dire, nell’ ‘organizzazione’ fu
automatico.
La conferma che, nell’ambito delle cosche, l’esistenza di strutture segretissime
dell’Alleanza atlantica era nota viene (solo per citare un esempio fra gli
ultimi) dal fatto che è proprio un mafioso a rivelare che a Trapani opera una
cellula di Gladio. “Il sostituto procuratore Franco Messina –si legge in un
articolo del Corriere della sera- ha deciso di interrogare l’ammiraglio Fulvio
Martini, capo del Sismi all’epoca in cui a Trapani avrebbe operato una cellula
di Gladio. Il magistrato cercherà la conferma di quanto sostenne all’Fbi il boss
italo-americano John Cuffaro, secondo il quale lungo la costa operava
l’organizzazione Scorpione coordinata da Vincenzo Li Causi” (Trapani, inchiesta
su Gladio, Corriere della sera 6 luglio 1992). Informazione rivelatasi esatta.
Un mafioso, quindi, sapeva. E quanti altri dello stesso ambiente sanno per
avervi fatto parte o per avervi collaborato, anche se ancora non lo rivelano?
Uno di coloro che sanno molto più di quel che dicono è, senza dubbio Tommaso
Buscetta. “Totò Greco, ‘Ciaschiteddu’, viaggiava con quattro passaporti
intestati a nomi diversi, rilasciati dalla Questura di Palermo a suo nome, un
secondo intestato a nome di Aldo Calini, un terzo a Salvatore Guggianti, un
quarto a Giovanni Gallucci. Di analoghi vantaggi godevano Calogero di Pisa,
Cesare Manzella, Vincenzo Accardi, Salvatore Greco (il lungo), Tommaso Buscetta,
Gioacchino Pennino, Gaspare Potente, Gaspare Maggadino e numerosi altri. Rosario
Mancino –ricorda Michele Pantaleone- era stato condannato a tre anni e dieci
mesi di reclusione per falso, furto, ricettazione e di nuovo furto. Tuttavia
risultava incensurato e munito di passaporto per gli Stati uniti, per il Canada
e per il Messico. La polizia americana e il Narcotic bureau presso l’ambasciata
Usa di Roma lo segnalò alla polizia italiana perché sorpreso a New York con un
notevole quantitativo di droga. Rimpatriato, consegnato alla polizia di Roma,
riottenne il passaporto e il porto d’armi ‘per ragioni di lavoro’ dato che
sovente viaggia con forti somme di denaro. Margaret Capizzi, cugina di Angelo
Bruno, capo della ‘famiglia’ della mafia di Philadelphia, una delle persone più
attive nel traffico degli stupefacenti per conto del Bruno, nei suoi frequenti
viaggi alloggiava a Palermo, nella casa di un colonnello della Finanza” (M.Pantaleone,
Mafia e antimafia, Pironti Napoli 1992, p.126).
Nessuna sottovalutazione del fenomeno mafioso, come si vede, ma un rapporto che
rivela un legame istituzionale con gli apparati dello Stato di mafiosi che non
erano solo tali, non badavano solo ai loro affari criminali ma si occupavano
d’altro come, ad esempio, di salvare ‘l’Italia degli onesti dal comunismo’.
Racconta il mafioso catanese Antonio Calderone, oggi ‘pentito’, che “mentre
Liggio si nascondeva a Catania ricevette la visita di due capi di Cosa nostra di
Palermo, Salvatore Greco ‘Cichitedduì’ e Tommaso Buscetta che dovevano discutere
con lui di una questione di notevole importanza: la partecipazione della mafia
ad un colpo di Stato, al cosiddetto ‘golpe Borghese’ del 1970” (P. Arlacchi, Gli
uomini del disonore, Mondadori Milano 1992, p.95).
‘Don Masino’ (come lo chiama certa stampa) si rivela persona non informata su
questo avvenimento da sempre sottovalutato e, non a caso, cancellato dalla
magistratura romana, prima, e definitivamente sepolto dalla Corte di cassazione,
dopo. “Buscetta –scrive Bruno Ruggero sul Giorno- ha ricostruito il suo viaggio,
dagli Stati uniti all’Italia, con tappa in Svizzera, per sentire in cosa
consisteva l’offerta fatta a Cosa nostra dal principe Junio Valerio Borghese,
perché la mafia partecipasse al tentativo golpista previsto per la fine del
1970. ‘Chi sapeva tutto dei miei movimenti era il col.Russo, perché era parte
del colpo’, ha detto don Masino ai parlamentari. Russo, secondo i piani
territoriali predisposti per la fatidica ora X, ‘era incariocato di arrestare il
prefetto di Palermo” (B.Ruggero, Un intreccio golpe-massoneria, Il Giorno 18
novembre 1992).
Parla, oggi, sia pure con circospezione Tommaso Buscetta raccontando che, ad
esempio, Cosa nostra nel 1970 fece esplodere molte bombe a Palermo per preparare
un clima idoneo a quel tentativop eversivo. ‘Dovevamo scassare la credibilità
del governo italiano’ dirà Buscetta (Mafia e politica. Relazione Commissione
antimafia, Repubblica s.d.). Ma non fu, quella, un’azione contingente,
circoscritta nel tempo e nello spazio alla sola Palermo e al solo golpe
Borghese, bensì un’attività di sabotaggio protrattasi per anni sull’intero
territorio nazionale per provare che esisteva un regime debole dinanzi al
comunismo ed alla violenza eversiva: unico modo per giustificare l’avvento di
uno Stato autoritario. A Palermo le bombe le metteva la mafia in ossequio al
principio della competenza territoriale, sul resto della penisola provvedevano
gruppi di destra e gli uomini degli apparati di sicurezza dello Stato in
ossequio ad un unico disegno strategico diretto da un’unica organizzazione.
Tommaso Buscetta non è stato uno dei tanti picciotti usati una sola volta e poi
abbandonati dallo Stato al loro destino criminale. No, Tommaso Buscetta è stato
un mafioso eternamente mobilitato per ‘salvare l’Italia dai comunisti’. Nel 1974
doveva esserci un altro golpe ma lui, don Masino, si trovava in galera, sia pure
confortato dalla deferenza dei secondini, da dove sarebbe stato fatto scappare
in concomitanza con l’evento, come egli stesso racconta: “Ho ricevuto dal mio
direttore di carcere, dott. De Cesare, la notizia che dopo pochi giorni sarebbe
successo un colpo di Stato, e che io sarei passato, attraverso un brigadiere
della matricola, per un cunicolo, sarei entrato in casa sua e sarei stato
liberato”. Quattro anni più tardi, il 16 marzo del 1978, sequestrarono Aldo Moro
e Tommaso Buscetta che, essendo fallito il golpe del 1974 invece che al
ministero degli Interni dell’Italia ‘risanata’ si trovava ancora in galera,
viene subito contattato da un uomo legato a Frank Coppola e , a quanto pare, ai
servizi segreti italiani (D.Mastrogiacomo, Buscetta parla con i giudici. ‘Così
intervenni per Moro’, Repubblica 7 dicembre 1993).
Un mafioso, Buscetta, a cui la Questura fornisce una gran quantità di
passaporti, che concorre a ‘destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare
quello politico, che partecipa ai golpe degli anni Settanta, che viene attivato
per far liberare Aldo Moro, che ha tutte le caratteristiche del ‘picciotto di
Stato’, sia ufficiale che parallelo. E, infatti, di quest’ultimo conosce
l’esistenza. Per definirlo, Buscetta userà per primo un termine nuovo, di
pregnante significato, per riferirsi a qualcosa di indefinibile se non di
indefinito. Parlerà, difatti, di un’entità che avrebbe chiesto nel 1979 a Cosa
nostra di uccidere il gen.Carlo Alberto Dalla Chiesa (Mafia e politica cit.).
Non possiamo, a questo punto, non affrontare uno dei nodi cruciali della
questione riguardante le strutture parallele o le Stay-behind o l’
‘organizzazione’ o come ancora meglio si voglia definire lo strumento operativo
dello Stato parallelo: la sua identificazione con la loggia Propaganda 2,
diretta da Licio Gelli. Non è nostra intenzione confutare la tesi che la loggia
P2 abbia svolto un ruolo fondamentale nell’ ‘organizzazione’, fosse solo perché
siamo stati i primi e i soli ad affermarlo, ma non possiamo che respingere, come
strumentale e fuorviante, quella della sua identificazione, sic et simpliciter,
con il centro di comando delle strutture parallele. Pretendere di poter datare
la nascita e il tramonto dell’ ‘organizzazione’ con l’ascesa e la caduta di
Licio Gelli è voler negare quella verità che, a parole, si dice di voler trovare
ad ogni costo.
Abbiamo indicato in un precedente documento nell’ ‘Armata italiana della
libertà’ e nei suoi quadri dirigenti una sorta di gerarchie parallele che
ritroviamo poi, pari pari, per caratteristiche e qualità, nella loggia P2 di
Licio Gelli. Il fatto che siano esistite due organizzazioni, ormai storicamente
definite, di carattere militar-massonico, collegate fra loro dalla medesima
esigenza di dare una risposta extra-istituzionale al pericolo rappresentato
dall’avanzata del Pci in due momenti cruciali della nostra storia contemporanea,
non deve far pensare che entrambe siano state in realtà avulse da quel contesto
nazionale e sovranazionale all’interno del quale troviamo gli strateghi della
guerra politica anticomunista. Nessuno, cioè, deve indursi a confonderle con il
vertice nazionale, il centro propulsore unico di tutta la battaglia ideologica
in tutti i suoi risvolti concreti in campo politico, economico, criminale e
militare, condotta nel nostro Paese dal 1945 in avanti.
Molto più semplicemente, nella storia dell’Armata italiana della libertà, prima,
e in quella della loggia P2, dopo, è ravvisabile quella copertura che la
massoneria ha offerto agli organismio creati dallo ‘Stato parallelo’ per il
raggiungimento dei fini che, evidentemente, si riteneva più agevole conseguire
sotto le insegne dell’ordine massonico che non in altro modo. Non può stupire la
disponibilità della massoneria italiana verso un potere americano che rivendica,
fin dalle sue origini, l’adesione ai principi universali della fratellanza
massonica. E per quanto riguarda l’impegno anticomunista, è sufficiente
ricordare quanto venne proclamato a conclusione della conferenza dei grandi
maestri americani: “La massoneria aborre il comunismo come ripugnante della sua
concezione della personalità individuale. Distruttivo nei diritti fondamentali
che sono la Divina Eredità di tutti gli uomini e nemico della dottrina massonica
fondamentale nella fede in Dio” (Rossi-Lombrassa, In nome della loggia cit.,
p.21).
E’ la prova dell’adesione incondizionata della massoneria alla lotta contro
l’Unione sovietica. Ma da questa constatazione non si può certo passare
all’invenzione di un complotto esclusivamente massonico, che porta i suoi
sostenitori a concludere che la massoneria deve essere assimilata all’
‘organizzazione’ di cui si parla, invece che considerarla come strumento,
potente e spregiudicato, di quello Stato parallelo sovranazionale che tutto
controlla ma da nessuno è controllato.
Come può essere considerata, dunque, quella che è stata la loggia P2 di Licio
Gelli? Una loggia regolare, come sostiene con qualche forzatura il
prof.Alessandro Mola, direttore del Centro studi per la storia della massoneria
presso il Grande oriente d’Italia (La P2 era regolare e non segreta, La Stampa
23 settembre 1992). Una loggia riservata, che annovera fra i suoi iscritti
persone perfettamente consapevoli di far parte di un potente centro politico ed
economico, ma non tutte in grado di comprendere, e tantomeno di sapere chi fosse
Licio Gelli e quali fossero i reali intendimenti che stavano alla base delle sue
attività e dei suoi collegamenti. Non tutti, a nostro avviso, gli iscritti alla
loggia P2 erano integrati in quel ‘raggruppamento Gelli-P2’ come nel 1971,
secondo Massimo Teodori, Licio Gelli ribattezzò la sua loggia (M.Teodori, P2: la
controstoria, Sugarco Milano 1986, p.19), e che doveva sottolineare un dualismo
che rifletteva la realtà di una strumentalizzazione dell’organizzazione
massonica da parte di una forza ad essa estranea.
E che, all’interno del Grande oriente d’Italia, in molti si accorsero, o vennero
a conoscenza, dell’uso che lo Stato parallelo stava facendo della loggia P2 lo
dimostra il fatto che tutto il periodo in cui Gelli ricoprì l’incarico di Grande
maestro è stato punteggiato da scontri e contestazioni durissimi e vivacissimi,
nei suoi confronti ed in quelli del Grande oriente d’Italia che lo sosteneva.
Spazzando via il ciarpame giudiziario profuso a piene mani da Casson e dai suoi
colleghi sulla natura ‘eversiva’ della loggia P2, il suo ruolo è stato definito
con inequivocabile chiarezza da parte di personaggi che oggi sanno di poter
parlare senza che nessuno –specie se magistrato- si permetta di pretendere da
loro maggiori ragguagli, se non proprio tutta la verità che conoscono. Armando
Corona, ex Gran maestro della massoneria ad esempio, ha dichiarato che “gli Usa
hanno patrocinato la nascita di Gladio, e qualcosa di simile è avvenuto per la
P2” (P2, Cia, Gelli e i finanziamenti americani, La Stampa 14 luglio 1992),
volendo così stabilire un parallelo che non può essere considerato casuale o
semplicemente malizioso. “Solo così –ha difatti proseguito Corona- mi spiego
come Licio Gelli. Che fino al giorno prima era stato un rappresentante di
commercio della Permaflex, improvvisamente incominciò a ricevere i capi di Stato
maggiore dell’Esercito, il segretario della camera dei deputati, giornalisti e
direttori di grandi testate, presidenti di banche, finanzieri, insomma tutto il
mondo che allora contava. Penso –ha aggiunto l’esponente massonico- che gli
Stati uniti abbiano favorito l’ingresso di questi personaggi influenti in una
struttura che potesse garantire con più sicurezza gli interessi occidentali ed
americani…”(P2 voluta dagli americani, Corriere della sera 14 luglio 1992).
Tina Anselmi, che presiedette la Commissione parlamentare di inchiesta sulle
attività della loggia P2, riuscendo nell’intento di demonizzare Licio Gelli
senza intaccare alcun segreto dell’apparato nel quale costui è inserito, si è
sentita autorizzata, dopo le dichiarazioni di Corona, ad affermare a sua volta:
“Tutti i fatti giunti a conoscenza della Commissione d’inchiesta ci hanno
portato alla convinzione che la P2 è stata creata con precise finalità
politiche, ed ora, per la prima volta in undici anni, la conferma viene dalla
stessa massoneria che riconosce il rapporto fra P2 ed ambienti americani e che
indica con chiarezza come la loggia sia stata scelta come organizzazione di
copertura per un’azione di controllo della politica…L’onorevole Anselmi –scrive
il giornalista che ha raccolto le dichiarazioni- ha affermato che solo la
presenza di una strategia politica, di cui Gelli era solo un direttore
esecutivo, ma non certo l’ideatore, può spiegare il coinvolgimento di alti
vertici dello Stato nella loggia massonica” (S.Andrini, Tina Anselmi appoggia
Corona: è vero che gli Usa si servirono della P2, L’Avvenire 18 luglio 1992).
E lo stesso concetto lo ribadisce un mese più tardi, nell’agosto del 1992, il
settimanale Il sabato, che scrive che la P2 “altro non era che una loggia di
garanzia degli interessi americani in Italia, che ha operato anche dopo l’89,
data del suo scioglimento…”(A.M.Caprettini, Il sabato denuncia. ‘Tendenze
piduiste nella Chiesa’, Il giorno 19 agosto 1992). Insomma, a undici anni dalla
scoperta delle liste degli appartenenti alla loggia P2, massoni e politici
cominciano ad ammettere quello che avevano sempre negato: che la loggia di Licio
Gelli era espressione diretta del potere e non ad esso estranea o, addirittura,
ostile.
Ed una conferma, ulteriore e significativa, della considerazione che Licio Gelli
gode da parte del ministero degli Interni, viene data, sempre in quell’estate
del 1992, dal fatto che costui, ufficialmente definito e sospettato come
delinquente, mafioso, terrorista nero, eversore, riciclatore di denaro sporco
etc.etc., cammini protetto da una scorta degna di un’altissima personalità dello
Stato. Un segno di potenza, come ebbe modo di rilevare Repubblica che, il 5
agosto, sottolineò il permanere di “un potere nel quale Licio Gelli, l’ex Gran
maestro della loggia massonica P2, sembra oggi crogiolarsi, circondato da
carabinieri in borghese della sua scorta personale che non lo perdono di vista
un istante”; chi ha autorizzato –chiedeva giustamente il corrispondente del
quotidiano milanese- il servizio di controllo della sua persona che prevede
l’impiego in una giornata di dodici militari?…(A.Custodero, Gelli in vacanza con
superscorta, Repubblica 5 agosto 1992).
Naturalmente, ci fu chi fece il finto tonto. Uno di questi dichiarò che gli ha
“fatto effetto apprendere dalla stampa italiana che lo Stato abbia disposto una
scorta di dodici agenti per il capo della P2, anche perché –non avendo parlato e
non avendo rivelato nulla di quanto sapeva- non capisco bene da chi o da che
cosa bisogna proteggerlo…” (A.M.Caprettini, Il piano di Gelli si sta attuando,
Il Giorno 11 agosto 1992). Un altro (dei finti tonti) è il responsabile
principale di questo trattamento di favore, il ministro degli Interni Nicola
Mancino che, quando ormai il fatto è divenuto di dominio pubblico, si affretta a
dichiararsi ignaro ed estraneo: “Mancino –scrive La Stampa- parla anche della
scorta che custodisce Gelli (‘rimango convinto che a Gelli non spetti tutta
quella scorta’), mi è stato fatto notare –dice- invece che la scorta è
necessaria perché qualcuno poteva avere interesse a far scomparire Gelli o
addirittura ad eliminarlo…”(Mancino: ‘Non ho violato nessun segreto’, La Stampa
22 agosto 1992).
Qualche giorno dopo, Licio Gelli conferma le giustificazioni ufficiali dei suoi
colleghi del ministero degli Interni, facendo sapere alla stampa che teme di
essere ‘rapito o ucciso’, visto che è ritenuto il depositario di tanti segreti
d’Italia (Mi vogliono rapire o uccidere, giura Gelli, Il Giorno 22 agosto 1992).
Ma, giusto qualche giorno prima di questa farsesca dichiarazione, si era preso
il gusto di fare rivelazioni eclatanti: “…Dopo aver dichiarato di essere stato
un banchiere senza licenza che ha fatto fruttare per sé e per terzi (anche
governi esteri) circa diciassettemila miliardi di lire, Gelli racconta che la
Finanza il 19 marzo dell’81, a Castiglion Fibocchi, “non si era accorta che al
piano di sotto c’era tutta la documentazione della P2, cioè l’elenco completo di
tutti gli aderenti e corrispondenza, domande, giuramenti…58 pacchi di documenti
che poi avrebbero portato all’estero e distrutto” (L.Liv., ‘Indaghi presto e
bene’, L’Avvenire 18 agosto 1992). Ed aveva concluso dicendo che “le copie
dovevano trovarsi presso il Grande oriente e, visto che sono scomparse da lì,
bisognerebbe chiedere cosa ne è stato fatto” (M.T.M., ‘Rapporti con Cosa nostra?
Non ne avevo bisogno’, Il Giorno 17 agosto 1992).
Un suggerimento malizioso che nessuno ha raccolto. Dinanzi a notizie così
clamorose, suscettibili di provocare un terremoto politico e giudiziario,
difatti, l’unico commento venne dal democristiano Nicola Mancino che si affrettò
a rendere partecipe la stampa delle sue presunte preoccupazioni: “Quando Gelli
rivela che intere casse di documenti che facevano riferimento a personaggi della
P2 non sono state sequestrate, penso alle solidarietà mai espresse e che
prendono corpo oggi…” (M.A., Mancino insiste: ‘Scopriamo tutte le carte di
Gelli’, Il Giorno 17 agosto 1992).
Francamente troppo poco appare un commento verbale da parte di chi ricopriva
l’incarico di ministro degli Interni. Tanto più che la perquisizione nella
residenza di Licio Gelli, a villa Wanda, il 17 marzo 1981, ordinata dai
magistrati milanesi è sempre stata descritta con toni da epopea, di cui diamo di
seguito un breve ma significativo saggio: “La perquisizione del 17 marzo 1981
era stata affidata –scriveva, ad esempio, il radicale Massimo Teodori- ad uomini
integerrimi della Guardia di finanza al comando del col.Vincenzo Bianchi senza
darne preventiva notizia né al comando generale del corpo né alle autorità
locali di Arezzo e degli altri luoghi. Era noto che gli uomini di Gelli e la sua
rete d’informazione –scriveva Teodori- si estendevano ovunque e c’era da
aspettarsi manovre, tentativi di ostruzionismo e minacce. E così avvenne. Mentre
il comando della Finanza del col.Bianchi e del tenente col.Lombardo si accingeva
a mettere le mani sui segreti gelliani nascosti presso gli uffici della Giole a
Castiglion Fibocchi, giunse loro una telefonata del comandante generale della
Finanza, gen.Orazio Giannini, che metteva in guardia da un sequestro che avrebbe
rivelato i nomi di un’organizzazione – la P2- comprendente tutti i massimi
vertici sia della Guardia di finanza che di altri corpi armati dello Stato.
Nonostante l’autorevole avvertimento, gli uomini del col.Bianchi –racconta
Teodori- non si fecero intimorire. Si seppe poi che l’avvertimento del gen.
Giannini era fondato e che lo stesso capo dei finanzieri figurava nella lista”
(M. Teodori, P2 ecc.cit., p.11-12).
Chiacchiere, quelle di Teodori, se diamo credito a Licio Gelli che nessuno ha
smentito.
Eppure, 58 pacchi di documenti non sono una piccola busta che avrebbe potuto
sfuggire –per improbabile distrazione- ad una perquisizione per quanto attenta
ed accurata. Sono, viceversa, una montagna di carte che sono state lasciate di
proposito nell’abitazione di Licio Gelli e, successivamente, trasferite in
luoghi più sicuri con l’inevitabile complicità di coloro che avrebbero dovuto
avere il dovere di sequestrarle, e non l’hanno fatto.
Quali conseguenze hanno avuto le rivelazioni di Licio Gelli? Nessuna. Tacciono i
vertici della Guardia di finanza, i responsabili diretti della perquisizione, i
magistrati che al tempo l’ordinarono, i componenti della Commissione
parlamentare d’inchiesta. Un silenzio che equivale ad un’ammissione di colpa.
Lascia, quindi, il tempo che trova il solito stridulo gracchiare dell’inutile
cornacchia politica, che informa la stampa della sua certezza che “la P2 non è
morta, gli iscritti –racconta- erano oltre duemila e noi ne abbiamo conosciuti
soltanto 992. Chi sono gli altri e che attività –chiede con finta angoscia-
svolgono?” (Controlli rafforzati per il Gran maestro: la P2 non è morta, L’Arena
di Verona 25 agosto 1992). “Le carriere, intanto, sono andate avanti, a volte
con qualche pausa e a volte senza intralci –scriveva un giornalista del Corriere
della sera- Nessuno dei militari trovati iscritti alla loggia P2 è stato espulso
dall’esercito, dichiarò in Parlamento il sottosegretario Pavan. Aveva ragione,
anzi, alcuni accelerarono la loro scalata ad incarichi più elevati, come il
gen.Giuseppe Siracusano, per esempio: fu assolto dalla commissione della Difesa
e poi insediato al comando della divisione Ogaden a Napoli. Il col.Antonio
Calabrese sostenne di essere affiliato alla massoneria ma non alla P2. Fu
creduto sulla parola, perché a suo carico non fu trovato niente all’infuori
–ironizza il giornalista- dell’indicazione della lista di villa wanda: tessera
1062, codice E 1877, data 01.01.1977” (F.Felicetti, Generali, grand commis dello
Stato, politici. Così cominciò e finì la ‘caccia al piduista’, Corriere della
sera 21 maggio 1991).
Un anno più tardi, nel luglio del 1993, Marina Calabresi riferisce su Repubblica
che “la P2, questa centrale di potere occulto, abolita per legge ma mai
disciolta, conterebbe, infatti, almeno diciannove deputati in carica. Almeno uno
dei quali con un ruolo di rilievo, nomi che figuravano nell’elenco sequestrato a
Castiglion Fibocchi…” (M.Garbesi, La P2 siede ancora in Parlamento, Repubblica
11-12 luglio 1993). Ma anche di questo, come di tutto il resto, nessuno ha osato
chiedere conto, esigendo dallo Stato palese quelle risposte che, ovviamente, non
vorrà mai dare lo Stato ‘parallelo’ ed occulto.
Ed è da ritenere un’operazione diversiva quella attuata dall’ex Presidente della
repubblica Francesco Cossiga che, da un lato, rivela le reali finalità
dell’organizzazione e, dall’altro, le circoscrive alla loggia P2 con l’evidente
intento di far apparire per passato quello che, viceversa, è ancora vivo ed
attuale sulla scena politica italiana. Così, il 9 ottobre del 1993, spiega alla
stampa “l’idea che lui –Cossiga- si è fatto della P2 attraverso una lettura
politica fatta a posteriori. A suo avviso si trattava di un’organizzazione nata
con scopi filo-atlantici tra le gerarchie militari, intorno a figure di generali
come Geraci, Mino, Dalla Chiesa e Siracusano. Erano tutti ufficiali che, secondo
Cossiga, avevano il compito di vigilare e di fornire una garanzia di fedeltà
atlantica” (Cossiga su Gelli: fui io a cercarlo, Corriere della sera 9 ottobre
1993).
E qualche mese prima, era intervenuto ancora sull’argomento asserendo, questa
volta in modo perentorio, che “la P2 era stata la risposta in termini sbagliati
ed occulti ai timori dei circoli atlantici che l’alleanza Dc-Pci allontanasse
l’Italia dalla Nato. La P2 –conferma Cossiga- è dunque di importazione
americana. Non c’è dubbio che Gelli non fosse il vero capo della loggia. Vi pare
–chiede- che generali arrivati ai massimi livelli potessero rispondere a uno
come Gelli? Il capo era un referente che metteva nei posti chiave i generali
filo-americani” (G.Riva, Cossiga: La P2 viene dagli Usa e Gelli non ne era il
capo, Il Giorno 25 agosto 1993).
Nel silenzio tombale degli ambienti giudiziari interessati si leva, ad avallare
le tesi espresse da Francesco Cossiga, la voce del deputato missino Ambrogio
Viviani, già responsabile della sezione controspionaggio del Sismi, ovviamente
anche lui iscritto alla loggia P2. Costui informa trionfalmente l’opinione
pubblica che “le dichiarazioni del Presidente della repubblica Cossiga
corrispondono certamente alla realtà dei fatti, incaricati di condurre
l’operazione nel 1970 erano verosimilmente il col.James Clavio della ambasciata
americana per quanto riguarda gli alti ufficiali delle Forze armate, e Mike
Sedrawi per i dirigenti dei servizi d’informazione” (Su Gelli e P2 Viviani da
ragione a Cossiga, Il Giorno 25 agosto 1993).
Trova così conferma la testimonianza resa a suo tempo da Matteo Lex, secondo cui
una persona vicina a Gelli “ci assicurò sulla nostra copertura in quanto vi
erano personaggi della loggia il cui nome non sarebbe mai emerso, e ci rivelò
che tutti i nomi degli aderenti alla P2 erano depositati in codice al Pentagono
(P.Willan, I burattinai cit., p.80).
E così il cerchio si chiude. I tasselli inseriti dall’ex Presidente della
repubblica, dallo stesso Gelli, dall’ex generale Viviani si inseriscono nel
mosaico che in questi anni abbiamo ricostruito e, nel confermarne l’esattezza,
permettono di definire ufficialmente il ruolo di copertura svolto dalla
massoneria italiana nei confronti dell’ ‘organizzazione’. La loggia P2,
chiacchierata, contestata, attaccata perfino sulla stampa dalla metà degli anni
Settanta, dotata di un potere sconosciuto ai cittadini, non certo agli addetti
ai lavori, in campo politico, economico, finanziario, militare e giudiziario
annoverò nel suo ambito uomini dell’ ‘organizzazione’ come Licio Gelli,
perfettamente informati della realtà nella quale si muovevano, degli interessi
che rappresentavano e dei mezzi che utilizzavano. Ed altri, di converso, che non
andavano al di là dell’adesione ad una potente loggia massonica nella quale
predominava, fra gli iscritti, l’elemento militare e, sul piano politico, il più
fervido anticomunismo.
La loggia P2 può, quindi, essere considerata un’agenzia dell’ ‘organizzazione’,
uno strumento creato ad hoc per operare in un certo mondo, capace di coagulare
attorno a sé centinaia di personaggi potenti, in Italia e all’estero, utili per
interventi di carattere politico e finanziario senza, in caso di ‘incidenti’,
compromettere la struttura nella quale Licio Gelli è stato sempre inserito, e
grazie alla quale ha fatto la sua fortuna.
E di quale struttura si tratti, lo rivela implicitamente lo stesso Gran maestro
quando dichiara: “Non sono mai stato fra gli organizzatori di Gladio, anche se
la conoscevo: una legione invisibile di persone oneste che ha salvato l’Italia”
(La vera mafia sono i politici, La Stampa 13 agosto 1992). E, difatti, nessuno
ha mai collocato l’ex materassaio di Arezzo fra i ‘capi’ di Gladio, bensì fra i
soldati dell’ ‘organizzazione’ di cui la prima era espressione. Fra coloro che
per convinzione, per interesse o per copertura hanno aderito alla massoneria,
Licio Gelli non è stato certamente l’unico. Altri massoni hanno fatto parte di
Gladio: il friulano Giorgio Brusin, membro della giunta del Grande oriente
d’Italia, Antonio Melis detto ‘Salvatore’, responsabile della struttura
clandestina in Sardegna, Francesco Dentice di Accadia ed altri appartenenti al
rito scozzese.
Massoni-gladiatori, dunque, ma anche massoni-mafiosi e massoni-fascisti. Massoni
ovunque e in ogni dove che, con il procedere delle inchieste giudiziarie, si
sentono stretti sempre di più nella morsa di un potere che ne sta facendo il
temporaneo capro espiatorio distogliendo l’attenzione da se stesso.
La massoneria come cupola promotrice di strategie politiche, di manovre
finanziarie a respiro intercontinentale, di lotte armate variamente definite sul
piano ideologico, di azioni di tipo destabilizzante sul piano mafioso-eversivo:
questa la nuova immagine del pericolo che sta disegnando l’ineffabile
magistratura italiana. Qualcuno, non certamente annoverabile fra gli ultimi e
più sprovveduti all’interno della massoneria, intuisce il pericolo e avverte che
c’è altro potere, oltre a quello massonico, sul quale indirizzare le indagini.
Giulio Di Bernardo, difatti, questo altro potere sceglie di definirlo, non a
caso, con lo stesso identico termine utilizzato da Tommaso Buscetta: “…In Italia
non c’è più la massoneria, ma un’altra entità più pericolosa. E –dice- è compito
dei magistrati scoprire che cosa sia…” (M.G., Politici in cerca di loggia,
Repubblica 28 gennaio 1994).
Un rappresentante di quello che, per antonomasia, viene considerato un potere
forte confessa come, in realtà, un altro potere molto più forte, un’altra
‘entità’ più potente della massoneria italiana ha agito ed agisce ancora
impunita, anzi addirittura da scoprire.
Si sta facendo strada, in questi ultimi tempi, la convinzione che il potere
atlantico abbia creato, nel corso degli anni, un dispositivo che ha utilizzato
in funzione anticomunista e che, dopo il 1969, ha progressivamente smantellato
perché ormai inutile e ingombrante. E’ la tesi, ad esempio, che porta avanti
Gianni Cipriani: “Mafia, massoneria, destra eversiva, servizi segreti hanno
rappresentato il dispositivo –scrive- attraverso il quale sono state tradotte in
atti concreti le disposizioni dei poteri forti. Una realtà politica e
giudiziaria che ha tardato molto ad affermarsi, soprattutto, fino a quando il
dispositivo come si è storicamente determinato, non ha cominciato ad entrare in
crisi” (I mandanti cit., p.9-10).
Noi affermiamo invece e denunciamo con forza che esisteva –e continua ad
esistere- una sola organizzazione che si prefigge un unico scopo, che ha una
sola strategia ed usa mille tattiche, che al pari di un camaleonte assume il
colore dell’ambiente nel quale i suoi uomini si trovano ad operare, che non ha
un volto né un nome ma diecimila come le sigle, i gruppi, le organizzazioni con
i quali si confonde e, di volta in volta, viene confusa. Non mafia, dunque, né
massoneria, né servizi segreti, né alta finanza, né destra eversiva, né partiti
politici, ma forza autonoma, presente in ciascuno di questi ambienti come in
ogni altro, dalle Forze armate a quelle di polizia, dalle gerarchie vaticane a
quelle economico-finanziarie, dalle forze politiche di governo a quelle di
opposizione, dalla stampa ‘indipendente’ a quella ‘alternativa’: questa l’
‘organizzazione’.
Ed una conferma ulteriore a questa realtà la troviamo analizzando, in rapida
sintesi, i punti di contatto fra le strutture parallele e la destra che ci si
ostina a voler definire ‘eversiva’, nonostante che il suo ruolo sia oggi ben
definito, sul piano storico e politico, come quello di supporto al disegno
‘stabilizzante’ che ha informato di sé cinquant’anni di storia.
Il mafioso Tommaso Buscetta ha conosciuto l’esistenza dell’ ‘entità’, non
facendo estorsioni per le strade di Palermo, ma svolgendo compiti di natura
politica. Lo spione Licio Gelli perché vi è stato stabilmente inserito, il
massone De Bernardo perché la sua obbedienza è stata utilizzata prima per
coprire le attività dell’ ‘entità’, oggi per coprirne l’esistenza. La destra
neofascista, nelle persone dei suopi dirigenti di primo piano e di centinaia di
quadri intermedi e di militanti, può essere considerata alla stregua di una mera
appendice dell’ ‘organizzazione’, nei cui ranghi tanti sono stati –e continuano
ad essere- stabilmente inseriti.
Perché meravigliarsi se, dagli archivi del Sismi, emerge che sono stati
‘gladiatori’ “Filippo De Marsanich, fratello del senatore, e Armando Degni,
inquisito per il golpe fallito di Junio Valerio Borghese”? (Un Grillo nel giallo
Mattei, Panorama 20 giugno 1993). Che il presidente del Msi, Augusto De
Marsanich, che del partito è stato anche segretario nazionale durante gli anni
cruciali del suo consolidamento, avesse addirittura il fratello inserito nella
struttura clandestina Nato, deve essere considerato un fatto di ordinaria
amministrazione. E come tale deve essere valutato anche il fatto che “Armando
Degni…nel 1967 firma su un documento classificato segretissimo una dichiarazione
d’impegno, ricevendo il mandato di assolvere compiti militari speciali
nell’ambito dell’ ‘organizzazione’ militare speciale dipendente dallo Stato
maggiore della difesa collegata alla Nato…ed è…-scrivono i giudici di Bologna-
un neofascista militante contemporaneamente nel Msi di Giorgio Almirante e nella
formazione eversiva e terroristica di Ordine nuovo” (G.Barbacetto, C’è la mano
dello Stato nelle stragi, L’Europeo 20 luglio 1994).
Per un ‘golpista’ che compare nelle liste di Gladio, ce n’è un altro che,
rompendo il muro della viltà e dell’omertà, ha scritto un libro a proposito
dell’ ‘organizzazione’ e della sentenza che ha cancellato, come non avvenuti,
gli avvenimenti della notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970. “E’ indubbio che a
giustificazione di una sentenza recentissima, emessa dalla Cassazione dopo
tredici anni, deve aver contribuito qualche articolo del famoso diktat, che ha
legato le mani alla magistratura, se è vero che l’on.Moro potè usciorsene con il
suddetto ‘segreto di Stato’. Indubbiamente –scrive ironicamente Gaetano Lunetta-
gli Usa, nel regalarci la libertà si sono riservati di determinare il corso
politico-economico della nazione italiana. Ed ecco nascere i cosiddetti ‘segreti
di Stato! Uno dovrebbe suonare così: ‘E’ consentito agli Usa mantenere in Italia
un corpo formato da ufficiali in s.p.e. e da civili che il governo americano può
mobilitare qualora gli indirizzi politici del governo italiano dovessero deviare
dalle direttive impartite dal governo americano’ “ (G.Lunetta, L’ultimo mio
comizio, T.e.a. Palermo 1988, p.53).
Poche parole, ma sufficienti a definire l’ ‘organizzazione’ ed il suo compito.
Il Msi nasce come forza politica dalla quale reclutare, all’occorrenza, decine
di migliaia di giovani provenienti dall’esperienza militare della Rsi, in grado
di impugnare le armi in difesa, stavolta, dell’impero americano. Il suo
inserimento organico, come partito che conta migliaia di aderenti, nei piani
segreti degli Stati maggiori alleati, approntati in funzione anticomunista, può
farsi risalire al 1947 ed il ‘battesimo di fuoco’ all’aprile del 1948, quando la
lealtà neofascista al nuovo regime ed al nuovo Stato superò brillantemente la
prova con la ordinata restituzione delle armi avute in prestito, alla pari di
altre formazioni politiche anticomuniste, dall’Esercito italiano.
La nascita dell’Alleanza atlantica, il varo del piano ‘Demagnetize’,
l’inserimento di questo Paese nella struttura ‘Stay-behind’ con tutto quello che
ne consegue, trasformano l’Msi, unico autentico rappresentante del neofascismo,
nello strumento più docile dell’ ‘organizzazione’ e in un serbatoio illimitato
dal quale quest’ultima può arruolare elementi fidati e fedeli.
“Tra apparati dello Stato e gruppi neofascisti esistevano rapporti stretti ed
organici –scrive Gianni Barbacetto-. Sotto la facciata di Ordine nuovo si
nascondeva una struttura occulta all’interno della quale operavano personaggi
come Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Paolo Signorelli –scrivono a loro volta i
giudici di Bologna- e, in posizione verticale, lo stesso Pino Rauti” (C‘è la
mano dello Stato nelle stragi, cit.). Sul conto di quest’ultimo, è giusto
ricordare come sia assurto al vertice del Movimento sociale italiano ricoprendo
il ruolo di segretario nazionale, carica raggiunta per le ‘omissioni’ complici
di magistrati che ‘scoprono’ oggi ciò che hanno ritenuto di dover ignorare per
anni.
Abbiamo dedicato, comunque, al neofascismo pagine specifiche, e qui ci interessa
solo riaffermare il legame che lo ha collegato al potere atlantico mentre,
viceversa, non verticale ma di natura orizzontale sono stati i suoi rapporti con
organizzazioni massoniche e criminali, con le quali non ha stretto alcun ‘patto’
avendo, al pari loro, come stella polare lo stesso vertice che dei suoi uomini
si è servito abbandonando poi al loro destino quelli che non potevano essere
‘riciclati’ perché non sufficientemente rispettabili per essere inseriti in
quello che viene spacciato per il ‘nuovo’ che avanza.
E’, quindi, l’ ‘organizzazione’, quella che si colloca al centro e che,
sapientemente mimetizzata, dirige il ‘suo’ dispositivo multiforme ed eterogeneo
eppur disciplinato. Un’ ‘organizzazione’ politico-militare che annovera massoni
ma non è massoneria, che utilizza mafiosi ma non è mafia, che si serve dei
neofascisti ma non è neofascismo, che può contare sul supporto dei servizi
segreti militari e civili ma da essi non dipende, che non è nazionale ma
sovranazionale, che obbedisce, infine, ad un vertice che si trova a Washington,
non a Roma.
Gianni Cipriani scrive che “i servizi segreti, per esempio, dovevano rispondere
del loro operato anzitutto in sede atlantica. I generali dipendevano dai comandi
Nato prima ancora che dal governo nazionale. Catene anomale di comando che si
sono dimostrate funzionali a partire dalla fine degli anni Sessanta per gestire
la strategia della tensione” (I mandanti cit., p.7). A questo quadro vanno
aggiunti, però, due elementi sostanziali e fondamentali: che sono stati i
‘governi nazionali’ ad abdicare al diritto-dovere di esercitare la loro autorità
sulle Forze armate; che non esistono ‘catene anomale’ di comando ma solo ‘catene
occulte’ che corrono parallele a quelle palesi, come si conviene alla doppia
struttura, segreta e clandestina da un lato, ufficiale dall’altro, in cui si
articola l’Alleanza atlantica.
E un’autorevole testimonianza in questo senso viene fornita dal presidente della
Democrazia cristiana, Aldo Moro, ucciso il 9 maggio del 1978 dalle Brigate
rosse. “Certo è un intrigo difficile da districare –aveva scritto nel suo
memoriale- e le cui chiavi si trovano presumibilmente in possesso di qualche
organizzazione specializzata probabilmente al di là del confine. Si tratta di
vedere in quale misura i nostri uomini politici possono aver avuto parte e con
quale tipo di conoscenza e di iniziativa...Per quanto riguarda la strategia
della tensione, che per anni ha insanguinato l’Italia pur senza conseguire i
suoi obiettivi politici, non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che
si collocano fuori dall’Italia, indulgenze e connivenze di settori dello Stato e
della Democrazia cristiana in alcuni suoi settori”.
Aldo Moro, quindi, non ha dubbi: non è all’interno dello Stato nazionale che
bisogna cercare i registi di piani che sono stati studiati all’estero e che,
qui, sono applicati da complici ed esecutori. Se il silenzio dei Moretti e dei
Curcio non lo impedisse, molto più si saprebbe di quello che ha rivelato Aldo
Moro. Ma anche le frammentarie notizie che i ‘combattenti per il comunismo’ non
sono riusciti ad eliminare e che, solo per questa ragione, sono trapelate
consentono di confermare l’esistenza di un’ ‘organizzazione’ che è inserita
negli apparati politici e di difesa della Nato.
E riepilogando queste che, ormai, sono verità acquisite sia sul piano storico
che giudiziario, tornano i quesiti più volte posti sull’identificazione
dell’organizzazione; può essa coincidere con Gladio e con la struttura europea
delle Stay-behind? Può, questa struttura la cui esistenza è stata ufficialmente
riconosciuta solo quattro anni fa, essere considerata l’ ‘organizzazione’ nel
suo complesso o, almeno, una parte di essa o, ancora, come pretende la
magistratura italiana essere ad essa totalmente estranea?
A dare ascolto al gen.Gerardo Serravalle, che della struttura è stato per alcuni
anni il comandante, dovrebbe essere valida la seconda ipotesi, quella cioè che
vede Gladio come parte sacrificata per coprire il ‘tutto’, inteso quest’ultimo
come quell’organizzazione segretissima, la cui esistenza non potrà mai essere
ammessa perché strumento portante del dominio americano in Europa. “…Da una
parte –scrive, difatti, Serravalle- c’è una struttura segreta denominata
Stay-behind, a tenuta ermetica, che dispone di armi ed esplosivi mantenuti
occultati in vari punti del territorio nazionale…dall’altra sembra di
intravedere in filigrana una specie di magma delle varie denominazioni, di
natura eversivo-terroristica. E’ il magma dei ‘salvatori della patria’ che hanno
fruito del segreto politico-militare dello Stato” (G.Serravalle, Gladio,
Ed.associate Roma 1991, p.46-47). E, in maniera più esplicita, subito dopo: “La
struttura era dunque tale –si chiede- da poter essere utilizzata come schermo
per il magma dei ‘patrioti-professionisti’ al riparo delle coperture
istituzionali per dare uno scossone al Paese? Il sospetto è legittimo e
fondato…” (ivi, p.49).
Dà, Gerardo Serravalle, corpo ai suoi sospetti sottolineando la presenza nelle
liste di Gladio di alcuni individui che non dovevano essere arruolati a causa
delle loro manifeste militanze e simpatie per l’estrema destra tipo Ordine nuovo
ed altro (ivi, p.51-52). E va oltre, perché egli stesso ammette che alcuni dei
gladiatori hanno preso parte attiva alla lotta politica, nei suoi aspetti
terroristici, della ‘destra eversiva’ scrivendo a chiare lettere che “è
legittimo sospettare che questi costituissero la sutura con il magma dei
terroristi e degli eversori” (ibidem). La conclusione riflette amarezza e, ad un
tempo, sicurezza: la prima per essere stato utilizzato come capro espiatorio, la
seconda per utilizzare la inanità degli sforzi di quanti hanno creduto che le
rivelazioni di Giulio Andreotti sulle Stay-behind potessero realmente
contribuire a far luce sulla guerra politica.
“Riflettori su Gladio, dunque –osserva Serravalle- ma tentare di scoprire la
strategia della tensione attraverso Gladio è come cercare un ago nel pagliaio, è
come tentare di scoprire cosa bolle nella pentola attraverso l’esame del
coperchio…Luce su Gladio, dunque, affinché rimangano in ombra le suture? Gli
autori delle stragi, nostrani o venuti dal freddo, di colore rosso o nero, i
mandanti affiliati o no ad obbedienze eversive potranno continuare a vivere
tranquilli. La Stay-behind li copre ancora una volta, persino quando viene
eliminata. Prodigi di ingegneria del potere” (ivi, p.53).
Ma dopo questa melodrammatica conclusione che avvalora l’ipotesi di una Gladio
parte di un ‘tutto’, lo stesso Serravalle si premura di disseminare il suo
scritto di affermazioni che corroborano la tesi di quanti non vedono differenze
fra le Stay-behind e l ‘organizzazione’ Scrive, difatti, che “Gladio non era
operativamente affidabile né efficiente (ivi, p.70). Rincara la dose asserendo
che “o gli inventori di Gladio erano degli incoscienti, oppure per primi avevano
escluso che Gladio potesse operare secondo gli scopi per cui era stata
concepita” (ibidem). Ed, infine, assesta il colpo decisivo all’ipotesi da lui
stesso prospettata di una Stay-behind italiana sacrificata sugli altari degli
interessi del potere proprio perché struttura non compromessa nella strategia
della tensione. “Viene inevitabile supporre –scrive- almeno in linea ipotetica
che chi predispone una struttura segreta tipo Gladio e la pone al comando di un
militare professionale, intenda che la struttura stessa debba essere impiegata
eventualmente con assoluta sicurezza secondo i compiti istituzionali (resistenza
all’invasore e ai collaborazionisti), secondo i criteri propri della dottrina
militare sulla ‘guerra non ortodossa’, oppure –e qui non si può non rendere
omaggio alla genialità dell’idea- si è voluto costruire un paravento, una
facciata rispettabile con tutti i requisiti dell’ufficialità, i benefici del
segreto di Stato ed il manto protettivo dell’Alleanza atlantica a vantaggio,
diciamo così, del potere. Questo –conclude maliziosamente Serravalle- il nodo
della vicenda Gladio. Nelle Stay-behind operano funzionari civili di carriera
dei rispettivi servizi. Ho avuto modo di constatare in essi, con molto stupore,
una pressocché assoluta carenza di preparazione tecnico-tattica, necessaria ad
una corretta impostazione ed eventuale condotta di quella forma particolare di
guerra” (ivi, p.36-37).
Il generale Gerardo Serravalle è ben lontano dall’essere quella vittima e,
soprattutto, quell’ufficiale democratico che cerca di apparire oggi, tanto da
essersi congedato dall’Esercito solo nel 1986, anno in cui partecipò, come
‘consulente civile di un gruppo di industrie italo-americane, agli studi per la
realizzazione della ‘Strategic defense initiative’ europea (ivi, p.63).
Colpevole alla pari dei suoi colleghi, arrogante nella presunzione di poter
informare disinformando, certo che nessuno percepirà in modo corretto i suoi
messaggi, Serravalle cancella le distinzioni fatte e propone Gladio, non come
mera sezione operativa delle Forze armate, ma come l’ ‘organizzazione’ stessa:
l’ipotesi più ragionevole, la più logica, la più veritiera.
La dove egli, difatti, parla dei compiti istituzionali di Gladio da utilizzare
contro i ‘collaborazionisti’, secondo i criteri d’impiego della dottrina
militare sulla guerra non ortodossa, finge di dimenticare due cose: che i primi
vanno identificati nei quadri dirigenti e militanti dei partiti comunisti
occidentali; e che la ‘guerra non ortodossa’ non può essere assimilata alla pura
e semplice guerra di guerriglia alla quale era ufficialmente destinata la
struttura Gladio. E’ necessario ricordare (non a Serravalle che lo sa bene) che
la guerriglia contro un esercito invasore avrebbe avuto come fine la riconquista
dello spazio geografico, mentre la guerra non ortodossa aveva come fine la
difesa dello spazio politico, perso il quale anche lo spazio geografico sarebbe
stato occupato dal nemico. Difatti, gli scenari bellici costruiti dagli Stati
maggiori degli eserciti Nato prevedevano la conquista pacifica del potere,
mediante le elezioni politiche, da parte dei partiti comunisti italiano e/o
francese che, giunti al potere, avrebbero richiesto il ‘fraterno’ aiuto dei
Paesi del Patto di Varsavia. Questo il pericolo da scongiurare, con ogni mezzo e
ad ogni costo: la perdita dello ‘spazio politico’.
Lo ‘spazio geografico’ non è mai stato minacciato. A dirlo è lo stesso Gerardo
Serravalle: “…Il vicepresidente del Senato, Paolo Emilio Taviani, pressappoco
nella stessa epoca, aveva rivelato alla Commissione stragi che almeno in cinque
occasioni l’Italia sarebbe stata minacciata; nel ’48, nel ’56, in concomitanza
con la repressione ungherese, nel ’62 e nel ’68, dopo la normalizzazione della
Cecoslovacchia. Personalmente –scrive Serravalle- per quanto riguarda le prime
tre date non ho nulla da commentare e mi rimetto all’autorevolezza del senatore,
uomo di governo in più di un gabinetto, nel ’62 ero già in servizio e non
ricordo alcun stato di allarme, nel ’68 facevo parte dello Stato maggiore del V
Corpo d’armata, quello schierato sul confine nordorientale e, nemmeno in questa
occasione, per quanto rammento, furono adottate misure d’emergenza particolari,
a parte un allarme di livello minimo, del tipo che viene ordinato in occasione
di fatti di qualche rilievo politico strategico, tali però da non compromettere
la sicurezza nazionale” (ivi, p.60-61).
Se Gerardo Serravalle può smentire platealmente Paolo Emilio Taviani sui
presunti allarmi del 1962 e del 1968, la storia smentisce anche per gli altri
fatti citati il bugiardo democristiano. Nel 1948, gli unici ad approntare piani
d’attacco, per di più atomico, erano gli Stati uniti contro la Russia che, da
parte sua, era ben lontano dall’aver risanato le immense distruzioni provocate
dalla seconda guerra mondiale. Nel 1950, il terrore che, con il pretesto della
guerra di Corea, l’America attaccasse la Russia fu tale che Palmiro Togliatti,
in obbedienza agli ordini di Stalin, offrì al governo italiano la virtuale
cessazione di ogni opposizione da parte del Pci in cambio di una politica estera
di pace. Nel 1956, l’ingresso dell’Armata rossa in Ungheria (4 novembre) fu
contemporaneo all’azione diplomatica Usa-Urss che obbligò le truppe
franco-britanniche a ritirarsi precipitosamente dal canale di Suez, che avevano
occupato il 1 novembre.
In definitiva, lo ‘spazio geografico’ italiano non è mai stato minacciato,
quello ‘politico’ sì. E a difendere quest’ultimo sono state le Stay-behind,
strumento perfezionato e raffinato della guerra non ortodossa. E che così è
stato, tra i mille e mille esempi che si potrebbero portare per dimostrarlo ne
scegliamo uno, proveniente dall’ambiente militare che, da solo, prova quale
fosse il pericolo e quali le contromisure da adottare per sventarlo, secondo il
parere di un illustre collega di Serravalle.
Scriveva, nel febbraio del ’69, sulla Revue militaire générale, il gen.Ernesto
Cellentani: “In seno alle forze politiche protagoniste dei disordini e delle
sommosse si è andato rilevando specie negli ultimi tempi un processo crescente
di osmosi, ideale e organizzativa, sul piano internazionale. Il problema
potrebbe rappresentare, in un futuro prossimo, ulteriori complicazioni e
difficoltà poste dall’intervento dell’assai importante componente giovanile
studentesca. Sembra allora opportuno realizzare una stretta cooperazione civile
e militare, sul piano europeo occidentale, tendente allo scopo di mettere a
fattori comuni esperienze ed informazioni, potrebbe allo scopo essere concretata
da una politica dell’ordine pubblico ed un’altrettanto comune politica di
informazione ed azione psicologica, entrambe necessarie. La popolazione non
interessata al disordine potrebbe –infine- essere chiamata in determinati casi
limite a cooperare al ristabilimento dell’ordine. Oggi esiste, ormai, un fronte
interno anche in tempo di pace” (G.Boatti, Piazza Fontana, Feltrinelli Milano
1993, p.44-45).
Nulla di nuovo esprimeva l’alto ufficiale che si limitava a ribadire nel suo
articolo il punto di vista delle Forze armate sulla ‘guerra’ in corso nel Paese,
così com’era stata delineata nel corso del convegno organizzato dall’istituto
A.Pollio, nel maggio 1965 a Roma, con i finanziamenti del Sifar e il patrocinio
dello Stato maggiore difesa. E agli ignari ed agli immemori ricordiamo, in
brevissima sintesi, cos’era quella che in termini politici veniva chiamata
‘guerra rivoluzionaria’ e, in termini tecnici, ‘guerra non ortodossa’.
Lo facciamo riportando, pari pari, quanto ha scritto sull’argomento un
insospettabile osservatore esterno, Piero Ignazi: “ I temi dell’infiltrazione e
del mimetismo, nella guerra segreta e mascherata già lanciata dal comunismo
internazionale, dell’indottrinamento e della propaganda costituiscono il leit
motiv delle relazioni al convegno (dell’istituto Pollio nda). Per difendere i
superiori valori morali dell’Occidente deve essere attuata una
‘contromobilitazione’ globale che faccia comprendere il pericolo incombente e
che forgi il soldato controrivoluzionario, una figura di combattente ascetico e
missionario che richiama –scrive Ignazi- il legionario evoliano. Ma il punto
focale e innovativo delle varie relazioni è l’individuazione di un nuovo
rapporto tra cittadini e Forze armate. Il compito della controffensiva non può
essere lasciato al solo esercito, ma ad esso devono affiancarsi formazioni di
volontari civili. Le energie controrivoluzionarie vanno divise in gruppi in base
al ruolo nella società e al potenziale di mobilitazione: da un ampio settore di
sostenitori passivi si passa ai membri delle associazioni combattentistiche
pronte ad un impiego attivo di supporto fino al nucleo duro di elementi
sceltissimi per le ‘azioni coperte’ “ (P.Ignazi, Il polo escluso, Il Mulino
Bologna 1989, p.112-113). Così, in modo semplice ed in estrema sintesi, vengono
delineati da un inconsapevole docente universitario una strategia ed i suoi
strumenti, fra i quali il più duttile, il più segreto, il più idoneo erano e
restano le Stay-behind.
Ed anche se in maniera ancora approssimativa, qualche passo avanti in direzione
della verità è stato fatto da magistrati che lavorano lontani dai riflettori
della pubblicità. Secondo Repubblica, difatti, i giudici della Procura militare
di Padova sarebbero giunti alla conclusione che “la struttura sciolta
ufficialmente tre anni fa dal governo…altro non era che un’organizzazione di
copertura”. La convinzione –sempre secondo il quotidiano milanese- sarebbe
fondata sul contenuto di un documento classificato come riservatissimo, ora agli
atti della Commissione stragi, che rivelerebbe l’esistenza di una struttura
suddivisa in tre fasce: “Nel centro di questa piramide ci sarebbe la vecchia
Stay-behind in funzione di copertura. La vecchia Gladio sarebbe ancora intatta
ed operante. Dini e Roberti avrebbero anche scoperto che i 622 gladiatori
compresi negli elenchi ufficiali non hanno affatto preso parte ad esercitazioni
di guerra. Questo compito sembra sia stato assolto da reparti speciali che si
sarebbero addestrati sotto la supervisione del Sismi” (Denuncia di due
magistrati. ‘La vera Gladio vive ancora’, La Repubblica 18 novembre 1993).
Un’ipotesi più che logica, quest’ultima, perché una guerra di guerriglia non
poteva certo essere affidata ai pensionati e alle casalinghe che le autorità
politiche hanno spacciato per gli unici gladiatori, bensì agli uomini ben
addestrati e fisicamente allenati dei reparti d’élite dell’Esercito.
Una conferma puntuale è venuta dal rifiuto opposto dal comandante del
battaglione col.Moschin, della brigata paracadutisti ‘Folgore’, di consegnare a
Carlo Mastelloni, in perenne ricerca di scoop, i piani operativi del reparto da
adottare in caso di conflitto ‘non convenzionale’. L’ufficiale ha indicato nella
Nato l’autorità preposta a decidere se consegnare al magistrato veneziano i
documenti richiesti, o se coprirli col vincolo del segreto atlantico (Gladio, la
Nato deciderà sugli atti, Repubblica 6 febbraio 1994).
Del resto, che l’Alleanza atlantica abbia predisposto, fin dal suo infausto
insorgere, i piani più svariati per opporsi al nemico comunista, nei quali la
presenza di civili e militari è costantemente affermata, perché basata
sull’esperienza della guerra partigiana in Europa (si legga in proposito
V.Hahlweg, Storia della guerriglia, Feltrinelli Milano 1993) è una realtà
innegabile.
Altrettanto non confutabile né smentibile è che le Stay behind rappresentano la
traduzione concreta, sul terreno, di quanto è stato elaborato nel corso degli
anni da un mondo militare che riserva l’uso delle armi da fuoco ai Paesi del
terzo mondo e l’azione psicologica a quelli evoluti, dove il controllo dei mezzi
di comunicazione di massa è tale da garantire loro la vittoria senza necessità
di intervenire nelle strade e nelle piazze con reggimenti e mezzi corazzati.
Il ruolo delle forze armate, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, è ancora
oggi riconosciuto da pochi. Uno di questi è Virgilio Ilari che ebbe modo di
rilevare in un suo libro “…il ruolo politico che la forza militare stava
assumendo come garanzia del mantenimento del sistema di potere politico ed
economico durante l’apertura a sinistra” (V.Ilari, Le Forze armate tra politica
e potere, Vallecchi Firenze 1979, p.69). Ed individuò nel gen.Giovanni De
Lorenzo “il più lucido tra i militari degli anni Sessanta. Fu lui –scrisse- a
elaborare la versione poliziesca della garanzia militare, che era imperniata più
sull’ostentazione della forza, sul controllo capillare della vita politica ed
economica nel Paese mediante la rete dei servizi segreti” (ivi, p.58).
Risale al 25 novembre 1983 la dichiarazione resa da Amos Spiazzi alla
Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, che conferma i ruoli di
‘tutore’ e di ‘garante’ dell’ordine politico rivestiti dalle Forze armate ed
esercitati da strumenti come le Stay-behind. Dichiarava il pluri-inquisito
Spiazzi: “…nell’ambito delle Forze armate sono sempre esistiti due strumenti: un
‘piano di emergenza interna’ e un (segretissimo) ‘piano di sopravvivenza’. Il
primo strumento prevede la selezione, nell’ambito dell’Esercito, di personale
fedelissimo, disponibile a partecipare ad ‘operazioni delicate’; il secondo
entra in funzione in caso di vacanza della Presidenza della repubblica, di
conflitto elettorale con il diretto intervento dell’Esercito e in caso di
invasione esterna. Il ‘piano di sopravvivenza prevede –secondo Spiazzi- anche
l’intervento, accanto ai militari, di gruppi fidati, indicati in particolari
schedature e agisce sostanzialmente come organismo potenzialmente partigiano” (M.Teodori,
P2: la controstoria, cit.).
Anche in questo caso, come si vede, alle Stay-behind, perfettamente
riconoscibili nel ‘piano di sopravvivenza’, sono assegnati in forma prioritaria
compiti di vigilanza e di intervento all’interno del Paese, e per ultimo quello
di attivarsi nel caso di una invasione militare, l’ipotesi, quest’ultima, più
remota.
Ma l’avallo più autorevole, quello che integra e compone gli elementi fin qui
esposti in un unico mosaico a sostegno della tesi che vuole identificare in
Gladio l’ ‘organizzazione’ che riunisce nei suoi ranghi la guardia pretoriana
degli Stati uniti in Europa, viene dall’impunito Francesco Cossiga. Costui,
difatti, nelle dichiarazioni rilasciate a ruota libera, non ha lesinato
frammenti di verità sulle Stay-behind in Europa che contrastano, in modo
plateale, con le conclusioni ufficiali, politiche e giudiziarie. Non si
concilia, ad esempio, la definizione di ‘potente organizzazione interalleata’,
riservata dall’ex Presidente della repubblica ad una struttura che, a sentire il
suo amico Fulvio Martini, era invece povera cosa, composta da 622 personaggi
senza arte né parte.
Ed ancora più interessante appare il riferimento, fatto da Cossiga, al governo
di Stay-behind ristretto, a sentir lui, a ventidue uomini politici, gli unici
che in Italia sapevano tutto perché, evidentemente, erano i soli a dare tutte
quelle garanzie di fedeltà che gli Stati uniti e la Nato pretendevano. Francesco
Cossiga non fa i nomi di tutti coloro che componevano il governo ‘occulto’, ma
quelli che fa (Spadolini, Taviani, Rognoni, Andreotti, ai quali vanno aggiunti
Restivo e Tanassi) sono sufficienti per delineare la mappa delle coperture
politiche al cui riparo hanno agito gli uomini delle Stay-behind in Italia. Sono
questi gli uomini politici che hanno rappresentato la cerniera fra lo Stato
‘parallelo’ e quello ‘ufficiale’, e che ormai sono stati sostituiti da altri che
non hanno ancora un volto e un nome.
E se, sul piano politico, vi era una direzione unitaria che non teneva conto del
partito di appartenenza (Dc-Pli-Psdi-Pri) ma solo dall’incondizionata dipendenza
dai voleri del governo americano e della Nato, anche sul piano militare ed
operativo l’ ‘organizzazione’ non poteva che avere un unico vertice, capace di
coordinare le multiformi attività dei subalterni impegnati nelle più diverse
realtà italiane ed europee. E’ credibile l’astuto Gerardo Serravalle quando
parla di dispositivo che definisce come “un insieme di formazioni, composto da
persone che avevano capacità operative peculiari. Con una caratteristica: era
guidato da un comando unitario” (D. Mastrogiacomo-F.Scottoni, Ustica. Ancora
Israele, stavolta lo dice Gladio, Repubblica 14 febbraio 1994).
Si configura così un potere parallelo che agisce in piena sintonia con quello
ufficiale ma da quest’ultimo, troppo impacciato nei suoi movimenti dal rispetto
formale delle regole della democrazia, si differenzia per l’agibilità dei
movimenti, la totale libertà di azione, la scelta di obiettivi, metodi, mezzi e
uomini da impiegare con assoluta spregiudicatezza, con la certezza di poterli,
qualora se ne presenti la necessità, sconfessare con l’ausilio dei poteri
pubblici ed ufficiali. Non è una novità. Anzi, proprio nella nazione-guida del
mondo cosiddetto ‘libero’, l’esistenza di un potere parallelo a quello
ufficiale, all’interno del quale si prendono le decisioni cruciali per la
politica estera americana, è stata più volte riconosciuta anche se, di volta in
volta, presentata come una necessità contingente e, quindi, non
istituzionalizzata.
“Adesso si scopre –scriveva Panorama nel novembre del 1986- che all’interno
della Casa bianca le più spericolate e clandestine operazioni sono affidate a un
gruppo di personaggi-ombra, di cui nessuno fuori dall’ambiente aveva mai sentito
parlare. E’ questo un governo clandestino che, all’insaputa di tutti, ha
condotto l’operazione ostaggi, guidato la guerra segreta in Nicaragua,
l’intervento Usa nel Mediterraneo ai tempi della crisi dell’Achille Lauro (il
dirottamento dei terroristi su Sigonella) e, prima ancora, l’invasione di
Grenada” (M.Conti, Quei clandestini di Reagan, Panorama 23 novembre 1986).
Pochi giorni più tardi, su Repubblica appariva un articolo sullo stesso
argomento che inquadrava e rappresentava una realtà che, mutatis mutandis, è
perfettamente assimilabile a quella che, in queste pagine e da anni, anche se
inutilmente, denunciamo: “…Tra le molte vicende che quest’ultima crisi (l’Irangate)
ha rivelato, c’è anche questa: l’esistenza di un contrasto con l’apparato
ufficiale, di una nuova razza di militari, di un piccolo gruppo formatosi nel
Vietnam che, sulla base di un approccio teorico totalmente nuovo, ha tentato un
rinnovamento nell’estabilishment…L’approccio elaborato da questa nuova razza di
militari –scrive il giornalista- è un po’ l’uovo di Colombo, ma ha fatto molta
strada ed ha testi di riferimento: le opere del generale a due stelle Lansdale,
il quale dalla sua esperienza, nelle Filippine in particolare, ha ricavato
alcune riflessioni. Per combattere il comunismo i militari hanno
tradizionalmente contato su due fattori: l’uso di molti mezzi di guerra e molti
soldi. Con questa strategia, tuttavia, si perse il Vietnam. Lansdale sostiene
invece che questi due fattori funzionano solo se essi vengono integrati con
misure sociali ed operazioni politiche. Che, insomma, non si può vincere una
guerra e poi creare condizioni politiche favorevoli, ma si deve operare su
entrambi i fronti contemporaneamente. Per esempio, l’amministrazione Reagan,
all’inizio era tutta immersa dentro questa idea di un massiccio riarmo, e questa
era l’altra faccia di un’amministrazione Carter che invece era immersa dentro
stupide teorie sociali. La separazione fra le due cose ha sempre reso
ineffettiva l’una e l’altra “ (L.Annunziata, Oliver North, il colonnello che
voleva ispirare il potere, Repubblica 4 dicembre 1986).
Anche se il giornalista di Repubblica dimostra di ignorarlo completamente, il
fondamento delle teorie che espone, lungi dall’essere nuovo, sta alla base della
dottrina della guerra non ortodossa, scaturita dalle osservazioni dei francesi
in Indocina, degli inglesi in Malesia e dagli stessi americani nelle Filippine.
Nella ‘quarta dimensione della guerra’, come abbiamo più volte ribadito, la
separazione fra il civile ed il militare è stata abolita e a dirigerla sono
stati chiamati gli ‘Stati maggiori allargati’, che comprendono uomini
provenienti sia dagli ambienti politici, accademici, economici che da quelli
militari. Perché è guerra che prevede solo come extrema ratio il ricorso alle
armi da fuoco venendo, di preferenza, condotta con quelle della persuasione, del
benessere economico e del miglioramento delle condizioni sociali. Ma sempre
guerra è e, come tale, viene pianificata, diretta ed affrontata.
L’esempio ce lo fornisce l’inconsapevole giornalista di Repubblica che, nel
prosieguo del suo articolo, scrive: “…Chi è stato l’architetto di Grenada è
stato l’uomo chiave per distruggere gli squadroni della morte in Salvador,
aprendo la strada a Duarte. E’ gran parte merito suo se Duvalier è partito senza
maggiori traumi, ed è sicuramente stato North il grande artefice dell’operazione
nel Mediterraneo dopo Klinghoffer. Sembrano operazioni molto differenti; in
realtà poggiano su un’unica base: l’esistenza di un limitato ma altrettanto
selezionato gruppo di uomini…” (ibidem).
A parte l’esaltazione strumentale (per potergli addossare ogni responsabilità)
del colonnello Oliver North, l’immagine di come funzioni il potere parallelo è
qui fotografata in maniera credibile. Accettare, senza nulla obiettare, che gli
Stati uniti affidino la politica estera non al Dipartimento di stato, che ne
sarebbe l’unico titolare effettivo, ma ad un piccolo gruppo di uomini che
nessuno conosce e, contemporaneamente, rifiutare l’ipotesi che questa prassi
venga adottata anche in sede di Alleanza atlantica, è dare prova di malafede.
Siamo in un Paese a sovranità limitata. E a riconoscerlo, ultimo in ordine di
tempo, è perfino Gerardo Serravalle che lo scrive a chiare lettere: “E’ tempo di
riacquistare la nostra sovranità. I servitori dello Stato nei servizi non
debbono più trovarsi nella condizione di giurare fedeltà ad una patria
dimezzata, dove gli interessi dei servizi stranieri giocano un ruolo dai
contorni poco nitidi e, nella migliore delle ipotesi, non sempre in armonia con
i nostri” (G.Serravalle, Gladio cit., p.100-101). E’ tempo di prenderne atto,
riscrivendo la storia e traendo le dovute conseguenze dalla sua verità.
E’ storicamente datato il periodo, se non proprio il giorno esatto, in cui la
dinastia Savoia, per salvare il trono, decise che era giunto il momento di
abbandonare la Germania e di passare dalla parte degli Alleati: unico modo per
non perdere con onore la guerra, ma di ‘vincerla’ con ignominia. Se i calcoli
dei Savoia si rivelarono errati, ed essi furono fortunatamente allontanati dalla
guida del Paese, l’eredità di quanto avevano fatto sul piano del tradimento e
del doppio gioco rimase alla casta militare che non ha subito né operazioni né
processi. E che, pertanto, è rimasta impunita e convinta della possibilità e
della convenienza che il tradimento paghi, purché sia perpetrato a favore del
più forte.
Abbiamo descritto, in un libro rimasto ancora inedito (V.Vinciguerra, Storia
segreta di un popolo tradito 1943-1945, inedito 1985), il gioco condotto dai
servizi segreti militari e civili dall’estate del 1943 alla fine del conflitto
quando riuscirono, con una spregiudicatezza ed un cinismo senza pari, a
dividersi ufficialmente in due tronconi: uno con il Regno del sud, l’altro con
la Repubblica del nord. Restando, in realtà, un organismo unico impegnato a
difendere gli interessi della monarchia e a favorire la vittoria degli Alleati.
Lo scopo venne raggiunto creando uno strumento ad hoc, quello che Sandro
Attanasio definisce un “servizio segreto parallelo al Sim (Servizio informazioni
militari) che operava con scopi totalmente differenti da quelli ufficiali” (S.Attanasio,
Gli anni della rabbia cit.,p. 21).
E’ evidente che gli stessi protagonisti di un simile inganno, una ‘diversione
strategica’ che, per le sue dimensioni, ha pochi precedenti nella storia dei
servizi segreti, non ebbero scrupoli a trasformarsi, nel dopoguerra, da
difensori del Paese a suoi vigili e all’occorrenza spietati carcerieri,
impegnati a mantenere al suo interno l’ordine imposto dagli Stati uniti
d’America e, per conto loro, dalla Nato. Un accordo sovranazionale che risale a
qualche tempo dopo la costituzione dell’Alleanza atlantica, e che interessa in
modo specifico l’Italia e la Francia, sarà lo strumento privilegiato che gli
Stati uniti e la Nato utilizzarono per provocare nel nostro Paese una tragedia
che non ha ancora avuto fine.
Su questo specifico argomento, Giuseppe De Lutiis ha scritto –senza essere
smentito- che “questi accordi hanno la loro origine in protocolli aggiuntivi
segreti, stipulati nel 1949, contemporaneamente alla firma del Patto atlantico.
Essi prevedono l’istituzione di un organismo non ufficiale, anzi giuridicamente
inesistente, preposto a garantire con ogni mezzo la collocazione dell’Italia
all’interno dello schieramento atlantico, anche nel caso che l’elettorato si
mostri orientato in maniera difforme” (G.De Lutiis, Storia ecc.cit., p.126). Ma
se questa fu la premessa che ci vincolò agli Stati uniti, gli accordi con la
Francia, stipulati in ambito Nato, ci misero in una condizione di sudditanza e
trasformarono il nostro Paese in un laboratorio sperimentale per le alchimie
politico-militari di coloro che avevano deciso di preservare dal contagio
comunista l’Europa occidentale, cominciando a combattere il virus nei Paesi dove
era più diffuso e, quindi, potenzialmente più aggressivo, l’Italia e la Francia.
Dopo incontri al vertice e consultazioni segrete, non limitate ai soli militari
ma direttamente coinvolgenti, fra gli altri, anche i responsabili dei dicasteri
degli Interni fra Italia e Francia (riscontri si possono trovare in R.Canosa, La
polizia in Italia dal 1945 ad oggi, Il Mulino Bologna 1976; G.Scarpari, La
Democrazia cristiana e le leggi eccezionali 1950-1953, Feltrinelli Milano 1977),
viene varata un’operazione –scrive Philip Willan- denominata ‘Demagnetize’ (I
burattinai cit., p.34), di cui si trova traccia in un memorandum top secret
dello Stato maggiore americano, datato 24 maggio 1952 (ibidem), destinato a
produrre quell’effetto di smagnetizzazione che avrebbe allontanato i due Paesi
dal comunismo internazionale.
Cosa prevedeva il piano ‘Demagnetize’ lo rivela, in parte, Giuseppe De Lutiis:
“Questo –scrive lo storico comunista- è il passo centrale del documento:
l’obiettivo ultimo del piano è quello di ridurre le forze dei partiti comunisti,
le loro risorse materiali, la loro influenza nei governi italiano e francese e
in particolare nei sindacati, in modo da ridurre al massimo il pericolo che il
comunismo potesse trapiantarsi in Italia e in Francia, danneggiando gli
interessi degli Stati uniti nei due Paesi…La limitazione del potere dei
comunisti in Italia è un obiettivo prioritario: esso deve essere raggiunto con
qualsiasi mezzo…del piano ‘Demagnetize’ i governi italiano e francese non devono
essere a conoscenza, essendo evidente che questo può interferire con la loro
rispettiva sovranità nazionale” (Storia ecc.cit., p.62-63).
Evitare, dunque, che la calamita moscovita riuscisse nell’intento di attrarre a
sé quelle due nazioni, con le catastrofiche conseguenze che ne sarebbero
derivate per gli Stati uniti, fu il compito assegnato agli specialisti di quella
che, con l’affinamento della teoria e l’elaborazione della dottrina d’impiego,
venne definita ‘guerra non ortodossa’.
L’occasione per verificare il meccanismo di difesa, approntato dagli Stati
uniti, non tardò a giungere. Il paventato pericolo di una falla nel dispositivo
di difesa dell’Alleanza atlantica si materializzò, alla metà degli anni
Cinquanta, quando i servizi di sicurezza francesi impegnati nell’opera di
‘intelligence’ a supporto delle forze militari impiegate nella repressione della
guerriglia algerina, segnalarono che in seno al Fln esisteva una cellula
comunista guidata da Boumedienne. L’Occidente poteva accettare un’Algeria
indipendente, se avesse avuto la certezza che si sarebbe, comunque, mantenuta
all’interno di quello schieramento terzomondista equidistante (ufficialmente)
dai due blocchi, ma (riservatamente) vicino all’ex potenza coloniale per
ottenere aiuti economici e sostegno politico e diplomatico, mai uno spostamento
verso Est, verso l’impero sovietico. Con Boumedienne, addestrato a Mosca,
comunista ortodosso, l’ipotesi di una sua conquista del potere all’interno del
Fln che lo avrebbe reso automaticamente capo del nuovo Stato algerino, divenne
concreta, tanto da destare il più vivo allarme tra i vertici politici e
militari, statunitensi ed atlantici (notizie tratte da conversazioni avute
dall’Autore con Yves Guerin Serac).
L’Algeria, però, rappresentava per costoro un problema non facilmente
risolvibile. Il Paese era una colonia francese e, in quanto tale, rientrava a
pieno titolo in quell’area Nato dove le forze armate dei Paesi aderenti
all’Alleanza erano legittimate ad intervenire. E tanto pretendeva, infatti, la
Francia. Ma gli Stati uniti sostenevano, ufficialmente, il principio
dell’autodeterminazione dei popoli e la fine del colonialismo e il Fln algerino
non combatteva in nome di un’ideologia ma in quello della libertà e
dell’indipendenza dalla Francia. Washington non poteva, quindi, smentire se
stessa autorizzando la Nato ad intervenire a fianco dell’esercito francese in
Algeria, pena ripercussioni gravissime sulla politica estera e la totale perdita
di credibilità in Asia e in Africa.
Così l’Alleanza atlantica si astenne, per l’opinione pubblica mondiale, da
qualsiasi tipo di intervento: l’Algeria era e doveva restare, sempre
ufficialmente, un problema esclusivamente francese. L’Algeria non era
l’Indocina, dove i francesi erano stati abbandonati a se stessi dagli americani.
Era un Paese che la Nato non poteva permettersi di perdere a favore di Mosca. Le
implicazioni politiche e militari di un suo passaggio al blocco orientale erano
ritenute troppo gravi per assistere passivamente alla sua caduta. Algeri non era
Hanoi, era molto di più. E, nella scacchiera della politica mondiale, la sua
comunistizzazione sarebbe equivalsa ad uno scacco matto che né i vertici
dell’Alleanza atlantica né Washington erano disposti a subire.
Come evitarlo? L’idea agli strateghi americani e atlantici dovette sembrare
splendida: l’Algeria alla Francia, trasformata da colonia in territorio
metropolitano e i suoi abitanti in cittadini francesi, con parità di diritti e
di doveri. Non l’indipendenza ma l’integrazione era il mezzo per non perdere
l’Algeria: gli algerini volevano una patria, e la Francia sarebbe divenuta la
loro patria, Parigi, non Algeri, la loro capitale. Così, per non consegnare
l’Algeria al comunismo, si sarebbe sacrificata la Francia, la sua storia, la sua
cultura, la sua identità.
Per condurre in porto un’operazione che avrebbe incontrato fortissime resistenze
nella popolazione francese, serviva un uomo che aveva un’indiscussa autorità
morale, una figura carismatica in grado di imporre la sua volontà alla Francia
intera perché egli stesso era la Francia: Charles De Gaulle. In nome della
Francia e per la Francia, spiazzando partiti e forze politiche, Parlamento e
governo, le Forze armate attraverso i loro più prestigiosi esponenti, il 13
maggio 1958, dinanzi ad una folla in delirio di algerini e pieds-noir, ad
Algeri, lanciano la sfida dell’integrazione e chiamano De Gaulle al potere.
Washington aveva fatto la mossa vincente. Il 1 giugno 1958, il generale Charles
De Gaulle assume le redini del governo. Quattro mesi più tardi un referendum
popolare legittimerà la sua ascesa al potere e segnerà la nascita della Quinta
repubblica, sotto il segno della croce di Lorena.
No, non era la mossa vincente. Sulle basi delle proiezioni demografiche, De
Gaulle apprende che con l’integrazione dei due popoli, nell’arco di un
trentennio, forse meno, la prolifica popolazione algerina avrebbe superato
quella francese e, divenendo maggioranza, avrebbe assunto le redini del potere
politico trasformando la Francia nella prima nazione araba dell’Europa. Non
sarebbe stato De Gaulle, credente nella ‘grandeur’ della Francia, ad aprire al
mondo arabo quelle porte che i paladini di Francia avevano sbarrato tanti secoli
prima. Consapevole della gravità dell’ora, Charles De Gaulle decide di concedere
all’Algeria l’indipendenza ponendo fine ad una guerra che, se militarmente non
può essere persa, politicamente non si potrà mai vincere.
La reazione degli Stati uniti e dell’Alleanza atlantica si concretizza l’8
febbraio 1961. Quel giorno, difatti, viene ufficialmente fondata
un’organizzazione terroristica composta da militari e da civili, che assume un
nome singolare: Oas, Organization de l’armée secrete. L’Oas si propone di
bloccare le trattative tra francesi ed algerini, instaurate per giungere ad una
soluzione del conflitto, con l’adozione di metodi di terrorismo selettivo (anche
se non mancano episodi di terrorismo indiscriminato) e, soprattutto, con
l’eliminazione fisica di Charles De Gaulle.
Gli attentati contro il capo dello Stato francese continueranno anche dopo la
firma della pace con il Fln ed il ritiro delle truppe francesi dall’Algeria, in
una logica di vendetta ma anche di esempio e di monito per tutti coloro che
avessero voluto, in futuro, agire in contrasto con gli interessi degli Stati
uniti e dell’Alleanza atlantica. Chissà se Aldo Moro pensò a Charles De Gaulle
durante i giorni della sua prigionia? Noi pensiamo di sì, anche se il codardo
silenzio dei suoi carcerieri ci impedisce di averne conferma.
Chi sono, in realtà, i civili e i militari che De Gaulle definirà con disprezzo
‘soldati perduti’ perché, come le donne di malaffare vendono il loro corpo, loro
hanno venduto il loro onore? E cos’è l’ ‘organizzazione dell’esercito segreto’
che, in brevissimo tempo dalla sua apparizione ufficiale, irromperà anche nella
storia d’Italia concorrendo a scriverne le pagine più insanguinate?
Non è un’armata ribelle. E’, al contrario, la forza disciplinata, fedele,
obbediente, che ha per patria l’Occidente, agli ordini dell’Alleanza atlantica e
degli Stati uniti. E’ la guardia pretoriana dell’impero che vigila sui governi e
sui popoli perché nessuno pensi di sovvertire l’ordine imposto dalla ‘città
sulla collina’ e di rallentarne la marcia lungo il cammino della storia. E’ l’
‘organizzazione’ Nato, le Stay-behind che intendono fermare e punire il
‘traditore’ De Gaulle che, non a caso, una mirata campagna stampa cercherà di
accreditare, negli anni successivi, come agente sovietico sin dai tempi della
seconda guerra mondiale. Mentre, di converso, si scriveranno libri per
riabilitare di fronte all’opinione pubblica i ‘soldati perduti’ dell’Oas,
significativamente paragonati a centurioni romani che si ribellano all’abbandono
e al tradimento dei Cesari, che lasciano inutilmente imputridire le loro ossa
‘lungo le piste del deserto’ fino a scatenare la collera delle legioni.
Affermare che l’Oas è stata espressione delle Stay-behind potrà sembrare agli
scettici ad oltranza una tesi suggestiva, un’ipotesi di lavoro destinata a
naufragare in un mare di ‘se’ e di ‘forse’, di supposizioni senza riscontri. E,
invece, le prove esistono.
Gli organismi di sicurezza francesi fecero il meno possibile per neutralizzare
gli uomini dell’Oas e paralizzare la loro azione. La evidente riluttanza dei
servizi segreti e delle forze di polizia a perseguire i ‘terroristi’ dell’
‘organizzazione dell’esercito segreto’, spinse De Gaulle a creare un corpo di
polizia parallelo che potesse proteggerlo dagli attentati di cui era oggetto, e
potesse in qualche modo contrastare gli impuniti ribelli.
La fuga di Marc Robin, una delle figure di maggior spicco dell’Oas, il 2 maggio
1964 dall’ospedale civile di La Rochelle, è uno degli episodi che meglio
evidenziano gli appoggi ad altissimo livello di cui godevano gli uomini dell’Oas.
Benché fosse condannato a vent’anni di reclusione dal Tribunale militare e
all’ergastolo dalla Corte di sicurezza della repubblica, Marc Robin, detenuto
dal marzo 1962, viene trasferito da un penitenziario di massima sicurezza ad un
ospedale civile da dove evase tranquillamente, sottoposto com’era alla
sorveglianza di un solo poliziotto. Lo scandalo che ne seguì indusse il governo
a scaricare ogni responsabilità sul prefetto di La Rochelle, Claude Massol,
sacrificato –scrive Giuseppe Bonazzi- per non ammettere mancanze ed errori fra i
più stretti collaboratori di De Gaulle e soprattutto per non alimentare il
sospetto di complicità con l’Oas in seno al personale ministeriale della V
repubblica” (G.Bonazzi, Colpa e potere, Il Mulino Bologna 1983, p.131).
Un sospetto più che legittimo perché altre figure di spicco dell’Oas, prima di
Robin, si erano sottratte alla detenzione con fughe tanto tempestive, se non
impossibili, se non fossero state favorite da uomini piazzati ai vertici dello
Stato francese. Ma qualcosa di singolare si verificò anche al di fuori dello
Stato francese, in quei Paesi europei che per opportunità, prassi consolidata,
solidarietà con il governo francese, amico ed alleato, avrebbero dovuto
collaborare senza riserve con le autorità francesi nella ricerca e nella cattura
degli uomi dell’Oas, sparsi in mezza Europa, e non lo fecero.
George Watin, che aveva attentato nel 1962 alla vita di De Gaulle (la sua azione
ispirò il romanzo ‘Lo sciacallo’), venne successivamente arrestato nella
Repubblica elvetica, “ma le autorità svizzere rifiutarono l’estradizione e
preferirono espellerlo. Watin si trasferì in Spagna, ed infine in Sudamerica,
dove si stabilì in Paraguay nel 1965” (E’ morto Watin, lo ‘sciacallo’. Attentò
alla vita di De Gaulle, Repubblica 21 febbraio 1994).
Yves Guerin Serac, invece, a dispetto della condanna a morte riportata si
stabilisce in Portogallo, dove continua a svolgere in maniera proficua la sua
attività di ‘difensore della civiltà cristiana’ e degli interessi della Nato,
praticamente alla luce del sole, intrattenendo rapporti con gli esponenti dei
servizi segreti occidentali senza che le autorità francesi nulla possano o
vogliano fare per perseguirlo.
Si dirà che la Svizzera neutrale e il Portogallo fascista poco o nulla contano
per dimostrare gli appoggi e le coperture, garantiti sul piano internazionale,
ai ‘terroristi’ dell’Oas. Vediamo, allora, cos’è accaduto in Italia, paese amico
della Francia, partecipe all’Alleanza atlantica, vincolato da precisi accordi
bilaterali con il governo francese in tema di lotta contro l’eversione.
Sul punto, lasciamo la parola a Giuseppe De Lutiis, storico ufficiale del
Pci-Pds che scrive, testualmente: “Una pagina che invece fa onore all’Ufficio
affari riservati di quegli anni è l’azione di contenimento che i suoi funzionari
svolsero nei confronti dell’attività dell’Oas in Italia, che invece era favorita
e protetta dal Sifar. Il Servizio informazioni delle Forze armate, infatti, dopo
aver appoggiato, negli anni precedenti, il Fronte di liberazione nazionale
algerino su ordine di Mattei, alla sua morte cambiò radicalmente politica,
favorendo apertamente l’attività dell’organizzazione eversiva dei fascisti
francesi. L’ Ufficio affari riservati, che fino al 1962 si era collocato
obiettivamente alla destra del Sifar con l’obiettivo di contrastare l’attività
degli algerini, si trovò improvvisamente –e suo malgrado- a svolgere una
politica antifascista. In realtà, sia prima che dopo, l’Ufficio affari riservati
aveva tutelato gli interessi del governo francese, ma va obiettivamente
riconosciuto che se l’Italia smise, in parte, di essere terreno di pascolo per i
vari Soustelle, Susini, De Massey, Lacheroy si deve soprattutto all’azione
dell’Ufficio affari riservati” (G.De Lutiis, Storia ecc.cit., p.90).
In questo cumulo di sciocchezze, c’è una sola verità riferita alla ufficiale
inattività del Sifar nei confronti dell’Oas che nascondeva, come vedremo, una
collaborazione con i suoi esponenti che il servizio militare italiano non poteva
rifiutarsi di offrire e che riceverà la sua giusta ricompensa. In quanto alla
meritoria (per De Lutiis) attività dell’Ufficio affari riservati contro l’Oas,
essa si ridusse all’individuazione dei suoi esponenti in Italia e al loro
successivo accompagnamento alla frontiera da loro prescelta (U.F.D’Amato, Menu e
dossier, Rizzoli Milano 1984).
In pratica, il governo italiano non perseguì mai gli uomini dell’Oas né per i
reati da costoro commessi in territorio francese, né per quelli compiuti
introducendosi con documenti falsi e, spesso, armati, nel nostro territorio. Se
si rapporta il comportamento delle autorità politiche italiane –e degli altri
Paesi europei- alla gravità dei fatti di cui si erano resi protagonisti gli
uomini dell’Oas in Francia, con azioni che spaziavano dalla strage al tentato
omicidio di un capo di Stato, ad omicidi plurimi, insurrezione armata etc.etc.,
si comprende l’autorità della forza sovranazionale che proteggeva questi
‘soldati’ senza più divisa, insorti contro il potere legittimo di un Paese che
ospitava i comandi della Nato.
Non possiamo indicare con esattezza il giorno in cui De Gaulle venne a
conoscenza della reale natura degli uomini dell’Oas e della loro dipendenza
dalla Nato, del loro essere parte integrante della struttura Stay-behind. Forse,
ma è solo un’ipotesi, fu Jacques Soustelle a rivelarglielo dopo il suo
riavvicinamento al generale De Gaulle che per lui era sempre stato un mito. E’
certo che fu Soustelle a sventare un attentato contro il capo dello Stato
francese, nel 1965, quando “in occasione di un viaggio in Vandea del generale,
che comprendeva una sosta di raccoglimento sulla tomba di Clemenceau, una bomba
telecomandata avrebbe dovuto ucciderlo” (C. Bosco, De Gaulle: l’attentato
segreto, La Stampa 12 dicembre 1992). Soustelle informò i servizi di sicurezza
del Presidente e gli salvò la vita: dopo è presumibile che gli abbia rivelato
pure il resto.
Quale che sia la verità su questo punto, è certo comunque che nel 1966 De Gaulle
cacciò i comandi Nato dal territorio francese e ritirò la Francia dall’Alleanza
atlantica. La motivazione è inequivocabile: “L’esistenza di protocollo segreti
della Nato che affidavano ai servizi segreti dei Paesi firmatari la prevenzione
dell’avanzata comunista –scrive Philip Willan- emerse fin dal 1966, quando il
presidente De Gaulle decise di ritirare la Francia dal sistema militare
integrato della Nato, denunciando quei protocolli come una palese violazione
della sovranità nazionale” (P.Willan, I burattinai cit., p. 33-34).
Nessun dubbio, quindi: la scoperta che la struttura segreta della Nato, in
ottemperanza alle direttive del piano ‘Demagnetize’ aveva agito contro la sua
politica e la sua persona per impedire che concedesse l’indipendenza
all’Algeria, indusse il generale De Gaulle ad espellere i comandi Nato dai
territori di una nazione di cui avevano violato la sovranità, in cui avevano
sparso il terrore e la morte, tentando anche di assassinarne il capo e il
simbolo.
Ma la partita rimase aperta. Ancora due anni e l’ ‘esercito segreto’ avrebbe
umiliato e sconfitto l’orgoglioso generale e, insieme a lui, la Francia
abbandonati da un’Europa che da tempo aveva abdicato alla propria dignità e al
proprio onore (…).
L’estate del ’68 vide sfilare per le strade francesi mezzi corazzati e soldati
armati, nell’inutile ostentazione di una forza che il governo De Gaulle
ostentava ma non aveva. E, infine, il crollo e la disfatta. Charles De Gaulle,
capo dello Stato, comandante delle Forze armate francesi, si deve umiliare a
chiedere il sostegno del suo esercito, recandosi in Germania dove c’è il
generale dei paracadutisti, Massu, ufficiale d’Indocina e d’Algeria.
Il risultato non tardò. Nel settembre del 1968 un’amnistia cancellò i reati
compiuti dagli uomini dell’Oas, in forma radicale, totale e definitiva.
L’avventura sanguinosa dei ‘soldati perduti’ veniva cancellata dalla storia
giudiziaria di Francia. De Gaulle, fatto oggetto di nove attentati, apponeva la
firma ad un progetto che graziando i suoi mancati assassini, lasciando impunito
il loro tradimento contro lo Stato, segnava la sua sconfitta. Le Stay-behind, l’
‘organizzazione’ avevano vinto(…).
Affermare che l’Organization de l’armée secrete altro non fu che il braccio
armato dell’ ‘organizzazione’ Nato non ‘ una forzatura. Una prova indiscutibile
ci viene dagli archivi degli Affari riservati del ministero degli Interni che
abbiamo visto attivarsi solo nel 1962, con molto tatto ed assoluta discrezione,
per invitare gli esponenti dell’Oas a lasciare l’Italia. Risulta che il servizio
segreto civile “dal 1961 aveva deciso di sottoporre Giannettini a vigilanza
speciale, perché risultava in contatto con elementi dell’Oas. Questa misura
–scrive De Lutiis- fu revocata il 21 settembre del 1968, epoca in cui il
fenomeno dell’Oas era esaurito…” (G.De Lutiis, Storia ecc.cit. p.163).
Continuare a credere, ancora oggi, che Guido Giannettini sia stato assunto dal
Sid solo nel 1966, sarebbe negare l’evidenza dei fatti. Andando a ritroso nel
tempo, vediamo infatti Giannettini impegnato nel convegno dell’istituto A.Pollio
nel maggio del 1965, a Roma; lo troviamo nel 1964 intento a stendere un
documento sulla ‘guerra non ortodossa’ per conto del reparto del Sifar ad essa
preposto e, grazie all’attività di controllo reciproco fatta dai nostri servizi
sul loro operato, sappiamo che collaborò con l’Oas –ufficialmente nata l’8
febbraio del 1961- praticamente fin dal suo sorgere.
Di rilievo è il fatto che gli spioni dell’AA.RR. confermano come, benché
l’attività dell’Oas si fosse ufficialmente esaurita da diversi anni, la sua
esistenza viene considerata conclusa solo dopo che De Gaulle ha concesso
l’amnistia ai suoi capi ed ai suoi militanti. Erano stati i servizi segreti
francesi, nel 1959, “a convincere gli alleati del Cpc (Comitato di coordinamento
e pianificazione) di estendere al Sifar l’accesso al comitato stesso”
(G.Serravalle, Gladio cit., p.80) e nel 1964 il servizio segreto militare “entrò
a far parte del Cca (Comitato clandestino alleato)” (sentenza Casson in Servizi
segreti cit., p.71). Un coinvolgimento premiale in quelle che sono le attività
segrete della Nato in un periodo cruciale per la storia europea, nella quale
spicca l’attivismo e la spregiudicatezza degli uomini delle Stay-behind francesi
e italiane.
Non deve stupire il ruolo ricoperto dalla Francia nella battaglia anticomunista
e la sua influenza, non pubblica né ufficiale, sulle vicende segrete
dell’Italia. E’ sufficiente ricordare qui come essa assunse funzioni di guida e
di esempio per questo Paese sin dall’autunno del 1943, quando la nascita di Salò
ripropose da noi le condizioni ed i problemi che la Francia aveva con Vichy.
Decisiva fu, poi, la sua influenza nell’immediato dopoguerra quando entrambe le
nazioni dovettero riassorbire, in modo il meno possibile traumatico, le
conseguenze della spaccatura che gli eventi della seconda guerra mondiale
avevano determinato al loro interno.
Presente nella nascita di una destra neofascista che ebbe la funzione di fare da
cerniera tra la massa dei reduci repubblicani ed il nuovo regime politico, la
Francia rimase legata indissolubilmente all’Italia dall’esigenza di far fronte
al comune problema rappresentato dalla presenza dei più forti partiti comunisti
sul territorio di entrambi i Paesi. E’ degno di approfondita riflessione –e di
amara considerazione- che l’interdipendenza, colorata di sudditanza da parte
nostra, tra Francia e Italia non sia emersa né sul piano storico né su quello
giudiziario dove le inchieste sul terrorismo e sulla massoneria avrebbero dovuto
farle rilevare da tempo.
Sul ruolo che la massoneria francese ha avuto sulle nostre vicende , è
sufficiente richiamare qui quanto dichiarato dal Gran maestro Giuliano Di
Bernardo: “A chi si rifanno –gli ha chiesto nel corso di un’intervista il
giornalista- i suoi avversari del Grande oriente?”. “Sono collegati al Grande
oriente di Francia, cioè ad una fratellanza che teorizza addirittura l’impegno
politico ed il peso del potere –è la risposta- e degli affari”. “Ma secondo lei
–insiste l’intervistatore- perché il Grande oriente di Francia è così nefasto?”.
“Perché rappresenta –risponde Di Bernardo- una tradizione ispirata all’ateismo,
perché come ho detto l’impegno politico non solo non è bandito ma è
determinante, e perché contare sempre di più nella vita economica rappresenta
una benemerenza” (A. Marcenaro, Io, Di Bernardo dico a Cordova di tirarsi
avanti, Il Giorno 11 luglio 1993). E’ il ritratto di un mondo massonico che è
sempre riuscito a restare sommerso, ma che evoca scontri durissimi e trame poco
pulite come le strategie di potere che queste forze hanno utilizzato per i loro
fini.
Del resto, come abbiamo visto, l’ ‘organizzazione’ si è sempre mossa a suo
perfetto agio in acque massoniche. Forse, appartenente a qualche ‘obbedienza’
d’oltralpe era anche Yves Guerin Serac, pseudonimo dell’ufficiale francese che
tanta parte ha avuto nella storia più tragica del nostro Paese. Da ufficiale del
controspionaggio francese a comandante di un reggimento di paracadutisti ad
Orano, un passato militare di prim’ordine che lo ha visto uscire da saint Cyr
per recarsi in Germania con le truppe di occupazione francesi, poi in Corea,
quindi in Algeria, per approdare nell’ ‘organizzazione’, Guerin Serac ha modo di
stabilire contatti con i collaboratori dei servizi segreti militari italiani e
con i loro agenti. Quando ancora la contrapposizione tra l’Oas e De Gaulle è
ancora viva, l’ex ufficiale dei ‘commandos’ apre in Portogallo un’agenzia di
stampa che gli serve da copertura, noncurante della condanna a morte che gli
pesa sul capo perché nessuno verrà mai ad infastidirlo. Anzi, la fama di ribelle
rafforza la sua immagine ufficiale di anticomunista perseguitato dal regime
francese, e facilita la sua opera di penetrazione nei vari ambienti nei quali si
muove.
Coloro che stringono con lui accordi di cooperazione e da lui ricevono materiale
per la preparazione dei militanti dei loro gruppi, come Rauti e Delle Chiaie,
sanno bene chi è e dove si colloca, per chi lavora e in nome di quale ‘entità’
agisca: lui, Guerin Serac, come Guido Giannettini e tanti altri. Quando
inizieranno le indagini sui fatti del 12 dicembre 1969, il silenzio dei
neofascisti può essere equiparato a quello del Sid e dell’AA.RR. Proteggono se
stessi e, tutti insieme, l’ ‘organizzazione’ alla quale alcuni appartengono, per
la quale altri hanno lavorato in modo cosciente e consapevole.
Dopo che il 25 aprile 1974, la ‘rivoluzione dei garofani’ pose fine all’attività
di Serac in Portogallo e la storia dell’Aginter press finì su tutti i giornali,
il Sid farà qualche timida ammissione sul conto dell’ufficiale francese. “…Nel
1976, l’ammiraglio Casardi consegnerà ai magistrati un documento interno
dell’aprile del 1970 nel quale si spiega, con riferimento all’appunto del 1969,
come sia Guerin Serac che Leroy non sono anarchici ma appartengono a
un’organizzazione anticomunista. Si suggerisce di tacere questa notizia alla
P.S. e ai carabinieri” (G.Boatti, Piazza Fontana cit., p.233).
E quale organizzazione era così potente da indurre gli apparati di sicurezza
italiani a proteggerne due aderenti, mandando perfino sotto processo i propri
ufficiali pur di difenderne identità e ruolo? Non certo un'organizzazione della
‘destra eversiva’ ma solo una, quella di sempre, l’unica che coloro che ne fanno
parte chiamano semplicemente l’ ‘organizzazione’, senza altri aggettivi.
Esiste, in Francia, una rete estesa su tutto il territorio nazionale, composta
da uomini di ogni ceto sociale e categoria professionale (poliziotti, medici,
militari, albergatori, taxisti, insegnanti, giornalisti ecc.ecc.) che
consentiva, ad esempio, a chi ne avesse avuto necessità, di soggiornare in terra
di Francia senza documenti, senza soldi, senza niente, perché nessuno gli
avrebbe mai chiesto alcunché in cambio dell’alloggio, del vitto, del taxi,
dell’assistenza che gli avrebbe fornito. Una rete adeguata per quei compiti di
‘esfiltrazione’ che sono tipici delle Stay-behind, e che servono a far
scomparire nel nulla persone che è meglio sottrarre all’attenzione di altri
apparati dello Stato, come la magistratura. Ma, ovviamente, potevano servire per
molte altre incombenze, sempre riservatamente svolte.
Me l’avevano descritta, inizialmente, come un’organizzazione di ex pieds-noir ed
ex Oas, rimasti uniti, legati dal filo della nostalgia alla perduta terra
d’Algeria, limitata al sud della Francia e diretta da un uomo che aveva
ricoperto un ruolo di primo piano nella storia dell’ Organization de l’armée
secrete: Jacques Susini, avvocato a Parigi, perfettamente integrato nella
Francia post-gaullista. Ma, poi, si verificò la comica disavventura di Sandro
Saccucci, nell’estate del 1976, e la realtà sull’organizzazione del Susini si
palesò per quella dell’ ’organizzazione’, così com’era definita, senza
aggettivi, allo stesso modo che in Italia. Dopo i fatti di Sezze, località dove
il deputato missino si era recato insieme al maresciallo Francesco Troccia, in
forza all’ufficio ‘R’ del Sid (G.De Lutiis, Storia ecc.cit., p.208 in nota),
Saccucci scappò dall’Italia con in tasca un biglietto dov’era annotato il numero
riservato di Umberto Federico d’Amato, allora capo della polizia di frontiera, e
un passaporto falso.
Non era un buon passaporto, quello che qualcuno aveva rifilato a Saccucci, forse
per malizia, forse perché ignaro, dato che corrispondeva a quello di un
pluripregiudicato ricercato per rapina ed altro in Francia. Così, quando
Saccucci accompagnato da un ambiguo militante di Avanguardia nazionale, Mario
Ricci, che era andato a prenderlo a Parigi, giunse alla frontiera nord dove i
controlli di polizia, a causa del terrorismo basco, erano accurati, venne
arrestato e portato, con l’ausilio di qualche calcione, al commissariato di
Bayonne. Mario Ricci che, prudentissimo per natura, si era allontanato dal
Saccucci al momento del controllo dei documenti, infilandosi in un diverso
scompartimento, proseguì per Madrid e diede l’allarme.
Delle Chiaie si mosse in due direzioni: telefonò a susini, da un lato, e a Sixto
di Borbone Parma, dall’altro. Quest’ultimo telefonò al prefetto di Parigi
richiedendo un colloquio urgente che gli venne subito concesso, disponendo il
prefetto che una macchina si recasse a prelevare il principe al suo domicilio.
L’altro, Susini, si mosse per suo conto, con più tempestività ed efficienza. Il
risultato fu che Saccucci venne rilasciato su disposizioni di autorità superiori
della polizia francese, sollecitate da Susini. Da Bayonne, il terrorizzato
missino fu accompagnato alla frontiera spagnola dove venne prelevato dagli
uomini dei servizi speciali spagnoli, sempre allertati da Delle Chiaie, e
accompagnato a Madrid. Lo ‘Stato parallelo’ e quello ufficiale si erano mossi in
sintonia, in soccorso di Sandro Saccucci.
Ancora l’ ‘organizzazione’, versione francese, provvide ad inviare alcune
centinaia di uomini, a scaglioni di un centinaio ciascuno, nella Beirut del
1975, allo scoppio della guerra civile, in aiuto ai cristiani maroniti. Civili
fisicamente allenati, ben addestrati all’uso delle armi, che rafforzarono con la
loro presenza le inesperte milizie cristiane in via di formazione, partecipando
ai combattimenti e insegnando loro la difficile arte del combattimento nelle
aree urbane. Anni fecondi per le attività segrete ed inconfessabili dell’
‘organizzazione’ che anche in Francia aveva sempre contato su referenti politici
ad altissimo livello, come Giscard d’Estaing, indicato come molto vicino
all’Oas, assurto alla carica di Presidente della repubblica francese.
L’ultima prova dell’appartenenza di Guerin Serac alle Stay-behind mi è giunta,
inaspettata, un anno e mezzo fa. Parlando con Guido Salvini dell’operazione
organizzata, alla metà degli anni Settanta, da Serac e dai suoi colleghi con la
complicità di ex appartenenti al Fln contro il governo algerino, con la
attuazione di un piano destabilizzante che prevedeva attentati dinamitardi sia
contro sedi diplomatiche algerine all’estero che all’interno del Paese, feci
riferimento ad un’operazione da me organizzata, su richiesta di Ralph,
nell’ambito di questa offensiva anti-algerina. Indicai negli attentati
dimostrativi di Roma (una bomba carta) e di Francoforte in Germania, oltre ad
uno a Parigi che poi non venne fatto dagli italiani, quelli da me organizzati.
Si diede il caso che a Francoforte si erano recati due avanguardisti, uno dei
quali il timorosissimo (per la propria incolumità) Mario Ricci. Non abituato ad
agire previa copertura degli organismi di sicurezza, il Ricci ed il suo degno
compare si limitarono a deporre l’ordigno nei pressi dell’ambasciata algerina e
fuggirono a gambe levate. Dura fu la reazione di Guerin Serac che giudicò un
atto di vigliaccheria il comportamento dei due avanguardisti, ma a distanza di
anni la mancata esplosione dell’ordigno si è rivelata una circostanza utile per
chi cerca la verità.
La scrupolosa polizia tedesca, difatti, rinvenuta la bomba preparata a regola
d’arte da professionisti, ha conservato tutto il necessario per poterne
determinare il tipo di esplosivo con il quale era stata confezionata: C-4. Il
famigerato C-4, l’esplosivo di Gladio che non era in circolazione in nessuna
parte d’Europa e nemmeno in dotazione delle forze Nato e ai reparti militari
nazionali, ma prerogativa assoluta, in Italia come in Francia, delle
Stay-behind.
Una prova in più che ‘Ralph’, l’ufficiale ‘ribelle’ dell’Oas era un uomo dell’
‘organizzazione’, come coloro che avevano confezionato l’ordigno, come Susini,
come coloro che meritano fino in fondo quella qualifica, sprezzante, di ‘soldati
perduti’ che deve essere riattualizzata oggi per essere estesa a quanti hanno
prostituito, in terra d’Europa, la loro divisa e il loro onore al nemico più
temibile e spietato che mai, nella nostra storia millenaria, ci ha combattuti.
Gladio come l’ ‘organizzazione’, quindi. Una conferma ulteriore ci viene da
Gerardo Serravalle che cita i servizi segreti francesi, evidentemente rientrati
o mai usciti (più verosimilmente) dalle strutture clandestine della Nato,
nonostante la volontà di De Gaulle. Che racconta, stavolta, l’ex capo di Gladio?
Che i francesi avevano informato gli spagnoli dell’esistenza della rete
clandestina “in violazione di tutte le norme di segretezza, giurate e
sottoscritte” (G.Serravalle, Gladio cit., p. 81).
Al di là delle loro beghe interne, interessa qui rilevare come creare una
struttura antinvasione (sovietica) in Spagna, nei primi anni Settanta, non
avrebbe avuto logica, né politica né militare, non profilandosi alcun pericolo
del genere neppure in via ipotetica. Concreto, viceversa, era il pericolo che
alla morte del generale De Gaulle la sinistra comunista potesse riportare un
successo tale da creare una situazione di instabilità interna ed internazionale.
La fine del franchismo, con il ritorno alle competizioni elettorali, nelle quali
era presente il Pce di Santiago Carrillo, determinava anche per la Spagna quello
stato di allarme che esisteva in Italia e in Francia. Una Gladio spagnola
sembrò, quindi, la contromisura più adeguata. E per chi non avesse compreso che
in Spagna, come in Italia, Gladio dovesse sventare una minaccia interna della
‘quinta colonna’ comunista, Serravalle ammette che “la concezione spagnola delle
Stay-behind degli anni ’70 ricorda quella dell’ammiraglio Henke” (ivi, p.83-84).
L’ ‘organizzazione’ come Nato, dunque. A dirlo sulla base di qualche documento
che noi non abbiamo potuto leggere è Felice Casson. Mentre era impegnato a
dimostrare che Gladio non dipendeva dalla Nato, che era solo un covo di eversori
dipendenti dai servizi segreti ‘deviati’, il nostro astutissimo e blindatissimo
(dal Sisde ma con i soldi nostri) Casson giungeva alla conclusione che:
“…Andando a rileggere la convenzione di Ottawa del 20 novembre del 1959,
all’art.1, quando si vuol definire l’ ‘organizzazione’ in questione, si parla di
North atlantic treaty organizarion, che altro non è che la Nato: quindi
–conclude il blindato Casson- quando si parla di ‘organizzazione’ si intende far
riferimento alla Nato, con tutto ciò che ne consegue” (sentenza Casson cit.,
p.75).
Esattamente ciò che diciamo noi; l’ ‘organizzazione’ di Susini, in Francia,
quella che esprime ‘deferenza’ ad Andreotti, in Italia, quella camuffata da
Aginter press, in Portogallo, e da Rosa dei venti, in Italia, quella che sparge
terrore sotto la sigla Oas, in Francia, e che predica la ‘distruzione del
sistema’ come Ordine nuovo, in Italia, quella di cui parlano Spiazzi, Cavallaro,
Miceli, Rossetti, Lex, Lunetta, Bonasi etc.etc. in Italia, in Francia, in Europa
è l’organizzazione Nato, l’unica, la sola che non necessita di aggettivi perché
è l’ ‘Organizzazione’ per antonomasia.
Quante e quali considerazioni si dovrebbero fare per concludere questo breve
documento su quanto abbiamo scritto, udito e vissuto. Ci limitiamo ad una, che
riguarda coloro che a destra come a sinistra si sono illusi che servendo la
politica degli Stati uniti e collaborando con la sua organizzazione, ora per
destabilizzare ora per depistare, sarebbero stati infine premiati con l’ascesa
al governatorato della nazione umiliata. Si sono sbagliati. Gli ingannatori sono
stati, a loro volta, ingannati. Lo specchio che rifletteva l’insidia della
doppia realtà ne occultava una terza perché nessuno può e deve vincere, a destra
come a sinistra o al centro, al di fuori dell’ ‘organizzazione’ e del potere
atlantico.
Così è stato. E così continuerà ad essere, fino a quando non verrà smascherato
quello Stato invisibile che si occulta dietro la linea che separa la realtà che
appare da quella che non appare ma è.
Opera, 1994
LA CONCLUSIONE
Il documento che precede queste pagine è stato redatto nel carcere di Opera
(Milano) nei primi mesi del 1994, a mano per il rifiuto dei carcerieri di
consegnarmi la macchina da scrivere di mia proprietà in spregio al proprio
regolamento interno.
Negli anni successivi è stato pubblicato sul sito della Fondazione "Luigi
Cipriani".
A distanza di quasi quattordici anni conserva intatta la sua attualità, anzi
possiamo segnalare come quanto da noi scritto sul conto dell'OAS, come parte
integrante dell'organizzazione atlantica ha trovato puntuale conferma nelle
pagine del libro scritto da uno storico svizzero, pubblicato in Italia nel 2005,
"Gli eserciti segreti della Nato. Operazione Gladio e terrorismo in Europa
occidentale" di Daniele Ganser.
A parte la citazione di chi scrive come "gladiatore", opinione che Ganser si
forma leggendo i resoconti giornalistici ed ascoltando le "voci" diffuse ad arte
dallo sciacallo togato ( oggi senatore) Felice Casson che mai, ovviamente, ha
osato sottoscrivere questa accusa in un documento giudiziario per
l'impossibilità di provarla per assoluta mancanza di indizi, logica e verità,
rimane il fatto che si deve ad un ricercatore straniero la prima conferma a
quanto da me asserito da oltre venti anni sul conto dei mercenari francesi al
servizio della Nato.
Non ripeteremo quello che abbiamo scritto nelle pagine precedenti, ci limitiamo
a far presente che la Nato, insieme ai servizi segreti americani ed israeliani,
nella primavera del 1968 riuscì a compiere un colpo di Stato che comportò la
fine della politica del generale Charles De Gaulle e, con essa, il ritorno della
Francia nello schieramento difensivo atlantico e la cessazione dell'ostilità nei
confronti di Israele.
Un "colpo di Stato" eseguito su due direttrici: esasperando la protesta
studentesca trasformandola in una vera e propria insurrezione, da un lato, e
negando al generale Charles De Gaulle il sostegno delle forze armate nel caso
che si debba reprimerla, ovvero subordinandolo a precise condizioni, fra le
quali l'amnistia agli uomini dell'OAS.
Non è difficile trasformare in rivolta una protesta giovanile. Basta inserire
tra i dimostranti poche decine di persone capaci di agire sul terreno, in grado
di provocare la reazione delle forze di polizia per scatenare la violenza
giovanile.
Per coloro che conoscono la psicologia della folla, non è difficile eccitarne la
latente violenza fino a farla esplodere. Non serve un particolare addestramento:
alcuni iniziano a lanciare degli slogans e tutti gli altri li seguono; alcuni
iniziano a lanciare pietre contro i cordoni della polizia e tutti li imitano. La
reazione delle forze di polizia fa il resto.
La tecnica è semplice, come si vede. Servono, ovviamente, gli uomini, gli
agitatori da piazzare in mezzo alla folla per eccitarne gli animi e fomentare la
violenza fino a provocare la risposta delle forze di polizia.
La possibilità, nel 1968, di aizzare gli studenti nelle piazze non manca. Gli
atenei in Europa sono in fermento da almeno un paio di anni, le manifestazioni
si susseguono senza mai degenerare in vere e proprie battaglie contro la
polizia.
Per i provocatori della Nato non è difficile inserirsi in qualche manifestazione
e farla degenerare. Basta individuare il luogo più idoneo. In Francia
l'università di Nanterre è nell'occhio del ciclone. Il 26 gennaio 1968, gli
studenti hanno contestato il rettore dell'ateneo, Grappin, tacciandolo di
"nazista". Le manifestazioni contro la guerra nel Vietnam si ripetono anche a
Parigi, con la partecipazione di migliaia di giovani, all'università di Nantes,
il 15 febbraio 1968, si verificano violenti scontri tra studenti e polizia.
C'è solo l'imbarazzo della scelta.
Ma il '68 e l'altrettanto mitico "maggio francese" non inizia in Francia, bensì
in Italia.
Dal 30 gennaio al 1° febbraio 1968, Yves Guerin Serac è a Roma dove incontra
Pino Rauti ed altri esponenti della destra cosiddetta "estrema" italiana.
Il 1° marzo 1968, a Roma, circa 4mila giovani cercano di rioccupare la facoltà
di Architettura, a Valle Giulia. La polizia, presente in forze, carica gli
studenti che reagiscono con una violenza ed una tecnica di guerriglia urbana mai
sperimentate in precedenza.
La "battaglia di Valle Giulia" vedrà alla fine un bilancio di 148 agenti di
polizia feriti, 47 dimostranti feriti, solo 4 arresti e 228 denunciati a piede
libero fra gli studenti.
La sinistra trasforma la "battaglia di Valle Giulia" in una leggenda.
Il quotidiano comunista "Paese sera" intitola l'articolo sugli incidenti:
"Disarmati hanno resistito ai manganelli... e alle armi. Il giovane coraggio
degli studenti umilia la brutalità della polizia".
Ma non è vero. Per la prima ed unica volta nella storia delle dimostrazioni di
piazza la polizia è disarmata, a Valle Giulia. Gli agenti hanno le pistole nella
fondina, priva di caricatori. Solo gli ufficiali ed i sottufficiali sono armati.
Nessuno rileva questa anomalia. Ma, quel che è peggio se non addirittura
incredibile è che , a sinistra , nessuno nota che fra gli studenti ci sono gli
uomini di "Avanguardia Nazionale", "Ordine nuovo" e Movimento sociale, molti dei
quali studenti non sono.
Sono loro a trasformare Valle Giulia, in una "battaglia" contro la polizia.
Gli agit-prop della destra estrema, che anelano a ristabilire l'ordine nel
paese, che stanno a fianco delle forze di polizia e dei "corpi sani"
dell'esercito ( primo quello dei carabinieri , manco a dirlo), si espongono
pubblicamente in violentissimi scontri con i loro "fratelli in divisa"?
Nessuno ci fa caso. Per Delle Chiaie ed i suoi uomini non ci saranno conseguenze
di nessun genere, tantomeno penali. L'Ufficio politico di Roma che pure ha le
loro foto in mezzo ai manifestanti, nulla ha da eccepire sulla loro presenza e
sul loro ruolo di lanciatori di pietre e di molotov contro i colleghi della
Pubblica sicurezza.
Sarebbe scandaloso, se non fosse che i vertici del ministero degli Interni sono
perfettamente al corrente di quello che gli uomini di Junio Valerio Borghese,
Pino Rauti e Giorgio Almirante stanno facendo. Tanto consapevoli da mandare i
propri poliziotti allo sbaraglio disarmati , per la prima ed unica volta , per
evitare che qualche poliziotto perda la testa e spari uccidendo qualche
"collega" di Avanguardia nazionale o di Ordine nuovo.
L'ottusità della sinistra impegnata a cavalcare la protesta studentesca fa il
resto.
Inebriati dalla felicità con la quale hanno trasformato un'azione di sovversione
dello Stato in una rivolta studentesca contro lo Stato, i "persuasori occulti"
dell'Alleanza atlantica possono ora dedicarsi alla Francia, a chiudere i conti
con l'anti-israeliano ed anti-americano Charles De Gaulle.
Certi, ormai, della cecità della sinistra, in particolare di quella dei Partiti
comunisti italiano e francese, l'"organizzazione" ripete l'operazione "Valle
Giulia" in terra francese, a Nanterre.
Il 22 marzo 1968, l'Università di Nanterre è teatro di violentissimi scontri fra
studenti e poliziotti. Sarà lo stesso Yves Guerin Serac a vantarsi con chi
scrive, a Madrid, che a Nanterre agirono i suoi uomini.
E alla data del 22 marzo sarà intitolato il circolo "anarchico" composto da
confidenti di questura e "sovversivi di Stato" costituito a Roma dagli uomini di
Junio Valerio Borghese , Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino, Pietro Valpreda
ecc.
Ma questa è un'altra storia, o meglio il suo prosieguo fino al tragico epilogo
di piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969.
Tornando al "maggio francese", rileviamo come l'unico risultato concreto e
visibile ( ma da tutti ad oggi ignorato) fu la grazia e la amnistia che il
generale Charles De Gaulle concesse agli uomini dell'OAS, nel breve volgere di
pochi giorni e di qualche mese, mentre i risultati politici si vedranno
nell'arco di poco più di un anno.
Nel mese di settembre del 1968, in Francia, si conclude il capitolo sanguinoso
dell'"organizzazione dell'esercito segreto". Forse , non per una mera
coincidenza, il 13 settembre dello stesso anno , a Roma, Junio Valerio Borghese
fonda il "Fronte nazionale", l'organizzazione che dovrà gestire il "colpo di
Stato" in Italia, sul piano prettamente operativo.
La differenza è che, in Francia, gli uomini dell'"organizzazione"Nato dovevano
abbattere Charles De Gaulle e riportare la Francia nell'ambito dell'alleanza
atlantica, mentre in Italia l'obiettivo è mantenere il paese nel medesimo ambito
e sbarazzarsi del Partito comunista italiano creando un esecutivo forte con a
capo un De Gaulle italiano.
La via è spianata: disordine pubblico, manifestazioni violente, attentati ed
infine, qualche strage a Milano e a Roma, in luoghi simbolo dell'odio
"anarchico": le banche e l'Altare della Patria.
Del "Fronte nazionale" e del suo capo, Junio Valerio Borghese, imputato
fantasma, mai da nessuno evocato, nel processo per la strage di Piazza Fontana,
torneremo a parlare.
Ora che sul "maggio" francese si comincia a convenire che fu il risultato di
un'operazione politico- militare diretta dalla Nato per spodestare un governo
non più allineato agli ordini degli Stati Uniti d'America, è il caso di rivedere
la storia del '68 italiano che, ancora oggi, è pascolo di sfruttatori e
profittatori.
Sono passati quarant'anni da un anno che fu cruciale per la storia italiana ed
europea, non perchè i Capanna, gli Scalzone , i Sofri su questi eventi hanno
creato le loro personali leggende, ma per tutto ciò che ne è seguito, in gran
parte occultato sotto i polveroni mediatici e nascosto negli archivi inviolati
delle forze di sicurezza italiane e atlantiche .
Il '68 come principio di una tragedia che ancora si vuole negare sul piano delle
responsabilità dello Stato e dei suoi uomini, per perpetuare verità che sono
menzogne , costruite nel tempo da giornalisti, magistrati, politici, storici,
protagonisti e comprimari.
Ci sono voluti tanti anni perchè qualcuno iniziasse a convenire che la
sovversiva OAS, la terroristica organizzazione dell'esercito segreto fosse, in
realtà, un'organizzazione della Nato sostenuta dagli Stati Uniti e da Israele .
Ce ne vorranno magari un numero superiore per trovare qualcuno che abbia il
coraggio di riscrivere ex novo la storia d'Italia e del '68, senza attendere che
questa classe dirigente venga spazzata via dal destino comune a tutti gli uomini
di dover un giorno morire , perchè , per fortuna dell'Italia, non è immortale
anche se dannatamente longeva come i Napolitano, i Cossiga, gli Scalfaro e gli
Andreotti dimostrano.
Ma non attenderemo passivamente che i "padri" ed i "figli" del '68 scompaiono.
Continueremo in una battaglia che è ormai quasi trentennale per affermare verità
troppo scomode per essere accettate , condivise e divulgate.
E altri continueranno dopo di noi, fino a quando in questo Paese sarà
ristabilita la verità e con essa la giustizia che questo popolo invano attende e
chiede senza ottenere risposta.
E' una promessa antica ormai, che manteniamo da quasi un trentennio e che
continueremo a mantenere , contro tutti e nonostante tutto.
Vincenzo Vinciguerra
Opera, 24 novembre 2007
Vincenzo Vinciguerra
www.marilenagrill.org
Opera, 24 novembre 2007
|