Recentemente i giornali si sono occupati di Luce D'Eramo,
la scrittrice che, giovanissima, all'indomani del 25 luglio '43 sale in
treno con la sua divisa fascista, scappa da casa e, fuori posto, vive di
espedienti nella Germania che corre verso la sconfitta. Fuori posto
perché a Magonza, nel '45, cerca di soccorrere le vittime dei
bombardamenti e invece un muro crolla e la travolge, le spacca la spina
dorsale, la riduce sulla sedia a rotelle. E fuori posto resta anche
nell'Italia del dopoguerra, lei che si professa di sinistra ma che non
può militare a sinistra perché fascista è stata e figlia di fascisti
rimane.
Nata a Reims il 17 giugno 1925, si chiamava in realtà Luce Mangione, e
quando arriva il '43, nella sua famiglia la decisione è scontata: si va
al Nord, il padre diventa sottosegretario alla Propaganda nel governo
della RSI, lei studia all'università di Padova.
Ma un "branco" di prigionieri incrociato per strada le fa sorgere dei
dubbi, la spinge a offrirsi come operaia volontaria per le industrie
tedesche. Tutto in poco più di un anno, dal 7 febbraio 1944 al 27
febbraio 1945, e tutto è raccontato nel suo libro più famoso,
"Deviazione", straordinario romanzo autobiografico apparso nel 1979.
Nel 1946 Luce si era sposata col filosofo e reduce della RSI, Pacifico
D'Eramo, anche lui invalido, e nel 1947 nasce Marco giornalista e
sociologo, firma storica del quotidiano "il manifesto".
Citiamo la grande scrittrice per ricordare che suo marito, Pacifico D'Eramo,
fu, a sua volta, una delle firme principali della rivista "L'Orologio"
che nasceva proprio cinquant'anni fa, e per la cui omonima casa editrice
-le Edizioni dell'Orologio- pubblicò il suo libro "La liberazione
dall'antifascismo". Un saggio che propugnava il superamento della
cultura antifascista sulla scorta delle riflessioni proprio di Ignazio
Silone (grande amico e mentore di Luce), di Guido Calogero e di Giovanni
Gentile. Un obiettivo che negli anni Sessanta sembrava necessario a una
società che si stava gradualmente ricomponendo. Soprattutto nel triennio
1962-1964 ci si trovava nel cuore di un processo di eventi e fenomeni
che sembravano chiudere l'immediato dopoguerra con tutte le sue ferite.
Lo attestavano film come "Il sorpasso" o "Il federale" (in cui l'Italia
accettava e faceva pace con se stessa, il suo passato, il suo presente)
e lo dimostravano tutta una serie di avvenimenti: dalla stagione di
Kennedy e Papa Giovanni, all'emersione nell'immaginario dei Beatles e
dei Rolling Stones, dalle prime forme di sapere produttivo dell'Olivetti
al boom economico dall'avventura di Enrico Mattei alle riforme
introdotte dai governi di Fanfani, Moro e Nenni …
Proprio nel mezzo di questo triennio epocale, il 15 giugno del 1963,
arrivava nelle edicole e nelle librerie il mensile "L'Orologio", diretto
da Luciano Lucci Chiarissi. Si trattava di un periodico che svolse un
ruolo importante tra le giovani generazioni di quel periodo e che
andrebbe riletto e studiato per individuare una posizione "altra" e
originale rispetto agli schieramenti convenzionali. Vi collaborarono
personalità e intellettuali, poi affermatisi in diversi contesti:
Pacifico D'Eramo, appunto, ma anche Antonio Lombardo, Renzo Lodoli,
Gaetano Rasi, Massimo Brutti, Luigi Tallarico, Romano Vulpitta, Gian
Galeazzo Tesei o i giovanissimi Mario Bernardi Guardi e Maurizio
Bergonzini.
Era, d'altronde, quello il periodo in cui, contemporaneamente, anche
altre testate come "Pensiero nazionale" di Stanis Ruinas o "Nazione
sociale" di Ernesto Massi, pur essendo animate da persone provenienti da
un passato fascista, si ponevano oltre il MSI di Michelini e guardavano
con spirito d'apertura alle politiche di Enrico Mattei e del primo
centrosinistra fanfaniano.
«Annibale non è alle porte. E comunque non lo è a causa del
centrosinistra», annotava sul primo numero de "L'Orologio" il direttore
e fondatore Luciano Lucci Chiarissi, il quale -classe 1924, scomparso
nel 1989- non svolse mai attività politica elettorale, come non fu mai
né parlamentare né dirigente di partito (uscì presto dal MSI e non vi
rientrò mai, rivolgendo semmai la sua attenzione al centrosinistra
laico-socialista e interloquendo alla fine con i radicali), ma da
ex-ragazzo di Salò, da avvocato, da fondatore e direttore della rivista,
da scrittore e animatore negli ultimi anni dell'associazione "Italia e
Civiltà", svolse un importantissimo ruolo di elaborazione e
anticipazione di cui con tutta evidenza oggi verifichiamo la giustezza.
Lo dimostrano, tra l'altro, le pagine del suo libro "Esame di coscienza
di un fascista", testo arrivato in libreria nel 1978 (e recentemente
ripubblicato da Settimo Sigillo, pp. 143, € 15,00), la cui attualità è
davvero sconvolgente. Per restituire un significato autentico ed
efficace all'impegno politico in Italia, sosteneva in premessa l'autore,
era necessario un "esame di coscienza", cominciando da se stessi e dalla
propria area politico-culturale e antropologica di riferimento, per
proporlo poi anche alla parte avversa e quindi all'intera comunità
nazionale. Poi, aggiungeva, si possono, e magari si debbono,
«rimescolare le carte, per rintracciare le nuove consegne che possano
ridare un senso appunto alla storia e alla vita della comunità
nazionale. Ognuno deve, pertanto, assumere delle nuove responsabilità,
rivendicando fino in fondo il proprio passato, ma senza presumere di
dargli una validità gratuità per il presente».
Eppure, Lucci Chiarissi, da giovanissimo era stato uno dei leader dei
FAR, i clandestini Fasci di Azione Rivoluzionaria, il gruppo neofascista
responsabile di alcune clamorose azioni dimostrative nella capitale.
Come quella di Monte Mario quando con Enrico De Boccard, Raffaella
Duelli e Paolo Bartoli avevano fatto irruzione nella stazione radio
della Rai e mandato in onda "Giovinezza". O come quando, il 28 ottobre
del 1945, anniversario della Marcia su Roma, avevano innalzato un grosso
gagliardetto con il fascio repubblicano alla Torre delle Milizie …
Nel 1951, poi, i dirigenti dei FAR erano stati quasi tutti arrestati e
processati e a farsi un periodo nelle patrie galere, furono proprio i
giovanissimi Lucci Chiarissi, Fausto Gianfranceschi, Clemente Graziani,
Cesare Pozzo e Franco Dragoni …
Nonostante tutto ciò, nel tornante dei primi anni Sessanta, Luciano
Lucci Chiarissi -divenuto nel frattempo un importante avvocato
aziendalista- al posto dell'allora tanta evocata (ma superficiale e di
facciata) "pacificazione" nazionale proposta dai missini, richiedeva ai
suoi ex-commilitoni e camerati un percorso di autocritica e di
ripensamento, con il fine esplicito di «conoscere noi stessi per quello
che siamo oggi veramente, e non per le maschere convenzionali che
abbiamo dovuto o voluto assumere». Maschere, insomma, che i neofascisti
avrebbero assunto ancor più nel feroce decennio successivo e che Lucci
Chiarissi cercava forse di evitare, disinnescando quel gioco delle parti
che si sarebbe poi rivelato pericoloso …
Per cominciare, Lucci Chiarissi invitava ad affrontare e sciogliere il
"nodo-fascismo": «Mussolini -scriveva Lucci Chiarissi guardando al clima
dell'immediato dopoguerra- non poteva essere "vendicato" perché Piazzale
Loreto non poteva e non doveva essere interpretato sul piano di un
delitto comune, bensì come una pagina di tragedia. Non si impicca,
infatti, un uomo con i piedi all'insù, e in un clima come quello, se non
in un rapporto di odio-amore che appartiene ai grandi drammi della
storia. Mussolini aveva assunto delle responsabilità storiche nelle
quali si era misurato e si misurava, con la sua dignità, quella del
popolo italiano: non poteva finire che drammaticamente, e non come un
qualsiasi pensionato. Si trattava quindi non di vendicare Mussolini, ma
di sentire il profondo "perché" di quella tragedia, e di proporlo alla
sensibilità di un'Italia da riconquistare ...».
Già a partire dal 1947, sosteneva Lucci Chiarissi, chi doveva proporre
questa prospettiva aveva invece preferito la scorciatoia
dell'inserimento nei giochi determinati dagli altri (scelte obbligate
tra USA o URSS, destra o sinistra, liberismo o dirigismo, religione o
laicità...), oppure l'animare il cosiddetto "dissidentismo" interno,
secondo cui le cose all'ambiente andavano male a causa degli scontati
tradimenti della classe dirigente di partito (eludendo così il
necessario "esame di coscienza" e limitandosi all'estremizzazione delle
stesse declinazioni politiche del partito ufficiale (il MSI), e cioè
dell'anticomunismo, dell'occidentalismo acritico, quando non addirittura
dell'atlantismo …).
Per non dire -e anche qui l'analisi sulle scorciatoie verso una "destra
religiosa", oggi diremmo teocon, resta attualità- della tentazione che
Lucci Chiarissi definisce infatuazione per uno spiritualismo politico
teso ad accreditare «la Chiesa cattolica come l'alfiere della crociata
per la libertà contro il totalitarismo».
Ma il caso italiano, annotava in sostanza Lucci Chiarissi, «non poteva e
non può essere risolto dalla Chiesa». Ma doveva essere affrontato dagli
italiani tutti, attraverso un percorso di vero "esame di coscienza" in
grado di approdare alla riappropriazione delle «chiavi di casa». Il che
significa, anche e soprattutto, guardare ognuno in faccia gli altri,
tutti gli altri italiani, e farsi carico anche della loro storia.
Non a caso il suo "Esame di coscienza" si apre con una lunga citazione
di Cesare Pavese a mo' di epigrafe. È il passo da "Prima che il gallo
canti" in cui lo scrittore piemontese accennava, dal suo punto di vista,
all'"altra parte": «Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblicani.
Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico diventa
morendo una cosa simile, se ci arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol
dire che anche vinto è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue
bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue...».
Questo stesso atteggiamento Lucci Chiarissi lo avrebbe voluto espresso
politicamente anche dai fascisti nel secondo dopoguerra. Occorreva, in
fatti, a suo dire guardare positivamente all'Italia contemporanea: «Si
stava costruendo il miracolo economico, c'era un'Italia viva, malgrado
ogni apparenza ufficiale, per la prepotente energia costruttiva degli
italiani. I quali, proprio attraverso tanti avvenimenti, guai e
vicissitudini, avevano aperto gli occhi sul mondo, e più non si
accontentavano della meschina realtà che per secoli li aveva tenuti
prigionieri, nei borghi e nelle loro case, di una società fossile. Erano
sorti dovunque cantieri, fabbriche, centri di lavoro. Forse a modo loro
gli italiani tentavano così di riscattare le ore della disfatta ...».
E quest'Italia andava vissuta, accompagnata, interpretata politicamente.
Purtroppo gli ambienti vicini e dentro il MSI, rileva amaro Lucci
Chiarissi, non solo non seppero comprenderlo ma, in realtà, tutti i
fermenti vitali e nuovi espressi nella società italiana li hanno
addirittura visti come estranei, ostili, avversari e detrattori. Il
miracolo economico e l'Italia di Enrico Mattei, la riforma della scuola
media e la televisione di massa, l'autostrada del Sole, il piano casa e
le nuove tendenze giovanili vennero addirittura snobbati con la banale
battuta qualunquista della "Repubblica fondata sulle cambiali".
«Tutto questo -annotava Lucci Chiarissi- avviene con una stato d'animo
assieme di pigrizia intellettuale e di concreta inerzia politica,
motivata a volte addirittura dalla presunzione di essere a priori nella
verità e nella luce della Tradizione e non dover quindi perdere tempo a
comprendere la realtà umana ...».
Analogo discorso per il '68 e la contestazione giovanile: «Costituiva un
dato vitale nella società di allora. Ma proprio di fronte a esso vennero
a galla gli equivoci dell'ambiente "nazionale". Quando ci si
caratterizza come "nemici della sovversione rossa in quanto portatori
degli eterni valori dello spirito" non si è infatti in grado di sfuggire
al ricatto dell'ordine costituito …».
Un modo di ragionare, questo, che conduceva, magari senza rendersene
conto, all'inevitabile metamorfosi dal profilo di ex-fascisti
(tendenzialmente socialisteggianti e sensibili al benessere dei ceti
popolari) a quello di estremisti di destra al servizio degli equilibri
conservatori (e di potere).
In alternativa a questa deriva "di destra", Lucci Chiarissi insieme a
chi la pensava come lui, aveva rotto definitivamente con il MSI e aveva
fondato nel 1963, come abbiamo ricordato, la rivista "L'Orologio". Tra
gli altri collaboratori, oltre a quelli già citati, c'erano anche
Gabriele Moricca, Mario Castellacci, Cesare Mazza e Franco Tamassia.
Nel '68 la rivista si schierò apertamente con la contestazione, i
cosiddetti "gruppi dell'Orologio" parteciparono alle occupazioni degli
atenei e venne inviato a Parigi il catanese Antonio Lombardo (che in
seguito diventerà un politologo vicino a Fanfani e Forlani) a seguire il
Maggio francese con una serie di corrispondenze. In seguito la dispora:
chi si trincerò nella ricerca accademica, chi trasmigrò a sinistra, chi
si fece collaterale al MSI almirantiano attraverso l'Istituto di studi
corporativi …
Non a caso "Esame di coscienza" si conclude così: «Nella lotta politica
non esistono posizioni gratuite. L'avvenire non può essere ipotizzato su
schemi a priori, ma dev'essere conquistato. Esso sarà di chi avrà più
fantasia e creatività politica …».
La rivista continuerà a uscire fino al 1973 e segnerà un decennio di
seminagione proficua e profonda.
Una curiosità: tra i suoi puntuali lettori c'era anche Pier Paolo
Pasolini, il quale abitava nello stesso palazzo all'Eur in cui viveva
Lucci Chiarissi con la famiglia. Spesso si incontravano sotto casa e
conversavano, «tra i due -ha ricordato l'ex-redattore dell'Orologio
Gaetano Rasi- un dialogo aperto e franco. Pasolini leggeva la rivista e
ne condivideva molte prese di posizione …».
E sulla sensibilità di Lucci Chiarissi vale quanto ha ricordato il
figlio Paolo ad Adalberto Baldoni e Gianni Borgna ("Una lunga
incomprensione. Pasolini tra destra e sinistra", Vallecchi, pp. 342, €
16,00): «In una riunione di condominio, qualcuno si lamentò delle gente
che andava a trovare il poeta e regista, sottolineandone le tendenze
sessuali. Ebbene, mio padre stoppò sul nascere tutte le discussioni. Non
siamo dei censori, disse, e nessuno deve permettersi di chiedere
l'ostracismo nei confronti di un grande intellettuale. Se le persone che
lo frequentano non danno fastidio di che cosa possiamo lamentarci? E la
discussione terminò lì …».
Luciano Lanna