Tremate, tremate, le
streghe son tornate!
Marina Carrese
«Tremate, tremate, le streghe son tornate!» Era uno degli slogan più noti del
movimento femminista degli anni '70 ed è riecheggiato nelle recenti
manifestazioni in difesa della «194» (intesa come legge, quella sull'aborto, per
capirci), durante le quali è stato rispolverato l'intero repertorio di
baggianate che in quegli anni imperversavano. A onor del vero, le femministe non
ci hanno fatto una gran bella figura nelle loro ultime performance, come la
manifestazione nazionale tenuta a Napoli del febbraio scorso, dopo lo scandalo
dell'aborto cosiddetto terapeutico eseguito al Policlinico: erano decisamente
poche e decisamente retrò, anche per motivi anagrafici, visto che l'età media
oscillava intorno ai 60 anni. In ogni caso, complici i media, l'occasione per un
ripasso dei vecchi ritornelli non è andata sprecata, a partire da «la 194 non si
tocca», vero e proprio mantra ripetuto incessantemente ogni volta che si parla
di aborto, a finire alla «libertà di scelta», passando per la fatidica
«autodeterminazione delle donne».
Al giorno d'oggi questi ritornelli hanno un potenziale evocativo meno
significativo, perché i concetti che sottintendono sono (ahinoi!) penetrati, in
larga parte, nella cultura e nei comportamenti sociali. Ma, negli anni '70,
furono alla base di un vistoso movimento, figlio diretto del Sessantotto e
importato dall'estero attraverso il "Movimento di liberazione della donna", che
sembrava inserirsi nella generale battaglia politica ma invece ne combatteva una
ben più devastante sul terreno culturale.
Seguendo la lezione gramsciana, i rivoluzionari nostrani avevano rinunciato alla
conquista armata del potere, anche perché erano pienamente inseriti all'interno
delle istituzioni e ne gestivano direttamente larghe fette. Attraverso la
strategia dell'egemonia culturale erano penetrati e in parte avevano conquistato
i gangli vitali della società: la scuola, le università,
la magistratura, la stampa, la RAI, i sindacati, l'arte, il cinema, una parte
del clero perfino.
Alla fine degli anni Sessanta pensarono che i tempi fossero maturi per «il balzo
in avanti», l'ultima offensiva sociale per la conquista definitiva e ufficiale
del potere statale. Si trattava di scardinare i pilastri dell'identità popolare,
che rimanevano saldi perché trasmessi di padre in figlio, di madre in figlia,
sfuggendo così l'inquinamento delle istituzioni. Al "Movimento Studentesco" fu
affidato il compito di agire sul sociale, mettendo in crisi, e abbattendo fin
dove possibile, i concetti di autorità, gerarchia, responsabilità, regola,
limite, sostituiti poi dalla «coscienza collettiva», dalla «fantasia al potere»,
dal «vietato vietare» ed da quegli elementi di "lotta sociale" che divennero le
incubatrici del terrorismo.
Il femminismo, invece, fu il grimaldello usato dalla rivoluzione strisciante per
scardinare la famiglia, cellula fondamentale della società, come ancora si
diceva allora. Il metodo fu, come sempre, quello della dialettizzazione dei
rapporti: mogli vs. mariti; figli vs. genitori; madri vs. figli; giovani vs.
vecchi (si chiamavano ancora così, allora).
Va detto che se la strategia ebbe successo fu anche per responsabilità
dell'istituto familiare stesso, gradualmente degradato in una serie di ipocrite
convenzioni borghesi che poco avevano a che fare con la tradizione culturale e
sociale cristiana e con il diritto naturale.
Ciò nonostante, la famiglia ancora resisteva come tassello basilare della
società e svolgeva coerentemente la propria funzione, conservando la continuità
ed educando le nuove generazioni, sotto la tutela di leggi che ne riconoscevano
la stabilità e il ruolo.
Il femminismo si mosse contro tutto ciò, con i festosi girotondi, con la moda
delle gonnellone a fiori e con la logica della «liberazione della donna
dall'oppressione della società maschilista», arrogandosi il diritto di parlare
in nome di tutte le donne, autonominandosi rappresentante dell'intera categoria
femminile. Le sue parole d'ordine furono «emancipazione» ed
«autodeterminazione»: la prima era l'obiettivo dichiarato, la seconda lo
strumento per conseguirlo.
L'assunto era che «le donne» dovessero «realizzarsi», emancipandosi da una serie
di secolari «condizionamenti socio-culturali» che le costringevano in uno stato
di sottomissione agli uomini: i livelli di istruzione inferiori, le prospettive
professionali e retributive penalizzanti, una generica subalternità sociale, il
matrimonio, il lavoro domestico, la maternità, la cura dei figli. Il grande
inganno fu mescolare fattori sociali a elementi specifici della natura
femminile, finendo per convincere un paio di generazioni di donne che la
maternità, ad esempio, fosse una condanna imposta loro dalla società maschilista
e che per realizzarsi pienamente fosse necessario rifiutarla, rinviarla,
controllarla artificialmente e, soprattutto, separarla dalla sessualità che
invece andava vissuta liberamente, scrollandosi di dosso al più presto le catene
della morale familiare e
cattolica.
Il controllo passava attraverso il «diritto di scelta» cioè la legalizzazione
dell'aborto che, da reato, passò ad essere «libero, garantito e gratuito»,
stabilendo con una legge aberrante che la volontà della madre (e unicamente la
sua, il padre non ha voce in capitolo!) abbia assoluta priorità sulla vita del
bambino, senza praticamente alcun limite.
Il movimento femminista ottenne risultati rapidi sul piano legislativo,
producendo una profonda trasformazione i cui esiti negativi oggi sono sotto gli
occhi di tutti: legge sul divorzio (1970); nuovo diritto di famiglia (1975);
legge sull'aborto (1978), solo per citare le principali.
Il nuovo assetto normativo servì a consolidare le «conquiste delle donne» sul
piano culturale, assicurandone la stabilità anche quando, nel corso degli anni
'80, il femminismo perse forza disperdendosi in rivoli estremistici e
«antagonisti», in riflussi ecologisti, nelle nebbie del new age e in derive
esoteriche.
A quel punto, però, le mine erano già state piazzate nel campo sociale: le
generazioni successive sono state allevate alla luce della concezione di vita e
di persona che è scaturita dall'assunzione da parte delle donne, spesso
inconsapevolmente, di modelli comportamentali, di pensiero e di competizione
tipicamente maschili. Per contro, la figura maschile, che non è stata ridefinita
da un movimento ideologico uguale e contrario al femminismo, è rimasta incerta
di fronte ai mutamenti sociali e familiari, finendo per arrendersi inerte alle
pretese delle donne, con la rinuncia a qualsiasi ruolo propositivo nella coppia
e nella società, oppure ha acuito la proverbiale renitenza alle responsabilità,
approfittando del nuovo potere femminile.
Il conseguente smottamento della famiglia ha condizionato pesantemente lo
sviluppo educativo, psicologico e sociale dei più giovani, sempre più insicuri,
instabili, fragili e impreparati ad affrontare le prove della vita.
Il movimento femminista ha avuto una durata limitata e una visibilità
apparentemente folcloristica; in realtà ha conseguito risultati culturali ed
identitari di grandissima portata, scuotendo le fondamenta stesse dell'organismo
sociale.
Le conseguenze sono in sviluppo e, paradossalmente, il conto più salato lo
pagano proprio le donne: separazioni e divorzi sono in aumento del 50%; 2
milioni sono le famiglie formate da un solo genitore con figli e, nell'87% dei
casi, si tratta della madre; il 23% dei nuclei familiari è formato da persone
sole, per lo più anziane; il 20% dei bambini nasce al di fuori del matrimonio;
il primo figlio arriva quando la madre ha superato i trent'anni; 5 milioni di
bambini sono stati abortiti dal 1978 e ogni anno si praticano 130.000
interruzioni legali di gravidanza, alle quali se ne aggiungono almeno 20.000
clandestine e una buona fetta delle 350.000 confezioni di «pillola del giorno
dopo» (no, non è un anticoncezionale!) vendute ogni anno in farmacia; il
suicidio è la quarta causa di morte violenta negli adolescenti e tocca punte del
16%; il 6% delle donne ha subito violenza (fonte ISTAT).
Marina Carrese
Poichè condividiamo appieno quanto
qui scritto in seguito, facciamo seguire alla lettura dell'articolo
un nostro commento.
il COMMENTO di Giorgio
Vitali:
L'interessante di questo articolo è l'elenco degli aspetti sociali
conseguenti alla battaglia per la cosiddetta «emancipazione»
femminile.
Premesso che non dobbiamo negare che di «emancipazione» si è
trattato, soprattutto nei confronti di certe costumanze nazionali
che relegavano il ruolo femminile in posizioni d'incredibile
emarginazione, (ovviamente non si trattava di un costume
generalizzato, anzi!!! nessuno può storicamente negare il ruolo
sociale essenziale svolto dalle donne in Italia, fin dal tempo della
grande Repubblica di Roma), ci corre l'obbligo di sottolineare con
forza che il sistema d'intervento nelle questioni nazionali avviene
oggi attraverso gruppi socio-politici del tutto "artificiali", come,
ad esempio il fantomatico Partito Radicale, in realtà una creatura
della Società di persone Bonino-Pannella, che opera abitualmente su
commissione.
Nulla, di quanto accade in Italia ed in Europa in generale, è
autentico. TUTTO è su COMMISSIONE. Evidentemente, il sostegno dei
Media può avvenire solo in quanto detti Media sono interamente
CONTROLLATI dal potere economico, anche attraverso ipotetici
"giornalisti" disposti ad eseguire qualsiasi "ordine " che provenga
dall'«alto». Se non si acquisiscono questi concetti non si può
essere in grado di comprendere le reali motivazioni di certi
interventi e di conseguenza riuscire ad elaborare una strategia
d'intervento capace di contrastare ciò che viene veicolato con
proposte accettabili e spesso necessarie. La LOTTA POLITICA oggi è
questa. E pertanto è questa la ragione per cui Noi, da sempre,
abbiamo combattuto le forme controreattive esposte
pubblicitariamente dalla cosiddetta "Destra", che si è dimostrata
nel tempo sempre e soltanto funzionale al progetto di conquista
della società elaborato dalle "centrali" che conosciamo molto bene.
Giorgio Vitali
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