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La Turchia in Europa.
Un dibattito necessario ma storicamente superato.

 

Giorgio Vitali
 


Sull’argomento della Turchia in Europa, si è acceso un dibattito che coinvolge tutti coloro che in un modo o nell’altro sono interessati alla nascita ed allo sviluppo di un polo europeo capace di fronteggiare i grandi blocchi continentali ormai chiaramente delineati.
Su quest’argomento, ho trovato utili indicazioni nell’articolo di Marco Tarchi, contrario all’ingresso, sul numero 268 (Novembre-Dicembre) di “Diorama”, e di Daniele Scalea, su “Rinascita” di domenica 13 febbraio, favorevole. Personalmente concordo con Scalea, per ovvie ragioni di carattere storico, ma cercherò di esporre alcune tesi interessanti di Tarchi.
Il problema essenziale per Tarchi, che riporta parti di un articolo di Caracciolo, direttore di “Limes” è il livello di percezione metapolitico dell’evento che si sta realizzando.
Scrive Tarchi: «Sebbene il grosso dell’apparato massmediale abbia mantenuto intatto il sostegno ai disegni statunitensi, la strategia egemonica che ne è alla radice è ormai evidente ad una parte considerevole dell’opinione pubblica europea che… ha manifestato il netto desiderio di restituire al proprio continente l’autonomia che molti dei suoi governi, in nome del “legame transatlantico”, le hanno fatto perdere. Su questo incoraggiante accenno ad un deciso cambiamento di rotta dell’atteggiamento di popolazioni sottoposte ogni giorno ad intensi sforzi di americanizzazione per via culturale, informativa e consumistica, l’ipotesi di ingresso della Turchia nell’UE si proietta come un’ombra minacciosa. Non per il rischio di un ulteriore ridimensionamento percentuale della presenza nel continente di quella matrice religiosa cattolica che, di fatto, è stata da tempo erosa e sbiadita da una poderosa ondata di secolarizzazione cui molti degli odierni sostenitori delle “radici cristiane” hanno offerto attiva complicità, ma perché all’identità storica e culturale europea l’accettazione della domanda di Ankara sottrarrebbe, prima di tutto, l’unico referente certo ed immediatamente percepibile: lo spazio di autodefinizione, il territorio vincolato da un confine, da un “limes” che, designando un "fuori", sancisce l’esistenza di un "dentro" che i popoli, i paesi, le regioni inclusi sottoscrivono, al di là delle innegabili differenze, come contesto comune di appartenenza. Questo stigma non negoziabile, perché consente e giustifica lo stesso uso del nome Europa e ne riempie di senso la carica simbolica, è il dato metapoliticamente più significativo per chi crede nel valore dinamico del radicamento in un’identità collettiva anche in epoca di globalizzazione ed avversa la costruzione di una Cosmopoli sostanzialmente monoculturale, ma non è l’unico argomento che porta ad opporsi all’ingresso della Turchia in quello che può, e nella nostra ottica deve, costituire l’embrione di un’Europa politicamente unita, capace di reggere l’impatto dell’era dei grandi spazi continentali che la fine del condominio bipolare ha aperto. Contrariamente a quanto Caracciolo dà mostra di credere, soltanto designandosi come un’entità geograficamente limitata e coesa, segnata da frontiere naturali che possono giungere agli Urali ed al Bosforo ma non oltrepassarli, capace di giocare in proprio le partite che l’interesano, e disposta a farlo, l’Europa può fondatamente sperare di svolgere un ruolo di “attore globale”. Inglobando territori asiatici che la proiettano in scenari geopolitica insicuri e dominati da potenti appetiti che le sono estranei, la sua subordinazione alla plancia di comando occidentale situata negli Stati Uniti d’America si farà ancora più evidente».
Ho voluto esporre per intero questo concetto perché suggestivo, interessante, espressione di un’analisi concreta sviluppata da uno studioso serio e geopoliticamente preparato, proprio perché riassume, a mio avviso, l’aspetto più serio dell’opposizione all’ingresso della Turchia in Europa. Tuttavia, la storia insegna, e la realtà del comportamento dell’UE conferma, la storia dell’Anatolia è strettamente connessa con la storia di quel territorio che impropriamente è chiamato Europa. In che modo possiamo limitare il “limes” europeo ai confini degli Urali e del Bosforo? Anche questa è un’astrazione. Nessuno nega che “piccolo è bello”, ma questa concezione, mutuata dal nostro concetto di Grecia classica, fino a che punto si può proiettare in un’epoca caratterizzata proprio dai grandi spazi continentali e dalle strategie belliche basate sui missili intercontinentali? Le differenze di religione, peraltro, contano ben poco di fronte alle realtà geopolitiche. Come insegnano millenni di storia umana. Non siamo i soli a sostenere che la storia è fatta dalla geografia. Lo ha espresso a chiare lettere Napoleone, un uomo fra i pochi che ha saputo piegare la storia alla propria volontà.
C’è chi, nel tentativo sterile di contrastare l’ingresso dei turchi in Europa, si aggrappa ai secoli di contrasti fra cristiani e saraceni, dimenticando che la storia di popoli affini è proprio la storia dei contrasti che li ha “tenuti uniti”. L’Europa è storia di “guerre civili”, frase felicemente coniata da uno storico che qualche decennio fa si è accorto che stava nascendo la coscienza continentale. E la Grecia classica, che noi oggi viviamo culturalmente come un tutt’uno, origine indiscussa della nostra civiltà, è un esempio di guerre terribili fra le piccole città. Per non parlare della storia dell’Impero Romano.
Ed a proposito di questo, sarà bene ricordare che noi continuiamo impropriamente a chiamare Impero Bizantino quello che è stato a tutti gli effetti almeno fino alla caduta di Costantinopoli il 29 maggio 1453, Impero Romano, svolgendo né più né meno il ruolo assegnato a quella struttura geopolitica dalla grande mente di Diocleziano nel 300 dopo cristo. Ma anche dopo la caduta di Costantinopoli, dovuta in primis alla miopia di Venezia, il ruolo geopolitico dell’Impero Ottomano non poteva che essere quello di raccordo e di controllo di tutta l’area anatolica. [Tra parentesi, l’Italia deve alla cecità veneziana anche l’esclusione dalla competizione atlantica, dopo la scoperta dell’America avvenuta proprio grazie ad un italiano].
Infine, c’è chi ricorda il ruolo di guardiano dell’Occidente svolto dalla Turchia contro l’Unione Sovietica per conto degli USA. Ci si dimentica tre fatti: che la Turchia ha avuto sempre dei problemi con la Russia, per ovvie ragioni di confine, ed in questo caso si è prestata più volte agli interessi occidentali, come ad esempio nel 1856, che la Turchia ha sempre fatto fronte assieme agli stati europei continentali in caso di guerra contro le potenze talassocratiche, e che anche la Persia dello Scià era il baluardo occidentale contro l’URSS, mentre oggi l’Iran è definito canaglia e stila accordi economico-militari con la Russia di Putin. Insomma, ciò che sembra esercizio di politica astratta per ragioni economiche e culturali sarà studiata dai posteri come una necessità di carattere geopolitico, determinato cioè più da ragioni geografiche che culturali.
Infine: secondo il sottoscritto,occorre superare alcuni pregiudizi che agiscono per lo più nel subconscio.
Il primo riguarda il concetto di “dispotismo orientale” che ci portiamo dietro da secoli di guerre. Il dispotismo infatti è tanto orientale quanto occidentale. Oggi noi viviamo sottoposti ad un dispotismo fondamentalista biblico occidentalista, che si avvale delle armi più sofisticate per soggiogare il mondo.
Il secondo riguarda la religione islamica, vista come qualcosa di antitetico al “cristianesimo” [ma quale cristianesimo?], dimenticando che la religione mussulmana è una parte del passato d’Europa.
Terzo, antislamismo razzista. (Alla Fallaci, per esempio). Come paese mussulmano, la Turchia permette invece un irraggiamento globale del modello europeo, nel momento in cui quello americanocentrico è in crisi.
Quarto: la posizione strategica della Turchia, situata ai confini del Caucaso e del Medio Oriente, come già dimostrato dalla storia dell’Impero Romano d’Oriente, offre all’UE di giocare alla grande un ruolo mondiale senza compromettere la propria sicurezza, cioè spostando i propri confini oltre le ristrette linee dell’ angusto concetto d’Europa cui fa riferimento Tarchi.

 

Giorgio Vitali