Italia - Repubblica - Socializzazione

 

Quale fu l'atteggiamento di Mussolini di fronte alla morte?

Maurizio Barozzi     

 

Una email di un lettore che segue la nostra controinformazione su la morte di Mussolini (in Rinascita e/o su vari Siti), ci chiese quale sia stato l'atteggiamento di Mussolini di fronte alla morte visto che, secondo la inattendibile "storica versione", la vulgata di Walter Audisio alias colonnello Valerio, dovremmo credere a un Mussolini, tremante e impietrito di fronte al suo mitra.

In un primo momento, la richiesta, ci è sembrata futile e oltretutto non soddisfabile, visto che non ci sono testimonianze attendibili che descrivano gli ultimi istanti di vita del Duce.

Quindi noi, non avendo la sfera di cristallo, avremmo solo potuto fornire le nostre personali convinzioni, in base a quel poco che sappiamo e considerando il comportamento precedente di Mussolini, per intuire il suo atteggiamento in quel drammatico momento.

Riflettendoci meglio abbiamo però ritenuto doveroso spendere qualche parola anche su questo argomento per considerare se, tra i resoconti contraddittori rilasciati dai tre presunti attori di quella impresa (Walter Audisio Valerio, Aldo Lampredi Guido e Michele Moretti Pietro), qualcosa di vero pur ci fosse.

La "vulgata", resa tra il 1945 e il 1947, ci descrive un Duce pavido e ai limiti del demente che, davanti al mitra di Valerio, balbettava: "ma, ma signor colonnello...". Come Mussolini avesse intuito che Audisio, dicesi apparsogli come un "liberatore", fosse un "colonnello" (di cosa poi?) non venne detto, ma del resto anche tutto il racconto, farcito con assurdi dialoghi tra questo Mussolini e il suo "liberatore" non era credibile.

Si raccontava, infatti, di promesse per "regalare un Impero" e altre idiozie simili, con uno scambio di demenziali battute tra un Valerio che spavaldo e insolente dava del "tu" al Duce, quando nessun fascista o elemento della RSI si sarebbe mai permesso di fare, e il suo interlocutore neppure ci faceva caso.

Ma per accentuare ancor di più il "terrore" di Mussolini, l'Audisio si era anche inventato un Duce che con lo stivale destro "sdrucito", che lui sosteneva di aver notato in casa dei De Maria (dove erano stati nascosti e poi prelevati Mussolini e la Petacci) si incamminò a passi svelti per i viottoli scoscesi e recarsi alla macchina che lo attendeva sulla piazzetta del Lavatoio (sotto intendendo l'ansia di essere liberato).

In realtà, molti anni dopo, si è appurato che non di una "sdrucitura" si trattava, ma bensì di una rottura della chiusura lampo, saracinesca che ne consentiva l'allacciamento e che era saltata all'altezza del tallone. Ergo con quegli stivali non ci si poteva camminare, tanto meno a "passi svelti", per i viottoli in discesa quando poi, oltretutto, per recarsi da quella casa alla piazzetta del Lavatoio, il percorso era in salita!

Era chiaro quindi che Audisio aveva raccontato tutta una serie di odiose baggianate, per coprire il fatto che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi al mattino del 28 aprile 1945 da ben altri assassini e la "fucilazione" alle 16,10 in Giulino di Mezzegra, di fronte al cancello di Villa Belmonte, faceva parte di una opportuna messa in scena.

Insomma tutta una montatura atta a denigrare la figura di Mussolini al fine di smitizzarne la persona nell'ottica politica dell'antifascismo del dopoguerra. Un opera denigratoria che accompagnava la mistificazione, come osservò lo scomparso Alessandro Zanella nel suo "L'ora di Dongo" Rusconi 1993, iniziata immediatamente dopo la sceneggiata di Villa Belmonte, quando i Moretti, i Canale (capitano Neri) si peritarono di spargere in giro la voce che "Mussolini non è che sia morto bene", senza aggiungere altri particolari.

Oggi, grazie a tutta una serie di riscontri e rilievi balistici e tanatologici (questi ovviamente nei limiti del possibile), alcune prove oggettive (per esempio quella delle foto del giaccone indosso al cadavere di Mussolini che, sottoposte a particolari scansioni non hanno rilevato le tracce di fori o strappi, che pur avrebbero dovuto esserci, quali esiti di una fucilazione), testimonianze (soprattutto quella di Dorina Mazzola al tempo residente a poco più di cento metri da casa dei De Maria), sappiamo che il Duce, con indosso la sola maglietta di salute a mezze maniche, venne assassinato al mattino a Bonzanigo nel cortile sotto casa dei De Maria, da almeno un paio di sparatori, uno con mitra e l'altro con pistola.

Su queste pagine abbiamo dimostrato tutto questo con argomenti che crediamo convincenti se non irrefutabili.

Per tornare al nostro argomento, anche se in definitiva lascia il tempo che trova, dovremo comunque valutare le dichiarazioni di quei partigiani che si presumono presenti in quei momenti: in pratica, escluso Audisio, che quel mattino a Bonzanigo di sicuro non c'era, essendo egli a Como in Prefettura, restano Aldo Lampredi (però con un margine di dubbio, perché non si sa con precisione a che ora questi svicolò dalla Prefettura e da Audisio per riapparire dopo le 14 a Dongo) e Michele Moretti che invece sicuramente quella mattina a Bonzanigo c'era.

Iniziamo però con il considerare il comportamento dell'ultimo Mussolini, rispetto alla salvezza della sua persona, specialmente quando, verso l'epilogo della RSI, Mussolini dovette purtroppo fare i conti con le tante defezioni, se non tradimenti o comunque remore, da parte di una grossa fetta dei suoi seguaci. Basti considerare che mentre egli si allontanava costantemente dalle zone dove stavano per arrivare le truppe Alleate, rifiutava di trincerarsi nelle grandi città per non esporle ad una sicura distruzione e per non cadere prigioniero del nemico, altri gerarchi, uomini del suo governo, molti pur fedeli fascisti, preferivano invece arrendersi al più presto agli Alleati, anche perché permeati da quella forma mentis, in definitiva filo occidentale, che gli faceva magari sperare di potersi non solo salvare, ma anche riciclare nel dopoguerra come anticomunisti e antisovietici. E molti speravano anche nell'ultima chance di un rifugio in Svizzera, mentre Mussolini, rimase sempre caparbiamente fermo nel proposito di restare sul suolo italiano, come la precisa e documentata ricostruzione di Marino Viganò, un ricercatore storico non certo di parte neofascista, ha dimostrato con il suo saggio: «Mussolini, i gerarchi e la "fuga" in Svizzera (1944-'45), Nuova Storia Contemporanea" N. 3, 2001».

E così andò a finire che Mussolini restò letteralmente imbottigliato in quel di Menaggio, senza poter consumare la sua ultima e minimale strategia temporizzatrice, spostandosi verso la Valtellina o i confini del Reich, nella speranza di giocarsi le importantissime ed esplosive documentazioni che portava seco, al fine di trattare una resa, a piede libero, nella quale salvare la vita ai fascisti e per la nazione mitigare le conseguenze della sconfitta.

Ma i comandanti fascisti, con le residue milizie armate, rimasero scelleratamente impantanati a Como, dove finirono per accettare una "resa" che ha dell'incredibile e del vergognoso.

E pensare che se Mussolini lo avesse voluto si sarebbe potuto agevolmente salvare.

Già il 20 aprile '45, con la imminente presa di Bologna da parte degli Alleati era oramai evidente che i tedeschi praticamente non combattevano più. Mussolini, volendo, avrebbe potuto mettersi in salvo e questo tanto più quando, il pomeriggio del 25 aprile all'Arcivescovado, venne ufficialmente a conoscenza che i tedeschi avevano raggiunto una intesa, all'insaputa degli italiani, per una imminente resa con gli Alleati, mettendo in crisi il ripiegamento dei fascisti. Diveniva quindi evidente che l'unica possibilità di salvezza sarebbe stata quella di prendere il volo verso l'estero lanciando il si salvi chi può.

Il socialista Carlo Silvestri, suo acerrimo avversario ai tempi del delitto Matteotti, che gli fu vicino fino al 25 aprile, riferì che Mussolini non pensava minimamente di mettersi in salvo, ma anzi il suo cruccio e il suo ultimo desiderio era proprio quello di sacrificarsi in qualche modo, affinché questo suo sacrificio personale potesse tornare vantaggioso per l'Italia.

"Spero di pagare per tutti", disse in quei momenti alla moglie di Mario Bassi.

Vediamo ora alcune vicende circa i piani di salvataggio del Duce, ideati da autorità della RSI, da settori del partito fascista o del suo entourage, dove si riscontra il ricorrente e totale rifiuto di Mussolini di aderire ad uno qualsiasi di questi progetti, tanto che c'era persino chi pensava di condurlo all'ultimo momento in salvo, narcotizzato o contro la sua volontà.

Buffarini Guidi, già ministro degli interni, per esempio, parlando con Piero Cosmin, ex capo della provincia di Verona e Ugo Noceto, capitano dell'Aeronautica (come ha raccontato quest'ultimo a Marino Viganò nel 1995) ebbe a dirgli nel febbraio del 1945:

«Qui le cose si mettono male, ormai non c'è più niente da fare e bisogna cercare di salvare Mussolini in qualche modo. Lui non vuole, ma bisogna cercare in modo assoluto di salvarlo, perché se Mussolini è in salvo, o in Spagna o in Argentina, può far del bene all'Italia. Lui non vuole, ma volente o nolente, bisogna portarlo via».

Nel corso di questo colloquio sopraggiunse anche Vittorio Mussolini, il figlio del Duce, il quale, seppur d'accordo, disse subito: «Guardate che però mio padre non vuole».

Ed ancora: al figlio Vittorio, che proprio negli ultimissimi giorni gli propose di nascondersi in una garçoniere, Mussolini rispose ironicamente: «Non ti pare che le garçoniere servono per altri scopi?!». Ma in altra occasione il padre, di fronte all'insistenza del figlio, gli rispose duramente: «Nessuno ti ha pregato di interessarti della mia personale salvezza».

Noto è poi l'avanzatissimo progetto del generale Ruggero Bonomi, sottosegretario all'aviazione RSI, che aveva predisposto sul campo di Ghedi (Brescia), dei trimotori "Savoia Marchetti 79" (rimasti a disposizione fino agli ultimi giorni di Milano) adatti a raggiungere località come la Spagna dove risiedeva la moglie del segretario del Duce, Luigi Gatti, disposta ad accoglierlo. Al ché, saputolo, Mussolini, più o meno, osservò con ironia: "È questa di Bonomi la soluzione migliore per risolvere la nostra situazione? E tutti gli altri fascisti, poi, dove li metteremmo in quell'aereo?".

Racconta Virgilio Pallottelli, tenente pilota, che ebbe modo di vedere Mussolini il 25 aprile a sera in Prefettura dopo il ritorno dall'Arcivescovado:

«... di corsa salgo dal Duce, è pallido e nervoso. Imploro di andare subito a Linate e volare verso la Spagna. Rifiuta gridandomi che lui non scappa... "No, Virgilio non scappo in volo. Andiamo in Valtellina ad aspettare gli Alleati"».

Un complesso piano, invece, con un sommergibile atlantico e/o un aereo venne studiato da Tullio Tamburini, capo della Polizia della RSI fino al giugno '44 ed ex prefetto di Trieste. Il progetto coinvolgeva anche Augusto Cosulich, l'amministratore dei cantieri dell'Alto Adriatico di Monfalcone dove si fabbricavano navi e sommergibili, ma anche aeroplani.

Come ricostruisce Marino Viganò, nell'articolo "Quell'aereo per la Spagna", Nuova Storia Contemporanea N. 3, 2001, alla fine Tamburini portò al Duce carte geografiche, progetti, cifre, disegni e gli espose il suo piano in ogni particolare [...]. Mussolini stette ad ascoltarlo, fra l'interessato e il divertito [...]. Fatto sta che il piano non lo mise di buon umore. Dopo aver accennato, con riso amaro, a Verne e a Salgari, disse a Tamburini: «Queste faccende non rientrano fra i vostri compiti. Non dovete più occuparvene. Ho il mio piano e provvederò io al momento opportuno. Non me ne parlate mai più».

Ma in questo progetto era stato coinvolto anche l'ufficiale sommergibilista Enzo Grossi, medaglia d'oro RSI, che lo raccontò nel 1963, confermando i ricordi di Antonio Bonino vice segretario del PFR per la sede di Maderno e di Tamburini. Ricordò Grossi:

«...Tamburini si propose di parlarne a Mussolini. Qualche giorno dopo lo stesso Tamburini mi comunicava che tutto era andato a monte poiché il Duce si negava perentoriamente a quella che considerava una fuga. In occasione di un colloquio che ebbi nel mese di febbraio del 1945 Mussolini mi ringraziò per quanto ero disposto a fare e mi disse: comprendo perfettamente quali sentimenti hanno indotto Tamburini a progettare la nota missione sotto-marina e ringrazio anche voi su cui potrei fare il massimo affidamento, ma io non ho nessun interesse a vivere come un uomo qualunque» (vedesi: E. Amicucci su Tempo N. 19, 1950 Milano, e "Un sommergibile per Mussolini", Il Secolo d'Italia 25.1.1958).

È quindi indubbio che, sul piano personale, Mussolini si preoccupò unicamente di porre in salvo i suoi familiari mentre egli, andò volontariamente incontro al suo tragico destino.

Questi aneddoti e testimonianze che attestano una volontà di Mussolini di "non mettere in conto la sua persona", come spesso ebbe a dire a chi intendeva intavolare trattative per un trapasso indolore dei poteri, tra una RSI che si trasferiva verso la sua fine in Valtellina e le nuove autorità del CLNAI che sarebbero subentrate nelle città oramai evacuate dai fascisti, trovano conferma anche in altro comportamento, ai limiti dell'incosciente, di Mussolini.

Anche qui molte, precise e attendibili sono le testimonianze (oltre che dei suoi familiari, Donna Rachele e figli) che ci raccontano di come il Duce, con loro grande costernazione, rifiutasse sempre di mettersi al riparo quando si prospettava l'arrivo di bombardieri nemici anzi, nella sua residenza su le rive del Lago di Garda, egli diceva spesso di aspettare la "bomba liberatrice".

Pietro Carradori, brigadiere di PS e suo attendente fino all'ultimo, ricorda come il Duce, quando suonava l'allarme aereo e tutti correvano ai rifugi, usciva sul finestrone della terrazza di Villa Feltrinelli ad osservare gli aerei volteggiare sul Lago e sganciare qualche bomba.

Ma tra le tante testimonianze riportiamo, per tutte, quella del suo medico personale, il tedesco Georg Zachariae. Un medico che già aveva dovuto impazzire per curare un Mussolini, ai limiti del tracollo fisico e in preda a dolori quali esiti di un ulcera nervosa, stabilendo un minimo di dieta con alimenti congrui che però il paziente rifiutava categoricamente di mangiare, sostenendo che in quei momenti gli altri italiani non potevano permetterselo.

Nel suo "Mussolini si confessa" (ristampa Bur 2004), Zachariae raccontò quanto segue:

«Nel 1944 gli aerei nemici agivano giorno e notte sull'Italia settentrionale causando con i loro bombardamenti indiscriminati gravi danni e molte vittime; ma anche nelle situazioni di maggior gravità il Duce non si lasciava convincere a scendere in rifugio e nemmeno i molti moniti del Quartier Generale del Führer riuscirono a fargli cambiare idea. Di fronte alla sua abitazione era stata costruita una grande buca, in cui ritirarsi per proteggersi dagli attacchi aerei, ma egli la visitò una sola volta per esprimere il proprio compiacimento ai tecnici che l'avevano ideata e agli operai. Mussolini non la usò mai. Nemmeno la notte si alzava, quando gli aerei sorvolavano la sua villa. Si sarebbe quasi potuto parlare di leggerezza. Una volta fu causa involontaria della morte di un ufficiale delle SS: durante un viaggio a Mantova per una ispezione era accompagnato da un piccolo reparto di SS, allorché fu segnalato un attacco di aerei nemici sulla zona; egli rifiutò di fermarsi e mettersi al riparo e ordinò che le macchine procedessero sulla strada aperta sotto l'azione dei caccia nemici. La situazione divenne presto insostenibile; sotto l'insistente fuoco delle squadriglie che mitragliavano la piccola colonna motorizzata, venne deciso di fermarsi presso una casa situata sulla strada; ma oramai era tardi e l'ultima macchina occupata da uomini delle SS venne colpita in pieno dalle raffiche delle mitragliatrici e un ufficiale tedesco rimase ferito gravemente tanto che morì alcuni giorni dopo in un ospedale di Gardone. Se, dopo quell'ammaestramento, accadeva che ci si dovesse fermare durante un viaggio a causa degli aerei, egli brontolava che quella era una vigliaccheria; che in guerra non si deve aver paura dei pericoli nemici».

Checché se ne voglia dire, questo è l'uomo che venne catturato a Dongo il primo pomeriggio del 27 aprile 1945 e messo a morte la mattina dopo.

Torniamo ora alle spudorate relazioni dei tre partigiani che asserirono di aver fucilato Mussolini il pomeriggio del 28 aprile 1945 davanti al cancello di Villa Belmonte.

Che quella uccisione in realtà, fosse invece avvenuta al mattino e che dei tre partigiani, Valerio (Audisio) sicuramente non c'era, mentre per Guido (Lampredi) è forse possibile, ma non certo che ci fosse, e invece di Pietro (Moretti ) è sicura la presenza, qui importa meno.

Quello che dobbiamo considerare è se, tra le relazioni di questi "compagni di merende", ci potesse essere semmai un minimo di verità anche se, costoro, negli anni raccontarono tre versioni diverse e quindi, già la sola constatazione che almeno due di questi "eroi", se non tutti e tre, hanno spudoratamente mentito dimostra, con matematica certezza, tutta la falsità di quella "storica versione" a suo tempo riportata anche in qualche libro scolastico.

Come sappiamo, infatti, Valerio (Audisio) aveva sempre detto e messo per iscritto di aver condotto alla fucilazione un Duce meditabondo, inebetito e sconvolto dalla paura. In questo stato di inanità e terrore, l'aveva ammazzato.

Il Guido (Lampredi), invece, mise per iscritto nella sua subdola relazione riservata al partito del 1972 che Mussolini, seppur alquanto inebetito, finì per scuotersi ed aperto il bavero del pastrano ebbe a gridare "Mirate al cuore!". E Lampredi aggiunse, per giunta, che di questo fatto non ne aveva mai parlato a nessuno, ma lo conosceva anche Michele Moretti che però si era impegnato a tacerlo.

Pietro (Moretti), infine, arrivato agli sgoccioli della sua vita, caduto il "muro di Berlino" e dissoltosi il PCI, andò a confessare nel 1990 al giornalista storico Giorgio Cavalleri, che lo pubblicherà nel suo libro Ombre sul Lago Ed. Piemme 1995, che Mussolini al momento di essere fucilato aveva gridato "con gran foga, Viva l'Italia!" particolare questo che non gli aveva dato fastidio in quanto, sostenne il Moretti, si trattava dell'Italia di Mussolini, non certo della sua.

Ebbene, tutta una serie di considerazioni ci dicono che forse, l'unico che disse la verità fu proprio il Moretti (l'unico tra l'altro sicuramente presente), con quel "Viva l'Italia!" che rappresenta in pieno tutta la vita di Mussolini spesa nell'interesse della nazione.

Mentre infatti è oggi riconosciuto, anche dagli stessi storici resistenziali, che le fanfaronate denigratorie di Audisio rispondevano ad esigenze politiche e quindi si smentiscono da sole, per Lampredi e il suo «mirate al cuore!», gridato da un Mussolini nell'atto di aprirsi i baveri di un pastrano (che tra l'altro non indossava!) è possibile intuire come faccia parte di un espediente, all'interno della sua Relazione, per far credere verosimile tutto il resto, un sillogismo: se un comunista rende questo riconoscimento al Duce, probabilmente anche tutto il resto (falso, ma che preme attestare pur smentendo Audisio) verrà creduto.

Esclusi quindi Audisio e Lampredi resta appunto la rivelazione di Moretti che, si badi bene, nessuna fonte resistenziale osò smentire o mettere in dubbio, così come non venne dato del bugiardo a Giorgio Cavalleri che l'aveva riportata, ma semplicemente si fece finta di nulla.

Si può quindi ipotizzare che il Moretti, riferendo il "Viva l'Italia!", aveva forse detto la verità, visto che era improbabile che anche lui, per avallare il resto delle sue testimonianze, avesse ripetuto ne 1990 l'espediente del Lampredi, infilandoci dentro un riconoscimento al Duce. In questo caso, infatti, avrebbe forse ripetuto il "mirate al cuore" di Lampredi perché altrimenti un altra diversa frase avrebbe sortito l'effetto opposto complicando vieppiù la credibilità di quella "storica versione".E con la convincente supposizione che Mussolini morì gridando con gran foga: "Viva l'Italia!", chiudiamo questo articolo.

Maurizio Barozzi